Codice di Procedura Penale art. 527 - Deliberazione collegiale.Deliberazione collegiale. 1. Il collegio, sotto la direzione del presidente, decide separatamente le questioni preliminari [491] non ancora risolte e ogni altra questione relativa al processo. Qualora l'esame del merito non risulti precluso dall'esito della votazione, sono poste in decisione le questioni di fatto e di diritto concernenti l'imputazione e, se occorre, quelle relative all'applicazione delle pene [17-38, 132-139 c.p.] e delle misure di sicurezza [199-240 c.p.] nonché quelle relative alla responsabilità civile [74-89]. 2. Tutti i giudici enunciano le ragioni della loro opinione e votano su ciascuna questione qualunque sia stato il voto espresso sulle altre. Il presidente raccoglie i voti cominciando dal giudice con minore anzianità di servizio e vota per ultimo. Nei giudizi davanti alla corte di assise votano per primi i giudici popolari, cominciando dal meno anziano per età. 3. Se nella votazione sull'entità della pena o della misura di sicurezza si manifestano più di due opinioni, i voti espressi per la pena o la misura di maggiore gravità si riuniscono a quelli per la pena o la misura gradatamente inferiore, fino a che venga a risultare la maggioranza. In ogni altro caso, qualora vi sia parità di voti, prevale la soluzione più favorevole all'imputato. InquadramentoL'art. 527 disciplina lo svolgimento della camera di consiglio, ed in particolare indica le regole da seguire per la deliberazione della sentenza nel caso di organo giudicante collegiale, stabilendo che la deliberazione si svolge sotto la direzione del presidente, e seguendo un ben preciso ordine logico-giuridico nella trattazione e decisione delle singole questioni: si inizia da quelle preliminari non ancora risolte e da quelle di natura processuale, per poi passare, in caso di vaglio positivo, all’esame del merito. Una volta risolte le questioni di fatto e di diritto afferenti alla imputazione, si passerà – ove sia ritenuta la responsabilità dell’imputato – alla trattazione e decisione delle questioni riguardanti la determinazione della pena, l’eventuale applicazione di misure di sicurezza, e la responsabilità civile. La norma si occupa di disciplinare minutamente anche le modalità attraverso le quali si forma la volontà dell’organo collegiale, precisando che tutti i giudici devono enunciare le ragioni della loro opinione ed esprimere il proprio voto su ciascuna questione, partendo dal meno anziano in servizio, per arrivare al presidente, il qualevota per ultimo, indipendentemente dalla sua anzianità nel ruolo. Il medesimo procedimento si segue in corte d'assise, dove i giudici popolari votano in ordine inverso di anzianità anagrafica e prima dei togati. L'ordine di trattazione delle questioniIn camera di consiglio le questioni vanno trattate secondo ordine logico, in modo da evitare decisioni inutili o contraddittorie, e di conseguenza vanno prima trattate le questioni preliminari, che non siano state risolte in sede predibattimentale o dibattimentale. Ove la decisione su tali questioni non consenta di definire il giudizio, si procede all'esame delle questioni processuali di ogni genere. Se la decisione su tali questioni non consente di definire il giudizio, il collegio procede all'esame del merito, occupandosi prima delle questioni di fatto e di diritto che attengono all'imputazione e, solo in séguito, se non deliberi il proscioglimento, discutendo della dosimetria della pena, delle misure di sicurezza e della responsabilità civile (Tonini, 712). Va tuttavia precisato che tale ordine non è affatto inderogabile, poiché può ben accadere che al fine di risolvere una questione processuale occorra affrontare una questione di merito, come, ad es., allorchè per valutare la fondatezza di un’eccezione di incompetenza per materia si debba preliminarmente decidere sulla corretta qualificazione giuridica del fatto (MARINI, sub art. 527 c.p.p., in Comm. Chiavario). La discussione e il votoTutti i giudici devono esprimere il proprio parere con riferimento a tutte le questioni via via trattate sotto la direzione del presidente, sicché non è ammesso che un giudice non esponga il proprio punto di vista: si tratta di una disposizione che tende ad evitare voti frutto di opinioni personali sottratte al confronto tra i componenti del collegio, e a favorire la dialettica tra di essi, cosicché sarà anche possibile – all’esito della camera di consiglio – che uno o più giudici cambino il proprio convincimento interiore, formatosi nel corso del dibattimento . Una volta che le opinioni siano state espresse, e se del caso dibattute, il presidente raccoglie i voti partendo dal componente più giovane in ruolo e votando per ultimo (indipendentemente dalla propria anzianità nel ruolo, perché la funzione di presidente del collegio prescinde dalle vicende dell'anzianità), mentre in corte d’assise raccoglie i voti partendo dal più giovane per età dei giudici popolari fino al più anziano di essi, per poi passare al più giovane in ruolo dei giudici professionali, ed arrivare infine a se stesso. Tale metodo, si è osservato in dottrina, è stato pensato per garantire l’indipendenza di giudizio di ciascun giudice, ed evitare che possa subire, nell’espressione del proprio voto, il metus auctoritatis (Nappi, in Sentenza penale, Enc. dir., XLI). La deliberazione è assunta a maggioranza, tant’è che l’organo collegiale è normalmente composto in numero dispari, proprio per evitare il pericolo di stalli decisionali (CHIAVARIO, in Diritto processuale penale), ma per quanto attiene alla dosimetria della pena ed alla misura di sicurezza, ed esclusivamente in relazione a tali aspetti, qualora si formino più di due opinioni, è previsto che il voto per la sanzione o misura più grave si aggiunge al voto per la sanzione o misura immediatamente meno grave, fino a che non si formi la maggioranza.. In ogni altro caso di parità di voti, prevale la soluzione più favorevole all’imputato: criterio, questo, di formazione della volontà collegiale ispirato al favor rei, e particolarmente importante nel caso di organo giudicante a composizione pari come la Corte d’Assise. L’art. 527 co. 3 riserva il criterio suddetto solo alla dosimetria della pena e alla misura di sicurezza, ma si ritiene che esso, proprio perché espressione del più generale principio del favor rei, possa essere esteso analogicamente anche al caso di pluralità di opinioni circa la decisione su questioni di fatto o di diritto (CORDERO, in Codice di procedura penale commentato). Laddove sia espresso un dissenso da parte di un componente del collegio, il quale chieda che esso sia verbalizzato, si procede ai sensi dell'art. 125, comma 5. Il segreto della camera di consiglioL’inosservanza delle disposizioni di cui all’art. 527 circa lo svolgimento della camera di consiglio non è assistita da alcuna sanzione processuale. È invece coperto da segreto, tutelato addirittura in sede penale, l’operato del collegio in camera di consiglio. La norma di riferimento, che riguarda sia l’attività del giudice monocratico che di quello collegiale, è l’art. 125 comma 4, a norma del quale: "Il giudice delibera in camera di consiglio senza la presenza dell'ausiliario delegato ad assisterlo e delle parti. La deliberazione è segreta". Il primo inciso assicura la riservatezza della deliberazione in concomitanza della assunzione della stessa attraverso la esclusione della presenza delle parti, dell’ausiliario e, quindi implicitamente di ogni persona estranea al collegio deliberante. Il secondo inciso, definendo la deliberazione come "segreta", comporta il divieto per i partecipanti alla deliberazione - una volta terminata la camera di consiglio - di rivelare gli interna corporis inerenti allo svolgimento della adunanza, le opinioni espresse e i voti dati dai componenti del collegio (Cass. I, n. 9236/2012). Si tratta di un segreto d’ufficio considerato da molti l’anacronistico retaggio del pensiero giuspositivista, che ancorava la difesa del principio della certezza del diritto all`apparente unanimismo della sentenza; sta di fatto che ancor oggi l’art. 685 c.p. punisce espressamente chiunque pubblichi i nomi dei giudici, con l’indicazione dei voti individuali che ad essi si attribuiscono nelle deliberazioni prese in un procedimento penale; l’art. 326 c.p. poi, in via più generale, incrimina la condotta del pubblico ufficiale (nella specie il componente del collegio giudicante) che riveli l’attività coperta dal segreto d’ufficio. Per la stessa ragione, il giudice penale che abbia concorso, in camera di consiglio, alla deliberazione collegiale, non può essere richiesto di deporre come testimone in merito al relativo procedimento di formazione (e, se richiesto, ha l'obbligo di astenersi), in relazione alle opinioni e ai voti espressi dai singoli componenti del collegio, salvo il sindacato del giudice che procede circa l'effettiva pertinenza della domanda formulata alle circostanze coperte da segreto. Pertanto la testimonianza eventualmente resa, poiché acquisita in violazione di un divieto stabilito dalla legge, è inutilizzabile (Cass. S.U., n. 22327/2003). Dovrebbe considerarsi invece affetta da nullità assoluta la sentenza che venisse pubblicata in senso diverso da quello risultante dalla maggioranza dei voti, ma in tale ipotesi si ravviserebbero estremi del delitto di falso ideologico del pubblico ufficiale in atto pubblico, perché il presidente, dando lettura del dispositivo, attesterebbe che la deliberazione avrebbe avuto un esito diverso da quello risultante dalla maggioranza dei voti espressi. Altrettanto afflitta da nullità assoluta, perché abnorme, sarebbe la sentenza pubblicata in difetto di deliberazione da parte di tutti i componenti del collegio. Infine, va precisato che nel giudizio innanzi alla Corte d’Assise, non costituisce violazione della segretezza della deliberazione la presenza in camera di consiglio, in caso di decisioni interlocutorie, dei giudici supplenti, poiché questi devono acquisire le specifiche conoscenze processuali per poter poi fornire, in caso siano chiamati a sostituire un giudice titolare impedito, il proprio contributo consapevole ed informato alla deliberazione. Infatti, è solo con la dichiarazione di chiusura del dibattimento - che fissa il momento del passaggio alla deliberazione - che è inibita la partecipazione dei giudici aggiunti alla camera di consiglio. CasisticaÈ abnorme la sentenza pubblicata mediante lettura del dispositivo dal presidente del collegio senza consultarne gli altri componenti: in tale caso, infatti, la sentenza, in astratto manifestazione di legittimo potere, é una pronuncia che si é esplicata, al di fuori dei casi consentiti dalla legge e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite, ed é caratterizzata da abnormità strutturale, tale da non consentire l'individuazione del luogo, del momento e delle modalità mediante le quali si é pervenuti alla deliberazione, oltre che dall'inosservanza dello schema legale tassativamente scandito dalle norme processuali (Cass. VI, n. 45459/2004). L'esame testimoniale dei componenti di un collegio giudicante, nel caso in cui l'imputazione attenga ad un fatto intimamente connesso con quanto si è detto e deciso nella camera di consiglio, si estende legittimamente ai giudizi formulati e ai voti espressi in quella sede, posto che l'obbligo di denuncia che grava sul pubblico ufficiale, in tal caso i componenti del collegio, fa venire meno il vincolo del segreto (Cass. V, n. 37095/2009, in fattispecie in cui l'imputazione per il delitto di falsità ideologica in atto pubblico atteneva alla redazione da parte del presidente estensore di un Tribunale del riesame di un'ordinanza con statuizione difforme da quella deliberata in camera di consiglio). BibliografiaTonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2013; Lozzi, Lezioni di procedura penale, Milano, 2013. |