Codice di Procedura Penale art. 521 - Correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza .Correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza . 1. Nella sentenza [529 s., 597] il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione [429, 450, 456, 464, 516-518, 552], purché il reato non ecceda la sua competenza [23] né risulti attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica 12. 2. Il giudice dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero se accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio [429, 450, 456, 464, 552] ovvero nella contestazione effettuata a norma degli articoli 516, 517 e 518, comma 2. 3. Nello stesso modo il giudice procede se il pubblico ministero ha effettuato una nuova contestazione fuori dei casi previsti dagli articoli 516, 517 e 518 comma 2.
[1] Comma dapprima sostituito dall'art. 188 d.lg. 19 febbraio 1998, n. 51, con effetto dal 2 giugno 1999 ai sensi dell'art. 247, comma 1 d.lg. n. 51, cit. e successivamente modificato dall'art. 47, comma 6 l. 16 dicembre 1999, n. 479 e, da ultimo, dall'art. 2-undecies d.l. 7 aprile 2000, n. 82, conv., con modif., in l. 5 giugno 2000, n. 144. [2] La Corte cost. 29 maggio 2019, n. 131, ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-bis, comma 2, e 521, comma 1, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione. InquadramentoIn ossequio al principio iura novit curia, l'art. 521, comma 1, consente al giudice di dare al fatto, nei limiti della propria competenza e attribuzione, una definizione giuridica diversa da quella proposta dall'organo di accusa. Fissando il principio di correlazione tra imputazione e sentenza, l'art. 521, comma 2, consente al giudice di pronunciare sentenza soltanto se ritiene che il fatto ricostruito nel corso dell'istruzione dibattimentale coincide con l'episodio storico enunciato nell'ultimo addebito contestato. Qualora, invece, rilevi che il fatto accertato in dibattimento è diverso da quello descritto nell'imputazione e che anch'esso può costituire reato, deve trasmettere gli atti all'ufficio del pubblico ministero con ordinanza. La violazione del principio di necessaria correlazione fra accusa e sentenza integra una nullità a regime intermedio, che non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità (Cass. V, n. 9281/2009). Principio di correlazionePoiché il principio di correlazione tra contestazione e sentenza risponde all'esigenza di evitare che l'imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Cass. I, n. 35574/2013), la violazione di tale principio è ravvisabile solo quando il fatto ritenuto nella decisione si trova, rispetto al fatto contestato, in rapporto di eterogeneità, nel senso che risultano variati o trasformati gli elementi costitutivi dell'ipotesi di reato descritta nel capo di imputazione, e non già quando gli elementi essenziali che caratterizzano la qualificazione giuridica del fatto sono rimasti invariati e ad essi risultano aggiunti ulteriori particolari del fatto, in merito ai quali l'imputato ha comunque avuto modo di difendersi (Cass. VI, n. 34051/2003). L'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va quindi esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Cass. S.U., n. 16/1996). Ai fini della valutazione sulla possibilità dell'imputato di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione, deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione (Cass. VI, n. 47527/2013). Tenuto conto del suddetto criterio sostanzialistico, improntato alla verifica concreta della sussistenza del pregiudizio dei diritti della difesa, con il quale la giurisprudenza valuta il rispetto del principio di correlazione, va esclusa ogni violazione dell'art. 521 quando la contestazione comprende tanto l'ipotesi omissiva quanto quella commissiva e la ricostruzione fatta propria dal giudice si mantiene nei limiti della contestazione (Cass. IV, n. 24058/2004). Allo stesso modo si è esclusa la violazione del principio di correlazione qualora il fatto ritenuto in sentenza, ancorché diverso da quello contestato con l'imputazione, sia stato prospettato dallo stesso imputato quale elemento a sua discolpa ovvero per farne derivare, in via eventuale, una sua penale responsabilità per reato meno grave, giacché in tal caso l'imputato medesimo si è automaticamente investito della variazione e in relazione al diverso fatto ha apprestato le sue difese (Cass. V, n. 23288/2010; si veda anche Cass. II, n. 5329/2000, relativa ad una condanna per truffa di un imputato che, al fine di difendersi dall'originaria imputazione per estorsione, aveva dedotto l'esistenza di artifici e raggiri in luogo delle minacce). Nella stessa direzione si muove quell'orientamento che ritiene pienamente utilizzabili dal giudice, per precisare od integrare l'imputazione i fatti non contestati che, tuttavia, siano stati oggetto di interrogatorio o di altri atti acquisiti al processo (Cass. VI, n. 31981/2003, relativa ad una condanna per tentato esercizio arbitrario delle proprie ragioni, così diversamente qualificando la originaria imputazione di minaccia, a seguito di precisazione dell'accusa avvenuta in dibattimento ad opera della persona offesa in presenza dell'imputato). Secondo il criterio in esame, non può parlarsi di immutazione del fatto neppure quando il fatto tipico rimane identico a quello contestato nei suoi elementi essenziali e cambiano solo, in taluni dettagli, le modalità di realizzazione della condotta (Cass. I, n. 6302/1999). Allo stesso modo, non viola il principio di correlazione neppure la condanna per il tentativo di un delitto inizialmente contestato in forma consumata (Cass. VI, n. 29533/2013) Il ricorso al criterio sostanzialistico è stato criticato da una parte della dottrina, che ha osservato come la compressione dei diritti di difesa dell'imputato rappresenti, non tanto il presupposto dal quale arguire l'intervenuta modifica del fatto contestato, quanto la conseguenza di ogni metamorfosi dell'imputazione. Inoltre, non risulta affatto agevole stabilire in quali situazioni concrete le variazioni del tema decisorio impediscono il corretto svolgimento delle attività difensive (Di Nicola, 2198). Si ritiene che la necessità di salvaguardare la corretta esplicazione delle attività difensive dovrebbe indurre a ritenere diverso il fatto descritto dal pubblico ministero quando le due distinte rappresentazioni del fatto presentino un nucleo di elementi in comune e uno o più elementi diversi, instaurandosi tra le stesse un rapporto non di «continenza» bensì di «eterogeneità ed incompatibilità» (Cass. V, n. 15556/2011, che ha ritenuto insussistente la violazione del principio di correlazione tra accusa e difesa in un caso in cui l'imputato, cui era stato contestato di essere l'autore materiale del fatto, era stato riconosciuto responsabile a titolo di concorso morale, considerato che tale modifica non comporta una trasformazione essenziale del fatto addebitato, né può provocare menomazioni del diritto di difesa, ponendosi in rapporto di continenza e non di eterogeneità rispetto alla originaria contestazione). Il criterio strutturale, però, richiede l'individuazione, non sempre agevole, degli elementi essenziali della fattispecie incriminatrice. Se riferimenti obbligati del giudizio sulla diversità sono condotta, evento, nesso di causalità, elemento psicologico e condizioni obiettive di punibilità (Cass. III, n. 36817/2011), si è ritenuta irrilevante la diversità tra movente contestato e quello effettivamente accertato (Cass. I, n. 7342/2007), così come l'identità della persona offesa (Cass. VI, n. 4931/2006;ma contra Cass. II, n. 47600/2016, che ha ravvisato una violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza in un caso in cui l'imputato era stato condannato per un reato che in sentenza si affermava commesso in danno di una persona offesa diversa da quella indicata nel capo d'imputazione); mentre in ordine all'oggetto materiale del reato si è ritenuto violato il principio di correlazione in caso di condanna per la ricettazione di un'autovettura diversa da quella indicata nella contestazione (Cass. II, n. 22295/2010). Quanto all'elemento soggettivo, deve rilevarsi che la giurisprudenza tende ad escludere la violazione del principio di correlazione quando il mutamento della fattispecie operato in sentenza è favorevole all'imputato, come nel passaggio dalla fattispecie dolosa contestata a quella colposa ritenuta in sentenza (Cass. V, n. 17393/2005, che ha ritenuto rispettato il principio della correlazione in un caso in cui dall'originaria e più grave accusa di bancarotta fraudolenta documentale era stata accertata la responsabilità per il più lieve reato di mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili obbligatorie). Esulano invece dalla nozione di diversità le circostanze aggravanti (non contestate, ma risultanti in dibattimento) trattandosi di materia fornita di disciplina autonoma (art. 517) (Rafaraci, 277). La scelta del legislatore di limitare il meccanismo restitutorio alla diversità del fatto, con esclusione delle ipotesi di aggravanti non contestate, è frutto di un punto di equilibrio – ritenuto non irragionevole dalla Corte costituzionale (v. Corte Cost. n. 230/2022) – tra gli opposti interessi e principi sottesi al processo penale. La scelta del legislatore è stata, infatti, quella di limitare la regressione del procedimento alla sola ipotesi (il fatto diverso) in cui la definizione del giudizio con una sentenza assolutoria determinerebbe la totale impunità dell'autore del fatto, privilegiando invece le esigenze di tutela della ragionevole durata del processo e della terzietà e imparzialità del giudice nel caso in cui l'errore del pubblico ministero si ripercuota soltanto sulla misura della pena. La disciplina in esame realizza inoltre un bilanciamento non irragionevole tra il principio di obbligatorietà dell'azione penale, che non può comunque essere esteso sino al punto di negare qualsiasi spazio valutativo al pubblico ministero nella configurazione dell'imputazione, il diritto di difesa dell'imputato e lo stesso ruolo del giudice, chiamato a verificare la corrispondenza dei fatti provati a quelli ascritti all'imputato dal pubblico ministero, e non già ad assicurare, in chiave collaborativa con quest'ultimo, l'adeguamento dell'imputazione ai fatti provati. L'obbligo di correlazione tra imputazione e sentenza opera anche in sede di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., di talché il giudice deve restituire gli atti al pubblico ministero se accerta che il fatto è diverso rispetto a quello prospettato dalle parti nel loro accordo (Cass. V, n. 467/1999). Principio di correlazione e reati colposiIn tema di reati colposi la giurisprudenza distingue a seconda che sia stata contestata una singola specifica ipotesi colposa oppure globalmente la condotta addebitata come colposa (e cioè si faccia riferimento alla colpa generica). Infatti, mentre nel primo caso può ritenersi violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza se la responsabilità viene affermata in riferimento ad un'ipotesi differente, nel secondo caso la violazione suddetta non sussiste, perché è consentito al giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa, a tutela del quale la normativa è dettata (Cass. IV, n. 35943/2014). Si ritiene, infatti, che il riferimento alla colpa generica consenta ugualmente all'imputato di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione dell'evento di cui è chiamato a rispondere, indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata (Cass. IV, n. 27851/2004). Non viola, altresì, il principio de quo, la sentenza di condanna per il reato di omicidio colposo a seguito di infortunio sul lavoro che, a fronte di una contestazione di colpa generica, affermi la responsabilità a titolo di colpa specifica, riconducibile all'addebito di colpa generica (Cass. III, n. 19741/2010). È dubbio, invece, se costituisca violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza la condanna a titolo di cooperazione nel delitto colposo a fronte dell'imputazione monosoggettiva del reato colposo. Infatti, a fronte di pronunce in senso positivo (Cass. IV, n. 48318/2009), ve ne sono altre più recenti che escludono la violazione dell'art. 521 c.p., a condizione che l'imputazione, pur non richiamando l'art. 113 c.p. e non utilizzando il vocabolo cooperazione, attribuisca agli imputati una serie di condotte che, per come descritte, sono connotate dalla reciproca consapevolezza dell'azione del coimputato (Cass. IV, n. 33253/2019). Sempre in tema di reato colposo, è stato affermato che, una volta contestata una condotta colposa e ritenuta dal giudice di primo grado la sussistenza di un comportamento omissivo, non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza il giudice di appello che ritiene la sussistenza di condotte commissive ed omissive, purché non si sia verificata, in concreto, alcuna limitazione del diritto di difesa dell'imputato (Cass. IV, n. 27389/2018; Cass. IV, n. 7026/2002). Principio di correlazione e circostanze aggravantiRecentemente, la Suprema Corte, collocandosi su un solco già tracciato da ampia e costante giurisprudenza di legittimità, ha escluso che incorra in violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza il giudice che ritenga sussistente una circostanza aggravante formalmente non contestata nel capo di imputazione per assenza della specifica indicazione della norma che la prevede, ritenendo sufficiente la precisa enunciazione fattuale della stessa, in modo che l'imputato possa avere cognizione degli elementi di fatto che la integrano e predisporre al riguardo la propria linea difensa (Cass. VI, n. 10406/2018). Ad avviso della Corte, tale esito non determina la violazione dell'art. 521 c.p.p., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce degli artt. 111 comma 2 Cost. e 6 CEDU (quest'ultimo come interpretato dalla Corte europea), qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l'imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono. Ciò in quanto la Corte di Strasburgo ha più volte chiarito che la violazione dei parametri convenzionali si realizza soltanto nei casi in cui la nuova definizione giuridica del fatto addebitato assuma la caratteristiche di un atto a sorpresa per l'accusato. Si osserva, infatti, che un processo equo ai sensi dell'art. 6 par. 3 CEDU, come interpretato dai giudici di Strasburgo (cfr. Corte EDU 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia e 22 febbraio 2018, Drassich c. Italia), presuppone una contestazione che consenta all'imputato di conoscere non soltanto i fatti materiali che gli vengono attribuiti, ma anche la loro qualificazione giuridica, in quanto anche la dimensione giuridica della contestazione è necessaria per consentire all'interessato di approntare in modo adeguato la propria difesa. Tuttavia, «ciò non implica né l'immutabilità della originaria qualificazione, né, a maggior ragione, l'impossibilità di operare qualificazioni non esplicitate attraverso richiami normativi nell'accusa contestata, quante volte ciò sia prevedibile, anche alla luce della necessaria assistenza tecnica della quale dispone l'imputato, e si accompagni alla predisposizione di adeguate garanzie difensive». Dunque, ad avviso della decisione in esame, nella valutazione della prevedibilità della riqualificazione giuridica del fatto gioca un ruolo fondamentale l'assistenza tecnica del difensore, in quanto depositario di quelle conoscenze giuridiche necessarie a stimare la possibilità che il giudice ravvisi una circostanza aggravante nei fatti addebitati pur in assenza di una formale contestazione della stessa. Del resto, nel nostro ordinamento la peculiare rilevanza dell'assistenza difensiva è tale da non consentire all'imputato l'autodifesa esclusiva (l'imputato che non ha nominato un difensore di fiducia è obbligatoriamente assistito da un difensore designato d'ufficio: art. 97 comma 1 c.p.p.), neppure mediante proposizione del ricorso per cassazione (art. 613 c.p.p.), recentemente sottratto all'iniziativa personale del condannato proprio in ragione dell'elevato livello di qualificazione professionale richiesto dall'esercizio del diritto di difesa in cassazione, tanto più in sistema che ammette il patrocinio a spese dello Stato. Principio di correlazione nei diversi gradi di giudizioLa diversità del fatto accertato in giudizio rispetto al fatto contestato può essere riconosciuta e dichiarata per la prima volta anche nel giudizio di appello perché le disposizioni di cui agli artt. 521 e 522 sono richiamate, implicitamente, dall'art. 598, che impone l'osservanza delle disposizioni relative al giudizio di primo grado ed, esplicitamente, dall'art. 604, che postula la nullità della sentenza per violazione dell'art. 522 (Cass. VI, n. 40966/2015). Quindi, il giudice di appello, in ipotesi di omessa rilevazione da parte del giudice di primo grado della mancanza di correlazione tra sentenza e accusa contestata, deve pronunciare una sentenza, con la quale annulla quella del primo giudice (onde evitare che passi in giudicato), e un'ordinanza, con la quale trasmette gli atti al pubblico ministero: la predetta sentenza, di natura squisitamente processuale, non viola il divieto di reformatio in peius (Cass. V, n. 9431/1996). Se, per errore, il giudice di seconde cure dovesse disporre la trasmissione degli atti al giudice di primo grado anziché al pubblico ministero, tale ordinanza non sarebbe autonomamente impugnabile in virtù del principio di tassatività delle impugnazioni, ma incomberebbe sul giudice destinatario degli atti l'obbligo di trasmetterli al pubblico ministero (Cass. V, n. 37462/2001). Peraltro, la diversità del fatto accertato rispetto a quello contestato deve essere rilevata dal giudice d'appello, sia quando tale diversità non sia stata rilevata dal giudice di primo grado, sia quando essa risulta nel giudizio d'appello (Cass. IV, n. 18135/2010). Anche in quest'ultimo caso il giudice di appello, non potendo decidere in ordine al fatto diverso perché altrimenti sottrarrebbe all'imputato un grado di giudizio e ne violerebbe conseguentemente in maniera irreparabile il diritto di difesa, non può che annullare con sentenza quella di primo grado e, nel contempo, disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero competente perché si proceda ad un nuovo giudizio (Cass. VI, n. 14595/2010). Tale decisione del giudice di appello non dovrebbe essere ricorribile per cassazione da parte dell'imputato per difetto di interesse, trattandosi di statuizione che non determina alcun pregiudizio in quanto non ne compromette la facoltà di difendersi nel corso delle nuove indagini o del nuovo giudizio (Cass. I, n. 9665/2013). Tuttavia, è stato ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza con la quale il giudice d'appello abbia dichiarato la nullità di quella di primo grado e ordinato la trasmissione degli atti al pubblico ministero nel caso in cui l'imputato abbia un concreto interesse ad impugnare (Cass. VI, n. 40966/2015), come, ad esempio, nel caso in cui il giudice di primo grado aveva modificato l'originario addebito in termini di maggior favore per l'imputato (Cass. IV, n. 51751/2014; Cass. II, n. 31574/2023). Si osserva, infatti, che a fronte di una sentenza di primo grado dagli esiti più favorevoli, la dichiarazione di nullità della stessa ex art. 521 preclude il passaggio in giudicato di tale decisione; il ricorrente ha un interesse concreto ed attuale a vedere confermato tale esito decisorio con una pronuncia di merito del giudice d'appello; per effetto della statuizione della decisione impugnata, il processo, infatti, regredisce alla fase delle indagini, dove l'imputato potrà difendersi, il che tuttavia non elimina il pregiudizio derivante dal fatto che la prima decisione, favorevole allo stesso, è stata eliminata. Inoltre, quando la questione della diversità del fatto rispetto a quello enunciato nel capo di imputazione si pone nel giudizio di appello, e il giudice d'appello omette di dichiarare la nullità della decisione di primo grado, onde evitare il suo passaggio in giudicato, l'omissione di tale pronuncia comporta, in sede di legittimità, l'annullamento della sentenza impugnata, che deve essere disposto senza rinvio, ben potendo, la Corte di Cassazione, supplire alla predetta omissione annullando anche la sentenza di primo grado e ordinando la trasmissione degli atti al pubblico ministero procedente (Cass. IV, n. 18135/2010). Se, invece, l'omessa trasmissione degli atti al pubblico ministero, nel caso di diversità del fatto rispetto a quello contestato, non viene disposta dal giudice in primo grado, non può, in virtù di impugnazione della sola parte civile, disporla il giudice d'appello né la Corte di Cassazione, in quanto l'impugnazione della parte civile opera esclusivamente ai fini degli interessi civili, restando, in tal caso, preclusa l'emissione di qualsiasi provvedimento incidentale sull'azione penale (Cass. V, n. 18541/2011). Salvo il divieto di reformatio in peius, il principio generale di cui all'art. 521 — presidio del principio di obbligatorietà della legge penale — vale anche nel giudizio di legittimità. Tale facoltà di riqualificazione riguarda, oltre al fatto per come descritto nell'imputazione, anche il fatto per come accertato nella sentenza impugnata, in ipotesi diverso (Cass. IV, n. 11335/2008). Per quanto riguarda l'osservanza del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l'imputato è chiamato a rispondere, sancito dall'art. 6, comma 1 e 2, lett. a) e b), C.E.D.U. e dall'art. 111, comma 3, Cost., è assicurata anche quando il giudice d'appello provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l'imputato può comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, lett. b), trattandosi di questione di diritto la cui trattazione non incontra limiti nel giudizio di legittimità (Cass. II, n. 37413/2013; contra, ma isolata, Cass. V, n. 6487/2011, che ritiene nulla la sentenza d'appello con la quale sia stata attribuita al fatto contestato una diversa qualificazione giuridica senza che l'imputato abbia preventivamente avuto modo di interloquire sul punto). Deve essere annullata la sentenza di primo grado che dia al fatto una definizione giuridica più grave se essa superi la competenza per materia del primo giudice. In tal caso, ove il giudice di appello non abbia provveduto in tal senso, la pronuncia relativa può essere emessa dalla Corte di Cassazione (Cass. VI, n. 4080/1999). La decisione con la quale il giudice d'appello applichi la circostanza aggravante speciale della bancarotta (pluralità di fatti di cui all'art. 219, comma 2, n. 1, r.d. n. 267/1942 — l. fall.) in riforma della statuizione del giudice di primo grado che abbia, invece, applicato la disciplina della continuazione, non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, né quello del divieto di reformatio in peius, in quanto la predetta circostanza è, in realtà, una deroga in favor rei alla disciplina generale del concorso dei reati, del cumulo delle pene e della continuazione, i cui presupposti si discostano da quelli di cui all'art. 81 c.p., con la conseguenza che l'imputato può ben conoscere, sin dall'inizio, il significato dell'accusa ed esercitare il relativo diritto di difesa (Cass. V, n. 31168/2009). Così come non viola il divieto della reformatio in peius il giudice d'appello che, su impugnazione del solo imputato, proceda, fermo restando il fatto, alla derubricazione del reato ritenuto in primo grado e ad un giudizio di bilanciamento delle circostanze deteriore rispetto a quello formulato dal primo giudice (Cass. V, n. 40049/2009, nella quale il giudice d'appello ha qualificato il fatto come omicidio preterintenzionale in luogo di quello volontario e, riconoscendo le attenuanti equivalenti anziché prevalenti, ha ridotto nel complesso la pena inflitta; si veda anche Cass. I, n. 41279/2012, nella quale il giudice di appello, riqualificando l'imputazione di concorso in tentato omicidio in rissa aggravata, aveva riconosciuto le circostanze attenuanti generiche subvalenti, anziché equivalenti come ritenuto dal giudice di primo grado, riducendo, però, nel complesso la pena precedentemente inflitta). Principio di correlazione e procedimento di prevezioneAnche nel procedimento di prevenzione deve essere rispettato il principio di correlazione tra contestazione e decisione. Tuttavia, non si configura una violazione di tale principio qualora il provvedimento applicativo della misura ritenga sussistente una categoria di pericolosità sociale diversa da quella indicata nella proposta, purché la nuova definizione giuridica sia fondata sui medesimi elementi di fatto posti a fondamento della proposta, in relazione ai quali sia stato assicurato alla difesa un contraddittorio effettivo e congruo (Cass. I, n. 8038/2019, che ha escluso l'applicabilità nel procedimento di prevenzione dei principi affermati dalla Corte Edu nella sentenza Drassich c. Italia del 11 dicembre 2007 e, dunque, la necessità che la difesa sia chiamata ad interloquire sulla diversa qualificazione della categoria di pericolosità sociale). Restituzione degli atti al pubblico ministeroIl giudice deve disporre con ordinanza la restituzione degli atti al pubblico ministero se nel giudizio emerge un fatto diverso da quello contestato ed il pubblico ministero non provvede alla modifica dell'imputazione (Cass. I, n. 48142/2008). La trasmissione degli atti al pubblico ministero deve aver luogo anche nel caso in cui, in presenza del fatto diverso, l'organo dell'accusa si sia comunque attivato modificando, tuttavia in modo erroneo, la contestazione, sicché il giudice ravvisi la necessità, di un suo intervento eventualmente correttivo (Cass. VI, n. 3697/1994). Gli atti non possono essere restituiti al pubblico ministero in caso di omessa contestazione di una circostanza aggravante, atteso che le circostanze sono elementi esterni al fatto che non ne determinano la diversità (Cass. I, n. 25882/2015). Il potere restitutorio deve essere esercitato a dibattimento concluso perché altrimenti interferirebbe con la funzione di accusa (Rafaraci, 345): «è nullo, ma non abnorme, e quindi non ricorribile direttamente per cassazione, l'ordine di trasmissione degli atti al pubblico ministero per la diversità del fatto contestato da quello accertato nel corso del giudizio, se adottato prima della conclusione dell'istruttoria dibattimentale senza consentire alle parti di interloquire sul punto» (Cass. VI, n. 12509/2010). La restituzione degli atti ha la duplice funzione di definire il processo e di aprire la porta ad una nuova iniziativa del pubblico ministero su ipotesi ricostruttive del fatto non formalizzate nell'accusa. Quindi, ricevuti gli atti, il pubblico ministero deve procedere ad una nuova iscrizione ex art. 335 con conseguente riapertura delle indagini (e decorrenza del relativo termine), all'esito delle quali l'organo di accusa potrà scegliere se esercitare o meno l'azione penale. Infatti, poiché la restituzione comporta la regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, il pubblico ministero può anche chiedere l'archiviazione per tale fatto (Cass. III, n. 45708/2011). Ad avviso della dottrina, l'ordinanza pronunciata ai sensi dell'art. 521, comma 2, pur mostrandosi idonea a concludere il processo in corso, integra un provvedimento «meramente processuale», che non ostacola, «a condizioni nuove», l'esercizio dell'azione penale per il medesimo fatto, anche se diversamente configurato (Rafaraci, 310). Occorre chiarire che il meccanismo restitutorio implica la permanenza della rilevanza penale del (diverso) fatto, nel senso che è abnorme, in quanto determina un'indebita regressione del procedimento, il provvedimento con cui il giudice, all'esito dell'istruttoria dibattimentale, disponga la trasmissione degli atti al pubblico ministero per diversità, qualora lo stesso non sia astrattamente qualificabile come reato, essendo in tal caso tenuto a pronunciare sentenza di assoluzione, così da consentire all'organo della pubblica accusa la proposizione dell'impugnazione (Cass. II, n. 34529 /2019). Tuttavia, il pubblico ministero cui siano rimessi gli atti del procedimento a norma dell'art. 521, comma 2, pur essendo libero nelle sue determinazioni circa l'esercizio dell'azione penale, una volta che ritenga di investire nuovamente il giudice deve strettamente attenersi alla configurazione del fatto definita dall'organo giudicante, valendo l'ordinanza emessa a norma di detto articolo a costituire una preclusione processuale alla riproduzione della originaria imputazione. Ne consegue che non è abnorme il provvedimento con cui il tribunale, in composizione monocratica, constatata nuovamente la diversità del fatto, dichiari la nullità del decreto di citazione a giudizio, disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero (Cass. VI, n. 39701/2009). Si ritiene che l'ordinanza con la quale il giudice del dibattimento dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero per diversità del fatto non sia impugnabile, neppure per abnormità, in quanto trattasi di provvedimento che non incide sul merito della regiudicanda, sulla competenza del giudice o sulla libertà del giudicabile, ma si risolve in una decisione meramente processuale che non compromette in alcun modo la possibilità di difendersi nell'instaurando procedimento per la diversa ipotesi di reato (Cass. V, n. 22550/2016; Cass. VII, n. 50723/2013). L'insindacabilità, però, non riguarda l'osservanza dei presupposti e delle condizioni cui l'art. 521 ma subordina il potere di trasmissione degli atti, in quanto l'esercizio del potere di cui alla predetta norma in situazioni ivi non contemplate (quali potrebbero essere, ad esempio, l'opportunità di ulteriori accertamenti ovvero l'eventuale incriminazione di altre persone) rende abnorme il provvedimento restitutorio (Cass. III, n. 2025/1995). È stato quindi ritenuto abnorme il provvedimento di trasmissione degli atti al pubblico ministero disposto sul rilievo di una diversa modalità di partecipazione dell'imputato al fatto ascrittogli, poiché in tal caso lo schema tipico previsto dell'art. 521 viene sovvertito, determinandosi una non consentita regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari per il separato esercizio dell'azione penale (Cass. II, n. 18941/2001). È, altresì, abnorme il provvedimento con cui il giudice, rilevata l'omessa contestazione della recidiva nell'imputazione oggetto del giudizio, restituisca gli atti al pubblico ministero perché provveda in conformità, trattandosi di un potere non previsto dalla legge in assenza di una diversità del fatto, e il cui esercizio dà luogo ad un'indebita regressione (Cass. I, n. 30498/2011). La giurisprudenza ha ritenuto, invece, erroneo, ma non abnorme, e pertanto sottratto, in assenza di specifico mezzo di gravame, ad ogni possibilità di impugnazione, il provvedimento con il quale il giudice del dibattimento disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell'art. 521, comma 2, per la ritenuta, inesatta indicazione della norma incriminatrice (Cass. I, n. 5789/1995). Quando accerta la diversità del fatto, il giudice deve restituire al magistrato inquirente solo gli atti relativi all'imputazione viziata. È quindi abnorme, comportando una regressione fuori dai casi consentiti, il provvedimento con cui il giudice, nell'ordinare legittimamente la trasmissione degli atti al pubblico ministero in riferimento a una delle imputazioni per la rilevata diversità del fatto contestato da quello accertato nel dibattimento, determini la regressione del procedimento anche con riguardo alle altre imputazioni non viziate allo stesso modo (Cass. VI, n. 12509/2010). Qualora il giudice, pur ritenendo il fatto diverso e disponendo con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero, emette tuttavia anche sentenza di assoluzione in ordine all'imputazione contestata, pone in essere un provvedimento abnorme sotto vari profili, per sua interna contraddizione: decide, invero, su un fatto del quale si è spogliato; emette un provvedimento (l'ordinanza) finalizzato all'inizio dell'azione penale ed un altro contestuale provvedimento (la sentenza) che conclude tale azione in senso assolutorio; crea, in definitiva, i presupposti per la preclusione del giudicato (Cass. II, n. 4980/1997). Il principio di correlazione non si limita ad interdire le sole pronunce di condanna, ma vale anche nei confronti delle sentenze di proscioglimento, essendo finalizzato alla tutela del contraddittorio e, quindi, tanto degli interessi dell'accusa quanto di quelli della difesa (Cass. I, n. 27212/2010; Rafaraci, 357). Per quanto attiene alla competenza, l'art. 521, comma 3, secondo cui il giudice dispone con ordinanza la trasmissione degli atti all'ufficio requirente ove il pubblico ministero abbia effettuato una nuova contestazione fuori dei casi previsti dagli artt. 516, 517 e 518, comma 2, se deve essere necessariamente coordinato con l'art. 23 (incompetenza dichiarata nel dibattimento di primo grado), non può in alcun modo essere interpretato nel senso che sia sufficiente la contestazione in udienza, da parte del pubblico ministero, di un qualsiasi reato di competenza superiore (ancorché emerso nel corso dell'istruttoria dibattimentale) per sottrarre in ogni caso al giudice la cognizione del fatto in ordine al quale sia stata ritualmente esercitata l'azione penale e che costituisce la materia del processo. Ciò significa che la restituzione al pubblico ministero degli atti concernenti l'intero oggetto del giudizio può essere possibile, previa declaratoria di incompetenza per materia, solo ove venga effettuata nel dibattimento la contestazione di un reato, di competenza superiore, che secondo l'apprezzamento del giudice ricomprende e sostituisce quello oggetto della originaria imputazione; qualora, viceversa, venga contestato — al di fuori dei casi di cui agli artt. 516, 517 e 518, comma 2 — un fatto “nuovo” rispetto a quello originariamente ipotizzato (e cioè un accadimento da questo del tutto difforme ed autonomo per le modalità essenziali dell'azione o per l'evento) che alla prima imputazione semplicemente si aggiunge, senza sostituirla o inglobarla, la restituzione degli atti al pubblico ministero non può che riguardare il fatto o i fatti irritualmente contestati e non abbisogna di alcuna previa declaratoria di incompetenza, essendo l'ordinanza che la dispone lo strumento apprestato dalla legge per rendere effettivo l'obbligo del pubblico ministero, sancito nell'art. 518, comma 1, di « procede(re) nelle forme ordinarie se nel corso del dibattimento risulta a carico dell'imputato un fatto nuovo non enunciato nel decreto che dispone il giudizio e per il quale si debba procedere di ufficio » (Cass. II, n. 3043/1999, che ha ritenuto abnorme in parte qua l'ordinanza con la quale, dopo che il pubblico ministero aveva contestato in udienza fatti del tutto autonomi rispetto a quello per cui si procedeva, il giudice aveva ordinato la trasmissione all'ufficio di procura di tutti gli atti del processo, così determinando in relazione al reato per il quale era stata validamente esercitata l'azione penale un'inammissibile regressione alla fase delle indagini preliminari). Non è abnorme l'ordinanza con la quale il tribunale in composizione monocratica dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero, sul presupposto che a carico dell'imputato sia configurabile altro reato erroneamente ritenuto di competenza del tribunale collegiale, allorquando si tratti comunque di delitto per il quale deve aver luogo l'udienza preliminare e questa non si è tenuta (Cass. V, n. 30011/2003). Il potere-dovere del giudice di disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero, allorché accerti che il fatto è diverso da quello descritto nell'atto di imputazione, è espressione di un principio generale dell'ordinamento, e, pertanto, può essere esercitato anche dal giudice nel corso del rito abbreviato, in quanto la scelta dell'imputato di essere giudicato allo stato degli atti non comporta una cristallizzazione del fatto reato nei limiti dell'imputazione (Cass. II, n. 859/2012). Riqualificazione giuridica del fattoPoiché il compito di jus dicere rientra tra le funzioni da sempre attribuite in via esclusiva all'organo giurisdizionale, al giudice è conferito il compito di qualificare giuridicamente il fatto ricostruito durante il dibattimento, anche applicando una norma di diritto sostanziale diversa rispetto a quella indicata nell'imputazione e mai prospettata all'imputato quale tema di giudizio, purché la sopravvenuta configurazione del titolo di reato non imponga una declaratoria d'incompetenza per materia o di difetto di giurisdizione o di attribuzione “per eccesso”. Nella sentenza il giudice, pertanto, può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione alle sole condizioni che il reato non ecceda la sua competenza e che non risulti attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica. La mancata previsione di un termine per eccepire o rilevare il vizio di attribuzione e l'omissione dell'udienza preliminare si giustifica con l'impossibilità per le parti di interloquire sul tema, trattandosi di una modificazione che avviene in fase di decisione e non nel corso del dibattimento come invece avviene nelle situazioni contemplate negli artt. 516 e 517. Il potere di riqualificazione opera nell'arco dell'intero procedimento, a partire dalla fase delle indagini preliminari, ove il giudice, nell'ordinanza cautelare, anche se emessa in sede di riesame o appello, può modificare la definizione giuridica del reato rispetto a quella adottata dal pubblico ministero, fermo restando che l'eventuale modifica non produce effetti oltre il procedimento incidentale (Cass. V, n. 7468/2013). Va detto che non sempre è agevole distinguere tra diversa qualificazione giuridica del fatto e modifica dell'avvenimento storico descritto nell'imputazione, giacché tra il «fatto» e la «norma» s'instaura una complessa interrelazione reciproca che può, a volte, impedire una netta distinzione tra l'enunciato storico e l'enunciato giuridico dell'imputazione e della sentenza (Rafaraci, 295). Conferma le difficoltà da ultimo indicate l'orientamento secondo cui la modifica degli elementi utilizzati per descrivere l'episodio storico dedotto quale thema decidendum, che non siano la condotta, l'evento, il nesso di causalità e l'elemento psicologico, dà luogo non ad un fatto diverso, bensì soltanto ad una sua differente definizione giuridica (Cass. I, n. 3456/1996). Riqualificazione e diritti della difesaLa Cedu ha statuito che la garanzia del contraddittorio deve essere assicurata all'imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice ex officio (Corte edu , 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia, che ha accertato la violazione dell'art. 6, comma 1 33, lett. a) e b), C.E.D.U. in un caso nel quale la Corte di cassazione aveva modificato di propria iniziativa il titolo del reato contestato al fine di escludere la causa estintiva della prescrizione). Alla luce di tale principio, occorre che l'imputato sia sempre informato della eventualità della modifica della qualificazione giuridica prima della decisione (Cass. I, n. 48848/2013, secondo la quale il giudice può dare al fatto contestato una diversa qualificazione giuridica a condizione che l'imputato abbia avuto la possibilità di interloquire sul punto e non si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato nei suoi elementi essenziali e tale da rappresentare un inaspettato sviluppo dell'originaria contestazione; Cass. IV, n. 9133/2017, che ha affermato il principio in esame anche con riferimento al giudizio di legittimità, ritenendolo rispettato nel caso in esame in quanto la diversa qualificazione giuridica dei fatti, operata dalla Corte di Cassazione, era stata rappresentata dal procuratore generale nel corso della sua requisitoria ed era stata oggetto di discussione, all'esito della quale le parti avevano rassegnato le loro rispettive conclusioni). La dottrina ha suggerito varie soluzioni per consentire il contraddittorio sull'ipotesi di riqualificazione giuridica del fatto, come l'uso del potere sollecitatorio di cui all'art. 506, comma 1 (Capone, 80) o la sospensione della deliberazione ex art. 525, comma 3 (De Matteis, 229). Tuttavia, la giurisprudenza interna ha ritenuto che la garanzia del contraddittorio sia assicurata quando l'imputato abbia comunque avuto modo di interloquire sul tema in una delle fasi del procedimento, ed, in particolare, anche nell'ipotesi in cui la diversa qualificazione giuridica abbia formato oggetto di discussione nel corso del procedimento incidentale de libertate (Cass. I, n. 9091/2010). In linea con tale indirizzo, si è ritenuto che il giudice di legittimità abbia il potere di procedere ex officio alla riqualificazione giuridica del fatto, senza la necessità di consentire all'imputato di interloquire sul punto, allorquando, nel ricorso presentato dallo stesso, tale eventualità sia stata espressamente presa in considerazione, ancorché per sostenere la diversità del fatto da quello contestato e la conseguente violazione dell'obbligo di trasmissione degli atti al pubblico ministero (Cass. II, n. 14674/2010). Su questo versante si colloca anche l'orientamento che ritiene sufficiente a garantire il diritto di difesa sul nomen iuris la semplice possibilità del contraddittorio postumo in sede di impugnazione della decisione modificativa (Cass. VI, n. 49820/2013, che ha escluso la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza dal momento che l'imputato era stato messo in condizione di interloquire pienamente sulla riqualificazione giuridica operata dal tribunale, dapprima con l'atto di appello e, in seguito, con il ricorso per cassazione; si veda anche Cass. IV, n. 18793/2019, relativa ad un caso nel quale il difensore aveva ritenuto di non interloquire rispetto alla richiesta di riqualificazione giuridica avanzata dalla Procura generale con l'atto d'impugnazione; nel caso di specie la Corte ha escluso che alla mancata interlocuzione dell'imputato sulla eventualità che il fatto contestatogli potesse essere diversamente definito conseguisse una nullità della sentenza, essendo riconducibile il mancato contraddittorio ad una libera scelta della difesa). Ad avviso della Suprema Corte il diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l'imputato è chiamato a rispondere è garantito anche quando il giudice di primo grado provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l'imputato può comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo impugnazione (Cass. III, n. 2341/2012; Cass. IV, n. 49175/2019). Ricapitolando, immutato il fatto contestato, il giudice può dare in sentenza una diversa qualificazione giuridica dello stesso: 1) senza alcuna preventiva informazione alle parti, sia in primo grado che in appello, potendo le difese in ordine alla diversa qualificazione giuridica essere pienamente dispiegate nei successivi gradi di giudizio, quindi, rispettivamente, dinanzi al giudice di appello o a quello di legittimità; 2) nel giudizio in cassazione, semprechè le parti siano state rese edotte della possibilità di diversa qualificazione giuridica o direttamente vertendo sulla stessa l'atto di impugnazione oppure attraverso un'informativa, anche orale, alle stesse, da parte del Procuratore generale in sede di requisitoria o anche da parte del Collegio prima della discussione (cfr.Cass. V, n. 27905/2021 Cass. IV, n. 18793/2019; Cass. IV, n. 22214/2019). Si è, infine, stabilito che può farsi ricorso alla procedura straordinaria di cui all'art. 625- bis per dare esecuzione ad una sentenza della Cedu che ha rilevato una violazione del diritto di difesa occorsa nel giudizio di legittimità e che abbia reso iniqua la sentenza della Corte di Cassazione, indicando nella riapertura del procedimento, su richiesta dell'interessato, la misura interna per porre rimedio alla violazione contestata (Cass. VI, n. 45807/2008, che ha revocato una sua precedente sentenza, limitatamente alla diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto, ostativa alla declaratoria d'estinzione per prescrizione, operata ex officio in sede di legittimità, senza aver consentito alla difesa il contraddittorio sulla diversa imputazione). Riqualificazione e udienza preliminareNon vi sono dubbi che rientri nei poteri del giudice dell'udienza preliminare la riqualificazione del fatto imputato, in quanto l'esatta attribuzione del nomen juris è connaturale all'esercizio della giurisdizione (Cass. III, n. 1803/2010). La giurisprudenza più risalente riteneva legittimo il provvedimento con cui il giudice dell'udienza preliminare, previa riqualificazione dei fatti oggetto dell'imputazione, ordina la restituzione degli atti al pubblico ministero perché proceda nelle forme della citazione diretta a giudizio (Cass. VI, n. 41037/2009). Più recentemente, tale provvedimento è stato, invece, ritenuto abnorme, in quanto determina una indebita regressione del processo e preclude al pubblico ministero di insistere sulla originaria imputazione, in quanto il rifiuto del giudice di celebrare l'udienza impedisce anche il successivo ricorso a contestazioni suppletive, come disciplinate dall'art. 521-bis (Cass. V, n. 10531/2018; Cass. I, n. 10666/2015). Se a seguito della riqualificazione giuridica in dibattimento il fatto rientra nel novero dei reati per i quali è prevista l'udienza preliminare, il tribunale, qualora questa non si è tenuta, deve disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero (Cass. I, n. 47111/2009). Allo stesso modo deve procedere la Corte di Cassazione in seguito all'accoglimento del ricorso immediato del pubblico ministero (Cass. I, n. 43230/2009). Riqualificazione e giudizio abbreviatoIl potere del giudice di dare in sentenza al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione, previsto dall'art. 521, comma 1, è esercitabile anche con la sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato, non rilevando che in tale rito non sia applicabile, per l'esclusione fattane dall'art. 441, l'art. 423, in quanto tale ultima norma prevede soltanto la facoltà del pubblico ministero di modificare l'imputazione procedendo alla relativa contestazione, non avendo nulla a che vedere con l'autonomo ed esclusivo potere-dovere del giudice di dare al fatto una diversa definizione giuridica, contemplato dall'art. 521, comma 1, applicabile, benché non specificamente richiamato, in sede di giudizio abbreviato (Cass. VI, n. 9213/1996). Ne consegue che è abnorme — e, costituendo un passaggio logico essenziale per la decisione del ricorso, è rilevabile d'ufficio dalla Corte di Cassazione — la decisione della Corte d‘Appello di annullamento della sentenza di primo grado, emessa con rito abbreviato, per la ritenuta necessità di una modifica del fatto, che non è ammissibile in quanto l'art. 423 non è applicabile nel giudizio abbreviato, come espressamente prevede l'art. 441, e che configura quindi un potere del tutto estraneo alla competenza del giudice d'appello nel rito abbreviato (Cass. V, n. 7416/1998). Riqualificazione e oblazioneRisolvendo un contrasto giurisprudenziale, la Suprema Corte, a Sezioni Unite, ha chiarito che il giudice, quando, nel pronunciare sentenza di condanna, riqualifica il fatto contestato in un reato che, a differenza di quello contestato originariamente, consente l'oblazione ai sensi degli artt. 162 e 162-bis c.p., non deve determinare la pena e fissare la somma da versare nel termine di dieci giorni ai sensi dell'art. 141, comma 4, disp. att. Piuttosto, l'imputato, qualora ritenga che il fatto possa essere diversamente qualificato in un reato che ammetta l'oblazione, ha l'onere di sollecitare il giudice alla riqualificazione del fatto e, contestualmente, di formulare istanza di oblazione, con la conseguenza che, in mancanza di tale espressa richiesta, il diritto a fruire dell'oblazione stessa resta precluso ove il giudice provveda di ufficio ex art. 521, con la sentenza che definisce il giudizio, ad assegnare al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l'applicazione del beneficio (Cass. S.U., n. 32351/2014). Riqualificazione e patteggiamentoL'accordo delle parti per l'applicazione della pena non espropria il giudice del suo potere di dare al fatto la definizione giuridica che ritiene più corretta. Quindi, al giudice investito del patteggiamento intercorso tra le parti è demandato di procedere ex officio alla verifica, in termini non meramente formali, della correttezza della qualificazione giuridica del fatto. All'esito di tale verifica, quando ritenga di dover pervenire ad una diversa qualificazione giuridica del fatto, non potendo modificare d'ufficio l'imputazione, deve respingere la richiesta e procedere con rito ordinario (Cass. V, n. 40797/2013). Riqualificazione e procedimento per decretoLa previsione di cui all'art. 459 — per la quale, in caso di mancato accoglimento della richiesta di decreto penale, il giudice, salvo che non debba pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129, restituisce gli atti al pubblico ministero — comporta che, qualora il mancato accoglimento dipenda da una diversa qualificazione giuridica del fatto, il giudice deve limitarsi a disporre la restituzione degli atti, senza poter pronunciare sentenza di proscioglimento in ordine al diverso reato ritenuto rispetto a quello originariamente contestato, giacché altrimenti tale sentenza, se non impugnata, darebbe luogo all'effetto preclusivo di cui all'art. 649 (Cass. V, n. 2982/2011). Riqualificazione e messa alla provaIl giudice, riqualificando l'originaria contestazione ai sensi dell'art. 521 in una fattispecie rientrante nei limiti edittali di cui all'art. 168-bis c.p., può sospendere il giudizio con messa alla prova dell'imputato solo se questi abbia sollecitato la riqualificazione del fatto e contestualmente richiesto il beneficio che, pertanto, non può essere concesso d'ufficio (Cass. III, n. 8982/2019). In ogni caso, il riconoscimento della diversa qualificazione giuridica del fatto da parte del giudice del dibattimento non legittima l'imputato a proporre tardivamente la richiesta di messa alla prova, in quanto l'inesatta contestazione del reato non preclude l'accesso al rito speciale che può essere avanzata nel termine di cui all'art. 464, comma 2, deducendo l'erronea qualificazione giuridica del fatto (Cass. V, n. 31665/2021). Riqualificazione e competenza del Giudice di PaceL'art. 48 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 stabilisce che «in ogni stato e grado del processo, se il giudice ritiene che il reato appartiene alla competenza del giudice di pace, lo dichiara con sentenza e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero». Ci si è chiesti se la predetta norma sia applicabile esclusivamente nel caso in cui la competenza del giudice di pace emergeva fin dall'inizio (in sostanza, quando il pubblico ministero erroneamente individua come competente il giudice togato); oppure se, al contrario, l'incompetenza per eccesso debba essere dichiarata anche al sopraggiungere di evenienze processuali quali la riqualificazione giuridica del fatto (art. 521 c.p.p.). Le Sezioni Unite, con decisione del 27 settembre 2018, risolvendo il contrasto giurisprudenziale insorto sul tema, hanno statuito che il giudice, a seguito della riqualificazione del fatto originariamente contestato in un reato di competenza del giudice di pace, deve dichiarare la propria incompetenza per materia e disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell'art. 48 d.lgs. n. 274/2000, salva l'ipotesi in cui il giudice riqualifichi il fatto nel corso del processo a seguito di acquisizioni sopravvenute. Il principio della perpetuatio competentiae opera anche quando la competenza per materia del giudice superiore sia stata correttamente individuata, sulla base dell'imputazione, al momento dell'esercizio dell'azione penale e la riqualificazione derivi da una diversa valutazione di un elemento costitutivo del reato (Cass. V, n. 13799/2020). Riqualificazione e parte civileQualora il giudice, con la sentenza di condanna, dia al fatto una diversa qualificazione giuridica, la parte civile ha interesse ad impugnare la pronuncia ai fini civili allorché dalla riqualificazione possa derivare una differente quantificazione del danno da risarcire (Cass. V, n. 25597/2019). L'interesse della parte civile ad impugnare ai fini civili sussiste anche con riferimento alla sentenza di proscioglimento per difetto di querela a seguito della riqualificazione giuridica del fatto, allorché dalla diversa ed originaria contestazione, relativa ad un reato procedibile d'ufficio, derivi per la parte civile la possibilità di ottenere sia l'accertamento nel giudizio penale, con efficacia di giudicato, della responsabilità per fatto illecito dell'imputato, sia una differente quantificazione del danno da risarcire, tenuto conto della diversa gravità del reato e dell'entità del pregiudizio sofferto dalla vittima (Cass. II, n. 29323 /2019). Controllo sulle contestazioni suppletiveGli interventi sull'imputazione ai sensi degli artt. 516, 517 e 518, comma 2, competono unicamente al pubblico ministero e sfuggono ad un sindacato preventivo del giudice. Tuttavia, il comma 3 dell'art. 521 introduce un controllo giurisdizionale postumo sulla correttezza degli aggiustamenti apportati al thema decidendum dall'organo dell'accusa. È, infatti, previsto che il giudice debba trasmettere gli atti all'ufficio del pubblico ministero se ritiene che in dibattimento l'imputazione sia stata modificata e contestata al di fuori dei casi previsti dagli artt. 516, 517 e 518, comma 2. Si ritiene in dottrina che la disposizione in esame non ricomprenda la violazione delle regole stabilite dagli artt. 519 e 520 (Rafaraci, 391). Per quanto riguarda il momento in cui deve svolgersi la verifica in esame, si ritiene che il giudice, in qualunque momento, possa ritenere che il pubblico ministero abbia esercitato in modo non corretto il suo potere di contestazione. Infatti, se la verifica dovesse collocarsi alla chiusura del dibattimento, si costringerebbe il giudice a proseguire l'istruzione dibattimentale anche in relazione ad ipotesi accusatorie inidonee a condurre ad una decisione sul merito, ma destinate alla regressione in fase di indagini (Fassone, 1011). Casistica
Persona offesa Non viola il principio di correlazione tra imputazione e sentenza la circostanza che sia stata esclusa l'identificazione della persona offesa con quella indicata nel capo di imputazione, ove restino immutati tutti gli altri elementi essenziali e circostanziali del fatto contestato (Cass. II, n. 37794/2019). Tempus et locus commissi delicti Altresì, non integra la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, l'ipotesi in cui nell'imputazione risulti una data del commesso reato diversa da quella effettiva. L'importante è che dagli atti emerga il giorno in cui il reato è stato consumato e che l'imputato si sia difeso in ordine alla nuova contestazione (Cass. IV, n. 18611/2003). Lo stesso ragionamento vale per il locus commissi delicti, la modifica del quale non costituisce fatto nuovo, rappresentando piuttosto una mera variazione dell'originaria contestazione (Cass. IV, n. 17039/2009). Tuttavia, la diversità fra la data del fatto indicata nella contestazione e quella ritenuta nella decisione di condanna può dar luogo a nullità ai sensi dell'art. 522, quando tale discrepanza abbia in concreto influenzato la strategia difensiva (Cass. V, n. 28853/2004) Concorso di persone Non sussiste violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza, allorché, addebitata a taluno una condotta concorsuale, ne venga, poi, affermata la responsabilità per attività individualmente svolta (Cass. V, n. 16548/2006). Quindi, non sussiste violazione dell'art. 521 se l'imputato, tratto a giudizio per rispondere di concorso in estorsione, sia stato, all'esito del medesimo giudizio, ritenuto colpevole di favoreggiamento personale (Cass. II, n. 48577/2011). Allo stesso modo, non si ha violazione del principio de quo quando, contestato a taluno un reato commesso uti singulus, se ne affermi la responsabilità in concorso con altri (Cass. VI, n. 21358/2011). Non si ha violazione del principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata, allorché, contestato a taluno il concorso in omicidio volontario come mandante, ne venga, poi, affermata la responsabilità anche per la partecipazione alla fase esecutiva (Cass. VI, n. 3880/2008). Non sussiste violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza, allorché, contestato all'imputato un reato a titolo di concorso personale, se ne affermi la responsabilità in sentenza ai sensi dell'art. 48 c.p. (Cass. Fer., n. 35729/2013; Cass. II, n. 3644/2016). Va esclusa la violazione del principio di correlazione nel caso in cui il giudice, pur rilevando l'insussistenza della cooperazione colposa, abbia ritenuto, tuttavia, sussistente l'ipotesi di concorso di cause indipendenti, poiché i termini dell'accusa — la condotta, il nesso di causalità e l'evento — sono rimasti immutati, e in relazione ad essi l'imputato ha avuto la possibilità di difendersi (Cass. IV, n. 27355/2005). Corruzione e concussione Non comporta violazione del principio di correlazione tra la sentenza e l'accusa contestata il ritenere la sussistenza del reato di corruzione invece della più grave ipotesi delittuosa della concussione contestata. E, invero, nel caso di concussione, l'ipotesi dell'esclusiva attività delittuosa del pubblico ufficiale comprende e assorbe, come un quid pluris, ogni altra ipotesi nella quale il vantaggio economico venga realizzato dal pubblico ufficiale attraverso la volontà non coartata, ma libera, del privato (Cass. VI, n. 34828/2009). La Suprema Corte ha, però, censurato, per violazione del principio di correlazione con l'accusa, la sentenza che ha riqualificato il fatto di concussione come reato di corruzione propria, ritenendolo avvinto dalla continuazione al reato di rifiuto di atti d'ufficio, denunciando che, a fronte di una contestazione ben definita, il giudice avesse formulato una serie di imputazioni alternative, ciascuna connotata da oggettiva incertezza nella ricostruzione del fatto storico, optando per quella più favorevole all'imputato, anziché concludere per una decisione di tipo assolutorio (Cass. VI, n. 3550/2012). Il principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza è violato nel caso in cui l'imputato, tratto a giudizio con l'accusa di corruzione passiva, sia condannato per il reato di concussione. Ciò perché i reati di concussione e di corruzione differiscono tra loro sia per l'elemento della condotta, in quanto nella concussione l'agente deve avere determinato nel soggetto passivo uno stato di paura o di timore atto ad eliderne o viziarne la volontà, mentre nella corruzione i due soggetti agiscono su un piano paritario nella conclusione del patto criminoso — per cui l'evento della datio o della promessa, pur esistendo in entrambi i reati, ha fonti diverse —, sia per la struttura soggettiva, essendo la corruzione, a differenza della concussione, un reato necessariamente plurisoggettivo, sicché differente è anche la posizione del solvens (Cass. III, n. 52378/2016). Tra la corruzione propria ed impropria v'è un rapporto di continenza con la conseguenza che la contestazione della prima lascia un ampio margine per la qualificazione giuridica del fatto, in sede di decisione, senza che con ciò venga compromesso il principio di correlazione, di cui all'art. 521 tra imputazione e sentenza (Cass. III, n. 1464/2016; Cass. VI, n. 6004/1996). Sussiste, invece, violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza qualora l'imputato, tratto a giudizio per rispondere del reato di corruzione per atto contrario ai doverio d'ufficio (art. 319 c.p.), in relazione a condotte di c.d. “vendita della funzione” poste in essere prima della l. 6 novembre 2012, n. 190, sia, invece, condannato, previa esclusione dell'illegittimità degli atti compiuti, per il reato di corruzione per l'esercizio della funzione (art. 318 c.p.), come novellato da detta legge, in quanto, in tal caso, si realizza una sostanziale immutazione del fatto con riferimento al grado di determinatezza dell'oggetto dell'accordo corruttivo che configura il reato di cui all'art. 318 solo se non è noto il finalismo del mercimonio, in quanto volto a garantire il compimento di atti non determinati né determinabili, mentre configura il reato di cui all'art. 319 laddove l'oggetto del patto sia la stessa funzione che viene interamente asservita agli interessi del privato ovvero il compimento di uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio (Cass. VI, n. 26025/2018). In tema di nuove contestazioni dibattimentali, non comporta alcuna nullità della sentenza il fatto che con la stessa sia stata statuita la condanna dell'imputato per il reato di concussione, contestato dal pubblico ministero in via alternativa, anziché sostitutiva, come pure sarebbe stato formalmente più corretto, all'originaria imputazione di corruzione, atteso che l'imputato è stato in grado di difendersi da tale nuova ipotesi accusatoria, per la quale è stata comunque esercitata l'azione penale (Cass. VI, n. 8635/1996). Esercizio arbitrario delle proprie ragioni Non viola il medesimo principio l'aver ritenuto responsabile del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni l'imputato cui era originariamente contestato il reato di rapina (Cass. VI, n. 35120/2003). Per contro, viola il principio di correlazione con l'accusa la sentenza di condanna per il reato di estorsione emessa in seguito alla riqualificazione dell'imputazione di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in quanto la contestazione per un reato meno grave non può contenere in sé quella del reato più grave (Cass I, n. 26609/2011); sussiste analogamente la predetta violazione qualora l'originaria imputazione di violazione di domicilio sia stata, in sede di decisione, mutata in quella di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (Cass. VI, n. 3430/2008). Non incorre nella violazione del principio della correlazione tra accusa e sentenza il giudice che ritenga l'imputato colpevole del delitto tentato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, così diversamente qualificando la originaria imputazione di minaccia, a seguito di precisazione dell'accusa avvenuta in dibattimento ad opera della persona offesa in presenza dell'imputato (Cass. VI, n. 31981/2003). Reati associativi In ipotesi di contestazione, in unico capo d'accusa, di imputazione di associazione per delinquere e di singoli episodi di fatti di reato, alla cui realizzazione il sodalizio criminoso sia ritenuto finalizzato, il giudice del merito, qualora ritenga non provato il reato associativo, ben può affermare la responsabilità per uno o più tra i reati fine, purché il «fatto» sia compiutamente descritto, nelle sue componenti oggettive e soggettive, anche se sia stata omessa la specifica indicazione della disposizione che prevede e punisce il reato fine (Cass. S.U., n. 17/2000). Non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la decisione con cui l'imputato, rinviato a giudizio per partecipazione ad associazione mafiosa, sia condannato per concorso esterno alla stessa associazione, trattandosi non di due diverse ipotesi delittuose, ma di distinte modalità della partecipazione criminosa, purché il fatto materiale per cui vi è stata condanna risulti sufficientemente descritto nell'imputazione (Cass. II, n. 29248/2018; Cass. VI, n. 49820/2013). Allo stesso modo, non integra violazione del principio di correlazione la sentenza che, a fronte della contestazione di aver fatto parte dell'associazione di tipo mafioso, la individui nel contributo fornito dall'imputato, in via continuativa e consapevole, alla vita del sodalizio, non avendo alcuna rilevanza la gerarchia interna al gruppo criminale, né la differenza tra soggetto formalmente «affiliato» e soggetto «vicino» al gruppo criminale, in quanto la partecipazione associativa si sostanzia unicamente nell'affectio societatis e nella stabile messa a disposizione della propria opera per i fini dell'organizzazione mafiosa (Cass. I, n. 32094/2004). Mentre è legittima, se non comporta alcun mutamento del fatto, la riqualificazione, nell’ambito di un reato associativo, della condotta di direzione in quella di mera partecipazione (Cass. II, n. 1061/2021), viola, invece, il principio di correlazione tra accusa e sentenza la decisione con cui l'imputato, rinviato a giudizio per partecipazione ad associazione mafiosa, viene condannato per il diverso reato previsto dal comma secondo dell'art. 416-bis, sul presupposto dello svolgimento di funzioni apicali (Cass. VI, n. 44667/2016). Non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la decisione con cui l'imputato, rinviato a giudizio per partecipazione ad associazione mafiosa, sia condannato per aver preso parte ad un diverso sodalizio, pur dotato di autonomia operativa, in rapporto di subordinazione con la stessa organizzazione criminale, non determinandosi una trasformazione radicale o sostituzione delle condizioni che integrano gli elementi costitutivi dell'addebito associativo (Cass. I, n. 15560/2022). Reati di falso Non sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza qualora l'imputato, rinviato a giudizio per rispondere del delitto di cui all'art. 468 c.p. (contraffazione di altri pubblici sigilli), sia successivamente condannato in primo ed in secondo grado per il delitto di cui all'art. 469 c.p. (contraffazione delle impronte di una pubblica autenticazione o certificazione), considerato che non vi è un reale pregiudizio dei diritti della difesa se un soggetto rinviato a giudizio per rispondere dell'alterazione dello strumento utilizzato per apporre un'impronta su di un documento viene poi condannato per avere alterato l'impronta (e non lo strumento) e cioè per l'ipotesi meno grave di cui all'art. 469 c.p. (Cass. V, n. 43436/2008). Viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la qualificazione del fatto come falso in atto pubblico fidefacente ex art. 476, comma 2, c.p. qualora l'ipotesi aggravata del reato di falso in atto pubblico non sia adeguatamente e correttamente esplicitata nella contestazione, considerato che, anche alla luce dei vincoli posti dalla giurisprudenza della Corte EDU (sent. Drassich c. Italia, 11 dicembre 2007), è diritto dell'imputato essere informato tempestivamente e dettagliatamente tanto dei fatti materiali posti a suo carico, quanto della qualificazione giuridica ad essi attribuiti (Cass. V, n. 30435/2018, ad avviso della quale, pur non essendo indispensabile, ai fini della corretta contestazione, l'indicazione specifica della norma relativa all'aggravante, è comunque necessario l'uso di formule linguistiche chiaramente evocative della peculiare efficacia fidefaciente dell'atto ritenuto falso). Sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso in cui l'imputato, al quale sia originariamente contestato il delitto di uso di testamento olografo falso venga condannato per il reato di falso in detto documento, in quanto il reato di uso di atto falso si pone in rapporto di alternatività con quello di falso in testamento olografo, escludendo che l'imputazione avente ad oggetto il primo reato comporti la contestazione in fatto del secondo (Cass. V, n. 12599/2016). Non si configura alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso in cui la contestazione sia riferita ad una condotta di soppressione del documento ed in sentenza il giudice ritenga la responsabilità dell'imputato per aver distrutto il documento stesso, atteso che i termini "distrugge", "sopprime", "occulta" designano, nella formula dell'art. 490 c.p., forme diverse di un'azione di sottrazione, che si consuma nel momento in cui il documento è tolto dalla disponibilità della pubblica amministrazione (Cass. V, n. 28052/2019). Omicidio
In tema di omicidio colposo, non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra l'imputazione e la sentenza, ove l'imputato, tratto a giudizio per avere disposto la rimozione di cartelli che segnalavano un cantiere stradale, era stato poi condannato per non avere consentito il ripristino della segnaletica predetta, da altri rimossa (Cass. III, n. 15655/2008). Anche la qualificazione del fatto da omicidio volontario, sorretto da dolo diretto o eventuale, a omicidio colposo, aggravato dalla previsione dell'evento, non viola il principio di correlazione, non alterando i tratti essenziali dell'addebito inteso quale episodio naturalistico e concreto, che viene soltanto rapportato alla fattispecie astratta, ritenuta giuridicamente più corretta (Cass. I, n. 21732/2017). Non sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza neppure quando il fatto viene riqualificato da tentato omicidio a lesioni personali aggravate, qualora la circostanza aggravante sia desumibile dalle indicazioni contenute nel capo di imputazione (Cass. VI. n. 4461/2016). Reati sessuali In tema di reati sessuali, si è ritenuto che non sussista violazione del principio di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza emessa nel caso in cui, a fronte della contestazione di partecipazione a violenza sessuale di gruppo per omesso impedimento dell'evento, sia ravvisata la responsabilità per partecipazione diretta alla violenza, ove resti inalterato il dato di fatto della presenza dell'imputato alla commissione dei fatti illeciti (Cass. III, n. 34900/2011), ovvero, quando, a fronte della contestazione di violenza sessuale, sia emessa una sentenza di condanna per il reato di atti sessuali con minorenne (Cass. III, n. 10109/2010), ed ancora, ove si sia condannati per il reato di violenza sessuale consumata, benché nella contestazione originaria si addebitasse la violenza tentata (Cass. III, n. 11659 /2015). È, invece, configurabile la violazione del principio di cui all'art. 521 qualora la condanna sia pronunciata, a fronte di un'imputazione di violenza sessuale commessa con costrizione fisica e induzione per abuso delle condizioni di inferiorità fisica e psichica, per violenza sessuale mediante abuso dell'autorità genitoriale, in quanto tale ultima condotta è incompatibile con un'azione sessuale violenta o indotta (Cass. III, n. 23873/2009), oppure quando la condanna sia pronunciata per per violenza sessuale per induzione a fronte della contestazione di violenza sessuale per costrizione, in quanto le diverse condotte attraverso le quali può estrinsecarsi il reato di cui all'art. 609-bis non sono equivalenti o sovrapponibili tra loro, ma configurano modalità distinte di realizzazione del fatto (Cass. III, n. 3951/2021). Non viola il principio di correlazione neppure la decisione assunta nei confronti di un genitore che, originariamente accusato del reato di violenza sessuale aggravata per aver costretto la prole minorenne ad avere rapporti sessuali con altri soggetti, sia stato invece condannato per il diverso reato di atti sessuali con minorenne, commesso, a titolo di concorso, attraverso il consenso e la facilitazione alla consumazione dei rapporti (Cass. III, n. 35851/2016). Sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza qualora l'imputato, tratto a giudizio per rispondere del reato di atti sessuali con minorenne, sia invece condannato per il reato di adescamento di minori in quanto, in tal caso, si realizza una sostanziale immutazione del fatto in ordine al quale l'imputato sia stato chiamato a difendersi, posto che l'art. 609-undecies contempla la condotta di adescamento, non presente nella fattispecie prevista dall'art. 609-quater (Cass. III, n. 56053/2017). Non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra l'imputazione e la sentenza in caso di condanna per il reato di detenzione di materiale pedopornografico a fronte della contestazione del reato di procacciamento del medesimo materiale (Cass. III, n. 36817/2011). Atti persecutori Non costituisce violazione dell'art. 521 la qualificazione di uno degli eventi previsti dall'art. 612-bis c.p. in termini di "profondo stato di paura" piuttosto che di "perdurante e grave stato d'ansia", trattandosi di una qualificazione che lascia inalterato il nucleo essenziale di uno degli eventi alternativi, idonei ad integrare la fattispecie incriminatrice, rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie (Cass. VI, n. 11931/2020). Truffa Eventuali difformità nella ricostruzione degli specifici artifici e raggiri utilizzati per indurre in errore la vittima, che siano emerse all'esito dell'istruttoria rispetto alla contestazione, non determinano immutazione del fatto tale da integrare una nullità ex art. 522, salvo che la condotta decettiva che sia emersa nel processo risulti talmente diversa e non comparabile a quella oggetto di contestazione da compromettere concretamente il diritto di difesa (Cass. II, n. 7812/2019). Non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza in caso di contestazione del reato di truffa e di successiva condanna per appropriazione indebita, non essendo intervenuta una modifica negli elementi essenziali del fatto tale da incidere sull'originaria fisionomia dell'ipotesi accusatoria e da menomare il diritto di difesa dell'imputato. Nel « fatto » della truffa sono, infatti, compresi sia l'estremo del conseguimento del possesso di una cosa da parte dell'agente, sia quello dell'appropriazione di essa (Cass. II, n. 46256/2013). Non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza neppure il ritenere la sussistenza del reato di truffa invece dell'ipotesi delittuosa, inizialmente contestata, di circonvenzione di persona incapace, in quanto l'esclusione dell'ulteriore originario addebito di aver abusato dello stato di infermità psichica della persona offesa non snatura il contenuto essenziale del fatto contestato, nè arreca pregiudizio alla difesa dell'imputato (Cass. III, n. 7705/2018). Il principio di correlazione tra accusa e sentenza è rispettato anche nel caso in cui il giudice, a fronte dell'originaria imputazione d'insolvenza fraudolenta, qualifichi come truffa la condotta dell'imputato che, in modo preordinato, non ha adempiuto l'obbligazione contratta, perchè in entrambi i reati la condotta tenuta dall'agente consiste in un comportamento fraudolento tale da ingenerare errore nella vittima (Cass. II, n. 15580/2019). Non sussiste violazione del principio di correlazione neppure quando il giudice abbia come truffa un fatto contestato nell'imputazione ai sensi dell'art. 642 c.p., non ricorrendo tra le due fattispecie una incompatibilità ma piuttosto un rapporto di specialità, in forza del quale la riqualificazione operata dal giudice non comporta alcuna immutazione del fatto storico ed è assolutamente prevedibile per l'imputato (Cass. II, n. 3483/2018). Riciclaggio In tema di riciclaggio, si ha violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza se un soggetto — originariamente chiamato a rispondere per tale reato — venga condannato come autore del reato presupposto. Il reato di riciclaggio si pone infatti in termini di incompatibilità con i reati presupposti, posto che, per rispondere del primo, occorre non avere commesso il reato presupposto, come reso evidente dalla clausola di riserva espressa dall'art. 648- bis c.p. La condanna per i reati presupposti non è uno sviluppo prevedibile del fatto originariamente contestato, ma corrisponde quindi a una sostanziale immutazione del fatto (Cass. II, n. 30027/2021). Bancarotta In tema di bancarotta fraudolenta, non si ha violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza se un soggetto — originariamente chiamato a rispondere quale amministratore di fatto — venga condannato come extraneus, qualora la distrazione ascritta resti immutata (Cass. V, n. 18770/2014), ovvero, sempre che rimanga immutata l'azione distrattiva ascrittagli, se un soggetto venga condannato per bancarotta fraudolenta nella qualità di socio amministratore di fatto, anziché quale amministratore unico di diritto (Cass. V, n. 36155/2019). Altrettanto conforme al principio di correlazione tra accusa e sentenza è la decisione con la quale l'imputato sia condannato per il reato di bancarotta fraudolenta per essere rimasto colpevolmente inerte di fronte alla condotta illecita dell'amministratore di fatto, in applicazione dell'art. 40, comma 2, c.p., anziché per la condotta assunta direttamente nella veste di amministratore formale, perché, rimanendo immutata l'azione distrattiva, nei suoi profili soggettivi e oggettivi, non si determina un'apprezzabile modifica del titolo di responsabilità (Cass. V, n. 19182/2022). Non risulta violato l'art. 521 c.p. neppure quando l'imputato venga condannato del reato di bancarotta fraudolenta per una delle condotte alternativamente previste dalla norma incriminatrice e diverse da quella indicata in imputazione, purché quest'ultima contenga la descrizione, anche sommaria, del comportamento addebitato (Cass. V, n. 37920/2010). Non sussiste violazione del principio di correlazione neppure nel caso in cui il fatto, contestato come reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, venga riqualificato come bancarotta preferenziale, in quanto l'atto dispositivo tipico di tale fattispecie criminosa costituisce una species del più ampio genus di sottrazioni di risorse del patrimonio della società, che caratterizza la bancarotta per distrazione (Cass. V, n. 27141/2018). Al contrario, nell'ipotesi di riqualificazione della meno grave fattispecie di bancarotta preferenziale nel più grave reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, la Suprema Corte ha affermato che sussiste la violazione del principio di correlazione, trattandosi di fatto significativamente e sostanzialmente diverso da quello contestato con l'originaria imputazione, con conseguente difetto della concreta possibilità di esercizio dei correlati poteri difensivi dell'imputato (Cass. V, n. 19365/2019). Non sussiste violazione dell'art. 521 allorché l'imputato venga condannato per il reato di bancarotta fraudolenta documentale per aver omesso la tenuta delle scritture contabili, piuttosto che per aver sottratto o distrutto le stesse come indicato nell'imputazione, poichè tali fattispecie si equivalgono (Cass. V, n. 42754/2017). Anche la condanna per bancarotta documentale semplice dell'imputato di bancarotta documentale fraudolenta non viola il principio di cui all'art. 521, non sussistendo tra il fatto originariamente contestato e quello ritenuto in sentenza un rapporto di radicale eterogeneità o incompatibilità né un vulnus al diritto di difesa, trattandosi di reato di minore gravità (Cass. VI, n. 33878/2017). Stupefacenti Non viola il principio di correlazione fra accusa e sentenza la condanna per offerta o messa in vendita di sostanze stupefacenti a fronte di una originaria contestazione di cessione, poiché si tratta di due condotte che coincidono quanto al nucleo essenziale dell'antigiuridicità, da individuarsi per entrambe proprio nell'offerta o messa in vendita della droga, e, quindi, non risultano impedite o menomate le possibilità di difesa dell'imputato (Cass. III, n. 31849/2014). Allo stesso modo, non sussiste violazione del principio di correlazione allorché, contestata all'imputato la condotta di cessione di sostanze stupefacenti, se ne affermi la responsabilità per il reato di illecita detenzione, in quanto la distribuzione ha per presupposto la detenzione delle sostanze stupefacenti, quale potere di disposizione delle stesse, e lo spaccio costituisce una modalità di esercizio di tale potere (Cass. III, n. 37233/2016). Non v'è correlazione tra accusa e sentenza ove il giudice, a fronte di un'imputazione di partecipazione ad un'associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di ogni genere, pronunci condanna per il reato continuato di spaccio di sostanze stupefacenti, senza che nell'imputazione siano indicati nelle loro componenti fattuali e soggettive, sia pure sommariamente, i singoli episodi di spaccio, o di detenzione a fini di spaccio specie se l'imputazione non contenga alcun riferimento alla commissione, ad opera dell'associazione, di alcuno dei reati fine (Cass. VI, n. 7893/2017; Cass. V, n. 14991/2012). La Suprema Corte ha ritenuto che non costituisce violazione del principio di cui all'art. 521 la condanna dell'imputato per il finanziamento di un'associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti in qualità di concorrente esterno, a fronte dell'accusa di esserne stato finanziatore ai sensi del comma primo dell'art. 74 d.P.R. n. 309/1990, restando inalterato il fatto naturalistico della condotta criminosa di finanziamento (Cass. IV, n. 10103/2007). Altri casi Non viola il principio di cui all'art. 521 la sentenza di condanna per la contravvenzione di accensioni ed esplosioni pericolose, prevista dall'art. 703 c.p., emessa a fronte di una imputazione in cui era stato contestato il reato di esercizio della caccia con mezzi vietati, di cui all'art. 13 l. n. 157/1992 (Cass. I, n. 35574 /2013). Non v'è correlazione tra accusa e sentenza ove il giudice, a fronte del contestato reato di sottrazione di cosa pignorata da parte del proprietario, pronunci condanna per quello di inosservanza degli obblighi del custode di cosa sottoposta a pignoramento (Cass. VI, n. 81/2008). È stata ravvisata violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza — con conseguente nullità della decisione — nell'ipotesi in cui l'imputato, chiamato a rispondere del reato di sottrazione o distruzione compiuta dal proprietario su beni sottoposti a pignoramento, sia stato condannato per la diversa ipotesi di sottrazione o distruzione di beni affidati in custodia, in quanto tale fattispecie è diversa, è punita con sanzione edittale più grave e prevede la qualità di custode in ordine alla quale l'imputato non è stato posto in grado di esperire la propria difesa (Cass. VI, n. 32967/2001). Non v'è correlazione tra accusa e sentenza ove l'imputato, citato a giudizio per avere ammesso al lavoro un minore di anni quindici, sia stato ritenuto responsabile, in assenza di modifica dell'imputazione, del reato di assunzione di adolescente di età superiore ai quindici anni, ma inferiore ai diciotto, che non aveva adempiuto all'obbligo scolastico (Cass. III, n. 35225/2007). Sussiste violazione del principio di correlazione tra la fattispecie contestata di cui all'art. 4, comma 4-ter, l. n. 401/1989 e quella di cui all'art. 4, comma 4-bis, della medesima legge ritenuta in sentenza, sul presupposto che, mentre la prima sanziona l'attività compiuta in violazione delle norme sulla sicurezza delle telecomunicazioni, la seconda punisce, invece, l'attività organizzata al fine di accettare o raccogliere o comunque favorire l'accettazione di scommesse in assenza della concessione, della autorizzazione o della licenza prescritta dall'art. 88, r.d. n. 733/1931, a tutela dell'ordine pubblico (Cass. III, n. 818/2005). Deve ritenersi rispettato il principio di cui all'art. 521 qualora in sentenza venga accertato che la violenza adoperata contro un pubblico ufficiale mentre lo stesso stava procedendo ad un atto di identificazione personale non è stata posta in essere nel momento iniziale della consegna dei documenti di identità, come contestato, ma nel corso della redazione del verbale delle operazioni svolte (Cass. VI, n. 34051/2003). In tema di maltrattamenti in famiglia, non comporta violazione del principio di correlazione tra la sentenza e l'accusa contestata, perché non incide sull'imputazione e non comporta alcun pregiudizio per la difesa, il ritenere la condotta criminosa commessa nei confronti di altro familiare (Cass. VI, n. 4931/2006). Non integra una violazione della correlazione fra imputazione e sentenza la condanna per peculato di un imputato accusato del delitto di abuso d'ufficio, commesso per procurare a sé un ingiusto vantaggio patrimoniale (Cass. VI, n. 36003/2004). Non integra violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza la condanna per lesioni colpose di un imputato accusato del reato di lesioni personali volontarie (Cass. IV, n. 41663/2005). Non è configurabile violazione del principio di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza, nell'ipotesi in cui, a fronte della contestazione per il reato di riciclaggio, vi sia stata condanna per quello di ricettazione (Cass. II, n. 11459/2015). Non sussiste violazione dell'art. 521 quando, a fronte dell'imputazione di detenzione di tabacchi lavorati esteri, vi sia stata condanna per il reato di detenzione per la vendita di tabacchi nazionali, essendo i due reati del tutto sovrapponibili non solo sotto il profilo dell'oggettività materiale, ma anche sotto quello dell'oggettività giuridica, rappresentata, per entrambi, dall'interesse finanziario dello Stato (Cass. III, n. 35152/2011). Qualora all'imputato venga originariamente contestato il reato di furto, ma sia stato ritenuto colpevole del delitto di ricettazione, non incorre alcuna violazione del principio sancito dall'art. 521, in quanto il contenuto essenziale di questa seconda imputazione deve ritenersi compreso nella più ampia previsione dell'originaria contestazione di furto (Cass. II, n. 857/2003). Nemmeno è configurabile violazione del principio sancito dall'art. 521 nell'ipotesi in cui l'imputato, tratto a giudizio per rispondere del reato di rapina, sia stato ritenuto responsabile, in ragione degli elementi di ricostruzione del fatto da lui stesso volontariamente forniti, del reato di favoreggiamento reale (Cass. VI, n. 33077/2003). In tema di bancarotta fraudolenta, non si ha violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza se un soggetto — originariamente chiamato a rispondere quale amministratore di fatto — venga condannato come extraneus, qualora la distrazione ascritta resti immutata (Cass. V, n. 18770/2014), ovvero allorché l'imputato venga condannato del reato di bancarotta fraudolenta per una delle condotte alternativamente previste dalla norma incriminatrice e diverse da quella indicata in imputazione, purché quest'ultima contenga la descrizione, anche sommaria, del comportamento addebitato (Cass. V, n. 37920/2010). Con riferimento al reato di diffamazione a mezzo della stampa, al fine di garantire la più ampia possibilità di difesa, non è necessario che nella contestazione sia riportato il contenuto dell'articolo di stampa ritenuto diffamatorio, quando la diffamazione risulti da tutto il contesto piuttosto che da singole specifiche espressioni, purché vi sia la precisa indicazione degli estremi per richiamarlo (Cass. V, n. 7500/2000). Non si configura violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nell'ipotesi in cui l'imputato sia condannato per il reato di cui all'art. 12-sexies l. n. 898/1970 in luogo di quello di cui all'art. 570 c.p. in contestazione, in quanto la condotta punita con il primo reato, pur in presenza di diversità strutturali, ha un campo di applicazione più ampio di quella sanzionata dall'art. 570 c.p., per la cui violazione occorre, oltre alla mancata corresponsione dell'assegno determinato dal tribunale, l'ulteriore requisito dell'aver fatto mancare al coniuge i mezzi di sussistenza (Cass. VI, n. 7824/2000). Si ha, altresì, violazione dell'art. 521 quando vi sia stata condanna in ordine al reato di vendita di prodotti alimentari adulterati (art. 5, comma 1, lett. a, l. n. 283/1962) a fronte della contestazione di tentativo di frode in commercio (Cass. III, n. 29613/2011). Si ha violazione del principio di correlazione qualora l'originaria contestazione della contravvenzione paesaggistica, prevista dall'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42/2004 (esecuzione, senza autorizzazione, di lavori eseguiti su beni paesaggistici), sia stata mutata nel delitto paesaggistico previsto dal comma 1-bis del medesimo articolo, che punisce l'esecuzione, senza autorizzazione, di lavori eseguiti su aree o beni dichiarati di notevole interesse pubblico (Cass. III, n. 43943/2013). Non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza in caso di contestazione del reato di truffa e di successiva condanna per appropriazione indebita, non essendo intervenuta una modifica negli elementi essenziali del fatto tale da incidere sull'originaria fisionomia dell'ipotesi accusatoria e da menomare il diritto di difesa dell'imputato. Nel «fatto» della truffa sono, infatti, compresi sia l'estremo del conseguimento del possesso di una cosa da parte dell'agente, sia quello dell'appropriazione di essa (Cass. II, n. 46256/2013). Non sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza qualora l'imputato, rinviato a giudizio per rispondere del delitto di cui all'art. 468 c.p. (contraffazione di altri pubblici sigilli), sia successivamente condannato in primo ed in secondo grado per il delitto di cui all'art. 469 c.p. (contraffazione delle impronte di una pubblica autenticazione o certificazione), considerato che non vi è un reale pregiudizio dei diritti della difesa se un soggetto rinviato a giudizio per rispondere dell'alterazione dello strumento utilizzato per apporre un'impronta su di un documento viene poi condannato per avere alterato l'impronta (e non lo strumento) e cioè per l'ipotesi meno grave di cui all'art. 469 c.p. (Cass. V, n. 43436/2008). È nulla la sentenza, qualora l'imputato sia stato tratto a giudizio per rispondere di costruzione senza concessione e sia stato condannato per un fatto nuovo e cioè per costruzione realizzata in violazione dei regolamenti edilizi e degli strumenti urbanistici (es. piano regolatore), sempre che detta inosservanza non risulti indicata nel capo di imputazione. Trattasi, infatti, di due condotte completamente diverse, la prima concernente il rispetto del provvedimento amministrativo e la sua sussistenza e la seconda, invece, la conformità dell'opera realizzata alla normativa edilizia locale (Cass. III, n. 10425/1992). Viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, la pronuncia di condanna per la contravvenzione di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale, di cui all'art. 684 c.p., a fronte di una imputazione per il delitto di rivelazione di segreti d'ufficio, previsto dall'art. 326 c.p., attesa l'eterogeneità delle condotte oggetto delle due distinte fattispecie incriminatrici (Cass. I, n. 10611/2015). Non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la qualificazione del fatto, prima inquadrato nella fattispecie di riciclaggio, come impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, se nella contestazione sono contenuti gli elementi concreti per apprestare un'utile difesa in riguardo al diverso reato poi ritenuto in sentenza. La Corte, sul presupposto che tra i reati indicati intercorre un rapporto di specialità, ha escluso la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza perché all'imputato era stato contestato come riciclaggio il fatto non solo di aver compiuto operazioni tese a mascherare la provenienza delittuosa di somme di denaro, ma anche di aver impiegato una certa somma di denaro di provenienza dai reati di contrabbando nell'acquisto di due imbarcazioni ecologiche (Cass. II, n. 29912/2007). BibliografiaV. sub Artt. 516, 518, 519. Capone, Iura novit curia. Studio sulla riqualificazione giuridica del fatto nel processo penale, Padova, 2010; De Matteis, Diversa qualificazione giuridica dell'accusa e diritto di difesa, in Balsamo-Kostoris, Giurisprudenza europea e processo penale italiano, Torino, 2008, 229; Di Nicola, Un principio cardine del processo penale: la correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, in Cass. pen. 1997, 2198. |