Codice di Procedura Penale art. 538 - Condanna per la responsabilità civile 1 .

Donatella Perna

Condanna per la responsabilità civile1.

1. Quando pronuncia sentenza di condanna [533], il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno [576], proposta a norma degli articoli 74 e seguenti.

2. Se pronuncia condanna dell'imputato al risarcimento del danno, il giudice provvede altresì alla liquidazione [539], salvo che sia prevista la competenza di altro giudice [574].

3. Se il responsabile civile è stato citato [83] o è intervenuto [85] nel giudizio, la condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno è pronunciata anche contro di lui in solido [575], quando è riconosciuta la sua responsabilità.

[1] La Corte costituzionale, con sentenza 12 luglio 2022, n. 173 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente articolo, nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis del codice penale, decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta dalla parte civile, a norma degli artt. 74 e seguenti cod. proc. pen.

Inquadramento

L'art. 538 prevede che il giudice, quando pronunzia condanna, , decide sulla domanda, proposta a norma dell'art. 74, di restituzioni o risarcimento del danno.

Il diritto alle restituzioni e/o al risarcimento trova il suo fondamento nell'art. 185 c.p., il quale stabilisce che ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili, e che ogni reato che abbia cagionato un danno, patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento di esso.

La riqualificazione del reato contestato, anche se operata dal giudice di primo grado, non fa venir meno il diritto alla restituzione e al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, purchè il fatto sia rimasto qualificato quale illecito penale anche al momento della pronuncia delle sentenze di primo e secondo grado (Cass. VI, n. 27087/2017) ; le vicende modificative dell'imputazione incidono sul "quantum" della tutela risarcitoria solo quando il fatto subisca modificazioni tali da determinare "ex se" un danno oggettivamente diverso alla persona offesa, assumendo rilievo, per la natura riparatoria e non punitiva di siffatto risarcimento, il pregiudizio oggettivo subito dal danneggiato e non le componenti soggettive inerenti alla persona del danneggiante (Cass. V, n. 22780/2021).

Per restituzione, si intende il ripristino della situazione preesistente alla commissione del reato (c.d. restitutio in integrum): vi rientrano sia la traditio materiale della cosa all'avente diritto, sia quella simbolica (consegna delle chiavi, rimozione dei termini, demolizione di opere, riconsegna del gioiello rubato).

Laddove la restituzione non sia possibile o non basti a riparare il danno commesso, si fa luogo al risarcimento per equivalente.

Il diritto alle restituzioni e/o al risarcimento può farsi valere  in sede civile, o in sede penale: l'azione civile nel processo penale si esercita mediante la costituzione di parte civile (art. 76) nelle forme previste dall'art. 78, non oltre le formalità di apertura del dibattimento a pena di decadenza (art. 79); legittimato all'azione civile nel processo penale è non solo il soggetto passivo del reato (persona offesa), ma anche il danneggiato dal reato, indipendentemente dalle azioni proposte o proponibili dal primo, che restano autonome e distinte (Cass. I, n. 13408/2005).

Se il giudice accoglie la domanda di risarcimento liquida anche la somma dovuta, qualora non ecceda la sua competenza per valore, e se vi è un responsabile civile per fatto dell'imputato, intervenuto o citato nel giudizio, e ne sia riconosciuta la responsabilità, anch'egli è condannato alle restituzioni o al risarcimento in solido con l'imputato.

Il trasferimento dell'azione civile in sede civile, comporta la revoca della costituzione di parte civile e l'estinzione del rapporto processuale civile nel processo penale, impedendo al giudice penale di decidere ulteriormente sulle statuizioni civili di una sentenza relativa a un rapporto processuale ormai estinto (Cass. V, n. 38741/2019).

La legittimazione ad agire e l’onere della prova

La legittimazione all'azione civile nel processo penale va verificata esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dalla parte a fondamento dell'azione, in relazione al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, ed indipendentemente dalla effettiva titolarità del vantato diritto al risarcimento dei danni, il cui accertamento riguarda il merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza, ed è collegato all'adempimento dell'onere deduttivo e probatorio incombente sull'attore (Cass. I, n. 49038/2014).

A tale ultimo riguardo, l'onere della prova dell'esistenza del diritto al risarcimento i danni da reato grava, secondo quanto ordinariamente previsto per tutte le azioni di natura civilistica, sul soggetto che assume di essere stato danneggiato: trattasi cioè di un onere  deduttivo e probatorio incombente sull'attore (Cass. IV, n. 14768/2016).

E' stato recentemente chiarito che "altro" è la legittimazione alla costituzione di parte civile della persona offesa o del danneggiato. Ed "altro" è la prova del danno patito, che la parte legittimata a far valere il suo interesse nel processo penale deve dimostrare avvalendosi degli ordinari strumenti di prova.

Il concreto danno generato dalla condotta illecita non è infatti presunto, né può intendersi dimostrato con il semplice riconoscimento della ipotetica, astratta, lesione prospettata all'atto della costituzione, ma deve essere provato secondo le consuete regole civilistiche regolanti la materia e dettate, più in particolare, dagli artt. 2043 e 1223 c.p., così come richiamate dall'art. 185 c.p.

E' stato precisato che la "sussistenza" del danno, che è prossima all'immanenza quando la parte civile è la persona offesa, ovvero la persona fisica direttamente lesa dall'azione criminosa tipica, deve essere invece specificamente provata quando il rapporto tra azione e danno è indiretto, come avviene, di regola, nei casi in cui la pretesa civilistica sia avanzata dal danneggiato, che può essere anche una associazione rappresentativa di interessi collettivi (Cass. II, n. 31574/2023).

Il principio, sancito in generale dall'art. 2697 c.c., si applica certamente con riferimento ad ogni tipo di danno, anche morale; relativamente a quest'ultimo, peraltro, deve ritenersi sufficiente l'allegazione di circostanze che consentano anche soltanto di presumerne l'esistenza, e potrà farsi ricorso al notorio e alle presunzioni di prova (Cass. V, n. 6841/2011).

L'onere probatorio può, peraltro, essere soddisfatto, secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, anche soltanto attraverso le dichiarazioni testimoniali eventualmente rese dal danneggiato nel corso del giudizio penale, atteso che le dichiarazioni della persona offesa, la quale, nel vigente ordinamento ha capacità testimoniale, possono costituire la piattaforma, a cui il giudice, nel processo di formazione del libero convincimento, può correlare il giudizio di responsabilità dell'imputato; e ciò vale anche nel caso in cui sia stata proposta nel processo penale l'azione privatistica, giacché la qualifica di parte civile concerne il rapporto processuale civile e non già quello penale, nel quale tale soggetto è sempre un terzo e, quindi, conserva la riferita capacità testimoniale.

La giurisprudenza costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità dell'art. 197, lett. c) (sollevata per contrasto con l'art. 3 Cost.) nella parte in cui non prevede che la parte civile costituita sia incompatibile con l'ufficio di testimone, osservando che, ai fini della ricerca della verità, cui il processo penale deve sempre tendere, non è possibile rinunciare al contributo testimoniale della parte civile, pur se le sue dichiarazioni-che vanno qualificate come testimonianza nonostante il particolare interesse personale dedotto in giudizio attraverso la costituzione di parte civile, e non necessitano, pertanto, di alcun riscontro esterno- devono essere valutate dal giudice con prudente apprezzamento e spirito critico, per l'impossibilità di equipararle puramente e semplicemente a quelle rese dal testimone immune dal sospetto di interesse all'esito della causa (Corte cost. n. 115/1992; Cass. S.U. n. 41461/2012).

Nel processo penale, ai fini della dimostrazione della responsabilità dell'imputato, vige il generale principio del libero convincimento del giudice, che trova espressione nell'art. 192, comma 1, , secondo cui il giudice valuta la prova dandone conto nella motivazione, senza quindi essere vincolato a prove legali o di formazione "contrattuale";  non esistono, quindi, a differenza di quello civile, prove legali al cui contenuto il giudice debba attenersi, potendo egli dissentire pure da confessioni, purchè ne dia logica spiegazione in motivazione: a norma dell'art. 193 c.p.p., nel processo penale non si osservano i limiti di prova stabiliti dalle leggi civili, eccettuati quelli che riguardano lo stato di famiglia e di cittadinanza, e l'art. 538, nell'individuare i presupposti per la condanna civile nel giudizio penale, si limita a riferire che quando afferma la responsabilità dell'imputato il giudice è chiamato anche a pronunciarsi sulla domanda per il risarcimento del danno proposta nel giudizio penale, senza che nessun vincolo probatorio di natura convenzionale possa influenzarne la determinazione.

Ne deriva che, sulla scorta dei principi fissati dagli artt. 192 e 538 c.p.p., il giudice penale chiamato a pronunciarsi sull'azione civile di risarcimento del danno esercitata ex art. 74 nel processo penale, non è vincolato alle previsioni contenute in un contratto precedentemente stipulato tra le parti, e l'imputato non può fare valere nel giudizio penale gli eventuali accordi stipulati in precedenza che vincolino l'accertamento di fatti a determinate condizioni e presupposti, ovvero devolvano ad arbitri l'accertamento dei fatti ovvero l'individuazione del danno risarcibile (Cass. II, n. 4699/2019).

La legittimazione passiva

Legittimato passivo dell'azione risarcitoria spettante alla persona offesa dal reato e al danneggiato, introdotta nel processo penale con la costituzione di parte civile, è l'imputato, e, in via solo eventuale ed indiretta, il responsabile civile per il fatto dell'imputato (artt. 83 e ss. c.p.p.).

Da quanto sopra detto, deriva che non può assumere la veste di responsabile civile, ex art. 185, il soggetto che abbia un titolo diretto di responsabilità per i danni lamentati dalla parte civile, in quanto la legittimazione del responsabile civile sussiste solo se nel processo penale è presente un imputato del cui operato egli debba rispondere per legge, ex art. 185, e non a titolo contrattuale (Cass. IV, n. 41127/2021; Cass. V, n. 28157/2015).

Se il fatto è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno (art. 2055 c.c.), ed il danneggiato può agire anche nei confronti di uno solo dei responsabili (cfr. art. 187 c.c.).

La qualità di responsabile civile è generalmente riconosciuta:

-       In capo al committente e all'imprenditore per il fatto illecito del dipendente a norma dell'art. 2049 c.c. Essa  trova la sua giustificazione nel principio cuius commoda eius incommoda, cioè nell'esigenza che colui in favore del quale viene svolta un'attività sopporti i rischi inerenti all'esercizio di essa, e quindi risenta anche gli effetti delle eventuali conseguenze dannose. La situazione giuridica in cui viene a trovarsi il committente per effetto della responsabilità prevista dall'art. 2049 c.c., è identica sia nei riguardi del dipendente sia nei riguardi di eventuali coautori del fatto illecito, legati da solidarietà, tra di loro e con il committente, nell'adempimento dell'obbligazione risarcitoria (Cass. VI, n. 7877/1992).

-       In capo alla Pubblica Amministrazione, per i fatti illeciti commessi dai propri dipendenti, in base al criterio della c.d. occasionalità necessaria, ogni qual volta la condotta di costoro non abbia assunto i caratteri dell'assoluta imprevedibilità ed eterogeneità rispetto ai loro compiti istituzionali, sì da non consentire il minimo collegamento con essi.

-       In capo alla società di assicurazioni, in materia di circolazione stradale, per il fatto dell'assicurato. La Corte costituzionale, con un'importante decisione (Corte cost. n. 112/1998) che ha certamente contribuito a ridisegnare il ruolo della responsabilità civile delle società di assicurazione, seppure ai soli limiti dei danni da reato derivanti da circolazione stradale, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 83 c.p.p., nella parte in cui non prevedeva — in caso di assicurazione obbligatoria da responsabilità civile per circolazione stradale — la possibilità anche per l'imputato, di citare il proprio assicuratore nel processo penale in cui fosse chiamato a rispondere sotto il profilo risarcitorio.

Nei confronti del responsabile civile il giudice deve verificare preliminarmente la regolare instaurazione del contraddittorio, che ricorre qualora esso sia stato ritualmente citato in giudizio o vi sia comunque intervenuto; in assenza di contraddittorio, la condanna non può essere pronunziata nei confronti del responsabile civile e, se pronunziata, è nulla.

Pertanto, l'omessa notifica del decreto di rinvio a giudizio al responsabile civile assente all'udienza preliminare, ancorché regolarmente citato, impedisce che egli acquisti la qualità di parte e che nei suoi confronti faccia stato l'accertamento contenuto nella sentenza (Cass. V, n. 11928/2020).

Qualora il contraddittorio sia stato invece correttamente instaurato anche nei confronti del responsabile civile, il giudice deve valutare se egli sia civilmente responsabile del fatto e, solo in caso positivo, deve pronunziare condanna anche nei suoi confronti, in solido con l'imputato.

Peraltro, la condanna del responsabile civile può essere emessa anche quando questi non si sia costituito, poiché la pronunzia nei suoi confronti non è subordinata alla sua costituzione  ma, alternativamente, al fatto del suo intervento volontario (in tal caso implicante necessariamente la sua costituzione in giudizio) o della sua citazione.

L'imputato non ha interesse ad impugnare la sentenza che abbia omesso di pronunciare la condanna solidale al risarcimento del danno anche a carico del responsabile civile, e che abbia escluso l'applicazione della manleva dell'assicurato ai sensi dell'art. 1917 c.c. da parte del responsabile civile, in quanto il vincolo di solidarietà tra quest'ultimo e l'imputato ha efficacia ope legis e, per il pagamento delle spese in favore della parte civile, è previsto dall'art. 541, comma 1, c.p.p.(Cass. IV, n. 3347/2017).

La portata del petitum

Un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che la domanda di risarcimento dei danni da reato comprende sempre (anche in difetto di espressa specificazione) quella di risarcimento dei danni non patrimoniali; analogamente, si è ritenuto che la domanda di risarcimento «di tutti i danni subiti e futuri» sia di ampiezza tale da non consentire “di ritenerla limitata ai soli danni patrimoniali” (Cass. S.U., n. 5814/1985).

Peraltro, la parte civile può limitarsi ad allegare genericamente di aver subito un danno dal reato, senza incorrere in alcuna nullità, in quanto il giudice ha sempre la possibilità di pronunciare condanna generica, là dove ritenga che le prove acquisite non consentano la liquidazione del danno con conseguenti effetti sull'onere di allegazione e prova spettante alla parte civile (Cass. IV, n. 6380/2017).

La riparazione del danno da reato: il risarcimento per equivalente e le restituzioni

Nel caso in cui il giudice ritenga raggiunta la piena prova della fondatezza della domanda proposta dalla parte civile, è tenuto a pronunziare condanna alle restituzioni o al risarcimento del danno per equivalente.

Sotto il profilo delle restituzioni, la S.C. ha stabilito che è legittima la statuizione con la quale il giudice penale, in accoglimento della richiesta di risarcimento in forma specifica avanzata dalla parte civile, disponga, a norma dell'art. 2058 c.c., il ripristino dello stato originario dei luoghi, alterato in conseguenza del reato (Cass. V, n. 26/2020, in fattispecie relativa all'ordine di ripristino di un muro perimetrale, parzialmente demolito in esecuzione di una D.I.A., presentata per l'apertura di un accesso carrabile, nella quale il ricorrente aveva falsamente attestato di essere proprietario esclusivo del cortile interessato dall'intervento).

Va però rimarcato che, in assenza di costituzione di parte civile, il giudice non può subordinare la sospensione condizionale della pena all'adempimento dell'obbligo delle restituzioni di beni conseguiti per effetto del reato, perché queste, come il risarcimento, riguardano solo il danno civile e non anche il danno criminale, che si identifica con le conseguenze di tipo pubblicistico che ineriscono alla lesione o alla messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma penale e che assumono rilievo, a norma dell'art. 165 c.p., solo se i loro effetti non sono ancora cessati (Cass. II, n. 45854/2019: in applicazione del principio, la Corte, con riferimento ad una condanna per truffa aggravata in danno di ente previdenziale, ha annullato la sentenza impugnata nella parte in cui aveva subordinato la concessione del beneficio alla restituzione dell'importo erogato indebitamente a titolo di indennità di disoccupazione).

Più in generale, si è affermato che il giudice non può subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena all'adempimento dell'obbligo della restituzione di beni conseguiti per effetto del reato, qualora non vi sia stata costituzione di parte civile, in quanto la restituzione, come il risarcimento, riguarda il solo danno civile (Cass. I, n. 26812/2022; Cass. II, n. 23290/2021).

Sotto altro profilo, il giudice di appello, pronunciandosi su impugnazione della parte civile, può subordinare la sospensione condizionale al pagamento di una provvisionale, essendo tale istituto funzionale a soddisfare le esigenze di anticipazione della liquidazione del danno in favore della parte civile, causate dalla durata del processo (Cass. V, n. 11738/2020).

Qualora condanni l'imputato al risarcimento  per equivalente, il giudice è tenuto anche a quantificare e liquidare il danno, sicché l'omessa pronuncia può essere oggetto di specifica impugnazione: trattasi di disposizione dettata per ridurre il ricorso all'istituto della condanna generica previsto dall'art. 539, ma con scarsi effetti (TONINI, 705), e riguarda la sola ipotesi della condanna al risarcimento, poiché nel caso di condanna alla restituzione di cose, anche fungibili, la materialità dell'oggetto della restituzione non richiede alcuna quantificazione .

La domanda risarcitoria non deve eccedere la competenza per valore del giudice adito, perché altrimenti le parti vanno rimesse innanzi al giudice competente per la liquidazione del danno secondo le norme del rito civile.

La riparazione del danno patrimoniale derivante da reato viene attuata nella forma del risarcimento per equivalente (ma anche, quando possibile, attraverso la reintegrazione in forma specifica), consistente in una compensazione economica attuata mediante la trasposizione del costo economico sopportato dal soggetto passivo del reato, o dal danneggiato, in capo ad un altro soggetto, individuato come l'autore del reato o come responsabile civile (Romano-Grasso-Padovani, ivi).

Quanto alla determinazione del danno risarcibile — alla fissazione del quantum dell'obbligazione risarcitoria — poiché l'art. 185 c.p. contiene un'obbligazione di natura civilistica, la norma di riferimento per la valutazione del danno è innanzitutto l'art. 2056 c.c., il quale dispone che il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227.

Verranno dunque in considerazione (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, ivi):

- l'eventuale compensatio lucri cum damno: dovrà tenersi conto degli eventuali vantaggi che il fatto- reato abbia procurato al danneggiato (art. 1227 c.c.), onde evitare che il risarcimento si risolva nella realizzazione di un lucro indebito: ciò vale, peraltro, con esclusivo riferimento ai vantaggi costituenti conseguenza immediata e diretta del fatto — reato, e cioè nei soli casi in cui il vantaggio ed il danno costituiscano eventi contrapposti del medesimo fatto, idoneo a determinare entrambi;

- il fatto colposo del danneggiato.

La giurisprudenza ha ad es. ritenuto che l'esposizione volontaria ad un rischio da parte del danneggiato o, comunque, la consapevolezza di porsi in una situazione da cui consegua la probabilità che si produca a proprio danno un evento pregiudizievole, costituendo un antecedente causale necessario del verificarsi dell'evento ai sensi dell'art. 1227 c.c., è idonea ad integrare una corresponsabilità di quest'ultimo con conseguente, proporzionale, riduzione della responsabilità del danneggiante (Cass. III, n. 6119/2016).

In tema di reato colposo, la S.C. ha affermato che il giudice penale è tenuto ad accertare il grado della colpa dell'imputato ed eventualmente a determinarne la graduazione in relazione al concorso di colpa del terzo che sia rimasto estraneo al giudizio, al solo fine di assicurare la correlazione tra gravità del reato e determinazione della pena, ai sensi dell'art. 133, comma 1, n. 3) c.p., dovendosi escludere, in via generale, l'esistenza di un obbligo di quantificazione percentualistica dei diversi fattori causali dell'evento; diverso è il caso in cui sia chiamato a pronunciare statuizioni civilistiche e ricorra il fatto colposo della parte civile, che diminuisce l'entità del risarcimento dovuto a norma degli artt. 1227 e 2056 c.c. (Cass. IV, n. 49346/2004).

Anzi, in tale ultimo caso il giudice ha l'obbligo di quantificare l'apporto causale alla verificazione dell'evento attribuibile alla parte lesa e quello attribuibile all'imputato.

A tal proposito la S.C. ha ulteriormente precisato che la cosiddetta graduazione delle colpe concorrenti è rilevante (Cass. IV, n. 22632/2008):

1) per la determinazione dell'apporto causale di ciascuna condotta colposa;

2) ai fini delle statuizioni sugli interessi civili;

3) per la determinazione della pena;

4) per la graduazione della pena in senso proprio, ovvero ai fini del giudizio in ordine alla rimproverabilità della condotta di ciascuno.

Con riferimento alla sua natura, il risarcimento del danno da fatto illecito costituisce in genere un debito di valore che si trasforma in un debito di valuta, sicché il giudice di appello deve adeguare il quantum alla svalutazione monetaria verificatasi, anche se il danno sia stato liquidato con criteri equitativi; quando tuttavia il danno consista nella perdita di una somma di danaro, il debito di risarcimento è e rimane debito di valuta, soggetto al principio nominalistico e alla regolamentazione dell'art. 1224 c.c.

Anche il danno patrimoniale da reato (e non solo quello non patrimoniale), può essere liquidato in via equitativa a norma degli artt. 2056 e 1226 c.c., e ciò in particolare quando ne sia certa l'esistenza, ma non sia più possibile provarne il preciso ammontare.

b) Il risarcimento del danno non patrimoniale avviene sempre in via equitativa.

Infatti la determinazione di tale danno, sfuggendo ad una piena valutazione analitica, resta affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito, il quale nell'effettuare la relativa quantificazione deve tener conto delle effettive sofferenze patite dall'offeso, della gravità dell'illecito di rilievo penale e di tutti gli elementi peculiari della fattispecie concreta, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto ed evitare che la stessa rappresenti un simulacro di risarcimento; tale determinazione costituisce valutazione di fatto sottratta al sindacato di legittimità se sorretta da congrua motivazione (Cass. VI, n. 48461/2013), che dia conto del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario, dal parte del giudice, indicare analiticamente i calcoli in base ai quali è stato determinato il quantum del risarcimento (Cass. IV, n. 18099/2015).

Pertanto la decisione sulla liquidazione sarà censurabile in sede di legittimità (sotto il profilo del vizio della motivazione), solo se difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria (Cass. V, n. 35104/2013).

Nel caso di danno morale connesso a reati sessuali in danno di minori d'età, la determinazione equitativa deve tener conto dell'intensità della violazione della libertà morale e fisica nella sfera sessuale del minore, del turbamento psichico cagionato e delle conseguenze sul piano psicologico individuale e dei rapporti intersoggettivi, degli effetti proiettati nel tempo nonché dell'incidenza del fatto criminoso sulla personalità della vittima (Cass. III, n. 10802/2018).

La solidarietà passiva tra autori del reato, permane anche nel caso in cui alcuni degli autori siano rimasti ignoti, sicché il giudice deve condannare gli imputati al risarcimento dell'intero danno anche nel caso in cui sia provato che alla causazione dello stesso abbiano concorso anche altre persone, rimaste ignote (Cass. IV, n. 16998/2006).

In ogni caso, per il principio della domanda il giudice non può eccedere la quantificazione eseguita dalla parte civile (Giarda-Spangher, 6751), e, costituendo la relativa statuizione un capo autonomo della sentenza, in caso di omessa impugnazione essa è suscettibile di passare in cosa giudicata.

L'effetto devolutivo dell'appello e le statuizioni civili

Si è posto il problema di definire l'ambito del «devolutum» nel caso in cui il solo pubblico ministero abbia impugnato una decisione assolutoria, e quindi il gravame abbia ad oggetto unicamente i profili di responsabilità penale, in difetto dell'impugnazione della parte civile.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, hanno ritenuto, con significativo revirement della propria giurisprudenza (cfr. S.U. n. 5/1999), che il giudice di appello, il quale su gravame del solo pubblico ministero condanni l'imputato assolto nel giudizio di primo grado, deve provvedere anche sulla domanda della parte civile che non abbia impugnato la decisione assolutoria (Cass. S.U., n. 30327/2002).

L'accoglimento dell'impugnazione proposta da uno dei coimputati con riguardo alla condanna al risarcimento dei danni non giova ai coobbligati in solido, atteso che l'effetto estensivo dell'impugnazione concerne i soli casi in cui questa investa, sia pure con eventuali ricadute civilistiche, il profilo della responsabilità penale e non anche quelli in cui attenga ad aspetti esclusivamente risarcitori (Cass. V, n. 34416/2019).

Interessi civili e scioglimento

La decisione sulle domande di restituzione o risarcimento del danno proposte dalla parte civile è ammessa esclusivamente nel caso in cui il giudice pronunzia condanna. Ciò significa che nel caso in cui venga pronunziata sentenza di proscioglimento per qualsiasi causa, al giudice è fatto divieto di esaminare le domande proposte dalla parte civile, indipendentemente dalla fondatezza delle stesse

È tuttavia prevista un'eccezione per i gradi successivi al primo: l'art. 578 dispone infatti che, qualora la sentenza impugnata contenga una condanna (anche generica) alla restituzione o al risarcimento del danno, il  giudice dell'impugnazione (Giudice d'appello e Corte di cassazione) debba decidere sugli interessi civili anche in caso di declaratoria di estinzione del reato per amnistia o prescrizione, limitatamente ai casi in cui la prescrizione sia intervenuta dopo la sentenza di condanna in primo grado dell'imputato alle restituzioni od al risarcimento dei danni in favore della parte civile.  Ha precisato in proposito la S.C. che il presupposto per applicare l'art. 578 è costituito dalla pronuncia di una sentenza di condanna nei confronti dell'imputato, e mira, nonostante la declaratoria di prescrizione, a mantenere, in assenza di un'impugnazione della parte civile, la cognizione del giudice dell'impugnazione sulle disposizioni e sul capo della sentenza del precedente grado che concerne gli interessi civili (Cass. IV, n. 3789/2016): il disposto degli artt. 538 e 578 ammette la possibilità di una condanna  dell'imputato agli effetti civili per la sola ipotesi in cui almeno in primo grado vi sia stata anche condanna agli effetti penali.

A norma dell'art. 576, la parte civile può impugnare la sentenza di proscioglimento o di assoluzione pronunciata in giudizio, sebbene ai soli effetti della responsabilità civile, chiedendo l'affermazione di penale responsabilità dell'imputato indipendentemente dalla impugnazione del P.m.: secondo la giurisprudenza, il giudice in tal caso può affermare la responsabilità del prosciolto agli effetti civili, e condannarlo al risarcimento e alle restituzioni, in quanto l'accertamento incidentale equivale, virtualmente, alla condanna di cui all'art. 538 (Cass. VI, n. 41479/2011; Cass. VI, n. 21533/2018).

Le S.U. hanno ben precisato i rispettivi ambiti di operatività delle due norme su richiamate, precisando che l'art. 578 e l'art. 576 disciplinano situazioni processuali diverse: l'art. 578 si riferisce al caso in cui l'impugnazione sia dell' imputato o del p.m., e solo in questa ipotesi richiede che, in presenza di una declaratoria di amnistia o di prescrizione, per decidere agli effetti civili, vi debba essere stata in precedenza una valida pronuncia di condanna alla restituzione o al risarcimento, sicchè tale norma mira, nonostante la declaratoria della prescrizione, a mantenere, in assenza di un'impugnazione della parte civile, la cognizione del giudice dell'impugnazione sulle disposizioni e sul capo della sentenza del precedente grado che concernono gli interessi civili. L'art. 576 invece, presuppone l'impugnazione della parte civile, conferisce al giudice adito il potere di decidere sulla domanda al risarcimento ed alle restituzioni, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto (Cass. S.U., 25083/2006).

La S.C. ha altresì affermato che anche nei confronti della sentenza di primo grado che abbia dichiarato l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come nei confronti della sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammissibile l'impugnazione della parte civile, ove con la stessa si contesti l'erroneità di detta dichiarazione: la legittimazione della parte civile ad impugnare deriva direttamente dalla previsione dell'art. 576, comma 1, c.p.p., mentre l'interesse concreto deve individuarsi nella finalità di ottenere, in caso di appello, il ribaltamento della prima pronuncia e l'affermazione di responsabilità dell'imputato, sia pure ai soli fini delle statuizioni civili, e, in caso di ricorso in cassazione, l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile in grado di appello, ex art. 622 c.p.p., senza la necessità di iniziare "ex novo" il giudizio civile (Cass. S.U., n. 28911/2019).

È' altresì ammissibile l'appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto relativa a un reato già prescritto al momento della pronuncia, essendo in tal caso l'oggetto del giudizio costituito dall'accertamento della condotta illecita ai soli effetti della responsabilità civile e dall'eliminazione degli effetti preclusivi del giudicato di insussistenza del fatto, con possibilità di condanna al risarcimento dei danni: l'art. 576 c.p.p. conferisce al giudice dell'impugnazione il potere di decidere sul capo della sentenza anche in mancanza di una precedente statuizione sul punto (Cass. VI, n. 43644/2019).

Va poi ricordato che l'impugnazione della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento che non abbia accolto le sue conclusioni, è ammissibile anche quando non contenga l'espressa indicazione che l'atto è proposto ai soli effetti civili (S.U. n. 6509/2012), sempre che nelle more la costituzione di parte civile non sia stata revocata (Cass. I, n. 41307/2009).

È stato in ogni caso precisato che non può essere pronunciata condanna alle spese in favore della costituita parte civile in caso di estinzione del reato intervenuta antecedentemente alla sentenza di primo grado (Cass. V, n. 32636/2018).

Effetti del giudicato penale nel giudizio civile di danno

È opportuno ricordare che, ai sensi dell'art. 651, comma 1 c.p.p., «la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale»; a nulla rileva, in ipotesi, la mancata costituzione di parte civile nel processo penale dell'attore.

Analoga efficacia è riconosciuta alla sentenza irrevocabile di condanna pronunciata all'esito di giudizio abbreviato, «salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito» (art. 651, comma 2, c.p.p.).

[*GIURI*]  Peraltro, la giurisprudenza ha rilevato che a seguito dell'introduzione del nuovo testo dell'art. 295 c.p.c. per effetto della modifica introdotta dall'art. 35 l. n. 353/1990, al principio dell'unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale si è sostituito quello dell'autonomia e separazione dei giudizi, onde, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale a norma dell'art. 2059 c.c., la mancanza di una pronuncia del giudice penale affermativa di responsabilità non impedisce al giudice civile di procedere autonomamente all'accertamento incidentale della sussistenza degli elementi costitutivi di un reato. L'accertamento del giudice civile va condotto secondo la legge penale ed ha ad oggetto l'esistenza del reato in tutti i suoi elementi, oggettivi e soggettivi, ivi comprese eventuali cause di giustificazione e l'eccesso colposo ad esse relativo, senza che sia tuttavia richiesto che il fatto illecito integri in concreto un reato punibile per il concorso di tutti gli elementi a tal fine rilevanti per la legge penale medesima, essendo sufficiente che lo stesso fatto sia astrattamente preveduto come reato, e sia pertanto idoneo a ledere l'interesse tutelato dalla norma incriminatrice, con la conseguenza che il danno in parola deve essere riconosciuto anche nel caso in cui l'autore non risulti concretamente perseguibile in ragione della sussistenza di una causa di non punibilità, come ad es. quella di cui all'art. 649 (Cass. civ. I, n. 3747/2001).

Danni da reato «derubricato»

Ai sensi dell'art. 521, comma 1, nella sentenza il giudice può qualificare il fatto diversamente da come contestato (purché il reato ritenuto non ecceda la sua competenza, ovvero le sue attribuzioni, ove si tratti di giudice monocratico).

Ai fini della risarcibilità dei danni da reato, il mutamento (ritenuto in sentenza rispetto all'originaria contestazione) del titolo di imputazione non assume rilievo ostativo, atteso che l'art. 2043 c.c. delinea una fattispecie a struttura complessa, qualificata dall'atipicità dell'illecito civile ed indifferente all'individuazione del criterio soggettivo di imputazione della responsabilità, poiché tutta la normativa civilistica sui fatti illeciti è ispirata al principio di equivalenza tra dolo e colpa in ordine alle conseguenze del fatto dannoso. Pertanto, è irrilevante stabilire, in relazione all'obbligazione risarcitoria, se un illecito, fonte di responsabilità civile oltre che penale, sia imputabile a titolo di dolo ovvero di colpa, poiché in entrambi i casi sussiste l'obbligo di risarcire il danno.

Si è altresì precisato che in caso di modificazione della imputazione ai sensi degli artt. 516 e 517 la parte civile non è tenuta ad una nuova costituzione, potendo limitarsi a modificare la domanda, con riferimento sia al titolo che alle conclusioni (Cass. II, n. 9933/2015).

Abolitio criminis e depenalizzazione

Quanto ai casi di abolitio criminis e depenalizzazione, va qui segnalato che con i d.lgs. n. 7/2016 e d.lgs. n. 8/2016, il legislatore ha proceduto ad una vasta opera di abrogazione di numerose fattispecie di reato punite con la sola pena pecuniaria, trasformandole in illeciti civili puniti con sanzioni pecuniarie civili, nonché alla trasformazione di una serie di fattispecie di reato in illeciti amministrativi. Si è posto dunque il problema della sorte del diritto al risarcimento del danno in capo al soggetto danneggiato dal reato abrogato o depenalizzato, e si è osservato che mentre per le ipotesi depenalizzate dal d.lgs. n. 8/2016, l'art. 9 prevede testualmente che il giudice dell'impugnazione decide sulle statuizioni civili, nessuna disposizione transitoria è stata dettata dal d.lgs. n. 7/2016 in materia di condanna al risarcimento del danno pronunciata in un procedimento per un delitto abrogato soggetta ad impugnazione.

In argomento sono intervenute le S.U., chiamate a sanare un contrasto apertosi in seno alle sezioni semplici, ed hanno affermato che in caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile ai sensi del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice dell' impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili, fermo restando il diritto della parte civile di agire "ex novo" nella sede naturale, per il risarcimento del danno e l'eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria civile (CassS.U., n. 46688/2016; Cass. IV, n. 5892/2019).

È stato altresì aggiunto che rientra tra le competenze del giudice dell'esecuzione la revoca, ai sensi dell'art. 673, delle statuizioni civili contenute in una sentenza definitiva di assoluzione dell'imputato dal delitto ascrittogli per intervenuta abrogazione dello stesso e la sua trasformazione in illecito civile, essendo tali statuizioni state adottate in totale assenza di potere giurisdizionale (Cass. I, n. 21102/2018).

Non punibilità per particolare tenuità del fatto

Secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale, sostenuta fino alla sentenza della Corte costituzionale n. 173/2022, la declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto non consentiva di decidere sulla domanda di liquidazione delle spese proposta dalla parte civile, poiché si può far luogo alle statuizioni civili nel giudizio penale solo in presenza di una sentenza di condanna o nelle ipotesi previste dall'art. 578 c.p.p., tra le quali non rientra quella di cui all'art. 131-bis c.p., sicché i diritti del danneggiato possono trovare tutela nell'azione da proporre in sede civile (Cass. V, n. 6347/2017).

Con ordinanza del 27 aprile 2021 il Tribunale militare di Roma ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 538, con riferimento agli artt. 3,24,111 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6, paragrafo 1, CEDU, nella parte in cui non prevede che, quando pronuncia sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell'art. 131-bis c.p., il giudice decida sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta dalla parte civile, a norma degli artt. 74 e ss. c.p.p.

La Corte costituzionale con la sentenza succitata, muovendo dal rilievo che la pronuncia di proscioglimento ex art. 131-bis c.p. si atteggia come una vera e propria sentenza di accertamento dell'illecito penale, la quale, in quanto avente efficacia di giudicato, può costituire presupposto di una domanda di risarcimento del danno nel successivo giudizio civile (cfr. art. 651-bis c.p.p.), rimanendo al giudice adito il compito della determinazione, di norma, del danno risarcibile, sempre che ne sussistano i presupposti nella specificità dell'illecito civile, ha osservato che risulta irragionevole l'impossibilità di una pronuncia sulla pretesa risarcitoria (o restitutoria) della parte civile, ad opera dello stesso giudice penale che contestualmente adotti una sentenza di proscioglimento dell'imputato per non punibilità ex art. 131-bis c.p.

La reductio ad legitimitatem dell'art. 538 c.p.p. richiede, dunque, di riconoscere al giudice penale, come necessaria deroga alla regola posta dalla disposizione stessa, la possibilità di pronunciarsi anche sulla domanda di risarcimento del danno quando accerti che sussistono i presupposti per dichiarare la non punibilità dell'imputato in ragione della particolare tenuità del fatto, ai sensi dell'art. 131-bis c.p.

Pertanto la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma in commento nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto, decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta dalla parte civile, a norma degli artt. 74 e ss. c.p.p.

Casistica

La morte dell'imputato prima della irrevocabilità della sentenza è un evento che elimina alla radice il presupposto processuale del contraddittorio con il soggetto imputato, sicchè eventuali statuizioni civilistiche cadono automaticamente, senza necessità di apposita pronuncia del giudice penale. Ne consegue che l'appello della parte civile avverso la sentenza assolutoria deve essere dichiarato inammissibile, e che le sue eventuali pretese restitutorie e risarcitorie possono essere fatte valere dinanzi al giudice civile nei confronti degli eredi (Cass. III, n. 6220/2010).

Principio ribadito recentemente dalla S.C., la quale ha affermato che la morte dell'imputato, intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza, comporta la cessazione del rapporto processuale penale e di quello civile nel processo penale, sicché le eventuali statuizioni civilistiche di condanna restano caducate "ex lege", senza necessità di apposita dichiarazione da parte del giudice penale (Cass. III, n. 18021/2024).

Il Sindaco di un Comune nel cui territorio siano stati commessi reati sessuali ha diritto di costituirsi parte civile per invocare il risarcimento del danno non patrimoniale consistente nella necessità di soccorrere, anche moralmente, le vittime e per la lesione dell'interesse pubblico a perseguire la tutela della donna (Cass. III, n. 38835/2008).

Si configura danno non patrimoniale in capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri a séguito della commissione del delitto di corruzione in atti giudiziari (Cass. S.U., n. 15208/2010).

In caso di contestazione suppletiva da parte del pubblico ministero, la parte civile può limitarsi a modificare corrispondentemente il petitum e/o la causa petendi indicati nel proprio atto di costituzione (Cass. II, n. 9933/2015).

L'assoluzione per legittima difesa putativa impedisce al giudice penale ogni statuizione civile, ivi compresa l'indennità prevista dall'art. 2045 c.c. (Cass. IV, n. 33178/2012).

In caso di costruzione abusiva che violi, oltre alle disposizioni incriminatrici, anche le norme civilistiche a tutela dei privati confinanti, la pendenza di procedura amministrativa per il rilascio di provvedimento concessorio non osta al riconoscimento, in favore della parte civile richiedente, del risarcimento nella forma specifica del ripristino dello stato dei luoghi (Cass. III, n. 37224/2013).

Nel caso di annullamento della sentenza di condanna per reato associativo disposto per intervenuta prescrizione nei confronti di alcuni coimputati e per vizio di motivazione nei confronti di altri, le statuizioni civili connesse al reato devono essere esaminate per tutti gli imputati nell'ambito dell'unitario giudizio penale di rinvio avente ad oggetto l'esistenza del sodalizio criminoso (Cass. VI, n. 13844/2017).

La giurisdizione penale e la giurisdizione contabile sono reciprocamente autonome anche in caso di azione di responsabilità derivante da un medesimo fatto di reato commesso da un pubblico dipendente, e l'eventuale interferenza che può determinarsi tra i relativi giudizi incide solo sulla proponibilità dell'azione di responsabilità e sulla eventuale preclusione derivante dal giudicato, ma non sulla giurisdizione: l'azione di danno può essere esercitata in sede civile o penale, ovvero davanti alla Corte dei Conti, solo a condizione che l'ente danneggiato non abbia già ottenuto un precedente titolo per il risarcimento di tutti i danni (Cass. VI, n. 35205/2017).

L'inammissibilità del ricorso avverso la sentenza di assoluzione in grado d'appello, proposto dalla persona offesa costituita parte civile, comporta la condanna di quest'ultima a rifondere all'imputato, che ne abbia fatto richiesta, le spese sostenute nel giudizio di legittimità (Cass. IV, n. 23529/2016).

La sentenza d'appello che, in riforma integrale della sentenza impugnata, assolva l'imputato per insussistenza del fatto comporta la caducazione automatica delle statuizioni civili della sentenza di primo grado, anche in mancanza di espressa statuizione sul punt o (Cass. III, n. 23425/2022).

Bibliografia

Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2013; Ichino, “Riforma Cartabia” e processo d’appello, in www.questionegiustizia.it, , n. 4/2021

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