Codice di Procedura Penale art. 533 - Condanna dell'imputato.Condanna dell'imputato. 1. Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli [521] al di là di ogni ragionevole dubbio. Con la sentenza il giudice applica la pena [17-38, 132-139 c.p.] e le eventuali misure di sicurezza [199-240 c.p.] 1. 2. Se la condanna riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene [72 s. c.p.] o sulla continuazione [81 2 c.p.]. Nei casi previsti dalla legge il giudice dichiara il condannato delinquente o contravventore abituale [102-104 c.p.] o professionale [105 c.p.] o per tendenza [108 c.p.]. 3. Quando il giudice ritiene di dover concedere la sospensione condizionale della pena [163 c.p.] o la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale [175 c.p.], provvede in tal senso con la sentenza di condanna 2. 3-bis. Quando la condanna riguarda procedimenti per i delitti di cui all'articolo 407, comma 2, lettera a), anche se connessi ad altri reati, il giudice può disporre, nel pronunciare la sentenza, la separazione dei procedimenti anche con riferimento allo stesso condannato quando taluno dei condannati si trovi in stato di custodia cautelare e, per la scadenza dei termini e la mancanza di altri titoli, sarebbe rimesso in libertà 3.
[1] Comma così sostituito dall'art. 5 l. 20 febbraio 2006, n. 46. [2] Per i reati di competenza del giudice di pace, v. l'art. 33 d.lg. 28 agosto 2000, n. 274. [3] Comma aggiunto, in sede di conversione, dall'art. 4 1 d.l. 24 novembre 2000, n. 341, conv., con modif., in l. 19 gennaio 2001, n. 4. InquadramentoLa norma è stata introdotta nella attuale formulazione dall’art. 5, l. 20 febbraio 2006 n. 46, e fissa la regola di giudizio dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio, regola mutuata dal sistema nordamericano e presente nell’art. 1096 del codice della California, che definisce ragionevole dubbio <<quella situazione che, dopo tutte le comparazioni e considerazioni delle prove, lascia le menti dei giudici nella condizione in cui non possono dire di provare una incrollabile convinzione nella verità dell’accusa>>. La consacrazione di tale principio a livello codicistico ha diviso la dottrina: da un lato coloro che l’hanno salutata come una scelta di civiltà (D'Alessandro), dall’altro, coloro che ne hanno ridimensionato l’importanza, parlando di verità ovvia e di regola di fatto già vigente nel nostro ordinamento, che nulla aggiunge da un punto di vista prescrittivo a quanto già ricavabile dall’art. 530 in tema di assoluzione per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova (Nobili). Pur non essendo espressamente prevista nella Costituzione, la regola di giudizio dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio è tuttavia agevolmente desumibile da una serie di articoli fondamentali in essa contenuti, ed in particolare l’art. 3 comma 1, che pone al centro dell’ordinamento la dignità umana; l’art. 2, in base al quale l’essere umano è portatore di diritti inviolabili; l’art. 25 comma 2, che cristallizza il principio di legalità, e soprattutto l’art. 27 comma 2, che consacra la presunzione di non colpevolezza. La colpevolezza e il ragionevole dubbioComunque la si voglia considerare, la regola probatoria e di giudizio dell'aldilà di ogni ragionevole dubbio si pone come un grosso limite al principio — anch'esso cardine del nostro sistema penale - del libero convincimento del giudice, il quale non può motivare la propria decisione sulla base di apprezzamenti discrezionali ed arbitrari, bensì sulla base di un ragionamento che risponda a parametri oggettivi controllabili e verificabili. Essa implica che, in caso di prospettazione di un'alternativa ricostruzione dei fatti, siano individuati gli elementi di conferma dell'ipotesi accusatoria e sia motivatamente esclusa la plausibilità della tesi difensiva (Cass. VI, n. 1093/2019). Nell'elaborazione giurisprudenziale la regola di giudizio in oggetto aveva iniziato a farsi strada ben prima della sua formale consacrazione nell'art. 533: già nel 2000, infatti, la S.C. aveva affermato che, nel reato omissivo improprio, la prova del nesso di causalità esigeva un valore percentuale vicino a cento, sicchè un margine di dubbio anche solo del dieci per cento avrebbe imposto l'assoluzione dell'imputato (cfr. le c.d. sentenze Battisti, dal nome dell'estensore); nel 2002 intervengono le S.U. , con la nota sentenza Franzese (Cass. S.U., n. 30328/2002), affermando che l'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, e dunque l'affacciarsi del ragionevole dubbio, impongono l'assoluzione del'imputato. Nella medesima decisione si introduce il concetto di probabilità logica, che si contrappone a quello di probabilità statistica, intesa come la misura della frequenza con cui un dato evento si verifica alla presenza di determinate condizioni: il canone epistemologico della probabilità logica si pone come correttivo e temperamento di quello della probabilità statistica, nel senso che — anche in presenza di un elevato grado di probabilità, vicino alla certezza, del verificarsi di un certo evento, desumibile da una legge scientifica - l'esistenza di fattori causali alternativi introduce il ragionevole dubbio che impedisce la condanna. Va però precisato che non ogni dubbio razionale, anche altamente improbabile, può valere ad influire sull'esito del giudizio, ma solo il dubbio ragionevole ovvero quello che trova conforto nella logica (Cass., III, n. 5602/2021), il che significa che va pronunciata condanna quando il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili "in rerum natura" ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Cass. V, n. 1282/2019). Nel riferirsi alla colpevolezza come fondamento obbligatorio della sentenza di condanna, il Legislatore, come emerge anche dall'ordine sistematico del compendio normativo di riferimento, ha intesto riferirsi al caso in cui ricorrano, contemporaneamente, le condizioni qui di seguito elencate, e precisamente: a) Il reato sia procedibile b) il fatto storico contestato sia accertato c) sia accertato il nesso di causalità d) sussista l'elemento psicologico del reato e) non vi siano cause di giustificazione, anche putative, né cause di non imputabilità o non punibilità f) il fatto costituisca illecito penale sia all'epoca dei fatti, sia la momento della condanna g) non sussistano cause di estinzione del reato L'esclusione del ragionevole dubbio deve concretarsi non già nella mera indicazione, nella motivazione e/o nel dispositivo, dell'assenza di esso, (indicazione la cui omissione non è peraltro sanzionata da alcuna nullità), ma deve consistere nella specifica motivazione circa le ragioni per cui i dubbi sollevati dalle parti o comunque emersi dall'istruttoria vadano obiettivamente esclusi, oppure non presentino il carattere della ragionevolezza, cioè dell'idoneità a prospettare, anche solo in punto di logica, una ricostruzione alternativa del fatto, purché sia effettivamente prospettata. In altri termini, l'omessa prospettazione da parte dell'imputato di una ricostruzione alternativa e plausibile dei fatti in addebito, pur non potendo essere valutata come prova a carico, ben può essere valorizzata dal giudice come argomento di supporto della assenza di ipotesi suscettibili di minare il giudizio di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, già espresso sulla base delle prove acquisite (Cass. VI, n. 50542/2019). La regola qui in esame riguarda tutte le componenti del giudizio e, pertanto, va applicata anche alle circostanze aggravanti (nella specie, quella della premeditazione), trattandosi di elementi fattuali considerati dal legislatore idonei a determinare un'amplificazione del trattamento sanzionatorio (Cass. III, n. 27450/2022; Cass. I, n. 27050/2017 ), nonché alla capacità di intendere e di volere dell'imputato, il cui onere probatorio non è attribuito all'imputato, quale prova di una eccezione, ma alla pubblica accusa (Cass. I, n. 9638/2017). Il ragionevole dubbio non può ritenersi superato per effetto della sussistenza di pregiudizi penali in capo all'imputato (Cass. III, n. 32328/2015), poiché la valutazione del giudice deve estendersi a tutti gli elementi sopra richiamati la cui ricorrenza, o carenza, è necessaria per ritenere l'imputato colpevole e di conseguenza pronunziare sentenza di condanna. Se dunque, ad esempio, sussista un ragionevole dubbio circa la sussistenza del dolo eventuale, piuttosto che della colpa cosciente, relativamente ad un fatto incriminato esclusivamente come delitto doloso, dovrà essere pronunziata sentenza di assoluzione, per carenza di prova, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell'imputato. La carenza di motivazione circa l'esclusione di ogni ragionevole dubbio, perché insussistente o irragionevole, non costituisce causa di nullità della sentenza, ma motivo di impugnazione della stessa. Il ragionevole dubbio nel giudizio d'appello Peculiare è il riflesso, nel giudizio di appello, dell'applicazione del principio del ragionevole dubbio, che ha risentito marcatamente del dibattito creatosi intorno all'art. 6 della CEDU in tema di diritto ad un equo processo. Si è infatti affermato che nel giudizio di appello, per la riforma della sentenza assolutoria, in assenza di elementi sopravvenuti, non basta una diversa valutazione del materiale probatorio acquisito in primo grado, che sia caratterizzata da pari plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio (Cass. I, n. 12273/2014); nel caso, poi, che alla base della condanna vi sia una prova dichiarativa, nella specie la testimonianza della persona offesa, ritenuta inattendibile in primo grado, il giudice dovrà assumere direttamente tale testimonianza, al fine di valutarne la credibilità sotto il profilo soggettivo ed oggettivo, pena la violazione dei principi del giusto processo di cui all'art. 6 della CEDU (Cass. III, n. 28530/2014). In argomento sono intervenute anche le Sezioni Unite, affermando che è affetta da vizio di motivazione ex art. 606, comma primo, lett. e), per mancato rispetto del canone di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio", la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell'art. 603, comma 3 sicchè, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell'art. 6, par. 3, lett. d), della CEDU, la Corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata (Cass. S.U., n. 27620/2016). Il principio è stato poi ribadito dalle Sezioni Unite anche in tema di giudizio abbreviato: è affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio", la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all'esito di un giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all'esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni (Cass. S.U., n. 18620/2017 ; sembra tuttavia discostarsi da tale impostazione la c.d. riforma Cartabia (d.lgs. n. 150/2022) , secondo cui l'obbligo di rinnovazione istruttoria, in casi di appello del P.M. contro la sentenza di proscioglimento, opera nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all'esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, co. 5, e 441, co. 5.). Nel quadro così delineato, si è inserito il novellato testo dell'art. 603, che al comma 3 bis, introdotto dall'art. 1, comma 58, l. 23 giugno 2017, n. 103, in vigore dal 3 agosto 2017, prevede che, "nel caso di appello del Pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale". Ha precisato la S.C. che i motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa sono non solo quelli concernenti l'attendibilità dei dichiaranti, ma, altresì, tutti quelli che implicano una diversa interpretazione delle risultanze delle prove dichiarative, posto che il loro contenuto – salvo non attenga ad un oggetto del tutto definito o ad un dato storico semplice e non opinabile - è frutto della percezione soggettiva del dichiarante, sicchè il giudice del merito è inevitabilmente chiamato a "depurare" il dichiarato dalle cause di interferenza provenienti dal dichiarante, in modo da pervenire ad una valutazione logica, razionale e completa, imposta dal canone dell'"oltre ogni ragionevole dubbio" (Cass. II, n. 13953/2020). Lo stesso vale anche in caso di sentenza d'appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado, sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva: il giudice è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio, poiché il disposto dell'art. 603, comma 3-bis, nel disciplinare il caso di riforma della decisione di primo grado su appello del pubblico ministero, non esclude l'obbligo di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale nel caso di ribaltamento di tale decisione ai soli effetti civili e su impugnazione della parte civile (Cass. V, n. 38082/2019). La regola vale altresì quando il giudice di appello riformi in peius la sentenza di primo grado per effetto di una riqualificazione del fatto in un reato più grave di quello ritenuto dal primo giudice: egli dovrà comunque procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, se la riforma si fonda su una diversa interpretazione delle prove dichiarative (Cass. II, n. 24478/2017). Invece, non sussiste l'obbligo di procedere alla rinnovazione della prova testimoniale decisiva (per la riforma della sentenza assolutoria in appello), quando l'attendibilità della deposizione è valutata in maniera del tutto identica dal giudice di appello, il quale si limita a procedere ad un diverso apprezzamento del complessivo compendio probatorio, ovvero ad una diversa interpretazione della fattispecie incriminatrice (Cass. V, n. 33272/2017), ovvero quando emerga che la lettura della prova dichiarativa compiuta dal primo giudice sia stata travisata per omissione, invenzione o falsificazione (Cass. VI, n. 16501/2018). Parimenti, il principio di necessaria riassunzione in appello della prova dichiarativa, la cui diversa e positiva valutazione di attendibilità abbia determinato la riforma della decisione assolutoria di primo grado e la pronuncia di una sentenza di condanna, non si applica nell'ipotesi di motivazione generica della sentenza del primo giudice, che non contenga valutazioni specifiche sull'attendibilità delle dichiarazioni utilizzate, ma si limiti a riportarne il contenuto, dovendo ritenersi, in tal caso, che difetti il presupposto applicativo del principio, e cioè l'esistenza di una effettiva valutazione negativa sull'attendibilità della prova dichiarativa da parte del giudice di primo grado (Cass. V, n. 12783/2017). La regola non si applica neanche alle spontanee dichiarazioni dell'imputato: ove Il giudice di appello, sulla base di una diversa valutazione delle dichiarazioni spontanee rese dall'imputato, riformi la sentenza assolutoria di primo grado, non è obbligato a rinnovare l'audizione dell'imputato ai sensi dell'art. 603 c.p.p., poiché a differenza dell'esame, disciplinato dall'art. 210 c.p.p., che costituisce una prova dichiarativa caratterizzata dalla formazione in contraddittorio, le dichiarazioni spontanee sono rimesse alla libera scelta dell'imputato, non sono acquisite in contraddittorio e non sono acquisibili d'ufficio, determinandosi, altrimenti, una violazione del diritto al silenzio e del diritto di difesa (Cass. II, n. 51983/2016). Quanto alle diciarazioni rese dal consulente o dal perito, esse, in quanto veicolate nel processo a mezzo del linguaggio verbale, costituiscono prove dichiarative, sicché il giudice di appello che, sul diverso apprezzamento delle stesse, fondi, sempreché decisive, la riforma della sentenza di assoluzione, ha l'obbligo di procedere alla loro rinnovazione dibattimentale attraverso l'esame del perito o del consulente, mentre analogo obbligo non sussiste ove la relazione scritta del perito o del consulente tecnico sia stata acquisita mediante lettura, ivi difettando la natura dichiarativa della prova (Cass. S.U., n. 14426/2019). La diversa qualificazione giuridica del fatto effettuata in grado di appello, in assenza del ribaltamento di una precedente sentenza assolutoria e di un diverso apprezzamento delle prove dichiarative, non impone l'obbligo di procedere alla rinnovazione di queste ultime (Cass. II, n. 28957/2017). Quanto al caso del passaggio da condanna ad assoluzione, sulla base di una diversa valutazione del medesimo compendio probatorio, il giudice d'appello non è obbligato alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale, ma è tenuto a strutturare la motivazione della propria decisione in maniera rafforzata, dando puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte (Cass. III, n. 29253/2017). Si parla di motivazione rafforzata, nel senso che quando il giudice di appello, riformando integralmente la sentenza di condanna di primo grado, assolve l'imputato, deve indicare le ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, fornendo un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanziale o processuale, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore (Cass. VI, n. 51898/2019). Con particolare riferimento alla prova dichiarativa, è stato precisato che il giudice d'appello il quale confermi la sentenza di proscioglimento di primo grado impugnata dal pubblico ministero per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale in quanto tale obbligo, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 603, co. 3-bis, va visto in stretta correlazione con il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, necessario per condannare e non già per assolvere (Cass., IV, n. 6501/2021). Il principio della motivazione rafforzata non vale invece in materia cautelare: qualora il Tribunale della libertà accolga la domanda cautelare, riformando in sede di appello ex art. 310 c.p.p., la decisione di rigetto del G.i.p., deve escludersi la sussistenza dell'onere della c.d. motivazione rafforzata, in quanto tale onere è configurabile solo in sede di giudizio, dove il canone valutativo è costituito non dalla gravità indiziaria, ma dalla certezza processuale della responsabilità dell'imputato oltre ogni ragionevole dubbio (Cass. V, n. 28580/2020; conf. Cass. VI, n. 44713/2019). Quanto al giudizio in cassazione, va ricordato che la regola probatoria compendiata nella formula "al di là di ogni ragionevole dubbio" rileva in sede di legittimità esclusivamente ove la sua violazione si traduca nella illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza, poiché la Corte di cassazione non ha alcun potere di autonoma valutazione delle fonti di prova (Cass. IV, n. 2132/2021; conf. Cass. II, n. 28957/2017). Si è ulteriormente precisato che, ai fini del vizio di manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., è necessario che la ricostruzione dei fatti prospettata dall'imputato che intenda far valere l'esistenza di un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza, contrastante con il procedimento argomentativo seguito dal giudice, sia inconfutabile e non rappresentativa soltanto di una ipotesi alternativa a quella ritenuta nella sentenza impugnata, dovendo il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto-reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo fare riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non meramente ipotetici o congetturali, seppure plausibili (Cass. II, n. 3817/2020). Il contenuto della sentenza di condannaLa norma in commento prevede anche il contenuto che deve avere la sentenza di condanna: in dottrina si è precisato che la statuizione sulla responsabilità e l'applicazione della pena rappresentano, unitamente alla condanna al pagamento delle spese processuali, il contenuto minimo ed essenziale della sentenza di condanna, mentre costituiscono statuizioni eventuali l'applicazione della misura di sicurezza, l'applicazione delle pene accessorie, e i benefici di legge (Siracusano). Inoltre, la pronunzia di condanna in caso di colpevolezza dell'imputato deve riguardare solo il reato contestatogli, non già un fatto diverso o un altro reato. Tale regola va tuttavia contemperata con il disposto dell'art. 521, comma 1, c.p.p., sicché ricorrendo le condizioni previste da tale norma (sostanzialmente ove siano stati garantiti il contraddittorio sul fatto, la competenza e la costituzione del giudice) la sentenza di condanna va pronunziata anche laddove la qualificazione del fatto in contestazione sia ritenuta dal giudice diversa da quella proposta dal pubblico ministero. Nel caso, invece, di fatto diverso ex art. 521, comma 2, che comporta la trasmissione degli atti al pubblico ministero, l'accertamento del giudice non coincide con quello ex art. 533 c.p.p., in quanto solo quest'ultimo giudizio postula il pieno convincimento sulla colpevolezza, essendo prodromico ad una pronuncia di condanna (Cass. II, n. 27826/2019). L'applicazione della pena e delle misure di sicurezzaDichiarata la colpevolezza dell'imputato, il giudice deve applicare la pena principale, le pene accessorie e le misure di sicurezza, motivando specificamente circa la dosimetria della pena e la scelta delle misure di sicurezza e delle modalità impositive di esse, anche con riferimento alla confisca. Non è previsto nell'art. 533 che il giudice possa disporre la misura di sicurezza con effetto immediato, ma in dottrina si è ritenuto che possa ovviarsi a tale lacuna utilizzando gli artt. 312 e 313, che consentono al giudice in ogni stato e grado del procedimento, di disporre, su richiesta del P.M., l'applicazione provvisoria di una misura di sicurezza, equiparata sotto il profilo delle impugnazioni alle misure cautelari (ex art. 313 comma 3) e quindi sottratta all'effetto sospensivo dell'impugnazione (art. 588 comma 2; FASSONE); quanto alla misura di sicurezza della confisca, è abnorme il provvedimento con cui il giudice della cognizione disponga la confisca in un momento successivo a quello della pronuncia della sentenza, perché alle eventuali omissioni di questa è possibile porre rimedio solo con l'impugnazione, o, in caso di formazione del giudicato, con lo strumento previsto dall'art. 676, specificamente dettato per l'ipotesi di beni oggetto di ablazione obbligatoria (Cass. VI, n. 52007/2018). Inoltre, sempre nella sentenza di condanna, qualora ne ricorrano i presupposti, il giudice deve dichiarare l'abitualità o professionalità nel reato o la tendenza a delinquere, dichiarazione che costituisce eventuale presupposto per l'applicazione di una misura di sicurezza. Quando la condanna riguardi una pluralità di reati, il giudice deve determinare la pena da infliggere per ciascuno di essi e solo all'esito di tale operazione applicare, ricorrendone i presupposti, le norme sul concorso formale o materiale di reati o le norme sulla continuazione, dando conto, della pena principale applicata e dei singoli aumenti di pena applicati per i reati meno gravi unificati in continuazione (Cass. S.U., n. 7930/1995; Cass. IV, n. 28139/2015; Cass. V, n. 16015/2015; Cass. III, n. 6828/2014; Cass. I, n. 27198/2013; Cass. III, n. 15098/2010), e ciò per consentire il controllo circa l'utilizzo della discrezionalità attribuitagli dalla legge nel governo degli aumenti,. Secondo un diverso orientamento, non vi è alcuna disposizione normativa che imponga al giudice di specificare in sentenza la quantità di pena relativa a ciascun aumento, sicchè è sufficiente indicare le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base (Cass. V, n. 29847/2015; Cass. V, n. 25751/2015; Cass. II, n. 4984/2015; Cass. II, n. 4707/2014; Cass. V, n. 17081/2014;Cass. II, n. 32586/2010; Cass. V, n. 7164/2011) È comunque pacifico che l'omissione, in sentenza, della specifica indicazione degli aumenti per ciascun reato in continuazione, non costituisca motivo di nullità della sentenza, giacché il precetto di cui all'art. 533 comma 2 c.p.p. non è assistito da alcuna specifica sanzione processuale, ma configura soltanto una carenza motivazionale della decisione in ordine alla determinazione della pena, sottraendo all'imputato il controllo sull'uso fatto dal giudice del suo potere discrezionale (Cass. II, n. 23653/2008); tale omissione può costituire motivo di impugnazione, ed è emendabile mediante integrazione in appello (Cass. III, n. 44418/2013; Cass. II, n. 5606/2007): infatti le sentenze di primo e di secondo grado, ai fini del controllo di congruità della motivazione, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile. (Cass. V, n. 40005/2014; conf. Cass. V, n. 13435/2022). Resta comunque escluso che alla detta omissione possa rimediarsi mediante il procedimento di correzione dell'errore materiale previsto dall'art. 130 (Cass. I, n. 20978/2009). Tuttavia, ove la sentenza sia irrevocabile, il giudice dell'esecuzione, se necessario, ad esempio per l'abrogazione di alcuni dei reati satellite, può procedere ad individuare l'aumento di pena per ciascun reato satellite (Cass. I, n. 4520/2005), contenendolo tuttavia nel minimo (Cass. I, n. 20981/2009). Allo stesso modo, nel caso in cui manchi o sia carente la motivazione circa la dosimetria della pena, la scelta della misura di sicurezza, o la pena da infliggere per ciascun reato o i criteri di applicazione delle regole sul concorso di reati e sulla continuazione, non ricorre causa di nullità della sentenza, ma motivo di impugnazione della stessa, sia nel merito sia per ragioni di legittimità, per difetto di motivazione, . È causa di nullità della sentenza, invece, l'omessa indicazione nel dispositivo della pena principale applicata (Cass. I, n. 43039/2012), anche con riferimento alla sentenza di riforma in appello (Cass. III, n. 34776/2011), mentre tale conseguenza non si verifica in caso di mancata indicazione della durata delle pene accessorie (Cass. I, n. 46254/2012). Infine, qualora le pene accessorie e le misure di sicurezza non siano state applicate, può provvedervi il giudice d'appello., e laddove la sentenza irrevocabile non le abbia applicate, ma non abbia escluso la ricorrenza dei presupposti, le pene accessorie e la confisca possono essere applicate dal giudice dell'esecuzione. Le dichiarazioni ed i beneficiIn presenza dei presupposti di legge, il giudice può concedere i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. Non vi è dubbio che la concessione d’ufficio della sospensione condizionale della pena costituisca un potere discrezionale del giudice, rinunciabile però dall’imputato, cosicché il giudice che ugualmente sospenda la pena (nella specie pecuniaria) deve ritenersi abbia deciso ultra petitum. Nel caso che i benefici di legge non siano stati concessi in sentenza, può provvedervi anche d'ufficio il giudice dell'appello, e ove l'appello non sia stato proposto o in quella sede non si sia provveduto, può farlo il giudice dell'esecuzione, a condizione però che il giudice della cognizione non ne abbia escluso i presupposti nella motivazione della sentenza irrevocabile. La separazione delle posizioni degli imputati in custodia cautelareNei processi per delitti previsti dall'art. 407, comma 2, lett. a), anche se connessi ad altri, qualora siano condannate una o più persone e taluna di esse sia sottoposta a custodia cautelare, anche domiciliare, il giudice può disporre, con la sentenza, la separazione della posizione processuale della persona in stato custodiale, qualora vi sia il pericolo che questa possa essere rimessa in libertà a seguito della scadenza dei relativi termini. È evidente che trattasi di una misura (introdotta dalla l. n. 4/2001, che ha convertito, con modificazioni, il d.l. n, 341/2000) volta ad accelerare la definizione dei procedimenti di criminalità organizzata, spesso particolarmente complessi per numero di imputati ed imputazioni; tale previsione attribuisce al giudice la facoltà di organizzare la programmazione della propria attività mediante la individuazione di una scala di priorità dei processi da decidere. È tuttavia un provvedimento da adottarsi in contraddittorio, tant’è che l’art. 523 comma 1 ultima parte, riconosce alle parti, in sede di discussione finale, il potere di esprimersi sullo specifico argomento. Va tuttavia precisato che la norma opera solo al momento della emissione della sentenza, e dunque il provvedimento di separazione va inserito in dispositivo, non potendo essere adottato successivamente, sia pure prima del deposito della motivazione (è infatti caduto in sede di conversione l’inciso di cui all’art. 4 comma 1, d.l. n. 341/2000, conv., con modif. in l. n. 4/2001). La separazione della posizione del singolo condannato si riferisce esclusivamente ai reati per i quali sia applicata la custodia cautelare, sicché la stessa persona resterà imputata sia nel processo separato, per i delitti per cui è sottoposta a custodia cautelare, sia nel processo originario, per i delitti per i quali non sia sottoposta a custodia cautelare. Non è tuttavia ricollegata alcuna nullità alla separazione disposta al di fuori dei presupposti di legge. CasisticaIn tema di prova scientifica del nesso causale, mentre ai fini dell'assoluzione dell'imputato è sufficiente il solo serio dubbio, in seno alla comunità scientifica, sul rapporto di causalità tra la condotta e l'evento, la condanna deve, invece, fondarsi su un sapere scientifico largamente accreditato tra gli studiosi, richiedendosi che la colpevolezza dell'imputato sia provata "al di là di ogni ragionevole dubbio" (Cass. IV, n. 46392/2018: in applicazione del principio la Corte - richiamando espressamente i limiti del sindacato di legittimità rispetto al sapere scientifico - ha ritenuto immune da censure la sentenza di assoluzione dal reato di omicidio colposo ai danni di lavoratori esposti ad amianto, che aveva argomentato la mancanza di prova del nesso causale sulla duplice considerazione che gli imputati avevano assunto la posizione di garanzia a distanza di molti anni dalla cosiddetta "iniziazione" della malattia tumorale, e che costituiva ancora oggetto di dibattito nella comunità scientifica la sussistenza di un effetto acceleratore sul mesotelioma dell'esposizione ad amianto anche nella fase successiva a quella dell' "iniziazione"). In tema di reati edilizi, tanto in caso di condanna che di applicazione di pena concordata, deve essere sempre autonomamente disposta, ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380/2001, la demolizione dell'intervento eseguito in assenza di permesso di costruire o in totale difformità o con variazioni essenziali, anche quando il giudice, ai sensi dell'art. 165 c.p., concede all'imputato il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinandolo alla demolizione delle opere abusive entro un termine decorrente dal passaggio in giudicato dalla sentenza, trattandosi di statuizioni diverse sotto il profilo della funzione e del contenuto: mentre l'ottemperanza agli obblighi imposti ai sensi dell'art. 165 è rimessa ad una valutazione del destinatario, la demolizione delle costruzioni abusive prescinde dalla facoltà di scelta concessa al condannato, dovendo comunque essere eseguita e, quindi, disposta giacché l'ordine è un provvedimento dovuto, autonomo, privo di contenuto discrezionale ed è conseguenziale a una sentenza di condanna o ad altra ad essa equiparata (Cass. III, n. 42697/2015). È affetta da nullità la sentenza che non indichi nel dispositivo la pena inflitta (Cass. I, n. 43039/2012). n tema di rapporti tra provvedimenti "de libertate" e sentenza, si è precisato che la decisione cautelare non può porsi in contrasto con il contenuto della sentenza, pur non irrevocabile, emessa in ordine ai medesimi fatti nei confronti dello stesso soggetto, stante la relazione di strumentalità esistente tra il procedimento incidentale e quello principale; pertanto la sopravvenienza di una sentenza di condanna fa venir meno l'interesse dell'indagato alla procedura di riesame - anche in sede di rinvio a seguito di annullamento disposto dalla Corte di cassazione - con riferimento al profilo concernente la verifica dell'originaria sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, salvo che risultino dedotti elementi di prova nuovi, suscettibili di dare ingresso ad una possibile diversa lettura degli indizi al momento dell'adozione della misura cautelare (Cass. I, n. 55459/2017). BibliografiaCordero, Procedura penale, Milano, 2012. |