Codice di Procedura Penale art. 500 - Contestazioni nell'esame testimoniale 1 .

Alessandro Trinci

Contestazioni nell'esame testimoniale1.

1. Fermi i divieti di lettura [514] e di allegazione [63 2, 64 3-bis, 103 7, 197-bis 5, 203, 228 3, 240, 254 3, 267 2, 270, 271, 350 6-7, 407 3, 729], le parti, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero [433]. Tale facoltà può essere esercitata solo se sui fatti o sulle circostanze da contestare il testimone abbia già deposto.

2. Le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste.

3. Se il teste rifiuta di sottoporsi all'esame o al controesame di una delle parti, nei confronti di questa non possono essere utilizzate, senza il suo consenso, le dichiarazioni rese ad altra parte, salve restando le sanzioni penali eventualmente applicabili al dichiarante.

4. Quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate.

5. Sull'acquisizione di cui al comma 4 il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, che può fornire gli elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità.

6. A richiesta di parte, le dichiarazioni assunte dal giudice a norma dell'articolo 422 sono acquisite al fascicolo del dibattimento e sono valutate ai fini della prova nei confronti delle parti che hanno partecipato alla loro assunzione, se sono state utilizzate per le contestazioni previste dal presente articolo. Fuori dal caso previsto dal periodo precedente, si applicano le disposizioni di cui ai commi 2, 4 e 5.

7. Fuori dai casi di cui al comma 4, su accordo delle parti le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento.

 

[1] Articolo, da ultimo, così sostituito dall'art. 16 l. 1° marzo 2001, n. 63. Precedentemente l'articolo era stato sostituito dall'art. 7 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv., con modif., nella l. 7 agosto 1992, n. 356.

Inquadramento

La norma in esame prevede che al testimone possano essere contestate le dichiarazioni da lui rilasciate durante le indagini preliminari qualora vi sia un contrasto fra il contenuto della dichiarazione dibattimentale e quello della dichiarazione precedentemente resa.

Sul piano degli effetti, l'istituto delle contestazioni — quale veicolo tecnico di utilizzazione processuale di dichiarazioni raccolte prima e al di fuori del contraddittorio — si atteggia alla stregua di un meccanismo di valutazione della credibilità del dichiarante.

Esso, tuttavia, diviene meccanismo di acquisizione probatoria delle dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero in caso di violenza, minaccia o subornazione del testimone o di accordo fra le parti.

Aspetti generali

Nel corso dell'esame dibattimentale del testimone e delle parti private può procedersi alla contestazione delle dichiarazioni rese durante le indagini dai soggetti esaminati tutte le volte in cui queste ultime presentino difformità con le dichiarazioni dibattimentali (art. 500, comma 1), sia che in dibattimento il soggetto esaminato manifesti una conoscenza diversa, sia che riveli di non ricordare le vicende o i fatti sui quali aveva riferito in precedenza (Cass. II, n. 13927/2015).

In dottrina vedi Corbetta, 462; Mazza, 306.

Non costituisce, invece, divergenza l'emersione in dibattimento di una circostanza mai riferita dal testimone. In tal caso l'esaminatore potrà chiedere spiegazioni al dichiarante ai fini di valutarne l'attendibilità.

Per svolgere le contestazioni occorre che il testimone abbia già deposto in dibattimento sulla circostanza oggetto della contestazione, onde evitare che una lettura anticipata possa fungere da suggerimento della risposta. (Ubertis, 532).

Le dichiarazioni fornite dal testimone nel corso delle indagini preliminari e lette per le contestazioni ex art. 500 — al di fuori dei casi di consenso delle parti o di violenza, minaccia o subornazione (v. infra) — possono essere valutate solo ai fini della credibilità dello stesso (art. 500, comma 2), ma mai come elemento di riscontro o come prova dei fatti in esse narrati, neppure quando il dichiarante, nel ritrattarle in dibattimento asserendone la falsità, riconosca di averle rese (Cass. III, n. 20388/2015).

Anche i verbali di individuazione fotografica non possono essere acquisiti al dibattimento per il tramite delle contestazioni, ma l'esame testimoniale del soggetto che ha proceduto alla individuazione può riguardare anche le modalità con cui la stessa sia stata compiuta (Cass. V, n. 8423/2013).

Occorre chiarire che se il testimone dichiara di non ricordare il fatto o la circostanza su cui viene esaminato, ma, a seguito della contestazione, afferma che, pur non avendone attuale ricordo, quanto dichiarato in precedenza è sicuramente vero, non si applica la disciplina in tema di utilizzabilità delle dichiarazioni acquisite a seguito di contestazioni, ma solo le regole generali in ordine alla valutazione dell'attendibilità del dichiarante (Cass. II, n. 17089/2017, relativa ad un caso in cui il teste aveva espressamente confermato, a seguito di contestazioni, le dichiarazioni rese in precedenza, rispondendo alle sollecitazioni del pubblico ministero, a distanza di due anni e mezzo dai fatti, con l'espressione "confermo quanto dichiarato, ripeto, non ho l'immagine nitida ma se l'ho dichiarato questo è"; (Cass. II, n. 10483/2012).

Le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni al testimone vanno recepite e valutate come dichiarazioni rese direttamente dal medesimo in sede dibattimentale anche se vengono confermate in termini laconici (Cass. IV, n. 18973/2009; Cass. II, n. 35428/2018).

Poiché la contestazione dibattimentale presuppone che il teste sia tenuto a deporre, essa non può avere luogo laddove uno dei soggetti ricompresi nell'art. 199, comma 1 intenda, al dibattimento, avvalersi della facoltà di astenersi dal deporre (Cass. I, n. 330/2001).

Atti utilizzabili per la contestazione

Per quanto riguarda la tipologia di atti utilizzabili per la contestazione dibattimentale, il primo comma dell'art. 500 fa riferimento alle « dichiarazioni precedentemente rese e contenute nel fascicolo del pubblico ministero», ossia alle dichiarazioni rese dal testimone nel corso delle indagini al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria.

Sul piano letterale, la disposizione in esame sembra impedire l'utilizzabilità a fini contestativi di prove documentali o di dichiarazioni rese da un altro soggetto (così Cass. I, n. 5168/1995). Tuttavia, si ritiene che l'esaminatore possa richiamare durante l'escussione i risultati delle prove precedentemente acquisite al dibattimento mediante domande dirette (in dottrina vedi Nappi, 550), anche al fine di «influire sulla valutazione dell'attendibilità del teste» (Corte cost. n. 407/1994).

Ad avviso di alcune pronunce, però, anche i documenti, le letture o le relazioni del testimone acquisite nel corso della fase delle indagini preliminari, e già acquisite al fascicolo per il dibattimento, possono essere legittimamente valutati ai fini della decisione quando siano stati utilizzati per le contestazioni nel corso del dibattimento (Cass. II, n. 37098/2003).

Per quanto riguarda la querela, si esclude che possa essere utilizzata per le contestazioni, sia perché può essere inserita nel fascicolo per il dibattimento ed essere utilizzata ai soli fini della procedibilità dell'azione penale, sia perché trattasi di documento redatto dalla persona offesa e non di un verbale contenente dichiarazioni precedentemente rese dal testimone (Cass. V, n. 51711/2014).

  Tuttavia, più recentemente la Suprema Corte ne ha ammesso l'utilizzabilità quando si tratti di querela proposta oralmente e ricevuta in apposito verbale, trattandosi, in questo caso, di dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero (Cass. II, n. 16026/2020).

Si ammette, invece, che la denuncia presentata dalla persona offesa possa essere acquisita al fascicolo del dibattimento, se contenuta in quello del pubblico ministero e utilizzata per le contestazioni (Cass. VI, n. 4689/2011).

Sebbene la disposizione in esame non lo precisi, si ritiene che, per esigenze di garanzia, la precedente dichiarazione debba essere contenuta in un verbale (sommarie informazioni assunte ai sensi degli artt. 351,362,391-bis, comma 2, 422), mentre resterebbero escluse le dichiarazioni acquisite dagli organi di polizia e oggetto di mera annotazione ex art. 357, comma 1 (Avanzini, 74).

Affinché le dichiarazioni precedentemente rese alla polizia giudiziaria possano essere utilizzate per le contestazioni non è necessario che siano state raccolte su delega del pubblico ministero, dal momento che l'art. 500, comma 1, fa generico riferimento alle «dichiarazioni precedentemente rese», senza prevedere, a differenza dell'art. 513, la delega del pubblico ministero (Cass. V, n. 11918/2004).

In forza del combinato disposto degli artt. 391-decies, comma 1 e 500, comma 1, le parti, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione dei testimoni esaminati in dibattimento, possono servirsi anche delle dichiarazioni precedentemente rilasciate dal testimone al difensore o al suo sostituto ex art. 391-bis, comma 2 e contenute nel fascicolo del difensore (che, confluendo in quello del pubblico ministero, ne segue il regime).

In dottrina si ammette anche la possibilità di attingere a fini contestativi anche dalle dichiarazioni rese dal teste in incidente probatorio, trattandosi di atti che, rispetto a quelli provenienti dalle indagini preliminari, presentano un più alto tasso dialettico e di garanzie e dei quali, peraltro, è ammessa la lettura ex art. 511 (Renon, 301).

La giurisprudenza ammette che anche l'individuazione di un soggetto — sia personale che fotografica — possa essere utilizzata per le contestazioni in quanto manifestazione riproduttiva di una percezione visiva e quindi riconducibile al concetto di dichiarazione (Cass. II, n. 50954/2013, relativa ad una fattispecie nella quale, nel corso dell'esame dibattimentale, al testimone, che si esprimeva sull'identificazione dell'imputato in termini dubitativi, venivano contestate le certezze sul punto manifestate nel corso delle indagini preliminari).

È stato affermato, altresì, che il regime delle contestazioni è applicabile anche alla ricognizione in quanto la stessa costituisce, pur sempre, una deposizione, sia pure riproduttiva di una percezione visiva (Cass. II, n. 43294/2015).

Il pubblico ministero, nello svolgimento di attività integrativa di indagine, può assumere a verbale soggetti specificamente indicati da un imputato nel corso dell'istruttoria dibattimentale e le relative dichiarazioni, una volta assunta la prova testimoniale nel prosieguo del dibattimento, possono essere utilizzate per le contestazioni di cui all'art. 500 (Cass. III, n. 21379/2001).

L'art. 238, comma 4 consente di utilizzare per le contestazioni anche le dichiarazioni testimoniali rese in altri procedimenti, civili e penali, qualora non sussistano i presupposti previsti dai commi precedenti della suddetta norma e l'imputato non abbia espresso il consenso alla loro utilizzazione.

In base all'art. 26, comma 2 sono utilizzabili per le contestazioni le dichiarazioni rese ad un giudice incompetente per materia.

È, altresì, ammesso che ci si avvalga a fini contestativi del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione di cui all'art. 16-quater, l. n. 82/1991.

Sul punto la Suprema Corte ha precisato che sono utilizzabili anche i verbali riassuntivi delle dichiarazioni precedentemente rese dai collaboratori di giustizia, senza che ricorra alcuna violazione del diritto di difesa, atteso che l'art. 500 non prescrive la necessità dell'acquisizione della trascrizione integrale di tali dichiarazioni (Cass. II, n. 37877/2020).

Non è, invece, consentito che si impieghino a scopi contestativi le dichiarazioni rese in corso di indagine dai prossimi congiunti dell'imputato che in dibattimento si astengano dal deporre ai sensi dell'art. 199 (Cass. I, n. 330/2001).

Poiché la facoltà di astensione prevista dall'art. 199 opera esclusivamente nei confronti del congiunto imputato e non anche nei confronti dei coimputati, le dichiarazioni rese in dibattimento dal teste e l'acquisizione del verbale utilizzato per le contestazioni ai sensi dell'art. 500 costituiscono elementi pienamente utilizzabili dal giudice nei confronti dei coimputati anche se il teste, nel corso delle indagini preliminari, non era stato avvertito della facoltà, a lui concessa, di astenersi. (Cass. II, n. 886/2000).

Si ritiene che per le contestazioni possano essere utilizzati, insieme ai verbali, anche le registrazione audio e video. Va, infatti, rilevato che il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia), come vedremo meglio oltre (sub art. 510), ha previsto che in numerosi casi le dichiarazioni siano documentate con riproduzione audiovisiva e fonografica , oltre che con il consueto verbale. Dunque, considerata la valenza documentale delle video e audioregistrazioni, non può escludersi che siano utilizzate insieme ai verbali, al di là del tenore dell'art. 500, comma 2, che parla di dichiarazioni “lette” per la contestazione o degli artt. 511 ss., nella cui rubrica ci si riferisce alle “letture”. Per sgombrare il campo da qualsiasi equivoco o dubbio, forse sarebbe stato opportuno adeguare la disciplina degli artt. 500 ss. contemplando espressamente la possibilità di un ascolto dell'audioregistrazione o di una riproduzione del video.

Modalità operative

La dottrina non è uniforme sulle modalità operative delle contestazioni. Infatti, alcuni autori, valorizzando l'inciso «dichiarazioni lette per le contestazioni» di cui al capoverso dell'art. 500, ritengono che la lettura costituisca l'unica modalità per effettuare la contestazione (Corbetta, 464; Frigo, 395), altri commentatori, valorizzando l'inciso «possono servirsi delle dichiarazioni » che compare nel primo comma dell'art. 500, ammettono la possibilità di procedere anche a contestazioni sintetiche e per relationem, ricordando al testimone il contenuto delle sue precedenti dichiarazioni, senza darvi lettura (Grifantini, 205). Non può nascondersi che la prima soluzione fornisce maggiori garanzie, perché l'esaminatore, nel sintetizzare le dichiarazioni predibattimentali del teste difforme, potrebbe, anche involontariamente, distorcerne il senso.

Rifiuto dell'esame e del controesame

Il terzo comma dell'art. 500 si occupa dell'ipotesi in cui il teste rifiuta di sottoporsi all'esame (da intendersi come esame diretto) o al controesame di una delle parti.

In tal caso le dichiarazioni in precedenza rese dal teste non possono essere utilizzate in chiave probatoria nei confronti della parte che non ha potuto procedere all'esame o al controesame, a meno che questa non presti il consenso.

La finalità perseguita è quella di evitare la violazione del principio del contraddittorio, sia in senso soggettivo, come diritto a confrontarsi con l'accusatore, sia in senso oggettivo, come modalità di formazione della prova.

La norma va letta in combinato disposto con l'art. 526, comma 1-bis, secondo la quale «la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore».

La dottrina maggioritaria ritiene che anche il pubblico ministero sia legittimato a non prestare il consenso all'acquisizione, laddove il teste della difesa si sia rifiutato di sottoporsi al controesame della pubblica accusa (Adorno, 343; Cesari, 701; Conti, 602; Corbetta, in Giarda-Spangher, 6411; Fanuele, 177; Menna, 3623; contra Marzaduri-Manzione, 1077).

Violenza, minaccia e subornazione del teste

Il divieto di acquisizione dibattimentale delle precedenti dichiarazioni trova una prima eccezione «quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso».

In tal caso, infatti, «le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate» (art. 500, comma 4).

Si tratta di una disciplina che trova la sua giustificazione nell'ambito dell'art. 111, comma 5, Cost. che contempla la « provata condotta illecita » come ipotesi di deroga alla formazione della prova nel contraddittorio fra le parti.

Scopo della disposizione in esame è quello di evitare un inquinamento probatorio, specialmente nei processi di criminalità organizzata, ove maggiori sono le pressioni cui è esposto il testimone (Adorno, 330; Corbetta, 6403).

Per il recupero a fini probatori delle pregresse dichiarazioni non conta chi abbia commesso l'illecito, ma se questo fosse realmente idoneo a incidere sulla libertà di scelta del testimone. Quindi non è necessario che la condotta illecita provenga dall'imputato (Cass. II, n. 5997/2008; Cass. II, n. 39716/2018) o sia stata realizzata con il suo concorso, dovendosi ammettere l'acquisizione delle dichiarazioni pregresse anche quando i comportamenti illeciti sono ascrivibili solo ad alcuni coimputati (Cass. IV, n. 38230/2009) oppure a soggetti terzi (Cass. III, n. 220/2004).

Quindi, se il giudice, sulla base dell'andamento del dibattimento, ha fondati motivi per ritenere che il teste sia stato intimidito, può disporre gli accertamenti necessari al fine di appurare la fondatezza o meno dei suoi sospetti, avviando un micro procedimento incidentale a forma libera.

La norma prevede che il giudice decida sull'acquisizione «senza ritardo», al fine di non paralizzare l'accertamento principale; tuttavia, la violazione di tale regola non determina alcuna nullità (Cass. III, n. 18761/2010).

La decisione incidentale può fondarsi sia sugli elementi concreti forniti dalle parti, come prevede espressamente la norma, sia su quelli assunti dal giudice d'ufficio perché ritenuti necessari.

Nulla vieta che gli elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a pressioni siano tratti dall'atteggiamento assunto dal teste nel corso della deposizione dibattimentale, qualora la prudente valutazione del giudice gli consenta di cogliervi i segni della subita intimidazione; né alcuna valenza può assumere, in senso contrario, il mancato espletamento degli accertamenti incidentali previsti dall'art. 500, comma 5, trattandosi di attività istruttoria meramente eventuale, alla quale il giudice può attendere se ne ravvisi la necessità, senza esservi, tuttavia, obbligato (Cass. V, n. 16055/2011).

Secondo la giurisprudenza, le disposizioni dei commi 4 e 5 dell'art. 500 devono essere lette ed interpretate unitariamente, nel senso che la prima consente di desumere i fatti di violenza o minaccia od offerta di utilità al testimone sia da circostanze emerse prima e fuori dal dibattimento che, alternativamente, da circostanze emerse nel dibattimento, mentre la seconda richiede l'impulso di parte solo affinché il giudice disponga gli accertamenti richiesti sulle dette circostanze, ma non anche perché decida sulla acquisizione dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nelle indagini preliminari (Cass. VI, n. 31461/2004).

Rientrano fra gli elementi valutabili ai fini dell'accertamento dell'«inquinamento probatorio», quale presupposto dell'acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone ai sensi dell'art. 500, comma 4, le modalità della deposizione e il contegno tenuto dal teste in dibattimento (Cass. VI,  n. 22555/2017Cass. VI, n. 18065/2011), i condizionamenti economici o la paura di essere allontanato dal nucleo familiare (Cass. III, n. 2696/2011).

Ai fini dell'acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni predibattimentali del testimone, l'idoneità della «minaccia» richiesta dalla disposizione in esame è integrata da qualsiasi comportamento suscettibile di incutere timore e di far sorgere la preoccupazione di poter soffrire un male o un danno ingiusti, ancorché non oggettivi ma semplicemente percepiti, tale da compromettere o diminuire la libertà morale del teste che ne è destinatario, a nulla rilevando la circostanza che il teste abbia poi reso deposizione (Cass. III, n. 46501/2015).

Secondo i giudici di legittimità, le dichiarazioni predibattimentali del testimone, che abbia a ritrattare in ragione della «sudditanza psicologica» nei confronti dell'imputato, non sono acquisibili al fascicolo del dibattimento, perché la previsione dei casi in cui l'acquisizione è ammessa — per violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o altra utilità come strumenti di inquinamento probatorio della testimonianza — è tassativa (Cass. II, n. 36478/2011).

La Suprema Corte ha, inoltre, osservato che nei procedimenti relativi ai reati di violenza sessuale anche il riavvicinamento o la riappacificazione della persona offesa e dell'imputato possono costituire un «elemento concreto» idoneo ai sensi dell'art. 500, comma 4, ad incidere sulla genuinità della deposizione testimoniale della persona offesa nel senso che questa, non potendo rimettere la querela, essendo la stessa irrevocabile, potrebbe essere indotta a circoscrivere, limitare o revocare le dichiarazioni accusatorie in precedenza rese (Cass. III, n. 27117/2015).

Per quanto riguarda, invece, il concetto di «altra utilità», la cui offerta o promessa è rilevante ai fini e per gli effetti del recupero probatorio delle dichiarazioni predibattimentali, essa non deve avere carattere necessariamente economico o materiale, ma può avere anche valenza di tipo morale ovvero — nel contesto familiaristico della subcultura criminale di tipo mafioso — consistere nel mantenimento dei vincoli della solidarietà familiare, al fine di rafforzarne l'unità (Cass. I, n. 1898/2011).

Per quanto concerne il grado della prova, la giurisprudenza richiede uno standard probatorio intermedio fra la semplice deduzione logica e l'accertamento al di là di ogni ragionevole dubbio. Si osserva, infatti, che gli «elementi concreti» sulla base dei quali può ritenersi che il testimone sia stato sottoposto a violenza o minaccia affinché non deponga ovvero deponga il falso, da un lato, non possono coincidere con gli elementi di prova necessari per una pronuncia di condanna, dall'altro, non possono risolversi in vaghe ragioni o in meri sospetti, disancorati da qualunque dato reale, ma devono consistere, secondo parametri correnti di ragionevolezza e di persuasività, in fatti sintomatici della violenza o dell'intimidazione subita dal teste, purché connotati da precisione, obiettività e significatività (Cass. II, n. 34/2022; Cass. VI, n. 29342/2019Cass. II, n. 1942/2018; Cass. II, n. 13550/2017; Cass. II, n. 22440/2016; Cass. I, n. 25211/2015; Cass. Fer., n. 44315/2013). In tale contesto, l'idoneità della minaccia richiesta dalla disposizione è integrata da qualsiasi comportamento suscettibile di incutere timore e di far sorgere la preoccupazione di poter soffrire un male o un danno ingiusti, ancorché non oggettivi ma semplicemente percepiti, tale da compromettere o diminuire la libertà morale del teste che ne è destinatario, a nulla rilevando la circostanza che il teste abbia poi reso deposizione (Cass. III, n. 46501/2015). La sussistenza di tali elementi concreti può desumersi sia da circostanze sintomatiche dell'intimidazione emerse nello stesso dibattimento (Cass. Fer., n. 44315/2013, che ha ritenuto corretto l'operato del giudice di merito che aveva motivato la ritenuta sussistenza dell'intimidazione facendo riferimento al contegno tenuto da nove testimoni che nel corso del dibattimento, in assenza di giustificazioni plausibili, avevano reso dichiarazioni completamente diverse da quelle esposte nel corso delle indagini; Cass. II, n. 5224/2009, fattispecie in cui i fatti sintomatici sono stati individuati nel comportamento dei testimoni che hanno sconfessato la ritrattazione delle precedenti dichiarazioni accusatorie e non hanno saputo spiegare gli improvvisi vuoti di memoria rispetto a fatti accaduti meno di un anno prima delle deposizioni; Cass. V, n. 16055/2011, che ha ritenuto sintomatica di pressioni esterne la versione radicalmente difforme — rispetto alla originaria narrazione dei fatti, resa agli inquirenti e del tutto identica a quanto affermato dalla parte lesa — fornita dalle testi in sede dibattimentale, tradottasi persino nella ritrattazione di circostanze ammesse dallo stesso imputato di tentata estorsione, non altrimenti spiegabile se non con intimidazioni atte a determinarle ad un atteggiamento di totale reticenza), sia da circostanze emerse soltanto al di fuori del dibattimento (Cass. III, n. 10486/2014), come, ad esempio, atti di indagine quali gli esiti di intercettazioni, relazioni di servizio della Polizia giudiziaria (Cass. II, n. 50323/2013) o sommarie informazioni.

Dello stesso avviso la dottrina, che mette in rilievo come la norma si limiti a richiedere «elementi concreti» per accertare la minaccia e la subornazione del teste, di talché non si può pensare di raggiungere un livello dimostrativo pari a quello di una sentenza di condanna, ovvero al di là di ogni ragionevole dubbio (Cesari, 708; Procaccianti, 1073).

La giurisprudenza, di legittimità e costituzionale, esclude che la disposizione in esame si applichi anche nell'ipotesi in cui la condotta illecita sia posta in essere dal testimone. Si osserva, infatti, che la deroga al principio della formazione della prova in contraddittorio contenuta nell'art. 500, comma 4, si riferisce alle sole condotte illecite poste in essere «sul» dichiarante (quali la violenza, la minaccia o la subornazione), ma non a quelle realizzate «dal» dichiarante stesso, quale la falsa testimonianza anche nella forma della reticenza (Cass. II, n. 12481/2005, la quale osserva che la «condotta illecita» reca impedimento alla esplicazione del contraddittorio inteso come metodo di formazione della prova, mentre l'autonoma scelta del teste di dichiarare il falso in dibattimento — come pure di tacere — non incide, di per sé, sulla lineare esplicazione di esso; Corte cost., n. 453/2002; C. Corte cost., n. 518/2002).

Per acquisire le dichiarazioni occorre che il testimone destinatario di pressioni volte ad inquinare la genuinità della prova si sottragga all'esame dibattimentale, di talché è illegittima l'acquisizione a fini probatori, ai sensi dell'art. 500, comma 4, delle dichiarazioni predibattimentali in precedenza rese dallo stesso, se prima non si procede al suo esame (Cass. II, n. 37868/2014).

Se, invece, il testimone non si presenta al dibattimento, il giudice può acquisire le sue dichiarazioni anche in assenza di una richiesta delle parti, come si evince dall'espressione « sono acquisite », impiegata dalla norma in esame (Cass. III, n. 27582 /2010).

Si è anche precisato che in caso di discrasia tra l'esito della ricognizione fotografica effettuata dinanzi alla polizia giudiziaria e quello della ricognizione personale esperita nel corso del dibattimento, la possibilità di ritenere prevalente il primo è subordinata alla ricorrenza delle condizioni di cui all'art. 500, comma 4, vale a dire della sussistenza di concreti elementi che facciano ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia o allettamento (Cass. II, n. 43294/2015). Analoga soluzione è stata adottata anche in caso di riconoscimento fotografico effettuato nella fase delle indagini preliminari e non reiterato o non confermato nel corso del dibattimento (Cass. fer., n. 43285/2019).

Va chiarito che le violenze, minacce, offerte o promesse di denaro o di altre utilità al testimone affinché non deponga ovvero deponga il falso autorizzano il giudice a disattendere la deposizione del teste in giudizio, ad acquisire al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni predibattimentali del teste medesimo, contenute nel fascicolo del pubblico ministero, ma non esonerano il giudice dal vagliare l'attendibilità di queste ultime che non può essere ritenuta automatica sulla scorta dell'accertato fattore illecito esterno (Cass. II, n. 50323/2013).

Infatti, se risponde ad una regola di esperienza che il silenzio o la ritrattazione di un testimone a seguito di minacce rende probabile la veridicità delle precedenti dichiarazioni, non può escludersi l'eventualità che il teste abbia subito pressioni per ritrattare in dibattimento dichiarazioni mendaci rilasciate durante le indagini preliminari o le investigazioni difensive.

Qualora l'acquisizione ex art. 500, comma 4, riguardi dichiarazioni rese da testimoni assistiti, le stesse non assumono piena valenza probatoria essendo soggette alle regole di valutazione previste dall'art. 192, comma 3.

La possibilità di giovarsi in dibattimento delle dichiarazioni raccolte durante le indagini ai sensi dell'art. 500, comma 4, spetta a tutte le parti processuali, anche a quella che avrebbe potuto richiedere l'incidente probatorio ai sensi dell'art. 392, comma 1, lett. b) (Cass. I, n. 2844/2012).

Nell'ipotesi in cui un soggetto sia stato erroneamente escusso in dibattimento in qualità di imputato di reato connesso, con l'applicazione delle più penetranti garanzie previste dagli artt. 64 e 210, ed avendo poi mutato la propria qualificazione in testimone «intimorito», a seguito degli elementi emersi in ordine alla “provata condotta illecita” di cui all'art. 500, comma 4, le dichiarazioni dallo stesso rese contenute nel fascicolo del pubblico ministero ed acquisite al fascicolo del dibattimento, ai sensi dell'art. 500, comma 4, sono comunque utilizzabili (Cass. II, n. 846/2003).

Per concludere, deve ritenersi che l'ordinanza acquisitiva delle dichiarazioni predibattimentali rilasciate dal testimone “intimidito” o “allettato” sia suscettibile di impugnazione unitamente alla sentenza che definisce il giudizio ai sensi dell'art. 586. Nulla vieta che in appello sia rinnovata ex art. 603 l'istruttoria dibattimentale al fine di verificare l'effettiva sussistenza delle condizioni che legittimavano il primo giudice all'acquisizione. Tuttavia, il giudice d'appello che intende procedere alla reformatio in peius di una sentenza assolutoria di primo grado non ha l'obbligo di procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa cartolare, ritenuta decisiva, se acquisita ai sensi dell'art. 500, comma 4, a seguito dell'accertamento della subornazione del testimone, a condizione che non sussistano elementi indicativi di una successiva modifica della condizione del dichiarante (Cass. II, n. 55068/2017).

Acquisizione concordata delle dichiarazioni rese nel corso dell'udienza preliminare

Il comma 6 dell'art. 500 contiene la seconda eccezione alla regola che esclude l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento della precedente dichiarazione difforme.

È, infatti, previsto che possano essere acquisite le dichiarazioni assunte dal giudice dell'udienza preliminare durante il supplemento istruttorio ex art. 422, se utilizzate per le contestazioni e se vi sia richiesta di parte, anche se diversa da quella che ha effettuato la contestazione.

Una volta acquisite, le dichiarazioni sono valutabili a fini di prova, ma sono soggette ad una utilizzabilità soggettivamente relativa, perché potranno esplicare efficacia probatoria solamente nei confronti delle persone che hanno partecipato alla loro assunzione, mentre nei confronti delle altre parti potranno essere valutate solo al fine di saggiarne la credibilità.

Acquisizione concordata delle dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero

L'ultima eccezione è quella prevista dal comma 7 dell'art. 500, che consente alle parti di concordare l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle precedenti dichiarazioni. La norma, che trova giustificazione, a livello costituzionale, nel principio di disponibilità del contraddittorio (art. 111, comma 5, Cost.), ricalca quanto previsto dagli artt. 431, comma 2, 493, comma 3, 555, comma 4 e 29 d.lgs. n. 274/2000, introducendo una sorta di «patteggiamento sulla prova» (Corbett, 6409).

A differenza del meccanismo previsto dall'art. 500, comma 4, l'acquisizione ex art. 500, comma 7, c.p.p. prescinde da un eventuale uso contestativo della precedente dichiarazione (Adorno, 340; Cesari, 718; Paulesu, 239).

Occorre, tuttavia, segnalare che l'acquisizione su accordo delle parti non può avere ad oggetto dichiarazioni viziate da nullità assolute o inutilizzabilità patologiche, posto che l'art. 526, comma 1 vieta di utilizzare ai fini della decisione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento.

Non è possibile, invece, che il giudice del dibattimento ordini al pubblico ministero di depositare in modo generalizzato atti di indagine al fine delle contestazioni (Cass. V, n. 49516/2013).

Contestazioni nel giudizio di appello

Nel processo accusatorio è un diritto delle parti quello di contestare il contenuto della deposizione di un testimone (art. 500, comma 1) o di un'altra parte (art. 503, comma 3) sulla base delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone o dalla parte esaminata e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. In virtù del generale rinvio operato con l'art. 598, si ritiene che tale diritto debba poter essere esercitato anche nella istruzione dibattimentale in sede di appello (Cass. III, n. 8213/2020).

A tal fine non è di ostacolo la circostanza che le dichiarazioni rilasciate nelle fasi precedenti al dibattimento, e assunte a base delle contestazioni, non siano nella disposizione materiale del pubblico ministero presso il giudice di appello. Il fascicolo del pubblico ministero presso il giudice di prime cure, infatti, è nella disposizione giuridica di tutte le parti [art. 2, direttiva 58, della l. n. 81/1987 (legge delega)] e come le parti private hanno diritto di estrarne copia, così il procuratore generale presso la corte di appello può — anche in base al rapporto di sovraordinazione gerarchica — acquisirne la disposizione materiale, sia in vista dell'udienza fissata per la rinnovazione del dibattimento in secondo grado, sia chiedendo all'uopo apposita sospensione ai sensi dell'art. 603, comma 6 (Cass. III, n. 9724/1993; Cass. II, n. 19618/2014).

Sulla scia di questo orientamento si afferma che qualora le parti non abbiano proceduto alla contestazione ed intendano farlo in sede di appello, non è necessario provvedere alla nuova citazione del teste ed al suo esame, onde far risaltare la difformità rispetto a quanto in precedenza dichiarato; questo presupposto può esser dedotto e fatto constatare al giudice d'appello, che quindi potrà utilizzare, per la decisione, le dichiarazioni difformi rese dal teste (Cass. I, n. 4589/1994).

Tuttavia, in altra decisione, la Suprema Corte ha affermato che « non sono consentiti, né sono previsti altri meccanismi o momenti (diversi dalla sede propria del dibattimento) per contestare le deposizioni del teste; tantomeno in sede di appello è consentita l'acquisizione, mediante parziale rinnovazione del dibattimento, dei verbali delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari. Se quindi la difesa non si è avvalsa dello strumento delle contestazioni per far emergere in sede dibattimentale presunte contraddizioni o inverosimiglianza, non può poi lamentarsi di ciò o pretendere di farle valere nelle fasi successive » (Cass. III, n. 39319/2009).

Violazioni

Qualora il giudice, nel corso dell'esame di un teste, non consenta ad una parte, nonostante una richiesta formulata in tal senso, di procedere alla contestazione della deposizione testimoniale, non si verifica una inutilizzabilità della prova.

Tale sanzione, infatti, trova applicazione solo quando un elemento probatorio sia assunto « in violazione dei divieti stabiliti dalla legge » (art. 1914) e non quando l'assunzione, pur consentita, venga effettuata senza l'osservanza delle prescritte formalità, potendo trovare applicazione in tale ipotesi, solo il diverso istituto della nullità (Cass. VI, n. 9324/1995).

Tale condotta integra, però, una nullità di ordine generale ai sensi dell'art. 178, lett. c), in quanto comporta certamente lesione del diritto di difesa nell'ambito della procedura predisposta all'accertamento dei fatti. Tale nullità peraltro, in quanto non rientrante tra le ipotesi di cui al successivo art. 179 deve ritenersi a regime intermedio e pertanto sanabile per effetto della mancata eccezione ad opera della parte che vi assiste immediatamente dopo il compimento dell'atto. Sotto codesto profilo non è sufficiente dunque che la difesa chieda di procedere alla contestazione, ma è necessario che la stessa, nell'ipotesi in cui la contestazione venga negata, rilevi, in quanto presente, la nullità; in mancanza di siffatta tempestiva eccezione, la deduzione effettuata nei motivi di appello non può valere a causa dell'intervenuta sanatoria e decadenza (Cass. VI, n. 9324/1995).

La violazione del divieto di acquisizione delle dichiarazioni lette per le contestazioni non è direttamente sanzionata, considerato che, in tal caso, l'unica conseguenza processualmente rilevante è l'inutilizzabilità, a fini decisori, delle dichiarazioni precedentemente rese. Ne deriva che le dichiarazioni, contenute nel verbale di sommarie informazioni e lette per le contestazioni, irritualmente acquisite al fascicolo del dibattimento e non espunte, non determinano alcuna conseguenza ove risulti che esse non siano state utilizzate ai fini della decisione, ma esclusivamente al fine di valutare l'inattendibilità delle dichiarazioni dibattimentali rese dal teste (Cass. V, n. 45311/2005).

Bibliografia

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