Codice di Procedura Penale art. 499 - Regole per l'esame testimoniale.

Alessandro Trinci

Regole per l'esame testimoniale.

1. L'esame testimoniale si svolge mediante domande su fatti specifici [194].

2. Nel corso dell'esame sono vietate le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte.

3. Nell'esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte.

4. Il presidente cura che l'esame del testimone sia condotto senza ledere il rispetto della persona.

5. Il testimone può essere autorizzato dal presidente a consultare, in aiuto della memoria, documenti da lui redatti [136, 514 2].

6. Durante l'esame, il presidente, anche di ufficio, interviene per assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell'esame e la correttezza delle contestazioni, ordinando, se occorre, l'esibizione del verbale nella parte in cui le dichiarazioni sono state utilizzate per le contestazioni 1.

 

[1] Comma così sostituito dall'art. 15 1° marzo 2001, n. 63.

Inquadramento

La norma in esame fissa le regole di conduzione dell'esame testimoniale (domande su fatti specifici e divieto di domande nocive o suggestive, quest'ultime concesse al solo controesaminatore), attribuendo al presidente il ruolo di vigilare sul rispetto delle regole della cross examination.

Aspetti generali

Il primo comma dell'art. 499 stabilisce che le domande rivolte al testimone (da qualsiasi parte processuale) devono riguardare fatti specifici.

La previsione deve essere letta in modo coordinato con quanto dispongono gli artt. 187 e 197. L'art. 194, comma 3 prevede che il testimone debba essere esaminato su fatti «determinati che costituiscono oggetto di prova», non potendo deporre «sulle voci correnti nel pubblico né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti». L'art. 187 chiarisce che sono oggetto di prova i fatti dai quali dipende l'imputazione, la punibilità, la determinazione della pena o di una misura di sicurezza, nonché, laddove vi sia costituzione di parte civile, i fatti dai quali dipenda la responsabilità civile derivante dal reato.

Soltanto se la domanda è specifica, la risposta potrà avere ad oggetto fatti circoscritti. La finalità perseguita dalla disposizione in esame è quella di evitare che il teste, attraverso una narrazione continua, riproponga meccanicamente una deposizione preconfezionata, che impedisca un'effettiva verifica incrociata sui fatti oggetto del processo (Adorno, 306; Corbetta, in Giarda-Spangher, 6375; Frigo, in Chiavario, V, 1991, 256; Rizzo, 436).

Discutibile, quindi, che il giudice possa ammettere i testimoni a rendere dichiarazioni spontanee integrative delle risposte date alle domande. Tuttavia, la giurisprudenza ammette tale possibilità, sia nel corso dell'esame incrociato che in un momento successivo, quando il teste di sua iniziativa ritenga di presentarsi di nuovo a deporre, purché i nuovi fatti narrati siano pertinenti al tema di prova (Cass. V, n. 7536/1993).

In dottrina taluni ammettono la possibilità di formulare domande ampie ma non indeterminate (Paulesu, 199) o domande, almeno iniziali, di inquadramento (Mambriani, 466), mentre altri ritengono necessaria una tecnica di escussione basata su domande brevi e risposte sintetiche, in modo da pervenire ad una minuziosa scomposizione dei fatti (Adorno, 307).

La Suprema Corte ritiene che la violazione della regola in esame non dia luogo né alla sanzione di inutilizzabilità, poiché si tratta di prova assunta non in violazione di divieti posti dalla legge, ma con modalità diverse da quelle prescritte, né ad una ipotesi di nullità, non essendo la fattispecie riconducibile ad alcuna delle previsioni delineate dall'art. 178  (Cass. III, n. 52435/2017, relativa ad una fattispecie in cui l'esame di un testimone nelle forme dell'incidente probatorio era stato effettuato mediante la semplice richiesta di conferma delle dichiarazioni già rese in sede di sommarie informazioni alla polizia giudiziaria).

Domande nocive e suggestive

Il capoverso dell'art. 449 vieta agli esaminatori di porre al testimone «domande che possono nuocere alla sincerità della risposta».

Si tratta di quesiti che tendono a turbare la libertà morale del teste condizionandone la capacità di rievocare i fatti e/o di narrarli correttamente, come le domande intimidatrici, allusive, suadenti o che inducono nel teste una condizione di stress e nervosismo oppure che approfittano delle sue debolezze caratteriali o culturali (Corbetta, in Giarda-Spangher, 6379; Frigo, 263; Nappi, 547). Il divieto opera per l'intera fase dell'esame testimoniale.

Altro divieto riguarda le domande suggestive, ossia quelle che tendono a suggerire il contenuto della risposta o a dare per ammesso un fatto che il testimone non ha ancora riferito. Tali domande generano deposizioni testimoniali artificiose e confezionate.

La giurisprudenza ritiene che incorra nel suddetto divieto la parte che formula le domande tramite il capitolato di prove, giacché tale formulazione si risolve in una mera ripetizione di una testimonianza predisposta nel suo complesso e rende, pertanto, agevole e unilaterale la risposta (Cass. I, n. 3187/1992).

È dubbio se siano nocive o suggestive le domande c.d. trabocchetto, ossia domande che danno intenzionalmente per presupposto un fatto non vero per accertare le reali conoscenze del testimone (le riconduce alla prima categoria, Paulesu, 207; mentre le colloca nella seconda, Rizzo, 437).

Mentre il divieto di domande nocive riguarda tutte le parti che esaminano il testimone (e anche il giudice, come vedremo oltre), il divieto di domande suggestive opera solo per la parte che ha chiesto l'esame (e per quella che ha, rispetto a quest'ultima, un interesse comune, come diremo oltre), ma non si estende alla parte che procede al controesame, poiché la domanda suggestiva può fornire un utile contributo all'accertamento della credibilità del teste, in quanto strumento efficace per smascherare menzogne o evidenziare errori.

L'intento del legislatore è quello di evitare che chi induce un teste a prova possa anche suggerirgli le risposte, durante l'esame diretto, in modo da manipolare a suo piacimento la genuinità della prova; mentre analoga esigenza non si pone per chi conduce il controesame, il quale anzi è opportuno che sia lasciato libero di saggiare l'attendibilità del teste anche con domande provocatorie e suggestive. Pertanto, a chi conduce il controesame non possono essere inibite domande che tendono a suggerire le risposte, neppure in virtù del potere presidenziale di intervenire per assicurare la genuinità e sincerità delle risposte tutelata dalla predetta regola generale (Cass. III, n. 9724/1993).

Si ritiene che il divieto di porre domande suggestive nell'esame testimoniale non operi con riguardo al giudice, il quale, agendo in una ottica di terzietà, può rivolgere al testimone tutte le domande ritenute utili a fornire un contributo per l'accertamento della verità, ad esclusione di quelle nocive (Cass. III, n. 21627/2015).

In ogni caso, il divieto di formulare domande suggestive non può considerarsi violato nel caso in cui le domande siano poste dal giudice in sede di esame del testimone minorenne al fine di vincerne la reticenza, ovvero la ritrosia nel deporre (Cass. III, n. 13981/2008).

È stato, inoltre, precisato, che il divieto di porre domande suggestive vale anche per la parte che ha un interesse omogeneo, come nel caso del pubblico ministero o della parte civile, ovvero del responsabile civile e dell'imputato (Cass. III, n. 4721/2007).

Sebbene testualmente riferito al solo esame diretto, il divieto di domande suggestive vale anche per la fase del riesame (Colamussi, 1798; Paulesu, 208).

Secondo la giurisprudenza, la violazione del divieto di porre domande non pertinenti o suggestive, da un lato, non determina l'inutilizzabilità della testimonianza, in quanto tale sanzione riguarda le prove vietate dal codice di rito e non la regolarità dell'assunzione di quelle consentite, dall'altro, non è sanzionata da nullità in virtù del principio di tassatività (Cass. III, n. 35910/2008). Si è precisato, però, che le domande suggestive possono compromettere la genuinità della dichiarazione ove abbiano inciso sul risultato della prova in maniera da rendere il materiale raccolto globalmente inidoneo ad essere valutato (Cass. III, n. 49993/2019). Occorre, però, che sia compromessa l'intera dichiarazione e non semplicemente la singola risposta fornita, ben potendo il giudizio di piena attendibilità del teste essere fondato sulle risposte alle altre domande (Cass. II,n. 42568/2019).

Di contrario avviso la dottrina, che ritiene integrata un'ipotesi di inutilizzabilità, in quanto le prove risultano acquisite in violazione di uno specifico divieto (Colamussi, 1801; Frigo, 279; Mambriani, 467; Varraso, 2870).

Il divieto di porre domande suggestive non opera per la fase delle indagini preliminari perché il dichiarante, in tale fase, non assume la qualità di testimone, ma solo di mero informatore (Cass. III, n. 43837/2008). Deve, tuttavia, osservarsi che la contestazione nell'esame dibattimentale delle dichiarazioni rese dal teste potrebbe avvenire utilizzando i verbali delle dichiarazioni precedentemente rese durante le indagini preliminari, anche se quelle dichiarazioni fossero conseguenti a domande suggestive.

L'eccezione circa la proposizione di domande suggestive deve essere proposta al giudice innanzi al quale si forma la prova, essendo rimessa al giudice dei successivi gradi di giudizio soltanto la valutazione in ordine alla motivazione del provvedimento di accoglimento o di rigetto della eccezione stessa (Cass. VI, n. 13791/2011; Cass. V, n. 27159/2018).

Riconoscimento informale

La giurisprudenza è pacifica nell'ammettere la valenza probatoria della c.d. «ricognizione atipica», ovvero l'individuazione di un persona effettuata dal testimone nel corso della deposizione, su sollecitazione dell'esaminante, senza le garanzie e le modalità previste dagli artt. 213 ss. Secondo i giudici di legittimità, l'individuazione di un soggetto — sia personale che fotografica — è una manifestazione riproduttiva di una percezione visiva e rappresenta, perciò, una specie del più generale concetto di dichiarazione, di modo che la sua forza probatoria non discende dalle modalità formali del riconoscimento, bensì dal valore della dichiarazione confermativa, alla stessa stregua della deposizione testimoniale (Cass. VI, n. 28972/2013). 

Alla luce di tale principio si è ritenuto che anche il riconoscimento fotografico compiuto nel corso delle indagini preliminari sia utilizzabile ed idoneo a fondare l'affermazione di penale responsabilità, anche se non seguito da una formale ricognizione dibattimentale, nel caso in cui il testimone confermi di avere effettuato tale riconoscimento con esito positivo in precedenza, ma di non poterlo reiterare a causa del decorso di un apprezzabile lasso di tempo (Cass. II, n. 20489/2019).

Sempre sulla scorta di quanto enunciato, si ritiene valido ed utilizzabile, a fini decisori, il riconoscimento dell'imputato presente, operato in udienza, nel corso della deposizione da parte del testimone. Tale riconoscimento consiste in un atto di identificazione diretta reso mediante una dichiarazione orale che non richiede l'osservanza delle formalità previste per la ricognizione tout court. Esso deve, pertanto, essere tenuto distinto dalla ricognizione personale, disciplinata dall'art. 213, ed è inquadrabile tra le prove non disciplinate dalla legge di cui all'art. 189 (Cass. I, n. 3642/2004).

La soluzione giurisprudenziale ha incontrato le critiche della dottrina che ha rilevato come l'attività dichiarativa non sia equiparabile a quella ricognitiva, in quanto il soggetto chiamato a riconoscere non deve limitarsi a richiamare alla memoria una precedente percezione, ma deve saper individuare fisicamente la persona distinguendola fra altre simili (Campo, 129). Fra l'altro, è stato rilevato che la testimonianza avente per oggetto una pregressa ricognizione ha come effetto il recupero di un atto di indagine che, assolvendo ad una funzione esclusivamente investigativa, non dovrebbe avere alcuna utilizzazione probatoria durante il dibattimento (Cantone, 1296; Dean, 840; Galbusera, 459).

Consultazione di documenti in aiuto alla memoria

Il testimone può essere chiamato a riferire eventi e circostanze che si sono svolti molto tempo prima, rispetto ai quali vi possono essere difficoltà di rievocazione. Per aiutarlo nel ricordo, il codice prevede che il testimone, durante la deposizione, possa essere autorizzato dal giudice a consultare documenti da lui redatti.

Poiché la norma non subordina ad una richiesta del testimone l'autorizzazione alla consultazione, si ritiene che il giudice possa autonomamente concederla anche in mancanza di una richiesta proveniente dall'interessato (Cass. VI, n. 48258/2004), purché sia emersa la difficoltà nel ricordare i fatti (va quindi esclusa un'autorizzazione preventiva, formulata ad inizio deposizione).

Occorre chiarire che, anche in caso di consultazione di documenti, l'elemento di prova rimane la dichiarazione del testimone, e la lettura rileva semmai sul piano della valutazione di attendibilità. A tale scopo è, infatti, previsto che nel verbale di udienza sia fatta menzione che il dichiarante ha consultato note scritte su autorizzazione del giudice (art. 136, comma 2).

Con l'espressione «documenti da lui redatti» si intende il documento alla cui predisposizione abbia effettivamente contribuito il teste, indipendentemente dalla circostanza che da lui formalmente provenga; ne deriva che sono legittimamente acquisite ed utilizzabili le dichiarazioni rese da un appartenente alla polizia giudiziaria che sia stato autorizzato a consultare un verbale scaturente dall'azione congiunta di più agenti operanti, da intendersi riferibile a ciascuno di essi ancorché sottoscritto soltanto dal superiore gerarchico (Cass. II, n. 5791/1999; Cass. III, n. 15056/2009).

Per quanto riguarda, in particolare, il contenuto della querela, la Suprema Corte ha precisato che può essere legittimamente utilizzato nel corso della deposizione della persona offesa quale aiuto alla memoria nel caso in cui essa sia stata redatta dallo stesso testimone e presentata per iscritto al pubblico ministero, ad un ufficiale di polizia giudiziaria o ad un agente consolare all'estero. Nel caso invece di querela proposta oralmente e ricevuta in apposito verbale, trattandosi di dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero, il suo contenuto potrà essere utilizzato ai fini delle contestazioni ex art. 500, commi 1 e 2 (Cass. II, n. 16026/2020).

La deposizione testimoniale del verbalizzante è utilizzabile anche se egli utilizza per la consultazione una relazione di servizio priva di sottoscrizione, in quanto, non sussiste, ex art. 185, comma 1, alcun rapporto di dipendenza logico-giuridica tra la relazione di servizio utilizzata ai fini di consultazione dal verbalizzante e la testimonianza di quest'ultimo, autonomamente e direttamente riferita alle attività svolte ed alle realtà percepite; inoltre, il principio di nullità derivata non trova applicazione in materia di inutilizzabilità, la quale richiede l'illegittima acquisizione della specifica prova della cui validità si controverta (Cass. V, n. 21047/2011).

Rientrano nei documenti consultabili anche i diversi atti che sono stati formati durante le indagini a seguito delle dichiarazioni di testimoni e che costituiscono la sintesi degli accertamenti, anche di natura tecnica, compiuti dall'ufficiale di polizia giudiziaria; quindi sono consultabili, ex art. 499, comma 5, i prospetti riassuntivi delle attività di indagine, i verbali di contestazione redatti in sede di verifica fiscale, ecc. (Cass. S.U., n. 2780/1996).

Quando detto sopra vale soprattutto nel caso di deposizioni che hanno ad oggetto una complessa attività di polizia giudiziaria, caratterizzata anche da plurime acquisizioni documentali; in tal caso la consultazione di documenti in aiuto della memoria può realizzarsi attraverso la lettura dei dati risultanti da documenti redatti dallo stesso teste, ovvero, nel caso di ufficiale o agente di polizia giudiziaria, dei verbali e degli altri atti di documentazione dell'attività da lui svolta che tali dati riportano (Cass. V, n. 15613/2014).

L'ufficiale o l'agente di polizia giudiziaria può essere autorizzato a consultare propri appunti, trattandosi di documenti da lui redatti, anche se non si tratti di verbali o di atti depositati nel fascicolo del pubblico ministero, purchè gli stessi possano essere esaminati da tutte le parti del processo (Cass. VI, n. 41768/2017).

Non costituiscono, invece, documenti redatti dal testimone, né a lui riferibili, quelli relativi ad accertamenti compiuti da altri. Tuttavia, la giurisprudenza ha statuito che la consultazione, nel corso del dibattimento, del verbale di accertamento delle violazioni previdenziali redatto da altri colleghi da parte del funzionario dell'Inps chiamato a deporre come testimone non è sanzionata da nullità e deve ritenersi consentita dall'imputato che non si sia ad essa opposto (Cass. III, n. 27682/2014).

La possibilità di consultazione di documenti, redatti dal teste o comunque a costui riferibili, non opera nell'ipotesi di esame dei periti e consulenti e questa diversità è stata ritenuta legittima dalla Corte costituzionale, per la peculiare posizione del testimone che deve riferire i fatti sulla base di ricordi personali, rispetto al consulente e al perito che devono fornire opinioni di natura tecnico-scientifica (Corte cost. n. 45/1996).

La consultazione da parte del testimone di documenti dal medesimo redatti dovrebbe rappresentare soltanto un aiuto alla memoria, non potendosi sostituire completamente al ricordo, perché altrimenti si rivolverebbe sostanzialmente nel ricordo di avere scritto (Cass. IV, n. 6504/1999, secondo la quale non c'è prova testimoniale se il teste, nella specie agente di polizia giudiziaria, dopo aver consultato documenti da lui redatti, costituiti dalle annotazioni di osservazioni giornaliere di gioco d'azzardo, non sia in grado di ricordare e si richiami, perché nulla ricorda, al testo consultato).

Tuttavia, si è affermato che la funzione della consultazione del documento può essere realizzata pure nel caso in cui il «vuoto di memoria» della persona chiamata a deporre sia assoluto, purché, ovviamente, il giudice provveda poi ad una adeguata verifica della attendibilità del teste (Cass. VI, n. 10459/1994).

Più recentemente, si è ritenuto che, ai fini dell'applicazione del disposto di cui all'art. 499, comma 5, non possa operarsi alcuna differenziazione tra il concetto di «aiuto totale» e quello di «aiuto parziale» nel ricordo di un fatto, atteso che la specificità della previsione rispetto a quella della «contestazione» di cui all'art. 500 non è nella «parzialità dell'aiuto», ma nelle modalità del medesimo, nel senso che l'aiuto, a norma dell'art. 499, viene dato al teste mostrandogli un documento da lui redatto, mentre la «contestazione» avviene mediante il ricordo al teste di dichiarazioni da lui precedentemente rese e sulle quali egli abbia già deposto (Cass. IV, n. 26387/2009, relativa ad una fattispecie in tema di consultazione da parte del teste della querela da lui redatta).

Si ritiene che non sia vietata l'utilizzazione di elementi contenuti in un documento redatto dal teste, allorché essi siano stati acquisiti al dibattimento attraverso l'esame e il controesame del teste stesso, e quindi con la garanzia di pienezza del contraddittorio e con la piena esplicazione del diritto di difesa, cui il contraddittorio è funzionale (Cass. I, n. 9202/2009).

Più in generale, si ritiene che i fogli manoscritti e firmati dal testimone, ritualmente acquisiti al fascicolo del dibattimento, costituiscano una manifestazione del pensiero dello stesso, ancorché esplicitata in forma grafica e non verbale, onde devono essere equiparati sotto il profilo probatorio alle dichiarazioni testimoniali, a condizione che il teste, nel contraddittorio delle parti, ne confermi l'autenticità ed il contenuto ricognitivo (Cass. I, n. 49963/2018).

Poteri del presidente

Poiché la nozione di esame incrociato non può essere identificata con la libertà, priva di ogni vincolo, di muovere domande a scelta esclusiva delle parti (Cass. I, n. 6347/1992), al giudice è affidato il compito di vigilare sul corretto svolgimento dell'esame testimoniale.

Il presidente deve svolgere un duplice controllo: quello sulla tutela della personalità del teste (art. 499, comma 4), volto ad evitare che le parti, soprattutto durante il controesame, offendano o aggrediscano il testimone oppure ne invadano inutilmente la privacy e quello sulla tutela del dato probatorio (art. 499, comma 6), volto a garantire la pertinenza delle domande (dichiarando inammissibili quelle sprovviste di qualsiasi relazione con le circostanze indicate nella lista testimoniale), la genuinità delle risposte (bloccando i quesiti formulati in modo da compromettere la corrispondenza fra la dichiarazione e l'intenzione), la lealtà dell'esame e la correttezza delle contestazioni.

Risponde alle medesime esigenze anche la previsione che, nelle aule di udienza, impone di collocare il seggio delle persone da sottoporre ad esame in modo da consentire che le stesse siano agevolmente visibili sia dal giudice che dalle parti (art. 146 disp. att.).

Al fine di consentire al giudice di verificare la correttezza delle contestazioni, è possibile ordinare alla parte che l'ha effettuata di esibire il verbale nella parte in cui la dichiarazione è stata utilizzata per la contestazione.

Ogni eventuale eccezione avente ad oggetto doglianze in ordine alla conduzione dell'istruttoria dibattimentale da parte del giudice deve essere immediatamente contestata dalle parti e la decisione o mancata decisione sull'incidente può assumere rilevanza nel giudizio di impugnazione solo in quanto abbia comportato la lesione dei diritti delle parti o viziato la decisione (Cass. IV, n. 1022/2015).

Si ritiene che il controllo presidenziale debba essere particolarmente pregnante nel corso dell'esame del minore vittima di reati contro la libertà sessuale, in ragione della naturale fragilità psicologica ed emotiva del teste (Cass. III, n. 1048/2002).

Il presidente non dovrebbe trasmodare la sua funzione arbitrale, giungendo ad assumere direttamente la prova mediante la semplice richiesta se il teste confermi o meno le dichiarazioni già rese in una precedente fase del dibattimento. Tale modus operandi non può dirsi conforme alle regole che disciplinano la prova stessa, perché non si articola con domande su fatti specifici (art. 499, comma 1), tende a suggerire la risposta (art. 499, commi 1 e 2), e comunque viola la disposizione per la quale — salvi alcuni casi particolari — le domande sono rivolte al testimone direttamente dalle parti processuali (art. 498, comma 1).

Si esclude, tuttavia, che ricorra la sanzione di inutilizzabilità (art. 191), posto che non si tratta di prova assunta in violazione di divieti posti dalla legge, bensì di prova assunta con modalità diverse da quelle prescritte, così come viene esclusa la ricorrenza di nullità, posto che la deroga alle norme indicate non è riconducibile ad alcuna delle previsioni delineate dall'art. 178 (Cass. III, n. 45931/2014).

 Integra, invece, una nullità relativa ai sensi dell'art. 181, sanata ove la parte presente nulla eccepisca, l'indebita compressione, da parte del giudice, dello svolgimento dell'esame e del controesame di una prova testimoniale (Cass. III, n. 14245/2021). La doglianza sulle modalità di conduzione del dibattimento da parte del giudice è deducibile anche in sede di impugnazione, se è stata eccepita dalla parte interessata immediatamente dopo il compimento dell'atto (Cass. III, n. 10085/2019)

Bibliografia

Campo, Appunti in tema di ricognizione e ravvisamento, in Cass. pen. 1994, 129; Cantone, Le ricognizioni informali di cose diventano atti irripetibili, in Cass. pen. 1995, 1296; Colamussi, In tema di domande «suggestive» nell'esame testimoniale, in Cass. pen. 1993, 1798; Dean, In tema di «libertà» e «tassatività» delle forme nell'acquisizione probatoria (a proposito delle «ricognizioni fotografiche»), in Riv. it. dir. e proc. pen. 1989, 826; Galbusera, Note sul riconoscimento informale all'udienza dibattimentale, in Giust. pen. 1995, 459; Paulesu, Giudice e parti nella dialettica della prova testimoniale, Torino, 2002; Varraso, La violazione del divieto di domande suggestive: il ruolo delle parti ed i poteri del giudice, in Cass. pen. 2006, 2868. V. sub Artt. 496-498.

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