Codice di Procedura Penale art. 464 bis - Sospensione del procedimento con messa alla prova 1Sospensione del procedimento con messa alla prova 1 1. Nei casi previsti dall'articolo 168-bis del codice penale , l'imputato anche su proposta del pubblico ministero, può formulare richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Se il pubblico ministero formula la proposta in udienza, l'imputato può chiedere un termine non superiore a venti giorni per presentare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.2. 2. La richiesta può essere proposta, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422 o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo oppure, nel procedimento di citazione diretta a giudizio, fino alla conclusione dell'udienza predibattimentale prevista dall'articolo 554-bis. Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabiliti dall'articolo 458, comma 1. Nel procedimento per decreto, la richiesta è presentata con l'atto di opposizione 34. 3. La volontà dell'imputato è espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione è autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore5. 4. All'istanza è allegato un programma di trattamento, elaborato d'intesa con l'ufficio di esecuzione penale esterna, ovvero, nel caso in cui non sia stata possibile l'elaborazione, la richiesta di elaborazione del predetto programma. Il programma in ogni caso prevede: a) le modalità di coinvolgimento dell'imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; b) le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l'imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all'attività di volontariato di rilievo sociale; c) le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa e lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa6. 5. Al fine di decidere sulla concessione, nonché ai fini della determinazione degli obblighi e delle prescrizioni cui eventualmente subordinarla, il giudice può acquisire, tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici, tutte le ulteriori informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell'imputato. Tali informazioni devono essere portate tempestivamente a conoscenza del pubblico ministero e del difensore dell'imputato.
[1] [1] Articolo inserito dall'art. 4, l. 28 aprile 2014, n. 67. [2] [2] Comma modificato dall'art. 29, comma 1, lett. a), n. 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha inserito le parole «, anche su proposta del pubblico ministero,» dopo le parole «l'imputato» e il seguente periodo: «Se il pubblico ministero formula la proposta in udienza, l'imputato può chiedere un termine non superiore a venti giorni per presentare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.» dopo il primo. [3] [3] Comma modificato dall'art. 29, comma 1, lett. a), n. 2, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha sostituito «oppure, nel procedimento di citazione diretta a giudizio, fino alla conclusione dell'udienza predibattimentale prevista dall'articolo 554-bis» alle parole «e nel procedimento di citazione diretta a giudizio». In merito alle disposizioni transitorie in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato, v. art. 90, comma 2, d.lgs. n. 150, n. cit.: «2. Se sono già decorsi i termini di cui all'articolo 464-bis, comma 2, del codice di procedura penale, l'imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, può formulare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, a pena di decadenza, entro la prima udienza successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto. Quando nei quarantacinque giorni successivi alla data di entrata in vigore del presente decreto non è fissata udienza, la richiesta è depositata in cancelleria, a pena di decadenza, entro il predetto termine». Per l'entrata in vigore delle modifiche disposte dal citato d.lgs. n. 150/2022, vedi art. 99-bis, come aggiunto dall'art. 6, comma 1, d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., in l. 30 dicembre 2022, n. 199. [4] [4] La Corte cost. 29 maggio 2019, n. 131, ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-bis, comma 2, e 521, comma 1, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione [5] [5] Comma modificato dall'art. 29, comma 1, lett. a), n. 3, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha sostituito «da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore» alle parole «nelle forme previste dall'articolo 583, comma 3». Per l'entrata in vigore delle modifiche disposte dal citato d.lgs. n. 150/2022, vedi art. 99-bis, come aggiunto dall'art. 6, comma 1, d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., in l. 30 dicembre 2022, n. 199. [6] [6] Lettera modificata dall'art. 29, comma 1, lett. a), n. 4, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che aggiunto le parole «e lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa» dopo le parole «la mediazione con la persona offesa». Per l'entrata in vigore delle modifiche disposte dal citato d.lgs. n. 150/2022, vedi art. 99-bis, come aggiunto dall'art. 6, comma 1, d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., in l. 30 dicembre 2022, n. 199. Per l'applicazione vedi l’art. 92, comma 2-bis, d.lgs. n. 150 cit., come aggiunto, in sede di conversione, dall’art. 5-novies d.l. n. 162, cit. InquadramentoLa l. n. 67/2014 ha introdotto l'istituto di diritto sostanziale della messa alla prova per gli adulti, con la previsione e l'inserimento nel codice penale degli artt. 168-bis, 168-ter e 168-quater, con corredo di disposizioni processuali che sono ricomprese nel nuovo Titolo V bis del codice di rito. L'istituto in esame può essere fatto rientrare, a pieno titolo, nelle cause di estinzione del reato come si ricava inequivocabilmente dal tenore del comma 2 dell'art.168-ter, laddove la norma si riferisce agli effetti dell'esito positivo della prova: caratteristica che, tuttavia, non esclude l'applicazione di eventuali sanzioni amministrative accessorie. In termini più generali, va osservato come la messa alla prova per gli adulti rappresenti una “rivoluzione culturale” prima ancora che giuridica; ad ispirarla, oltre alla volontà di realizzare un effettivo recupero sociale dell'autore del reato, l'esigenza di deflazionare il carico giudiziario e di ridurre il sovraffollamento carcerario, nella prospettiva di un progressivo abbandono del sistema carcero-centrico e di una più ampia valorizzazione della mediazione penale e della giustizia riparativa. I precedenti progetti di riformaIl meccanismo di sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti (cd. probation) era già da tempo allo studio davanti agli organi parlamentari. La normativa attualmente in vigore è frutto dell'approvazione in prima lettura alla Camera, avvenuta in data 4 luglio 2013, del testo unificato delle proposte di legge A.C. 331 e 927. A seguito dell'esame del provvedimento al Senato sono stati portati degli emendamenti e, dunque, il testo A.C. 331-927-B si è arricchito di contenuti, concernenti essenzialmente una delega al governo a fini di depenalizzazione. Il disegno di legge è tornato, in seguito, alla Camera dei deputati ove è stato definitivamente approvato in data 2 aprile 2014. Ma già nel passato la Camera dei deputati aveva approvato il disegno di legge A.C. 5019-bis, frutto dello stralcio dal più ampio A.C. 5019, che prevedeva essenzialmente le stesse disposizioni oggi definitivamente approvate (le proposte di legge A.C. 331 e 927 riproponevano il testo del disegno di legge del Governo Monti — A.C. 5019-bis — già approvato nella precedente legislatura dalla sola Camera dei deputati il 4 dicembre 2012. In quel caso, però, il provvedimento, trasmesso al Senato (A.S. 3596), aveva visto interrompersi il percorso parlamentare a causa della fine della legislatura. Il progetto di riforma è stato riproposto nella XVII legislatura e, secondo i passaggi appena indicati, è stato definitivamente approvato (presentato dall'on. Ferranti ed altri il 18 marzo 2013 alla Camera dei deputati, è stato esaminato in aula il 24, 25 e 26 giugno 2013, il 2 e il 3 luglio 2013 ed approvato il 4 luglio 2013 in un testo unificato con l'A.C. 927; il testo è stato poi trasmesso al Senato della Repubblica — atto n. 925 — esaminato in aula l'8, il 14, 15, 16 gennaio 2014 ed approvato, con modificazioni, il 21 gennaio 2014; ritornato alla Camera dei deputati — atto n. 331-927-B — è stato esaminato in aula il 24 e il 26 marzo 2014, il 1° aprile 2014 ed infine approvato il 2 aprile 2014). Peraltro, l'introduzione della messa alla prova nel processo penale era stata già prevista dalla c.d. Commissione Pisapia, istituita durante la XV legislatura per il progetto di riforma della parte generale del codice penale. In quell'occasione, la Commissione aveva considerato di estendere al processo penale per adulti la messa alla prova ove si trattasse di reati puniti con una pena diversa da quella detentiva e per i reati per cui è prevista una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni: ciò, sia sulla base dei dati ministeriali che evidenziavano risultati positivi della messa alla prova nel processo penale minorile in almeno l'85% dei casi sia in considerazione dei positivi effetti anche in termini di deflazione del carico giudiziario che ne sarebbero potuti derivare. Si tratta di un approdo che è certamente significativo per il nostro ordinamento e che costituisce la tappa importante di un percorso lungo e frastagliato avviato più volte in diversi progetti legislativi che ha avuto, come costante riferimento, l'istituto della messa alla prova per gli imputati minorenni e la sua possibile estensione ai maggiorenni nell’ottica di un favor verso modelli di giustizia ripartiva. La legge 28 aprile 2014, n. 67Introduzione La l. n. 67/2014 prevede al capo I (artt. 1 e 2) deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio; al capo II (artt. da 3 a 8), disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova; al capo III (artt. da 9 a 15), disposizioni in materia di sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili, statuendo, quanto alla attuazione degli articoli da 2 a 15, che le amministrazioni interessate vi provvederanno nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Focalizzando l'attenzione sulla sospensione del procedimento con messa alla prova, non pochi problemi si intravedono sul punto, ed in particolare con riferimento alla applicabilità ed effettiva operatività delle disposizioni che la disciplinano. Se, infatti, l'applicazione di tali disposizioni appare essere condizionata solo alla decorrenza dell'ordinario termine di vacatio legis, la previsione contenuta all'art. 8, in base alla quale il Ministro della Giustizia è tenuto ad adottare, entro tre mesi dalla data della entrata in vigore della legge (e, quindi entro il 17 agosto 2014), un regolamento allo scopo di disciplinare le convenzioni che il Ministero della giustizia, o, su delega di quest'ultimo, il Presidente del Tribunale, potrà stipulare con gli enti o le organizzazioni presso cui svolgere i lavori di pubblica utilità, unitamente alla circostanza che alla prestazione di lavoro di pubblica utilità è espressamente subordinata la concessione della messa alla prova, potrebbe anche portare a ritenere che, di fatto, le disposizioni siano diventate “operative” soltanto nel momento, ad esso successivo, in cui le convenzioni, all'uopo appositamente stipulate, avranno trovato disciplina nel Regolamento del Ministro della Giustizia. Il Regolamento Ministeriale Con d.m. 8 giugno 2015, n. 88 si è ampliata la possibilità di far ricorso al lavoro di pubblica utilità. Invero, la possibilità di accedere alla sospensione del processo con messa alla prova e conseguente avviamento a lavori di pubblica utilità, già consentita per gli imputati di reati puniti con la sola pena pecuniaria o con una pena detentiva non superiore a quattro anni, è stata rafforzata accrescendosi in tal modo la possibilità di sfruttare al meglio le finalità deflattive dell’istituto. Il provvedimento del Guardasigilli ha infatti disciplinato le diverse convenzioni in materia di lavori di pubblica utilità che il Ministero o i Presidenti dei Tribunali competenti possono stipulare con Stato, enti locali e organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Il regolamento prevede che la prestazione lavorativa non sarà retribuita, verrà svolta in favore della collettività, non sarà inferiore ai dieci giorni né superiore alle otto ore giornaliere e dovrà tener conto delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell'imputato. Il decreto ministeriale elenca inoltre le mansioni a cui i richiedenti potranno essere adibiti: prestazioni socio-sanitarie; di protezione civile, anche in caso di calamità naturali; di tutela del patrimonio ambientale e culturale e infine di manutenzione di immobili e servizi pubblici. Non si prevedono oneri a carico del Ministero della Giustizia, finendo gli stesso per gravare sulle amministrazioni, sugli enti locali e sulle organizzazioni presso le quali viene svolta l'attività gratuita in favore della collettività. Il quadro normativo di insiemeIl richiedente è affidato ai servizi sociali per lo svolgimento dell'attività di volontariato o per tutte quelle prescrizioni concernenti la sua sfera personale (medica, domiciliare), oppure per particolari divieti. La esecuzione della messa alla prova, deve prevedere, altresì, lo svolgimento di un'attività lavorativa non retribuita di pubblica utilità, per un periodo non inferiore a dieci giorni (e tenendo conto della compatibilità con caratteristiche professionali e lavorative dell'interessato), compatibilmente con le esigenze lavorative, familiari e di studio dell'inquisito. Il provvedimento è revocabile - art. 168-quater - per tassative ipotesi di violazione (trasgressioni alle prescrizioni o commissione di reato non colposo durante la prova). Il giudice, oltre a poter rigettare motu proprio la richiesta (che è, peraltro, riproponibile, dinanzi al Tribunale in caso di rigetto da parte del G.u.p. ex art. 464-ter, comma 4), può integrare e modificare il programma di trattamento nella fase di preparazione (art. 464-quater, comma 4) e, in via ulteriore, successivamente (art. 464-quinquies, comma 3) intervenire sulle prescrizioni originarie. La decisione interviene con le forme dell'udienza in camera di consiglio ai sensi dell'art. 127 ed il giudicante può imporre la comparizione personale dell'imputato (art. 464-quater, comma 2), laddove si renda necessario verificare la effettiva volontà dello stesso. Anche i profili risarcitori vengono cadenzati temporalmente dal giudice che stabilisce i termini entro i quali essi devono venire adempiuti (art. 464-quinquies, comma 1). La decisione in ordine alla messa alla prova è ricorribile per cassazione da parte dell'imputato e del P.M. (anche su istanza della parte offesa, la quale ha una facoltà di impugnazione autonoma per omesso avviso o per mancata audizione). La richiesta di messa alla prova può essere avanzata anche nel corso delle indagini preliminari (analogamente al patteggiamento ex art. 447). In tutti i casi, il P.m. deve esprimere il proprio parere per iscritto e con motivazione (consenso o dissenso). Esso è obbligatorio, ma non vincolante. Pare, quindi, di potere affermare — alla luce del fatto che il comma dell'art. 464-ter prevede che il consenso del P.m. vada da questi presentato “unitamente alla formulazione dell'imputazione” — che quella in oggetto sia forse la migliore occasione nella quale si possa ovviare (per quanto concerne il nomen iuris del fatto) ad eventuali improprietà dell'addebito provvisorio, che possano ingiustamente risultare preclusive dell'accesso all'applicazione dell'istituto in questione. L'art. 464-sexies, prevede, a propria volta la possibilità che, durante il periodo di sospensione del processo (che comporta anche la sospensione della prescrizione, ex art. 168-ter, comma 1 c.p.), possano essere acquisite prove non rinviabili o che possano permettere il proscioglimento dell'imputato. L'ampliamento dell'ambito di applicazione dell'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato conseguente all'estensione del catalogo dei reati a citazione diretta per effetto del nuovo comma 2 dell'art. 550, come richiamato dall'art. 168-bis, comma 1, cod. pen. (a sua volta ora esteso col riferimento anche alla proposta del pubblico ministero: art. 1, comma 1, lett. m, d.lgs. n. 150), ha reso opportuna la previsione di una disciplina di diritto transitorio in subiecta materia. Il legislatore delegato ha inteso così evitare quanto accadde con l'entrata in vigore della legge n. 67 del 2014 che, introducendo per la prima volta nell'ordinamento l'istituto della messa alla prova, non dettò disposizioni intertemporali, con conseguente impossibilità di accedere a tale forma di definizione del processo per tutti i giudizi in cui vi fosse già stata la dichiarazione di apertura del dibattimento. Proprio la mancata previsione di una disciplina transitoria suscitò alcune incertezze applicative e talune oscillazioni giurisprudenziali che, oggi, con la disposizione approntata all'art. 90, si è inteso scongiurare, con una disciplina transitoria orientata a privilegiare la dimensione special-preventiva e il diritto al trattamento penale di favore, con effetti riduttivi sul numero dei giudizi di primo e secondo grado che debbono giungere ad una sentenza di merito. La valorizzazione degli aspetti sostanziali dell'istituto del probation - ora allargato quoad poenam e reso accessibile anche su proposta del P.m. – ha suggerito ai compilatori di modulare nel tempo gli effetti potenzialmente di favore insiti nella novella, anche alla luce del principio della retroattività della lex mitior in materia penale (artt. 3,117, comma 1, Cost.; v. Corte cost. n. 63 del 2019, Corte cost., n. 238 del 2020, Corte cost., n. 393 del 2006). E' stata quindi congegnata una norma di diritto transitorio che consente anche per i procedimenti pendenti la sospensione del procedimento con la messa alla prova limitatamente ai reati ai quali l'applicazione dell'istituto è stata estesa per effetto del decreto. Sulla base di queste premesse, secondo l'art. 90 del d.lgs. 150: -la sospensione con messa alla prova dell'imputato relativamente ai reati di nuova introduzione di cui al novellato comma 2 dell'art. 550 si applica anche ai procedimenti pendenti nel giudizio di primo grado e in grado di appello alla data di entrata in vigore del decreto [ora 30 dicembre 2022]; -se alla data di entrata in vigore del decreto sono già decorsi i termini di cui all'art. 464-bis, comma 2, per formulare la richiesta l'imputato personalmente o a mezzo procuratore speciale può formulare la richiesta di sospensione del procedimento con MAP, a pena di decadenza, entro la prima udienza successiva alla data del 30 dicembre 2022. Se nei quarantacinque giorni successivi non è fissata udienza, la richiesta è depositata in cancelleria, entro il suddetto termine; -nel caso in cui sia stata disposta la sospensione del procedimento con messa alla prova, non si applica l'art. 75, comma 3 (art. 90, comma 3, d. lgs. cit.), sicchè la parte civile – come peraltro si desume già dal sistema processuale – dovrà far valere le proprie ragioni in sede civile. Dalla disciplina transitoria, limitata ai procedimenti pendenti al 20 dicembre 2022 in primo e secondo grado, sono esclusi i processi pendenti in sede di legittimità. Condizioni di accesso alla messa alla prova e differenza da altre formule già esistentiPremessa Seppure sia indubbio che lo spirito della disciplina della messa alla prova riconosca agli imputati la possibilità di procedere ad una «risocializzazione» e comunque di accedere ad procedimento di «rieducazione» in conformità al disposto dell'art. 27, comma 3, Cost., il sistema normativo non prevede un diritto assoluto per l'imputato di accedere a tale procedura condizionato alla sua sola richiesta dovendosi la stessa armonizzare con l'esercizio di un potere valutativo da parte del giudice che si inserisce nel più ampio quadro della condizione personale dell'imputato nonché della situazione processuale nella quale verrebbe ad operare l'istituto della sospensione (parziale) del processo. Infatti, la concessione del beneficio della sospensione del processo con messa alla prova presuppone un giudizio prognostico positivo sulla rieducazione del soggetto interessato, per la cui formulazione non può prescindersi dal tipo di reato commesso, dalle modalità di attuazione dello stesso e dai motivi a delinquere, al fine di valutare se il fatto contestato debba considerarsi un episodio del tutto occasionale e non, invece, rivelatore di un sistema di vita, che faccia escludere un giudizio positivo sull'evoluzione della personalità dell'imputato verso modelli socialmente adeguati. In tal senso, si è affermato in giurisprudenza che la sospensione del processo con messa alla prova è subordinata alla duplice condizione dell'idoneità del programma di trattamento e, congiuntamente, della prognosi favorevole in ordine all'astensione dell'imputato dal commettere ulteriori reati; si tratta di due giudizi diversi rimessi alla discrezionalità del giudice guidata dai parametri indicati dall'art. 133 c.p.: ne consegue che l'impossibilità di formulare con esito favorevole la prognosi in ordine alla capacità a delinquere dell'imputato impedisce che quest'ultimo ottenga il beneficio richiesto, indipendentemente dalla presentazione del programma di trattamento (Cass. II, n. 2486/2022; nello stesso senso, Cass. II, n. 995/2022). La natura dell'istituto La scelta operata dal legislatore è stata quella di introdurre la sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti apportando modifiche: — al codice penale, attraverso nuove disposizioni penali sostanziali contenute negli artt. 168-bis, 168-ter e 168-quater c.p.; — al codice di procedura penale, con le disposizioni contenute negli artt. 464 bis, ter, quater, quinquies, sexies, septies, octies e novies e nell'art. 657-bis, inerente il computo del periodo di messa alla prova in sede di esecuzione della pena; -alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, attraverso gli artt. 141-bis e 141-ter previsti al capo X bis, inserito dopo il capo X del testo citato; -al d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313 - testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti - attraverso la lett. i-bis dell'art. 3 l. n. 67/2014. L'inquadramento sistematico delle norme consente di comprendere natura e portata dell'istituto. La collocazione degli artt. 168-bis, 168-ter e 168-quater c.p. nel capo I, Titolo VI del libro I del codice penale porta infatti a ritenere che la sospensione del procedimento con messa prova sia una nuova causa di estinzione del reato e costituisca al tempo stesso un beneficio (di cui l'indagato può essere avvisato dal P.m. anche prima che questi eserciti l'azione penale), e ciò in ragione dell'inserimento delle norme che la prevedono tra quelle relative alla sospensione condizionale della pena e prima di quelle sul perdono giudiziale per i minori. La collocazione delle disposizioni di cui agli artt. 464-bis, 464-ter, 464-quater, 464-quinquies, 464-sexies, 464-septies, 464-octies e 464-novies nel libro VI (sui procedimenti speciali), dopo il titolo V, nell'ambito del (nuovo) titolo V bis, porta a ritenere che la sospensione del procedimento con messa alla prova per gli adulti costituisca essa stessa un procedimento speciale nuovo, che si aggiunge dunque al giudizio abbreviato, all'applicazione delle pena su richiesta delle parti, al giudizio direttissimo, al giudizio immediato ed al procedimento per decreto. L'inquadramento sistematico delle norme che disciplinano l'istituto ha non pochi, importanti, riflessi. Prima fra tutti la questione relativa all'applicabilità delle disposizioni in esame ai processi in corso, non avendo il legislatore contemplato alcuna norma transitoria, che, se prevista, avrebbe potuto fornire una strada univoca o quantomeno obbligata ed avrebbe evitato l'insorgere di una serie di questioni di non facile soluzione. I connotati caratterizzanti l'istituto e le differenze con la messa alla prova minorile Risultano, poi, di tutta evidenza, due ulteriori connotati che caratterizzano la messa alla prova. Da un lato, la forte deflazione procedimentale in vista di una nuova forma di definizione alternativa del processo; dall'altro, la limitata offensività delle situazioni processuali in cui l'istituto può trovare concreta applicazione. Quest'ultima costituisce uno degli aspetti che differenzia sensibilmente la messa alla prova, ad esempio, dall'istituto previsto dall'art. 28 d.P.R. n. 448/1988 in materia di processo minorile. La messa alla prova minorile, infatti, non soffre alcun tipo di limite (connesso con la gravità del reato commesso od alla personalità dell'imputato) alla possibilità di accesso del minore. Appare, in re ipsa, infatti, pacifico il marcato duplice scopo perseguito dall'art. 28, che è, al contempo, di recupero personale e di futura prevenzione sociale della misura, finalizzata a favorire ed a soddisfare — senza esclusioni di sorta, né oggettive, né soggettive — le esigenze di reinserimento del reo. Dunque, ben differenti qualitativamente e quantitativamente risultano sia la progettualità globale, che la tipologia delle prestazioni — improntate al ravvedimento — dei due istituti, ma anche una prospettiva di fondo radicalmente diversa, posto che la messa alla prova di cui alla l. n. 67/2014 appare ispirata ad una precisa filosofia che si articola in due direzioni. In primo luogo, si orienta verso l'individuazione di strumenti di decongestionamento del processo penale nella sua fase decisoria di primo grado, in relazione a reati di non elevato allarme sociale. In secondo luogo, ha di mira una riforma del sistema sanzionatorio, al fine di prevenire inutili accessi in carcere di persone condannate per reati di contenuto e modesto allarme sociale, nei confronti delle quali il debito penale può essere positivamente estinto con misure contenitive di carattere alternativo alla detenzione. L'art. 168-bis c.p., al comma 1, prevede, quindi, tre categorie di situazioni procedimentali che possano permettere il ricorso all'opzione preventiva ed alternativa al processo. In primis, vengono richiamati i reati puniti con pena pecuniaria. Indi, quelli con pena non superiore a quattro anni (sola, congiunta o alternativa a quella detentiva). Da ultimo, quei reati tassativamente indicati nel disposto dell'art. 550, comma 2, nei casi di citazione diretta a giudizio. Con riferimento al limite di pena di quattro anni assunto da legislatore, vanno svolte, poi, alcune considerazioni. Da un lato, si osserva che il limite sanzionatorio, massimo ed astratto, appare comune a quello che, stabilito dall'art. 3 lett. c) d.l. n. 146/2013 conv., in l. n. 10/2014, costituisce presupposto per l'ammissione all'affidamento in prova al servizio sociale (art. 47, comma 3-bis, l. n. 354/1975). Per vero, tratti ulteriori di analogia fra i due istituti si rinvengono anche nella delega ai Servizi sociali, in relazione al controllo del condannato, da un lato, e del richiedente-imputato dall'altro e nella funzione di alternatività rispetto all'espiazione di una pena detentiva. Le analogie, però, finiscono qui. Appare, infatti, del tutto evidente che, a differenza dell'affidamento, che interviene nella fase dell'esecuzione della pena passata in giudicato, la messa alla prova costituisce istituto di diritto sostanziale, inserito radicalmente nel contesto del procedimento di cognizione penale, quale strumento per evitare — una tantum (concedibile, infatti, una volta sola secondo la previsione del comma 4 dell'art. 168-bis c.p.) — la celebrazione di un giudizio che possa portare ineluttabilmente alla condanna dell'imputato. Tale caratteristica viene puntualmente confermata dal tenore dell'art. 464-bis che, al comma 2, stabilisce termini perentori per la richiesta — scritta e corredata dal programma di trattamento (comma 4) — presentabile personalmente od a mezzo procuratore speciale (comma 3). Essi sono quelli delle conclusioni exartt. 421 e 422 nell'udienza preliminare, dell'apertura del dibattimento sia nel giudizio di primo grado, che in quello direttissimo, sia in quello a citazione diretta, dei quindici giorni in presenza di giudizio immediato e con l'atto di opposizione nel giudizio per decreto penale. Essenza della messa alla prova introdotta dall'art. 168-bis c.p. è, quindi, il suo carattere di strumento di composizione preventiva e pre-giudiziale del conflitto penale, insorto con la formulazione dell'accusa verso l'imputato o con l'inizio dell'indagine da parte del P.m. Essa differisce, poi, sostanzialmente dall'istituto declinato dal comma 9-bis dell'art. 186 d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285. Quest'ultimo presuppone, infatti, il passaggio necessario attraverso l'inflizione all'imputato di una condanna, la quale viene convertita nella forma alternativa di espiazione, data dai lavori socialmente utili (“... la pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell'imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274...”). Dunque, per l'applicazione della previsione contenuta nel comma 9-bis dell'art. 186 d.lgs. n. 285/1992 (discorso analogo vale anche per l'art. 187 d.lgs. n. 285/1992 che presenta medesima previsione al comma 8-bis) s'impone l'accertamento della responsabilità dell'imputato, tramite la celebrazione del giudizio in forma dibattimentale, oppure con lo svolgimento del rito abbreviato, o, comunque, la sua definizione con l'adozione dell'applicazione di pena ex art. 444. Al positivo esito del lavoro di pubblica utilità, si verifica, pertanto, l'effetto estintivo del reato. Va rilevato, inoltre, che l'effettiva operatività specifica del ricordato comma 9-bis, notoriamente, produce un effetto indotto sulla sanzione amministrativa (sospensione della patente di guida), che viene, con sentenza emessa dal giudice procedente in un'udienza ad hoc, ridotta della metà (il giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il reato, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato). Considerazioni non dissimili — da quelle svolte per l'art. 186, comma 9-bis d.lgs. n. 285/1992 — si possono formulare a seguito di un esame in parallelo con l'abrogato comma 5-bis dell'art. 73 d.P.R. n. 309/1990 nel testo introdotto dall'art. 4-bis, comma 1, d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, in l. 21 febbraio 2006, n. 49 e successivamente sostituito, nel testo di attuale vigenza, dall'art. 1, comma 24-ter, lett. b) del d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito, con modificazioni, in l. 16 maggio 2014, n. 79. Per vero, tale norma poggiava su una diversa definizione dei criteri di accesso alla misura alternativa. Essa, infatti, si rivolgeva specificamente alla platea degli assuntori o dei tossicodipendenti, che fossero stati condannati sia per il reato di cui al comma 5 dell'art. 73, che — a mente del comma 5-ter — per reati diversi da quelli di cui al comma 5, per i quali fosse stata inflitta una pena non superiore ad un anno di detenzione. Medesimo, quindi, era l'iter di accesso, che presupponeva la pronunzia di una sentenza di condanna a pena detentiva, posto che si è in presenza della previsione di un meccanismo di conversione della sanzione, che, in quanto tale (a totale differenza della messa in prova) interveniva — a fortiori — solo ex post. L'art. 168- bis c.p.Introduzione Si è già detto come la sospensione del procedimento con messa alla prova per gli adulti risponda ad una chiara finalità deflattiva. Nella Relazione dell'Ufficio del Massimario presso la Corte di Cassazione nr. III/07/2014 del 5 maggio 2014, si sottolinea come l'istituto realizzi “una rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata ed assistita, riallacciandosi alla tradizione anglosassone della probation. Più precisamente, quella introdotta dalla legge n. 67 è una probation giudiziale nella fase istruttoria, assimilabile al modello adottato nel procedimento minorile (art. 28 del d.P.R. n. 448/1988 e art. 27 delle relative norme di attuazione, approvate con d.lgs. n. 272/1989), nel quale la messa alla prova precede la pronuncia di una sentenza di condanna”. Si precisa, inoltre, come la stessa “si differenzia dalla probation di polizia presente in altri ordinamenti, ma anche da quella che opera nella fase del giudizio ed è gestita dalla magistratura di sorveglianza in termini di sospensione dell'esecuzione della condanna (artt. 656 e l. n. 354/1975 sull'ordinamento penitenziario), con riguardo alle pene detentive irrogate nel limite dei tre anni nei confronti di soggetti a piede libero; nonché dalla probation penitenziaria, introdotta in Italia dagli artt. 47 ss. della legge n. 354/1975 e dall'art. 94 d.P.R. n. 309/1990. La scommessa criminologica sottesa a questa probation processuale è quella di offrire immediatamente all'imputato (soprattutto se “primario” e accusato di un reato di minore gravità) un trattamento individualizzato che ne faciliti il recupero ed eviti il danno derivante non solo dalla detenzione in un istituto di pena (spesso fertile terreno criminogenetico), ma anche dallo stigma, a volte indelebile, che segue la condanna”. Finalità dell'istituto che, pertanto, si individua nel consentire di arrivare, nei procedimenti che hanno ad oggetto reati di minore allarme sociale, ad una rapida definizione degli stessi attraverso una sentenza che dichiara l'estinzione del reato, senza attendere i tempi del processo, e sempre che non vi siano gli estremi per pronunciare una sentenza ex art. 129, dovendosi ricomprendere in essa — una volta adottati i decreti legislativi per la riforma del sistema delle pene — anche la sentenza che dichiari la non punibilità delle condotte nei casi di particolare tenuità del fatto, a norma dell'art. 1 comma 1 lett. m) l. n. 67/2014, che prevede di “escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per l'esercizio dell'azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale”. La suindicata esigenza deflattiva è realizzata, da un lato, attraverso un percorso che contempera due opposte esigenze (quella impositiva di obblighi e prescrizioni e quella special-preventiva e risarcitoria), nonché prevedendo espressamente, per evitare richieste pretestuose o con intenti dilatori, che nel corso dello svolgimento della messa alla prova, il termine di prescrizione resti sospeso (sospensione, questa, che ha effetto solo nei confronti dell'indagato/imputato che viene ammesso al beneficio, e non anche nei confronti degli altri coindagati/coimputati, e ciò a norma dell'art. 168-ter c.p., che esclude espressamente l'applicazione delle disposizioni di cui al comma 1 dell'art. 161). I casi e le preclusioni I casi e le preclusioni alla sospensione del procedimento con messa alla prova, sono individuati dall'art. 168-bis c.p. ed essi si possono accorpare in due limiti di natura oggettiva ed in uno di natura soggettiva, che caratterizzano e differenziano notevolmente la probation per gli adulti, rispetto a quella prevista nel rito minorile, ove tali limiti non sono contemplati. Il primo limite oggettivo — legato alla gravità del reato e quindi alla pena edittale e ad alcune tipologie specifiche — è che il beneficio in esame è ammesso solo “nei procedimenti per reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell'articolo 550 del codice di procedura penale”. Il secondo limite oggettivo è dato dal fatto che il beneficio non sia già stato concesso (circostanza, questa, che emergerà dal certificato del casellario giudiziale, essendo stata modificata sul punto — ai sensi dell'art. 6 l. n. 67/2014 — la disposizione di cui all'art. 3, comma 1, d.P.R. n. 313/2002, prevedendosi che in esso venga iscritta per estratto anche “l'ordinanza che ai sensi dell'articolo 464-quater dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova”). Unico limite soggettivo è che il richiedente non sia stato dichiarato delinquente professionale, abituale o per tendenza. L'individuazione specifica dei casi in cui il beneficio possa essere ammesso, in uno alla indicazione di preclusioni oggettive e soggettive, potrebbe portare a ritenere che, nella sussistenza dei suindicati presupposti, il beneficio, se richiesto, debba essere concesso: in realtà, come si avrà modo di precisare in seguito, quando si analizzerà la portata della disposizione contenuta al comma 3 dell'art. 464-quater, la decisione che il giudice è chiamato ad assumere non appare così “automatica” come la disposizione dell'art. 168-bis c.p. sembra prospettare, ma risulta essere comunque frutto di una valutazione più ampia, che deve tener conto della idoneità del programma di trattamento, della gravità del reato, della capacità a delinquere del colpevole e del fatto che questi sia in grado di astenersi dal commettere ulteriori reati. Le finalità dell'istituto, oltre a quelle chiaramente deflattive, sono individuate nei commi 2 e 3 dell'articolo in esame ed hanno natura riparatoria e di recupero: attraverso la “probation” si mira ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e ad assicurare, ove ciò sia possibile, il risarcimento del danno. Sotto quest'ultimo profilo, questione aperta è se la persona offesa debba necessariamente essere costituita parte civile per poter condizionare la concessione del beneficio al risarcimento del danno in suo favore, e dunque se anche all'ipotesi in esame trovi applicazione il principio espresso in alcune pronunce della S.C., secondo cui il giudice non possa subordinare il beneficio (nello specifico, la S.C. si è espressa in tema di concessione della sospensione condizionale della pena ai sensi dell'art. 165 c.p.: cfr., Cass. II, n. 3958/2014), in difetto della costituzione di parte civile, all'adempimento dell'obbligo delle restituzioni di beni conseguiti per effetto del reato, riguardando esse, come il risarcimento, solo il danno civile e non anche il danno criminale, che si identifica con le conseguenze di tipo pubblicistico che ineriscono alla lesione o alla messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma penale. Sul punto, tuttavia, non mancano pronunce di segno contrario, in ragione delle quali la sospensione condizionale della pena ex art. 165 c.p. può essere subordinata alla restituzione di somme di denaro, anche nei casi in cui la persona offesa non si sia costituita parte civile (cfr., in tal senso, Cass. II, n. 41376/2010). In tema di sospensione del processo con messa alla prova, il risarcimento del danno deve corrispondere al pregiudizio patrimoniale arrecato alla vittima, "ove possibile", o, comunque, allo sforzo massimo esigibile dall'imputato alla luce delle sue condizioni economiche, sicchè il giudice, ove sussistano temi di indagine da approfondire, deve attivare, ex art. 464-bis, comma 5, i propri poteri istruttori mentre, in caso contrario, è tenuto soltanto a dar conto del percorso motivazionale seguìto (Cass. V, n. 16083/2023). La richiesta di sospensione del procedimento con messa alla provaLa richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova può essere avanzata, dopo l'esercizio dell'azione penale, innanzi al G.i.p., al G.u.p. ed al giudice del dibattimento (in questo senso la disciplina dettata dall'art. 464-bis), ma può essere formulata, naturalmente innanzi al G.i.p., anche durante la fase delle indagini preliminari, prima ancora che venga esercitata l'azione penale (in questo caso la relativa disciplina è contenuta nell'art. 464-ter). Il decreto legislativo di attuazione della l. 27 settembre 2021, n. 134 recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari (d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150), nell'art. 29 ha previsto che la richiesta possa essere proposta anche dal P.m., sempre con il consenso dell'imputato, che deve garantire una fattiva collaborazione al programma rieducativo secondo le indicazioni della Consulta, non potendosi prefigurare l'istituto de quo senza una specifica adesione dell'imputato. In tal senso, rimangono attuali le parole del giudice delle leggi che ha riscontrato nella “mancanza di un formale accertamento di responsabilità e di una specifica pronuncia di condanna” un elemento che assimila la messa alla prova al patteggiamento, “perchè entrambi i riti speciali si basano sulla volontà dell'imputato che, non contestando l'accusa, in un caso si sottopone al trattamento e nell'altro accetta la pena” (Corte cost. 91/2018). L'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, sebbene produca anche effetti sostanziali, ha una prevalente natura processuale, sicché, per il principio "tempus regit actum" e in assenza di una diversa disciplina transitoria, ne è esclusa l'applicazione nel caso in cui, al momento dell'entrata in vigore della nuova disciplina, sia già decorso il termine, previsto dall'art. 464-bis, comma 2, per formulare la richiesta di ammissione (Cass. VI, n. 33660/2020). In tema di messa alla prova, quando, in sede di esame della richiesta di ammissione, il giudice abbia notizia di impedimenti di salute del richiedente che possano riverberarsi sul regolare e tempestivo inizio e svolgimento della prova, è tenuto a valutarli e, richiedendo approfondimenti ai servizi sociali o agli altri enti competenti, a predisporre integrazioni o modifiche al programma per renderlo compatibile con le necessità dell'imputato (Cass. IV, n. 10787/2020). Trattandosi di una istanza che incide su diritti personali della parte, il legislatore ha previsto, sempre all'art. 464-bis, che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova venga proposta oralmente o per iscritto (con sottoscrizione autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore) dall'imputato personalmente o dal difensore munito di procura speciale e che essa, a norma dell'art. 464-quater comma 9, possa essere riproposta, nel giudizio una sola volta: in ogni caso il giudice, se lo ritiene opportuno, potrà verificare la volontarietà della richiesta, disponendo ai sensi dell'art. 464-quater, comma 2, la comparizione dell'imputato. L'eventuale modifica del programma di trattamento elaborato ai sensi dell'art. 464-bis, comma 2, c.p.p. che venga disposta dal giudice senza la preventiva consultazione delle parti ed in assenza del consenso dell'imputato – da ritenersi vincolante – è da ritenersi illegittima (Cass. III, n. 5784/2018; nello stesso senso, Cass. III, n. 16711/2018, secondo cui il consenso del sostituto processuale del difensore di fiducia è da ritenersi valido solo se lo stesso sia munito di procura speciale). La disposizione contenuta all'art. 464-bis prevede altresì che la richiesta possa essere proposta fino alle conclusioni delle parti ai sensi degli artt. 421 e 422 e tale indicazione si presta ad una prima obiezione: il beneficio in esame è infatti ammesso nei soli casi di cui all'art. 168-bis c.p. — ossia nei procedimenti per reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell'art. 550 — e se tale norma la si interpreta nel senso che il riferimento è ai reati per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio, allora può apparire “anomalo” aver individuato nelle conclusioni rassegnate dalle parti in sede di udienza preliminare il momento finale della proposizione dell'istanza (la tipologia dei reati non prevede per essi la celebrazione della udienza preliminare, ma solo la citazione diretta a giudizio). Più correttamente, deve ritenersi che il legislatore non abbia inteso applicare il beneficio ai (soli) reati per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio, ma anche a quei reati, individuati con riguardo alla entità della sanzione edittale, che importino comunque la celebrazione dell'udienza preliminare: si pensi, per esempio, ai reati societari, o contro la P.A. o comunque a quei reati, con pena edittale inferiore ai quattro anni, attribuiti al Tribunale in composizione collegiale e per i quali dunque non è ammessa la citazione diretta a giudizio ma è prevista la celebrazione dell'udienza preliminare (in tal senso i reati individuati ex art. 33-bis o, tra gli altri, anche ai reati previsti dal codice penale militare). In caso di giudizio immediato, la richiesta va presentata al G.i.p. nel termine di quindici giorni e con le forme stabilite dall'art. 458, comma 1. Sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova ex art. 464-bis, avanzata in sede di opposizione a decreto penale di condanna, è competente a decidere il G.i.p. e non il giudice del dibattimento, alla stessa stregua degli altri procedimenti speciali, tra i quali la disciplina della messa alla prova è inserita, con conseguente possibilità per l'interessato di eventualmente chiedere - in via subordinata ovvero in caso di rigetto della richiesta stessa - la definizione mediante riti alternativi rispetto ai quali non siano ancora maturate preclusioni (Cass. I, n. 53622/2017; in motivazione la S.C. ha rilevato che l'attribuzione della competenza al G.i.p. è confermata dal tenore letterale dell'art. 464-sexies, la cui previsione intesa ad attribuire al "giudice" poteri istruttori urgenti "con le modalità stabilite per il dibattimento", non avrebbe senso se la competenza fosse sempre riservata al giudice dibattimentale; in senso conforme, Cass. I, n. 6777/2019). Tale disposizione va tuttavia raccordata con il principio secondo il quale il giudizio immediato è ammesso solo nei casi in cui sia prevista l'udienza preliminare, cioè quando la vocatio in ius non avviene tramite il meccanismo della citazione diretta a giudizio: principio (cfr., Cass. V, n. 5902/2012) secondo il quale, l'instaurazione del giudizio immediato per reati per i quali l'esercizio della azione penale deve avvenire con citazione diretta, precludendo all'imputato il diritto a ricevere la notifica dell'avviso di conclusione delle indagini ex art. 415-bis, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio. Alla luce di ciò, si può ragionevolmente ritenere che il riferimento al giudizio immediato riguardi o i casi di opposizione a decreto penale (presentata prima della riforma) o quei reati, sopra evidenziati, per i quali, nonostante il limite edittale della sanzione (pena non superiore a quattro anni) non è prevista la citazione diretta a giudizio, ma la celebrazione dell'udienza preliminare, perché attribuiti al Tribunale in composizione collegiale. Se è stato emesso, per converso, decreto penale, la richiesta va presentata con l'opposizione. In giudizio, la richiesta può essere formulata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, anche quando in precedenza sia stata rigettata dal G.i.p.. Lo stesso sbarramento temporale è previsto nel caso di giudizio direttissimo, ed in tale ipotesi, pur nella assenza di una modifica delle disposizioni di cui all'art. 451, commi 5 e 6, non sembra vi siano problemi ad ammettere che il giudice possa avvisare l'imputato, oltre che della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato, l'applicazione della pena a norma dell'art. 444 e un termine a difesa, anche della possibilità di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova. La richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova può essere presentata innanzi al giudice per le indagini preliminari anche nel corso delle indagini preliminari, potendo il P.m., anche prima di esercitare l'azione penale, avvisare l'interessato, ove ne ricorrano i presupposti, che ha la facoltà di chiedere di essere ammesso alla prova ai sensi dell'art. 168-bis c.p. e che l'esito positivo della prova estingue il reato (in questo senso il nuovo articolo 141-bis disp. att.). L'art. 464-bis (ma il discorso non muta qualora la richiesta sia presentata al giudice per le indagini preliminari ai sensi dell'art. 464-ter) stabilisce che alla richiesta di sospensione del procedimento venga allegato un programma di trattamento elaborato con l'ufficio esecuzione penale esterna (di seguito U.e.p.e.), ovvero, nel caso in cui non sia stata possibile l'elaborazione del programma, una richiesta di trattamento concordato, nel qual caso dovrà essere il giudice a compulsare l'U.e.p.e. perché elabori il programma di trattamento. Al fine di decidere sulla concessione, nonché ai fini della determinazione degli obblighi e delle prescrizioni cui eventualmente subordinarla, il giudice può acquisire, tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici, tutte le ulteriori informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell'imputato. Tali informazioni devono essere portate tempestivamente a conoscenza del P.m. e del difensore dell'imputato. Da siffatta previsione emergono due significativi dati innovativi. Il primo concerne l'attribuzione al giudice di un potere istruttorio: l'organo giurisdizionale diviene, dunque, parte attiva nel sollecitare informazioni indispensabili per la valutazione complessiva della situazione personale dell'imputato. Il secondo dato riguarda il riconoscimento di una particolare valenza “processuale” ad informazioni comunque dovute, purché raccolte da organi “qualificati”, ossia la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici. In tema di sospensione del processo con messa alla prova, il risarcimento del danno deve corrispondere al pregiudizio patrimoniale arrecato alla vittima, "ove possibile", o, comunque, allo sforzo massimo esigibile dall'imputato alla luce delle sue condizioni economiche, sicchè il giudice, ove sussistano temi di indagine da approfondire, deve attivare, ex art. 464-bis, comma 5, i propri poteri istruttori mentre, in caso contrario, è tenuto soltanto a dar conto del percorso motivazionale seguito (Cass. V, n. 16083/2023, in fattispecie relativa a furto di energia elettrica, in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione con la quale, con puntuale motivazione, si era valutato inadeguato il risarcimento offerto, in quanto, alla stregua dei dati in atti, la proposta risultava incoerente rispetto alla capacità economica dell'imputato desunta, tra l'altro, dal valore dei beni strumentali e dal capitale dallo stesso investito nell'attività di impresa). La messa alla prova ed il lavoro di pubblica utilitàLa messa alla prova non si esaurisce infatti, come accade nel processo penale minorile, in un programma di trattamento (nel processo minorile quel programma è anche di osservazione e di sostegno, caratteristiche, queste, che non connotano il programma di trattamento per gli adulti), con annesse eventuali prescrizioni riparatorie e di conciliazione (esistenti anche nella probation per gli adulti): il legislatore ha imposto, ove possibile, anche prescrizioni risarcitorie e soprattutto ha condizionato la concessione del beneficio alla prestazione di lavoro di pubblica utilità (diversamente da quanto accade nella messa alla prova per i minorenni, che non contempla tale imposizione) e questo tipo di prestazione è a sua volta diversa rispetto al lavoro di pubblica utilità che il legislatore ha già previsto in alcuni casi specifici e ben determinati. L'istituto della messa alla prova per gli adulti è tratteggiato, nelle sue componenti generali, all'art. 168-bis c.p. ed è poi disciplinato, negli aspetti particolari, agli artt. 464-bis e 141-ter disp. att. Esso, dunque, si sostanzia in: a) Prestazioni di condotte riparatorie (volte cioè alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato) e, ove possibile, risarcitorie; b) Affidamento dell'imputato al servizio sociale per lo svolgimento del programma e tale programma può implicare, tra l'altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali; c) Prestazione di lavoro di pubblica utilità. Se la prestazione di condotte riparatorie e risarcitorie, come anche l'affidamento dell'imputato al servizio sociale per lo svolgimento del programma non si discostano di molto dall'omologo istituto del processo minorile, la prestazione di lavoro di pubblica utilità merita un discorso autonomo, non tanto perché non è prevista nella messa alla prova per i minorenni, quanto perché la stessa ha delle peculiarità che la differenziano dalle altre forme di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità è una sanzione applicabile dal giudice di pace ed è prevista dall'art. 54 d.lgs. n. 274/2000. Le disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace non esauriscono tuttavia le ipotesi di lavoro di pubblica utilità: questo tipo di sanzione è prevista anche dall'art. 73, comma 5-bis d.P.R. n. 309/1990 (introdotto a suo tempo dall'art. 4-bis, lett. f) l. n. 49/2006 e, in ultimo, dopo la pronuncia della Corte cost. n. 32/2014, reintrodotto dalla l. n. 79/2014, che ha convertito con modificazioni il d.l. n. 36/2014); dagli artt. 186, comma 9-bis, e 187, comma 8-bis, d.lgs. n. 285/1992 (così come introdotte dall'art. 33 l. n. 120/2010); dall'art. 165 c.p. ed in caso di conversione di pena ex l. n. 689/1981. Quanto alla sanzione del lavoro di pubblica utilità irrogabile dal giudice di pace, la stessa ha delle peculiarità (potendo essere disposta solo su richiesta e non essendovi limiti alla sua applicazione) che la differenziano sia dalla sanzione prevista dal testo unico sugli stupefacenti (che è anch'essa irrogabile su richiesta, ma previo parere del P.m. ed è concedibile al condannato che non possa beneficiare della sospensione condizionale della pena) sia da quella prevista in tema di circolazione stradale (che va disposta dal giudice se non vi è stata opposizione e che è ammessa una sola volta), sia, più in generale, da entrambe le ultime due, nelle quali la sanzione ha una durata corrispondente alla pena irrogata e la verifica della effettiva esecuzione non spetta solo alla Questura ed ai Carabinieri (organi deputati al controllo della sanzione irrogabile dal giudice di pace), ma anche all'U.e.p.e. (quest'ultimo unico organo competente nel caso di cui all'art. 73, comma 5-bis, d.P.R. n. 309/1990) che ne riferisce al giudice. A sua volta ed a ben analizzare, la sanzione del lavoro di pubblica utilità prevista dall'art. 168-bis c.p. (che per altro non rinvia a nessuna delle normative da ultimo citate) è una ulteriore e diversa forma di sanzione, che trova il suo fondamento nell'art. 1, comma 1, lett. i) ed l) l. n. 67/2014, ossia nell'articolo che prevede la delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie. Emerge, peraltro, nelle vigenti previsioni in materia di lavoro di pubblica utilità ovvero relative ad analoghe fattispecie come il legislatore si sia costantemente orientato nel senso di subordinare l'applicabilità di questa tipologia di sanzione al consenso, esplicito o implicito, dell'interessato. Rispetto a tale impostazione, sono rinvenibili soltanto due circoscritte eccezioni, nelle quali nulla si dice in ordine alla volontà del condannato: si tratta in primo luogo del d.l. n. 122/1993 che prevede (art. 1) la sanzione accessoria de qua per reati connessi a motivi razziali etnici o religiosi; in secondo luogo, dell'art. 224-bis d.lgs. n. 285/1992, secondo cui, nei casi di condanna per delitto colposo in violazione del codice della strada, il giudice può disporre la sanzione amministrativa del lavoro di pubblica utilità. Peraltro, l'introduzione nell'ambito del nostro ordinamento di ipotesi di lavoro di pubblica utilità che prescindano dal consenso dell'interessato potrebbero, sotto un diverso punto di vista, essere valutate sotto il profilo della loro compatibilità con il divieto di lavoro forzato stabilito dall'art. 4 CEDU. Recependo le indicazioni contenute nella delega al Governo e nelle disposizioni sulla sospensione del procedimento, deve desumersi che il lavoro di pubblica utilità, alla cui prestazione va subordinata la concessione del beneficio della messa alla prova, ha delle peculiarità che lo differenziano rispetto alle altre forme sanzionatorie prima indicate. Se, anche in questo caso, l'oggetto della sanzione in esame si sostanzia in una prestazione non retribuita in favore della collettività, che deve tener conto delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell'imputato e le cui modalità di svolgimento non devono pregiudicare le esigenze di lavoro, studio, famiglia e salute, con durata fissata nel minimo (dieci giorni) ma non anche nel massimo (a differenza della sanzione irrogabile dal giudice di pace, che va da un minimo di dieci giorni ad un massimo di sei mesi), così come è fissato anche il tetto massimo giornaliero di otto ore. Diverso è anche il luogo di svolgimento della prestazione che può essere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie, ma anche presso gli enti di assistenza sociale, sanitaria, di volontariato. Si discute, a questo punto, se gli enti debbano aver preventivamente aderito alle convenzioni: si legge nella Relazione citata, redatta dall'Ufficio del Massimario, che il mancato riferimento, nell'art. 168-bis c.p., alla necessità che gli enti siano legati alla Amministrazione da un rapporto di convenzione e più in generale l'omesso richiamo al d.m. 26 marzo 2001 che prevede (art. 3) l'obbligo per il giudice di attingere all'elenco degli enti convenzionati formato ai sensi del successivo art. 7 possa portare a ritenere che le convenzioni non siano presupposto indefettibile per il collocamento del “messo alla prova” presso un determinato ente. Da qui l'affermazione secondo cui potrebbe ritenersi “consentita l'assegnazione del “messo alla prova” a enti che, prima di stipulare la convenzione, intendano sperimentare l'impiego di questa categoria di soggetti” (Rel. cit. nr. III/07/2014 del 5 maggio 2014, dell'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione). Il programma di trattamentoIntroduzione Il programma di trattamento che va elaborato di intesa con l'U.e.p.e. e che è disciplinato dall'art. 464-bis, contempla una serie di attività, prescrizioni e condotte, che rispondono alle caratteristiche proprie della messa alla prova, così come sopra indicate, e che si sostanziano in: a) modalità di reinserimento sociale, che coinvolgono l'imputato e la sua famiglia, sempre che ciò sia necessario e sia di fatto possibile; b) prescrizioni comportamentali (anche inerenti la dimora, la libertà di movimento, il divieto di frequentare determinati locali) e gli altri impegni specifici (tra cui le condotte riparatorie, restitutorie o risarcitorie, il volontariato), nonché prescrizioni attinenti il lavoro di pubblica utilità; c) condotte di mediazione con la persona offesa (se ed ove possibile). La formulazione della norma sembra soprattutto rivolta all'eventuale coinvolgimento del “nucleo familiare” dell'imputato o al “suo ambiente di vita” ai fini del processo di reinserimento sociale che il meccanismo della messa alla prova contempla per un positivo esito della stessa, in linea con quel modello di giustizia riparativa che l'attuale normativa si propone di realizzare. Da notare, poi, come il legislatore, tracciando la possibilità di un coinvolgimento dei familiari o dell'ambiente di riferimento dell'imputato, colleghi tale “allargamento” dei soggetti da includere come protagonisti, seppure non primari, nel programma di trattamento alla duplice condizione che ciò sia “necessario” e “possibile”. Vi potranno, infatti, essere casi in cui tale coinvolgimento non si profili come necessario, potendo immaginare percorsi di messa alla prova che coinvolgano il solo imputato e prescindano dai contorni familiari e ambientali che, anzi, in determinati casi, potrebbero essere “pregiudizievoli” per il percorso rieducativo che l'imputato si propone di svolgere. Il ruolo centrale dell'Ufficio esecuzione penale esterna Gli U.e.p.e., alle dirette dipendenze del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, sono stati istituiti dalla l. n. 154/2005 che ha modificato l'art. 72 l. n. 354/1975 (ord. pen.). Gli assistenti sociali in servizio negli U.e.p.e. hanno compiti di vigilanza e/o assistenza nei confronti dei soggetti ammessi alle misure alternative alla detenzione, nonché compiti di sostegno e di assistenza nei confronti dei sottoposti alla libertà vigilata. Più in generale, gli uffici di esecuzione penale esterna provvedono ad eseguire, su richiesta del magistrato di sorveglianza le inchieste sociali utili a fornire i dati occorrenti per l'applicazione, la modificazione, la proroga e la revoca delle misure di sicurezza e per il trattamento dei condannati e degli internati, coordinandosi con le istituzioni e i servizi sociali che operano sul territorio. Nel contesto del programma di trattamento, inglobante in sé tutte le prescrizioni (comprese anche quelle relative al lavoro di pubblica utilità, oltre che alla mediazione, alle condotte riparatorie e risarcitorie) di cui si compone la messa alla prova, il ruolo dell'U.e.p.e. riveste fondamentale importanza. Se, infatti, il giudice è tenuto a fissare tempi, modalità, termini della messa alla prova, le prescrizioni e le condotte devono essere puntualmente indicate nel programma di trattamento (a cui il giudice inevitabilmente rinvierà, recependone così il contenuto), e tale programma va elaborato solo ed esclusivamente dall'U.e.p.e.. Nella lettera circolare adottata dall'Ufficio del Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia (Gdap n. 0174874-2014 del 16 maggio 2014) sono state date disposizioni di attuazione alle articolazioni territoriali dell'Amministrazione Penitenziaria, allo scopo di fornire direttive finalizzate alla migliore gestione operativa delle norme sulla sospensione del procedimento con messa alla prova, nella prima fase di entrata in vigore della legge. In particolare, con la stessa, sono state inoltre fornite istruzioni operative, da un lato, sullo svolgimento delle attività preliminari di accertamento ad opera dell'U.e.p.e. e sulla predisposizione del programma di trattamento; dall'altro, sono stati fissati i criteri per le modalità di intervenuto nella fase dell'esecuzione, sempre da parte dell'U.e.p.e., il tutto non senza auspicare un raccordo sinergico tra i singoli Tribunali e le articolazioni territoriali, facenti capo ai Provveditori Regionali e quindi ai Direttori degli uffici locali di esecuzione penale esterna, e tra questi ultimi e gli enti pubblici e le associazioni del privato sociale presso cui è destinata ad essere svolta l'attività della messa alla prova. Dalla lettura congiunta dell'art. 141-ter disp. att. e della circolare indicata si ricava che: a) l'ufficio locale esecuzione penale esterna svolge le funzioni dei servizi sociali (art. 141-ter disp. att.); b) l'imputato vi deposita la richiesta di programma di trattamento, unitamente agli atti rilevanti del procedimento penale, alle proprie osservazioni e proposte, anche eventualmente in ordine alla struttura nella quale intenda svolgere il lavoro di pubblica utilità; una volta depositata la richiesta, l'U.e.p.e. l'acquisisce, assumendola a protocollo e rilasciando al richiedente l'attestato di presentazione della richiesta, che questi potrà presentare alla autorità giudiziaria per dimostrare di aver formulato domanda di elaborazione del programma di trattamento; c) prende quindi avvio il procedimento, mediante l'assegnazione ad un funzionario del servizio sociale per lo svolgimento, in primis, delle indagini socio-familiari, comprensive delle capacità economiche, riparatorie dell'imputato e di mediazione con la persona offesa, vagliate anche avvalendosi a tal fine di centri o strutture pubbliche o private presenti sul territorio, il tutto non senza che il singolo funzionario abbia provveduto ad informare il richiedente degli aspetti giuridici e del contenuto della messa alla prova e non senza che siano stati approfonditi gli elementi peculiari dell'istituto connessi allo svolgimento del lavoro gratuito di pubblica utilità e all'attività di volontariato; d) il funzionario dell'U.e.p.e. elabora quindi il programma di trattamento (come previsto dall'art. 72, comma 2, lett. c) l. n. 354/1975 ) su consenso dell'imputato e con l'adesione dell'ente o del soggetto incaricato, a suo tempo indicato dall'imputato stesso o a questi da parte dell'U.e.p.e., avendo cura, nella predisposizione del programma in esame di far riferimento a tutte quelle attività, prestazioni e condotte individuate dall'art. 464-bis: una volta redatto il programma, ne viene consegnata copia al richiedente e, con atto separato, viene inviata altra copia al giudice competente unitamente all'indagine socio familiare ed alle considerazioni che lo sostengono; e) l'U.e.p.e. effettuerà, quindi, la presa in carico dell'imputato non appena il giudice gli trasmetterà l'ordinanza di sospensione in uno al verbale di messa alla prova, dalla cui data decorrono i termini indicati dall'art. 464-ter, comma 5; a sua volta, l'U.e.p.e. informerà il giudice, al massimo ogni tre mesi, sull'andamento del trattamento (del quale può chiedere la modifica, l'abbreviazione, la revoca); f) il funzionario dell'U.e.p.e. (possibilmente lo stesso che ha preso in carico il richiedente) invierà, alla scadenza del periodo di prova, la relazione conclusiva sull'andamento e sull'esito della prova, che va trasmessa al giudice almeno dieci giorni prima dell'udienza per la sua valutazione. Appare così evidente come il programma di trattamento venga predisposto, elaborato e quindi attuato solo dall'U.e.p.e., che informa il giudice dell'andamento della messa alla prova ed al termine redige la relazione conclusiva, esaminata la quale (nel contraddittorio tra le parti), il giudice valuterà se la messa alla prova abbia avuto o meno esito positivo. Con l'art. 7 l. n. 67/2014 il legislatore ha dato disposizioni in materia di pianta organica degli uffici locali di esecuzione penale esterna, prevedendo che il Ministro della Giustizia, qualora si renda necessario procedere all'adeguamento numerico e professionale della pianta organica degli uffici di esecuzione penale esterna (già gravati da numerosi compiti, quali la vigilanza e/o l'assistenza nei confronti dei soggetti ammessi alle misure alternative alla detenzione, il sostegno e l'assistenza nei confronti dei sottoposti alla libertà vigilata, i controlli in relazione al lavoro di pubblica utilità per le violazioni al testo unico degli stupefacenti o per le violazioni al codice della strada), riferisca tempestivamente alle competenti Commissioni parlamentari in merito alle modalità con cui si provvederà al predetto adeguamento, previo stanziamento delle occorrenti risorse finanziarie da effettuare con apposito provvedimento amministrativo. Alcune criticitàIncompatibilità tra messa alla prova e detenzione Il beneficio in esame può essere chiesto, nella sussistenza dei presupposti, in qualunque momento e, in giudizio, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento (nel caso dell'udienza preliminare, fino alle conclusioni delle parti): che cosa succede, per esempio, se a chiedere di poterne beneficiare sia un detenuto (anche eventualmente per altro) e/o se la richiesta sia stata presentata nel giudizio direttissimo? Il problema non è di poco conto, perché in queste ipotesi difficilmente l'interessato potrà allegare all'istanza il programma di trattamento: egli chiederà al giudice di far elaborare il programma. A quel punto, il compito di elaborare il programma ricadrà sull'U.e.p.e., a ciò compulsata dal giudice, ed i tempi non potranno che dipendere dalla tempestività con cui l'ufficio in questione redigerà il programma di trattamento, mentre nel frattempo non solo la prescrizione ma anche (eventualmente) i termini di custodia decorreranno. Peraltro, se si arrivasse a concedere il beneficio, come si concilia la messa alla prova con l'eventuale stato di detenzione (anche eventualmente per altra causa) del beneficiario? Le risposte (e le possibili soluzioni) varieranno a seconda delle situazioni, ma ognuna di esse non può prescindere da un dato sostanzialmente pacifico: l'esecuzione della messa alla prova e, più in generale, l'ammissione della messa alla prova non è compatibile con lo stato cautelare, sicuramente non con quello detentivo, ma anche con quello non detentivo. Premesso che la messa alla prova prevede tra le varie prescrizioni anche quella (obbligatoria) dello svolgimento del lavoro di pubblica utilità, che non è concretamente eseguibile se la persona è detenuta in carcere o anche agli arresti domiciliari, non si può non tener presente che all'atto di decidere se concedere o meno il beneficio, il giudice deve fare una valutazione prognostica di non reiterazione del reato da parte del richiedente e questo, che si sostanzia nella assenza di un pericolo concreto di recidivanza, esclude la sussistenza di uno dei presupposti per l'applicazione di qualunque misura cautelare. Ne deriva che, se il giudice si orienta per la concessione del beneficio, la probation non può essere eseguita (e prima ancora ammessa) se il destinatario è sottoposto a misura cautelare (per questa causa). Se, poi, la richiesta viene avanzata da un soggetto, detenuto in quello stesso procedimento e per quella causa, che richiede il beneficio e che, verosimilmente, non avrà ancora un programma stilato, il giudice non potrà fare altro che — valutata la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi — compulsare l'U.e.p.e. e dare un rinvio molto a breve (per evitare scadenze di termini custodiali) avendo cura di accertarsi che l'U.e.p.e. si attivi e trasmetta per quella data anche eventualmente una prima sintetica risposta (eventualmente facendo riserva di elaborazione, ad un secondo momento, del programma vero e proprio) che gli consenta di capire se il beneficio è concedibile o meno. Quindi, avuta risposta, se essa è positiva, l'autorità giudiziaria dovrebbe revocare la misura e concedere il beneficio: ciò sembra possibile anche se la risposta dell'U.e.p.e. non sia ancora completa, nel qual caso sarebbe il caso di dare un rinvio per consentire all'U.e.p.e. di elaborare il programma definitivo. Questo discorso è riferibile sia al caso in cui il soggetto, detenuto per questa causa, sia stato citato a giudizio con decreto del P.m., sia che si proceda con rito direttissimo nei suoi confronti. Differente sembra essere la soluzione nel caso in cui il soggetto sia detenuto per altro, anche in via definitiva. In questa ipotesi, il richiedente potrebbe restare in stato detentivo, caso mai in carcere, per molto tempo o comunque per un tempo che, non è conosciuto né prevedibile per il giudice che deve decidere sulla messa alla prova; peraltro, una volta compulsato l'U.e.p.e. e avuto il programma di trattamento, il giudice potrebbe anche determinarsi nel senso di concedere il beneficio, che tuttavia non è concretamente eseguibile. A questo punto il problema che si pone non è più quello della cautela (il richiedente non è infatti sottoposto a misura in quel procedimento) ma quello della concreta esecuzione della probation, e quindi, in definitiva, quello della prescrizione, che potrebbe trovare una soluzione nei termini riportati al paragrafo che segue. Richiesta di messa alla prova e sospensione della prescrizione Nella fase antecedente alla concessione della messa alla prova, sia nell'ipotesi in cui il richiedente sia detenuto per altro, anche in via definitiva, quanto nel caso in cui il soggetto sia libero, la prescrizione non si sospende, avendo il legislatore previsto, all'art. 168-ter c.p., che il corso della prescrizione del reato è sospeso solo durante il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova, ma non anche nella fase che va dalla richiesta alla ammissione (Cass. IV, n. 40848/2023, secondo cui il rinvio dell'udienza, disposto d'ufficio dal giudice al fine di consentire l'elaborazione, nei confronti dell'imputato ammesso alla prova, del programma di trattamento da parte dell'Ufficio di esecuzione penale esterna, non determina la sospensione del decorso dei termini di prescrizione, trattandosi di differimento non dovuto ad esigenze attinenti alla acquisizione di elementi di prova o al riconoscimento di termini a difesa ai sensi dell'art. 159, comma primo, n. 3, cod. pen.). Questa, tuttavia, è forse l'unica criticità di più agevole soluzione, potendo ritenersi che la richiesta di sospensione del procedimento, non corredata già dal programma di trattamento, sulla quale, dunque, la decisione del giudice non può essere immediata, rendendosi per converso necessario differire il procedimento ad altra data, così da consentire all'U.e.p.e. di elaborare e quindi trasmettere il programma, dia luogo ad un rinvio su richiesta dell'imputato e comporti quindi, da quel momento e fino alla data di rinvio, la sospensione della prescrizione. Non sembra sorgano problemi ad assimilare a questa situazione, che riguarda il richiedente “libero”, quella del richiedente che sia detenuto (anche eventualmente in via definitiva) per altra causa: la prescrizione potrebbe infatti essere sospesa, per quelle medesime ragioni, non solo durante il tempo che serve per l'elaborazione del programma e la decisione del giudice ma anche fino a quando la messa alla prova non possa essere concretamente eseguita (da quel momento in poi, ossia dalla sua concreta esecuzione, essa è, invece, sospesa per legge). Preclusione alla richiesta di ammissione sulla base di erronea contestazione La tassatività delle previsioni sussunte nel disposto del comma 1 dell'art. 168-bis c.p., unita alla considerazione che la richiesta debba essere avanzata — a pena di inammissibilità — in una fase del tutto preliminare al giudizio induce a ritenere che possano insorgere dei problemi applicativi. Quid iuris, se la contestazione di reato mossa verso l'imputato, appaia giuridicamente ed erroneamente di maggiore gravità di quella che, invece, avrebbe dovuto, in tutta evidenza, formare oggetto di processo, e, dunque, risulti — a differenza di quella meno grave e indubbiamente pertinente — preclusiva dell'accesso alla messa alla prova? Un esempio concreto può agevolare la comprensione del problema. Un soggetto cede ad altri una dose di sostanza stupefacente del tipo marjiuana e viene colto all'atto di detenerne qualcun'altra. All'indagato viene contestato impropriamente, in luogo, del reato previsto dal comma 5 dell'art. 73 d.P.R. n. 309/1990, il reato di cui ai commi 1 e 4. L'imputato, ove non si adotti il rito direttissimo, dopo lo svolgimento delle indagini preliminari, viene tratto a giudizio innanzi al G.u.p.. In tale sede, se egli, od il suo difensore, avanzerà la richiesta di messa alla prova, di tutta evidenza la sua istanza verrà dichiarata inammissibile per difetto dei requisiti essenziali dal momento che l'imputazione eccede quoad poenam il limite dell'art. 168-bis, comma 1, c.p. La situazione che, così, si viene a creare penalizza gravemente ed irreparabilmente l'imputato, che a seguito del giudizio potrebbe vedere, invece, riconosciuta — senza necessità di specifica istruzione probatoria — la ricorrenza dell'ipotesi di pena più favorevole. L'imputato patisce, quindi, una scelta del P.m., la quale può subire una palese sconfessione da parte del giudice, non già sulla base di un giudizio reso sulla base della raccolta di prove (attività che presuppone la celebrazione del processo), quanto piuttosto solo sulla scorta di una valutazione in punto di diritto, in ordine alla sussunzione di un fatto in un’ipotesi giuridica di reato piuttosto che in un’altra. Appare, quindi, del tutto irragionevole ed illogico che la possibilità di accesso ad una misura definitoria un processo risulti legata indissolubilmente ad una discrezionalità tecnico-giuridica non già eventualmente ad appannaggio del giudice terzo (peraltro espressamente riconosciuta con l'art. 464-ter e 464-quater che governano analiticamente i poteri del G.i.p., del G.u.p. e del Tribunale), bensì ex parte. Per vero, un correttivo potrebbe ravvisarsi nella possibilità del P.m. — all'uopo sollecitato dall'imputato e dalla difesa, se non addirittura dal giudicante — di riformulare il capo di imputazione adottando le doverose correzioni. Questo tipo di opzione, però, non appare affatto praticabile in relazione all'ipotesi di notifica del decreto di giudizio immediato e del decreto penale di condanna, situazioni procedimentali che impongono all'interessato di formulare la richiesta, senza che sia contemplata la possibilità di preventiva modifica dell'imputazione, da parte del P.m. o del G.i.p.: emerge, quindi, una situazione che, prima facie, appare idonea a suscitare un notevole dibattito dottrinale e giurisprudenziale. La mancanza di una norma transitoria e l'intervento della Corte costituzionaleLa normativa sulla messa alla prova per gli adulti ha inciso sia sulle norme sostanziali che su quelle processuali, da un lato, introducendo un istituto che è un beneficio ed integra una nuova causa di estinzione del reato, dall'altro, disciplinando con esso un nuovo rito che porta alla definizione anticipata del procedimento. Ebbene, l'inquadramento sistematico dell'istituto in esame ha non pochi importanti riflessi: prima, fra tutti, la questione relativa alla applicabilità o meno della messa alla prova ai procedimenti nei quali le fasi processuali entro cui, a norma dell'art. 464-bis, comma 2. è possibile chiedere il beneficio, siano state superate. Ed il problema è particolarmente rilevante per tutti quei procedimenti, già in fase di giudizio, nei quali il dibattimento sia stato dichiarato aperto, dovendo ritenersi che i procedimenti diversi dai processi in corso (ossia i procedimenti per i quali è in corso l'udienza preliminare, ma siano state formulate le conclusioni; i decreti penali, in relazione ai quali siano già scaduti i termini per proporre opposizione; i decreti di giudizio immediato, nei quali sia stato superato il termine dell'art. 459, comma 1) abbiano numeri differenti e verosimilmente minori. Non essendo stata dunque prevista una norma transitoria, che contempli e disciplini le ipotesi in cui la parte intenda avvalersi dell'istituto in esame nell'ambito di un procedimento in cui il termine di decadenza è superato, si arriverà a ritenere applicabile il beneficio se si valorizza la portata “sostanziale” delle disposizioni; se per converso si valorizzano le norme “processuali”, nella specie la disposizione di cui all'art. 464-bis che individua specifici momenti processuali per la proposizione della richiesta, allora la risposta finisce con l'essere di segno opposto. Vari sono gli argomenti a sostegno dell'una o dell'altra tesi. A favore della prima, milita il carattere sostanziale del beneficio, quale si evince dalle disposizioni che hanno apportato modifiche al codice penale e che hanno inciso sulla punibilità del reato: ciò può essere ritenuto sufficiente per l'applicazione retroattiva delle norme che regolano il nuovo istituto ai procedimenti in disamina, configurandosi esse come norme più favorevoli e ciò sia richiamandosi all'art. 2, comma 4, c.p., che alla disposizione di cui all'art. 7 CEDU, come interpretato nella sentenza Scoppola contro Italia. La critica che può essere mossa a questa tesi è data dal fatto che così facendo si disapplica in fatto una norma — l'art. 464-bis, comma 2, appunto — che fissa specifici termini di decadenza per la proposizione della richiesta, senza tener conto del fatto che seguendo questo orientamento il giudice, di fatto, finirebbe con l'individuare lui, nei procedimenti in corso, un altro momento limite per la proposizione della richiesta, nonostante esso non sia stato previsto dal legislatore (e paradossalmente, portando alle estreme conseguenze questa possibilità, che si sostanzia in fatto nel superare il dettato normativo, si potrebbe arrivare a ritenere che il beneficio in esame possa essere chiesto in appello e addirittura innanzi al giudice di legittimità). Si è sostenuto come tale ultimo aspetto potrebbe essere risolto facendo ricorso all'istituto della restituzione nel termine contemplata dall'art. 175: in questo modo non è il singolo giudice che individua il momento in cui poter presentare la richiesta, ma è pur sempre il legislatore che fornisce lo strumento per permettere alla parte — nei tempi e nei termini contemplati dall'art. 175 — di richiedere il beneficio in esame anche nei procedimenti in cui le fase processuali dell'art. 464-bis, comma 2, siano state superate (e tuttavia, interpretando in modo rigoroso l'art. 175 la richiesta andrebbe proposta nel termine di dieci giorni dalla entrata in vigore della normativa in esame e non, dunque, in caso di giudizio, alla prima udienza utile, non essendo tale termine contemplato nell'istituto della restituzione in termini). Resta, in ogni caso, il dato, difficilmente superabile, relativo alla disapplicazione da parte del giudice della disposizione di cui all'art. 464-bis, comma 2, una disposizione, questa, che forse spiega per quale motivo non sia stata prevista una norma transitoria. Prima ancora di valutare se il beneficio sia o meno applicabile ai procedimenti in corso, forse occorrerebbe chiedersi se la mancanza di una norma transitoria o comunque di una disposizione normativa che espressamente sia individuata quale norma transitoria, sia stata una mera “dimenticanza”, o se il legislatore abbia comunque previsto una disposizione che possa fungere da norma transitoria. È possibile che non si sia trattato di una dimenticanza ed è proprio la disposizione di cui all'art. 464-bis, comma 2, che può portare a questa conclusione: l'aver infatti individuato uno sbarramento (nell'udienza preliminare la formulazione delle conclusioni; nel giudizio, la dichiarazione di apertura del dibattimento; nel decreto penale, il termine per l'opposizione nel giudizio immediato, il termine di cui all'art. 458, comma 1) oltre il quale il beneficio non è più applicabile, può rispondere ad una scelta precisa adottata dal legislatore, il quale, con tale disposizione, ha probabilmente voluto dettare una disciplina applicabile a tutti i procedimenti pendenti, individuando tra essi quelli in cui la disciplina sostanziale può trovare applicazione (e di converso, quelli ai quali la disciplina non è applicabile). In altri termini, la norma in esame svolge anche una funzione di norma transitoria, nonostante non ne abbia il nomen iuris. Adottando questa interpretazione, nel dibattito giurisprudenziale si sono aperti due differenti scenari. Se si ritiene che quella scelta determini una disparità di trattamento, in quanto situazioni sostanzialmente simili sono destinate a ricevere trattamenti differenti, sol perché, focalizzando l'attenzione sui processi, in uno il dibattimento non è stato ancora aperto, mentre nell'altro si (potendosi il primo definire con una sentenza di estinzione del reato ed il secondo con una di condanna), della questione potrebbe infatti essere direttamente investita la Corte costituzionale, emergendo prima facie un profilo di illegittimità costituzionale sul punto. Se, per converso, si valorizza la circostanza che il legislatore, oltre alle norme sostanziali, ha previsto specifiche disposizioni processuali, una delle quali fissa uno sbarramento per la proposizione della richiesta, allora l'interpretazione costituzionalmente orientata potrebbe essere quella di ritenere espressione della discrezionalità legislativa la scelta di ancorare ad un preciso momento procedurale la possibilità di proporre l'istanza, con ciò dovendosi escludere che sia incostituzionale aver deciso di escludere, dal novero dei procedimenti in cui il rito premiale è esperibile, quei procedimenti nei quali tale fase è stata superata. La S.C. (Cass. VI, n. 47587/2014) ha preso posizione sulla questione avvalorando la tesi da ultimo esposta e riconoscendo la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 464-bis, comma 2, per contrasto all'art. 3 Cost., nella parte in cui non consente l'applicazione dell'istituto della sospensione con messa alla prova ai procedimenti pendenti al momento dell'entrata in vigore della l. n. 67/2014, quando sia già decorso il termine finale da esso previsto per la presentazione della relativa istanza, in quanto trattasi di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e non palesemente irragionevole, come tale insindacabile. Peraltro, la medesima giurisprudenza di legittimità ha evidenziato (Cass. IV, n. 45442/2015) come l’istituto della messa alla prova di cui alla l. n. 67/2014, non incida affatto sulla valutazione sociale del fatto, la cui valenza negativa rimane anzi il presupposto per imporre all'imputato, il quale ne abbia fatto esplicita richiesta, un programma di trattamento alla cui osservanza con esito positivo consegua l'estinzione del reato. Ne deriva che si è al di fuori dell'ambito di operatività del principio di retroattività della lex mitior ed è pertanto da escludere che la mancata previsione di una applicazione retroattiva dell'istituto della messa alla prova si ponga in contrasto con l'art. 7, § 1 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo e violi l'art. 117 Cost., comma 1 che del primo (norma interposta) costituisce il parametro di legalità costituzionale. Risolutivo è l'intervento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 240/2015) che ha escluso l'applicazione della messa alla prova nei dibattimenti già aperti all'epoca della sua introduzione negando l'illegittimità della relativa disciplina intertemporale. Nella fattispecie, il Tribunale di Torino aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 464-bis, comma 2, del codice di procedura penale, «nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, analoga a quella di cui all'art. 15-bis, comma 1, l. n. 67/2014, introdotto dalla L. 11 agosto 2014, n. 118, preclude l'ammissione all'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell'entrata in vigore della l. n. 67/2014». Era stata prospettata — in particolare — la violazione degli artt. 3,24,111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU. In sostanza, si era denunciato il fatto che rimanessero esclusi dalla possibilità di accesso al nuovo istituto le persone soggette, alla data di entrata in vigore della disciplina sulla messa alla prova, ad un procedimento penale nel quale fosse già intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento. Le censure si fondavano essenzialmente sulla considerazione degli effetti sostanziali della procedura (suscettibile com'è noto di condurre all'estinzione del reato, ex art. 464-septies), tali da escludere la compatibilità di una scansione cronologica semplicemente regolata dal principio tempus regit actum. Una soluzione «estensiva» sarebbe stata imposta dal principio di uguaglianza, dal diritto alla difesa ed al giusto processo, dalla pretesa «illegittimità convenzionale» di limiti all'efficacia retroattiva della lex mitior superveniens. La Corte costituzionale ha, di fatto, convalidato il presupposto interpretativo della questione, escludendo dunque che la sospensione potesse e possa essere disposta nei procedimenti già pervenuti, all'epoca di entrata in vigore della l. n. 67/2014, oltre la soglia indicata nella norma censurata. Nel contempo, come già accennato, ha negato l'illegittimità della scelta legislativa, essenzialmente in base ad una considerazione della regola denunciata quale norma di diritto processuale, sia pur pertinente all'applicazione di una disciplina a carattere sostanziale. In particolare (nella prospettiva dell'uguaglianza e della ragionevolezza) è parsa evidente l'incompatibilità logica tra l'ipotesi dell'avvio di un procedimento del tutto alternativo al giudizio ordinario (del quale non a caso è disposta la sospensione) e l'innesto dello stesso procedimento in una situazione già segnata dallo sviluppo dell'istruttoria dibattimentale, se non addirittura dalla pronuncia d'una sentenza concernente il merito dell'imputazione. L’istanza di sospensione del procedimento per messa alla prova è incompatibile con la richiesta di giudizio abbreviato, in quanto entrambe le istanze, rimesse alla libera volontà dell'imputato, sono soggette ai medesimi sbarramenti temporali, che, per la messa alla prova, sono indicati dall'art. 464-bis, comma 2 (Cass. II, n. 36672/2017). La determinazione dei limiti edittaliCon un primo orientamento, la S.C. (Cass. VI, n. 36687/2015) ha ritenuto che, in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato, quando si procede per reati diversi da quelli nominativamente individuati per effetto del combinato disposto dagli artt. 168-bis, comma 1, c.p., e 550, comma 2, il limite edittale, al cui superamento consegue l'inapplicabilità dell'istituto, si determina tenendo conto delle aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale (in motivazione, la S.C. ha precisato che tale criterio risponde ad una interpretazione sistematica che rispetta la voluntas legis — desumibile dal rinvio operato dall'art. 168-bis, comma primo, c.p. all'art. 550, comma 2 — di rendere applicabile la messa alla prova a tutti quei reati per i quali si procede con citazione diretta a giudizio dinanzi al giudice in composizione monocratica). Il tema della individuazione dei criteri per definire il perimetro della sanzione penale, che rende ammissibile la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato, è affrontato dalla sentenza in esame ponendosi in consapevole contrasto con altro orientamento della giurisprudenza di legittimità. In particolare, la pronuncia invoca una soluzione interpretativa che risponda a canoni di unità e coerenza del sistema ed afferma la necessità di applicare, ai fini dell'art. 168-bis c.p., i medesimi criteri di determinazione della pena specificati all'art. 4 in materia di individuazione della competenza. A detti criteri, infatti, rinviano numerose altre disposizioni del codice di rito, quali quelle contenute nell'art. 278 nell'art. 379 e nell'art. 550. Tali criteri — che prevedono debba tenersi conto della pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato e che non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze, fatta eccezione delle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa e di quelle ad effetto speciale — dovranno trovare applicazione, per la sentenza in commento, anche nell'ipotesi prevista dall'art. 168-bis c.p., non solo in ragione della invocata coerenza ed unicità del sistema, ma anche al fine di rispettare la “logica complessiva della legge di rendere applicabile l'istituto della messa alla prova a tutti quei delitti per i quali si procede a citazione diretta a giudizio dinanzi al giudice in composizione monocratica”. L'opposto orientamento — fornisce, invece, una interpretazione diversa del silenzio del legislatore nell'indicare i criteri per la determinazione della pena nella disposizione di cui all'art. 168-bis c.p., e, evidenziando come nel testo della norma manchi qualsiasi riferimento alla possibile incidenza di eventuali aggravanti, afferma che “laddove il legislatore ha voluto che si tenesse conto delle circostanze aggravanti, lo ha espressamente previsto”, così come avvenuto per gli artt. 4,157,278 e 134-bis (cfr., Cass. VI, n. 6483/2015). La questione è da ritenersi definitivamente superata a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite della S.C. (Cass. S.U., n. 36272/2016) secondo cui, ai fini della individuazione dei reati — non ricompresi nel comma 2 dell'art. 550 — per i quali è ammessa la sospensione del procedimento con messa alla prova, occorre avere riguardo esclusivamente alla pena edittale massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dalla contestazione delle circostanze aggravanti, ivi comprese quelle per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. CasisticaNel giudizio di cassazione l'imputato non può chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova di cui all'art. 168-bis c.p., né può altrimenti sollecitare l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito, perché il beneficio dell'estinzione del reato, connesso all'esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un «iter» processuale alternativo alla celebrazione del giudizio (Cass. fer., n. 42318/2014). In tema di sospensione del processo per la messa alla prova dell'imputato, il giudice che rigetti l'istanza di sospensione sul presupposto dell'impossibilità di formulare una prognosi favorevole in ordine all'astensione dell'imputato dal commettere ulteriori reati non è tenuto a valutare anche il programma di trattamento presentato (Cass. IV, n. 8158/2020). E' legittima l'ammissione alla sospensione del processo con messa alla prova anche nel caso in cui l'imputato abbia già fruito del beneficio in un distinto procedimento avente ad oggetto lo stesso reato "a consumazione prolungata" relativo a diversa frazione temporale della condotta (Cass. VI, n. 9064/2023, in fattispecie di reiterata violazione degli obblighi di assistenza familiare riconducibili al medesimo provvedimento impositivo). In tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, è illegittimo il provvedimento di rigetto della relativa richiesta fondato sulla mancata produzione del programma di trattamento, la cui elaborazione sia stata, comunque, ritualmente chiesta all'ufficio di esecuzione penale, non potendo prescindere la decisione dalla valutazione dell'idoneità di tale programma, che, pertanto, dev'essere elaborato e sottoposto al giudice, salvo che l'accoglimento della richiesta sia precluso, in radice, dalla prognosi sfavorevole in ordine all'astensione dell'imputato dal commettere ulteriori reati (Cass. IV, n. 18602/2024). In tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, l'imputato, ove ritenga che il fatto possa essere giuridicamente riqualificato in un reato che consente l'ammissione a tale istituto, ha l'onere di allegare il programma di trattamento o, quanto meno, la richiesta rivolta, a tal fine, all'U.e.p.e., trattandosi di requisiti di ammissibilità dell'istanza di sospensione ex art. 464-bis, comma 4 (Cass. IV, n. 36467/2024). BibliografiaAmato, L’impegno è servizi sociali e lavori di pubblica utilità, in Guida dir. 2014, n. 21, 87; Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento ?, in Dir. pen. proc. 2014, 6, 659 ss.; Caprioli, Due iniziative di riforma nel segno della deflazione: la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato maggiorenne e l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in Cass. pen. 2012, 7 ss.; Cesari, Commento agli artt. 28 e 29 d.P.R. n. 448 del 1998, in Aa.Vv., Il processo penale minorile. Commento al D.P.R. 448/1988, in Giostra (a cura di), Milano, 2009, 341 ss.; Ciampi, Sospensione del processo penale con messa alla prova e paradigmi costituzionali: riflessioni de iure condito e spunti de iure condendo, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2009, 1984 ss.; Colamussi, La messa alla prova, Padova, 2010; Colamussi, Adulti messi alla prova seguendo il paradigma della giustizia ripartiva, in Proc. pen. giust. 2012, n. 6, 125 ss.; Coppetta, La definizione anticipata del processo. La sospensione del processo con messa alla prova, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, vol. V, Diritto e procedura penale minorile, in Palermo Fabris - Presutti (a cura di), Milano, 2011, 607 ss.; Della Bella, Approvata in via definitiva la legge sulla sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. Al governo due deleghe in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio, in www.penalecontemporaneo.it, 4 aprile 2014; De Vito, La scommessa della messa alla prova dell’adulto, in Quest. Gius. 2013, n. 6, 9 ss.; Fiorentin, Rivoluzione copernicana per la giustizia ripartiva, in Guida dir. 2014, n. 21, 12; Gargani, Sicurezza sociale e diritti dei detenuti nell’età del sovraffollamento carcerario, in Dir. pen. e proc. 2012, 633 ss.; Larizza, Le “nuove” risposte istituzionali alla criminalità minorile. La sospensione del processo con messa alla prova, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, vol. V, Diritto e procedura penale minorile, in Palermo Fabris - Presutti (a cura di), Milano, 2011, 279; Martini, La sospensione del processo con messa alla prova: un nuovo protagonista per una politica criminale già vista, in Dir. pen. e proc. 2008, 237 ss.; Miedico, Sospensione del processo e messa alla prova anche per i maggiorenni, in www.penalecontemporaneo.it, 14 aprile 2014; Montagna, I confini dell’indagine personologica nel processo penale, Roma, 2013, 55 ss.; Normando, Modelli alternativi di giustizia in materia penale: l’intervento del mediatore, in Proc. pen. giust. 2014, n. 2, 125 ss.; Palazzo, Sulla riforma del sistema sanzionatorio e discrezionalità giudiziale, in Dir. pen. e proc. 2013, 99 ss.; Pulito, Messa alla prova per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale, in Proc. pen. e giust., 2015, n. 1; Tabasco, La sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti, in Orientamenti, in Arch. pen. 2015, n. 1; Viganò, Sulla proposta legislativa in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2013, 1300 ss.; Zaccaro, La messa alla prova per adulti. Prime considerazioni, in Quest. Gius. 2015, n. 3; Relazione dell’Ufficio del Massimario n. 68/2022, 7 novembre 2022; Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della Riforma Cartabia, in Sistema penale, 2 novembre 2022; Relazione dell’Ufficio del Massimario n. 2/2023, 5 gennaio 2023. |