Codice Penale art. 27 - Pene pecuniarie fisse e proporzionali.Pene pecuniarie fisse e proporzionali. [I]. La legge determina i casi nei quali le pene pecuniarie sono fisse e quelli in cui sono proporzionali [250]. Le pene pecuniarie proporzionali non hanno limite massimo. InquadramentoDopo aver disciplinato le pene pecuniarie della multa (art. 24 ) e dell'ammenda (art. 26 ), all'art. 27 il legislatore ha disposto che è la legge a determinare i casi nei quali le pene pecuniarie sono fisse e quelli in cui sono proporzionali. Le pene pecuniarie proporzionali non hanno limite massimo. Come noto, ove non siano stabiliti dei limiti, questi vengono fissati dalla legge: la multa deve essere compresa fra cinquanta e cinquantamila euro, mentre l'ammenda non può essere inferiore a venti euro né superiore a diecimila euro. Le pene proporzionali sono piuttosto rare tra le fattispecie codicistiche (es.: artt. 250, 251, 252 ) ed invece assai frequenti nella disciplina dei reati in materia tributaria, alimentare, forestale e previdenziale, ad esempio, al fine di disincentivare il compimento di detti reati. Pene pecuniarie fisseSono le pene pecuniarie il cui ammontare è fissato in maniera determinata dal legislatore non mediante contenimento in una cornice edittale, ma in una misura unica. Il giudice può aumentare o diminuire la pena ritenendo applicabili al caso di specie circostanze aggravanti o attenuanti, ma non può applicare discrezionalmente la pena ai sensi dell'art. 133 c.p. (Paliero, 725; Romano, Commentario, 242). Questioni di legittimità costituzionale Le pene pecuniarie fisse hanno da sempre posto dubbi di legittimità costituzionale con riferimento ad alcuni principi costituzionali e precisamente: il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), dovendo il giudice applicare la medesima pena nei confronti fattispecie in concreto differenti (Bricola, 195; Dolcini, 408; Turnaturi, 1417); il principio di legalità (art. 25, comma 2, Cost.), difettando la predeterminazione legale; il principio di colpevolezza (art. 27, comma 1), essendo precluso al giudice un intervento diretto ad adeguare la pena alla colpevolezza del reo (Spasari, 136; Turnaturi, 1427); il principio di rieducazione del condannato (art. 27, comma 3), essendo preclusa l'individualizzazione della pena (Bricola, 212). In un primo momento la Consulta ha respinto ogni censura sollevata (Corte cost., n. 67/1963; Corte cost., n. 12/1966; Corte cost., n. 113/1968) evidenziando la possibilità di adeguare la pena alle condizioni personali del reo attraverso il ricorso alle circostanze aggravanti ed attenuanti ed affermando che il principio di rieducazione riguarda unicamente la fase dell'esecuzione della pena. Successivamente, pur continuando a respingere la questione sottoposta al suo esame, la Corte si è pronunciata ritenendo che « in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono [...] in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale ed il dubbio d'illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell'illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato » (Corte cost., n. 50/1980). In relazione al principio di legalità, la Consulta ha affermato che la legittimità costituzionale della previsione delle pene pecuniarie proporzionali precisando che il principio di legalità della pena non ha come fine quello di rendere « prevedibile quale sia la sanzione nella quale si incorre per ciascun reato, né implica che la legge debba determinare in modo rigido la pena da infliggere in concreto » (Corte cost., n. 15/1962) e che il principio in parola « risulta rispettato attraverso la predeterminazione normativa del rapporto tra entità della violazione (e quindi del danno arrecato) e pena pecuniaria» (Corte cost., n. 200/1993). Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell'art. 291-bis d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 in relazione all'art. 27, comma 3, la Consulta ha altresì precisato che ove unitamente alla pena pecuniaria fissa il giudice deve infliggere anche una pena detentiva liberamente determinabile, questi ha « un consistente margine di adeguamento del trattamento sanzionatorio alle particolarità del caso concreto, anche in rapporto a parametri oggettivi e soggettivi diversi dalla semplice «dimensione quantitativa» dell'illecito »; ad avviso della Corte, in ipotesi siffatte la pena edittale complessivamente intesa non può considerarsi fissa (Corte cost., n. 475/2002). Ancora, la Suprema Corte ha respinto le censure sollevate in ordine alla capacità di adeguamento delle pene fisse alle condizioni economiche del reo ai sensi dell'art. 133-bis affermando che la previsione secondo cui la determinazione dell'ammontare della pena è effettuata (anche) valutando le condizioni economiche del reo ha carattere generale e deve applicarsi ogni volta che il legislatore abbia previsto l'applicazione di una sanzione non fissa, ma da determinare all'interno di una data cornice edittale. Pene detentive fisse Preme precisare in questa sede che il nostro ordinamento prevede anche pene detentive fisse: si pensi all'ergastolo (art. 22) e, in tema di pene detentive temporanee, alla previsione della pena della reclusione per trenta anni per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione nel caso in cui dal sequestro derivi, quale conseguenza non voluta dal reo, la morte della persona sequestrata (art. 630, comma 2) e per i delitti di cui agli artt. 280, comma 4, e 289-bis, comma 2, in tema di attentato e sequestro di persona commessi per finalità di terrorismo. Pene pecuniarie proporzionaliTali pene non hanno un limite massimo e pongono problemi in merito all'individuazione del limite minimo. Tradizionalmente, si distinguono in pene proporzionali proprie ed improprie. Si hanno pene proporzionali proprie — chiamate anche “a proporzionalità costante” — quando il legislatore dispone un coefficiente fisso o contenuto tra un minimo ed un massimo che deve essere moltiplicato con altre variabili che costituiscono la base del calcolo della pena, fornita dalla stessa fattispecie concreta (si pensi, ad esempio, al valore del bene oggetto materiale del reato). Esempio tipico di pena proporzionale propria è quella di cui all'art. 250, che disciplina il commercio con il nemico prevedendo la pena della multa pari al quintuplo del valore della merce (oltre che, in ogni caso, non inferiore a milletrentadue euro). Nelle pene proporzionali improprie — chiamate anche “a proporzionalità progressiva” o “eventualmente proporzionali” — invece, la base del calcolo della pena è fissa o comunque determinabile tra un minimo ed un massimo indicati dalla legge e la fattispecie concreta individua il coefficiente moltiplicatore. Questioni di legittimità costituzionale e di compatibilità con taluni istituti di diritto penale Anche le pene pecuniarie proporzionali hanno presentato dubbi di compatibilità costituzionale (si rinvia sul tema a quanto già enunciato supra) ed hanno posto dubbi di compatibilità con gli istituti di cui agli artt. 62-bis e 56. Quanto alle circostanze attenuanti generiche (art. 62-bis), dottrina e giurisprudenza ne ammettono l'applicabilità anche in relazione alle pene proporzionali (Gioisis, 100) evidenziando che la diminuzione apportata alla pena prescinde dalla qualità della pena e dal modo nel quale il giudicante deve pervenire all'applicazione in concreto della medesima (Cass. I, n. 872/1966). In relazione al tentativo, la dottrina esclude, di massima, che la disciplina di cui all'art. 56 sia applicabile alle pene proporzionali ritenendo di fatto impossibile quantificare la pena dove non si sia verificato il fatto materiale da cui discende la condanna (Gioisis, 100); di diverso avviso la giurisprudenza, secondo la quale la disciplina di cui all'art. 56 è applicabile anche in relazione alle pene pecuniarie proporzionali ove sia possibile accertare l'entità della sofisticazione che il reo avrebbe realizzato se la sua azione non fosse stata interrotta (Cass. VI, n. 8069/1972, relativa alla previsione di cui all'art. 76 d.P.R. 12 febbraio 1965, n. 162, in tema di frodi nella preparazione e nel commercio dei mosti, vini ed aceti). È stata discussa a lungo l'applicabilità della disciplina della continuazione di cui all'art. 81 ai reati puniti con pene pecuniarie proporzionali. Superando il più risalente e consolidato orientamento secondo cui doveva ritenersi esclusa detta applicabilità (Cass. VI, n. 8069/1972), le Sezioni Unite sono intervenute affermando che in presenza di pene pecuniarie proporzionali improprie comminate per fattispecie legali a struttura pluralistica, non è applicabile la previsione di cui all'art. 81, fondato sul diverso sistema del cumulo giuridico, che si sostituisce al cumulo materiale e prevede un meccanismo sanzionatorio ispirato dall'esigenza di mitigare il rigore del trattamento punitivo fondato sul principio tot delicta tot poenae; è stata invece affermata l'applicabilità dell'art. 81 alle fattispecie legali a struttura unitaria sanzionate con pene proporzionali proprie (Cass. S.U., n. 5690/1981). Contra Padovani, 237; Picotti, 235; Romano, Commentario, 244. Successivamente, la giurisprudenza di legittimità ha fatto ritorno alla originaria impostazione (Cass. VI, n. 9361/1992) affermando l'inapplicabilità della disciplina di cui all'art. 81 a tutti i reati puniti con pena proporzionale sia propria che impropria affermando che ove stabilisce che una pena sia proporzionale all'entità o al numero delle infrazioni, la legge esclude implicitamente l'applicabilità della normativa sulla continuazione, non prevedendo essa la proporzionalità della pena in rapporto all'entità o al numero delle violazioni che vengono a confluire nel reato continuato e non potendo il giudice sovvertire il meccanismo della proporzionalità (nel caso di specie, il giudice di merito aveva ritenuto la continuazione tra il reato di contrabbando e quello di resistenza a pubblico ufficiale e, considerato più grave il secondo, aveva applicato un aumento della pena detentiva per il reato satellite; la Suprema Corte ha censurato la decisione ritenendo che il giudice di merito avrebbe dovuto applicare per il reato di contrabbando la pena pecuniaria proporzionale della multa). Recentemente, la Suprema Corte ha nuovamente cambiato posizione sul tema in argomento (Cass. I, n. 37696/2011) affermando che in ipotesi di pene pecuniarie proporzionali improprie comminate per fattispecie incriminatrici a struttura pluralistica non è applicabile la disciplina della continuazione (art. 81), dovendosi invece ritenere applicabile il meccanismo sanzionatorio basato sul diverso sistema del cumulo materiale. L'applicabilità dell'istituto della continuazione è stata invece affermata per le pene proporzionali proprie. Su tale posizione si sono assestate nuovamente le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 25939/2013), chiamate anche a pronunciarsi in ordine ai criteri per l'individuazione della violazione più grave ai fini del computo della pena del reato continuato, vale a dire se debba valutarsi in concreto o con riguardo alla valutazione astratta del legislatore. BibliografiaBricola, Pene pecuniarie, pene fisse e finalità rieducative, in AA.VV., Sul problema della rieducazione del condannato, Padova, 1964, 161; Dolcini, Pene pecuniarie e principio costituzionale di eguaglianza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1972, 408; Padovani, Diritto penale del lavoro, Milano, 1983; Paliero, Pene fisse e Costituzione: argomenti vecchi e nuovi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1981, 725; Picotti, Pene pecuniarie proporzionali e cumulo giuridico ex art. 81 c.p., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1980, 229; Spasari, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966;Turnaturi, Aspetti problematici della costituzionalità delle pene pecuniarie fisse e proporzionali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1977, 1412. |