Codice Penale art. 28 - Interdizione dai pubblici uffici.

Alessandro Trinci

Interdizione dai pubblici uffici.

[I]. L'interdizione dai pubblici uffici è perpetua o temporanea [29].

[II]. L'interdizione perpetua dai pubblici uffici, salvo che dalla legge sia altrimenti disposto, priva il condannato:

1) del diritto di elettorato o di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale [48 3 Cost.], e di ogni altro diritto politico;

2) di ogni pubblico ufficio, di ogni incarico non obbligatorio di pubblico servizio, e della qualità ad essi inerente di pubblico ufficiale [357] o d'incaricato di pubblico servizio [358];

3) dell'ufficio di tutore [346, 424 c.c.] o di curatore [48, 90, 247 3, 248 3, 264 2, 320 6, 321, 356, 392, 424, 508, 528 c.c.; 78 c.p.c.; 605 c. nav.], anche provvisorio, e di ogni altro ufficio attinente alla tutela o alla cura [338 c.p.p.];

4) dei gradi e delle dignità accademiche, dei titoli, delle decorazioni o di altre pubbliche insegne onorifiche;

5) degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico (1);

6) di ogni diritto onorifico, inerente a qualunque degli uffici, servizi, gradi o titoli e delle qualità, dignità e decorazioni indicati nei numeri precedenti;

7) della capacità di assumere o di acquistare qualsiasi diritto, ufficio, servizio, qualità, grado, titolo, dignità, decorazione e insegna onorifica, indicati nei numeri precedenti.

[III]. L'interdizione temporanea [37] priva il condannato della capacità di acquistare o di esercitare o di godere, durante l'interdizione, i predetti diritti, uffici, servizi, qualità, gradi, titoli e onorificenze (2).

[IV]. Essa non può avere una durata inferiore a un anno, né superiore a cinque [37, 79].

[V]. La legge determina i casi nei quali l'interdizione dai pubblici uffici è limitata ad alcuni di questi [512, 541 1, 564 4, 569, 609-nonies] (3).

(1) La Corte cost., con sentenza 13 gennaio 1966, n. 3, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente numero «limitatamente alla parte in cui i diritti in esso previsti traggono titolo da un rapporto di lavoro». Successivamente la Corte cost., con sentenza 19 luglio 1968, n. 113 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dello stesso numero «per quanto attiene alle pensioni di guerra» e ciò anche con riguardo alla sopravvenuta emanazione della l. 8 giugno 1966, n. 424, il cui art. 1 ha abrogato «le disposizioni che prevedono, a seguito di condanna penale o di provvedimento disciplinare, la perdita, la riduzione o la sospensione del diritto del dipendente dello Stato o di altro Ente pubblico al conseguimento e al godimento della pensione o di ogni altro assegno od indennità da liquidarsi in conseguenza della cessazione del rapporto di dipendenza».

(2) La Corte cost., con sentenza 13 gennaio 1966, n. 3 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma «limitatamente alla parte in cui i diritti in esso previsti traggono titolo da un rapporto di lavoro».

(3) V. art. 12 d.lg. 10 marzo 2000, n. 74 (ora, art. 86 d.lgs. 5 novembre 2024, n. 173) per alcune previsioni particolari di pene accessorie in materia tributaria.

Inquadramento

L'interdizione dai pubblici uffici è la più importante sanzione interdittrice prevista dal nostro ordinamento.

Salvo che dalla legge sia altrimenti disposto, essa priva il condannato del diritto di elettorato o di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale e di ogni altro diritto politico, nonché della capacità di ricoprire ogni pubblico ufficio od incarico non obbligatorio di pubblico servizio e della qualità ad essi inerente di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Impedisce altresì al condannato di ricoprire l'ufficio di tutore o di curatore (anche provvisorio) e ogni altro ufficio attinente alla tutela o alla cura; i gradi e le dignità accademiche, i titoli, le decorazioni o altre pubbliche insegne onorifiche; gli stipendi, le pensioni e gli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico. L'interdizione impedisce infine al condannato di conseguire ogni diritto onorifico, inerente a qualunque ufficio, servizio, grado o titolo e delle qualità, dignità e decorazioni sopra indicati e lo priva della capacità di assumere o di acquistare qualsiasi diritto, ufficio, servizio, qualità, grado, titolo, dignità, decorazione e insegna onorifica sopra indicata.

L'interdizione dai pubblici uffici può essere temporanea o perpetua. Ove sia temporanea, essa priva il condannato della capacità di acquistare, esercitare o godere i predetti diritti, uffici, servizi, qualità, gradi, titoli e onorificenze per tutto il periodo della sua durata.

Essa non può avere una durata inferiore a un anno, né superiore a cinque.

L'interdizione consegue alla condanna per un reato realizzato mediante abuso di poteri o violazione di doveri inerenti alla pubblica funzione o al pubblico servizio ovvero è disposto come pena accessoria per alcuni reati contro la pubblica amministrazione.

Poiché le pene accessorie conseguono di diritto alla sentenza di condanna come effetti penali della stessa (art. 20 ), esse non possono essere mantenute in ipotesi di proscioglimento dell'imputato, anche se pronunciato a seguito di estinzione del reato per prescrizione (Cass. VI, n. 18256/2015).

Durata

L'interdizione dai pubblici uffici può essere perpetua o temporanea.

Nel caso in cui sia temporanea, la durata minima è di un anno, mentre quella massima è di cinque anni.

Comportano l'interdizione perpetua la condanna all'ergastolo e la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni.

Anche la dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto, ovvero di tendenza a delinquere, importa l'interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Ove non sia specificamente e preventivamente determinata, la durata della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per i reati previsti dal codice penale è pari a quella della pena principale irrogata e, in ogni caso, non inferiore ad un anno (Cass. IV, n. 43991/2013). Ne discende che la sentenza che disponga la condanna all'interdizione temporanea dai pubblici uffici senza determinarne la durata non può dirsi nulla, essendo tale durata predeterminata per legge a norma dell'art. 29 (Cass. I, n. 46254/2012).

La determinazione della pena principale

Ai fini dell'applicazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, la sussistenza del presupposto del quantum di pena irrogato a titolo di pena principale deve essere valutata tenendo in considerazione anche eventuali diminuzioni processuali (Cass. I, n. 18149/2014).

Ove più reati siano unificati sotto il vincolo della continuazione, ai fini dell'applicazione della pena accessoria occorre fare riferimento alla misura della pena base stabilita per il reato più grave (tenuto conto anche del bilanciamento tra circostanze) e non a quella complessiva risultante dall'aumento della continuazione (Cass. VII, n. 48787/2014).

La Suprema Corte ha avuto modo di precisare altresì che la condanna per più reati previsti dall'art. 317-bis che siano uniti dal vincolo della continuazione per i quali sia inflitta la pena della reclusione per un tempo complessivamente non inferiore a tre anni, determina l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, ai sensi dell'art. 77, comma 2, a norma del quale ove concorrono pene accessorie della stessa specie, queste si applicano tutte per intero (Cass. VI, n. 39784/2014).

In caso di erronea determinazione della durata della sanzione accessoria, l'interessato può ricorrere in fase esecutiva alla procedura di correzione dell'errore materiale al fine di far adeguare la durata della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici a quella prevista, in termini non discrezionali, dalla legge, ma determinata in misura errata da parte del giudice della cognizione (Cass. I, n. 38245/2010).

Contenuto

L'interdizione dai pubblici uffici priva il condannato della capacità di assumere o mantenere alcuni incarichi di rilevanza pubblicistica, nonché di alcuni diritti ed utilità per tutto il tempo di durata della pena.

Più nello specifico, l'interdizione in parola priva il condannato del diritto di elettorato attivo e passivo (art. 28, comma 2, n. 1). Detto limite ha riguardo ad ogni organo rappresentativo, sovranazionale e nazionale, fino agli organi delle circoscrizioni.

Giova ricordare in questa sede che dispongono la privazione o la sospensione dell'elettorato attivo e passivo anche alcune leggi speciali, in relazione al compimento di reati contro la pubblica amministrazione (v. art. 2, comma 5, l. 20 giugno 1952, n. 645, in tema di reati relativi alla ricostituzione del partito fascista; art. 113, d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, in tema di leggi recanti norme per l'elezione della Camera dei deputati; art. 102, d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, in tema di composizione ed elezione degli organi delle amministrazioni comunali).

Nell'interpretazione di quale sia « ogni altro diritto politico » (art. 28, comma 2, n. 1) di cui il condannato viene privato deve procedersi operando un'interpretazione il più possibile restrittiva, senza che sia imposta la compressione di diritti costituzionalmente garantiti (v. sul tema Pisa, 100).

Ancora, l'interdizione in parola priva il condannato di « ogni pubblico ufficio, di ogni incarico non obbligatorio di pubblico servizio, e della qualità ad essi inerente di pubblico ufficiale o d'incaricato di pubblico servizio » (art. 28, comma 2, n. 2).

Vale a dire che il condannato perde gli uffici che ricopre in forza di una nomina o incarico da parte dello Stato o di un altro ente pubblico (si ha riguardo dunque all'incarico di parlamentare così come a quello di curatore fallimentare, per esempio).

Il condannato perde altresì la possibilità di mantenere o assumere l'ufficio di tutore o curatore (anche se provvisorio), e di ogni altro ufficio attinente alla tutela o alla cura (art. 28, comma 2, n. 3).

L'art. 28, comma 2, n. 4, fa riferimento alla perdita dei « gradi e della dignità accademiche, dei titoli, delle decorazioni o di altre pubbliche insegne onorifiche »; tra essi possono essere indicati il titolo di dottore o altro titolo equivalente, la nomina a membro di un'accademia pubblica e l'incarico di libera docenza.

Il numero 5 del capoverso dell'art. 28  dispone che all'interdizione dai pubblici uffici segua la perdita degli stipendi, delle pensioni e degli assegni posti a carico dello Stato o di un altro ente pubblico. Sul punto è intervenuta la Corte costituzionale dichiarando l'illegittimità costituzionale della suddetta disposizione limitatamente alla parte in cui i diritti in esso previsti traggono titolo da un rapporto di lavoro.

A norma dell'art. 27, l. 11 marzo 1953, n. 87, la Consulta ha dichiarato anche l'illegittimità costituzionale del terzo comma dello stesso art. 28 nei medesimi limiti (Corte cost., n. 3/1966).

La Consulta ha evidenziato che la retribuzione dei lavoratori (sia quella corrisposta nel corso del rapporto di lavoro, sia quella differita erogata alla cessazione del rapporto) è oggetto di particolare protezione nel nostro sistema costituzionale. L'art. 36 Cost. garantisce infatti il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa; ad avviso della Corte, non può dirsi compatibile con i principi costituzionali « collegare indiscriminatamente (come fa l'art. 28, n. 5, del Codice penale, integrato dall'art. 29), per il personale degli enti pubblici e i loro aventi causa, la perdita di tale diritto al fatto che il titolare di esso abbia riportato la condanna a una certa pena detentiva ».

Con l'interdizione dai pubblici uffici viene meno anche ogni diritto onorifico inerente a qualunque degli uffici, servizi, gradi o titoli e delle qualità, dignità e decorazioni più sopra indicate (art. 28, comma 2, n. 6) e la capacità per il condannato di assumere o di acquistare qualsiasi diritto, ufficio, servizio, qualità, grado, titolo, dignità, decorazione e insegna onorifica, sopra menzionati (art. 28, comma 2, n. 7).

L'ultimo comma dell'art. 28 dispone che la legge determina i casi nei quali l'interdizione dai pubblici uffici è limitata ad alcuni di questi. Si pensi alla previsione di cui all'art. 512, che dispone l'interdizione da ogni ufficio sindacale per la durata di cinque anni in ipotesi di condanna per alcuno dei delitti di cui agli artt. 502 e ss., oppure alla previsione di cui all'art. 609-nonies c.p., che dispone che alla condanna per taluno dei reati di cui agli artt. 609-bis e ss.  conseguano la perdita della responsabilità genitoriale, quando la qualità di genitore è elemento costitutivo o circostanza aggravante del reato (n. 1); l'interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all'amministrazione di sostegno (n. 2); la perdita del diritto agli alimenti e l'esclusione dalla successione della persona offesa (n. 3); l'interdizione temporanea dai pubblici uffici, l'interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni in seguito alla condanna alla reclusione da tre a cinque anni, ferma restando, comunque, l'applicazione dell'articolo 29, primo comma, quanto all'interdizione perpetua (n. 4); la sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte (n. 5). Ove il reato sia commesso nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni diciotto, la condanna comporta in ogni caso l'interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o in altre strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori.

Concorso con eventuali sanzioni disciplinari

Stante il carattere autonomo di entrambe, si ritiene che l'interdizione dai pubblici uffici possa concorrere con eventuali sanzioni disciplinari che siano comminate nei confronti del reo (Cass. V, n. 886/1968).

Si segnala sul tema la l. 27 marzo 2001, n. 97, recante la normativa sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, che ha previsto l'introduzione dell'art. 32-quinquies c.p., ove si dispone che, salvo quanto previsto dagli artt. 29 e 31, la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni (oggi due anni a seguito della l. 27 maggio 2015, n. 69) per i delitti di cui agli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, comma 1, e 320 comporta anche l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica.

La l. n. 97/2001 ha altresì disposto che, salvo quanto disposto dall'art. 32-quinquies, ove sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna, ancorché a pena condizionalmente sospesa, nei confronti dei dipendenti sopra menzionati, l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare.

Dubbi di legittimità costituzionale

Si è già detto che la Corte costituzionale si è pronunciata dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 28, commi 2, n. 5, e 3 nella parte in cui i diritti in esso previsti traggono titolo da un rapporto di lavoro. La Corte ha anche affermato la violazione dell'art. 3 Cost. ritenendo non ammissibile la discriminazione realizzata tra dipendenti pubblici e privati.

La Consulta ha altresì dichiarato illegittime le previsioni di cui ai numeri 3 e 5 dell'art. 28  per contrasto con l'art. 3 Cost. nella parte in cui l'interdizione dai pubblici uffici veniva a colpire il percepimento delle pensioni di guerra (Corte cost., n. 113/1968).

Sono state, invece, dichiarate manifestamente infondate le questioni sollevate con riguardo all'art. 27, comma 3, Cost. con riguardo al tema della durata perpetua della privazione dell'elettorato attivo e passivo (Cass. I, n. 6714/1979). Respinta ogni censura di illegittimità della pena dell'ergastolo, è stata in più occasioni respinta la questione in merito all'illegittimità costituzionale della durata perpetua dell'interdizione di cui trattasi (Corte cost., 264/1974; Cass. I, n. 6183/1980).

In dottrina si manifestano perplessità in ordine a taluni aspetti dell'interdizione dai pubblici uffici, specialmente con riguardo al novero di ipotesi alle quali essa consegue, tenuto conto anche del fatto che non raramente la sanzione perpetua si accompagna ad una pena principale di durata temporanea e della disparità di trattamento riservata ai dipendenti pubblici, rispetto ai lavorati nel settore privato (Larizza 1986, 113).

Profili processuali

 La Suprema Corte, nella sua composizione più autorevole, ha chiarito quali sono i rimedi nei confronti delle sentenze che abbiano omesso di applicare pene accessorie predeterminate nella durata.

Se il giudice omette di applicare una pena accessoria, la sentenza è ricorribile per cassazione per violazione di legge da parte sia del Procuratore della Repubblica che del Procuratore generale a norma dell'art. 608 c.p.p. (Cass. S.U. n. 47502/2022).

Quanto ai poteri della Suprema Corte, se viene rilevata un'illegittima omessa applicazione di pena accessoria predeterminata nella durata, la sentenza deve essere annullata senza rinvio ai sensi dell'art. 620, lett. l), c.p.p., mentre non può essere rettificata ai sensi dell'art. 619, comma 2, c.p.p., perché il presupposto della rettificazione consiste nell'esigenza di emendare solamente la specie o la qualità della pena, mentre l'omissione di quest'ultima, integrando un vizio della sentenza, rende la decisione carente di una disposizione necessaria (Cass. S.U. n. 47502/2022).

Se la sentenza che ha omesso di applicare la pena accessoria e non viene impugnata in parte qua passando in giudicato, alla omessa applicazione di una pena accessoria predeterminata nella durata deve porre rimedio, a norma degli artt. 662 e 183 disp. att. c.p.p., il giudice dell'esecuzione, su iniziativa del pubblico ministero, con procedimento da tenersi nelle forme dell'art. 676 c.p.p., non potendo trovare applicazione l'art. 130 c.p.p. (Cass. S.U. n. 47502/2022).

In giurisprudenza si è sostenuto in più occasioni che ove il giudice di appello, investito del giudizio per effetto dell'impugnazione del solo imputato, applichi la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici in luogo di quella temporanea, erroneamente disposta in primo grado, detta modifica non viola il principio della reformatio in peius, venendo unicamente a recuperare un errore effettuato dal giudice precedente (Cass. VI, n. 49759/2012).

In  fase esecutiva ,  il Pubblico Ministero, nel determinare la durata della pena accessoria in esame , deve computare la misura interdittiva di contenuto corrispondente che fosse stata eventualmente disposta, a titolo cautelare, nei riguardi dell'imputato con provvedimento dell'autorità giudiziaria nei casi previsti  dall'art. 289 c.p.p.  Tale fungibilità , prevista dall'art. 662, comma 2 , c.p.p.  non opera rispetto  alla   sospensione di diritto da una carica pubblica   prevista dagli artt. 10 e 11 d.lgs. n. 235/2012 e alla  sospensione cautelare amministrativa dal servizio   ex  art. 4   l .  n. 97 / 2001 . Si tratta, infatti, di titoli diversi, adottati all'esito di procedimenti diversi, che sono diretti al soddisfacimento di finalità giuridiche e sociali differenti e sottoposti a regole applicative distinte, con riguardo sia ai presupposti applicativi che ai relativi giudizi valutativi  (Cass. I, n. 14025/2022) .  Le pene accessorie   sono caratterizzate dalla natura afflittiva tipica della   sanzione penale e conseguono di diritto  a lla condanna alla pena principale come effetto automatico della stessa , mentre  i  suddetti  provvedimenti amministrativi   assolvono ad   esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica  amministrazione   presso la quale il soggetto colpito presta servizio, con compiti di natura   essenzialmente preventiva e cautelare.   Con riferimento alle misure della incandidabilità, della decadenza e della sospensione dalle cariche pubbliche elettive stabilite dal  d . l gs. n. 235 / 2012 ,  l a non assimilabilità  alle sanzioni penali (principali e accessorie) e alle sanzioni amministrative di natura punitiva-afflittiva è stata riconosciuta sia dalla Corte costituzionale (sentenza n.  276 del 2016) che dalla  Corte  Europea dei Diritti dell'U omo  (Corte EDU,  s ez. I,  sent .,  17 giugno 2021,  Galan  c. Italia e Miniscalco c. Italia).

Bibliografia

Larizza, Sulla natura giuridica della perdita del diritto di elettorato attivo conseguente all'interdizione dai pubblici uffici conseguente a condanna penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1976, 330; Larizza, Le pene accessorie, Padova, 1986; Menghini, Le sanzioni penali a contenuto interdittivo. Una prospettiva de iure condendo, Torino, 2008; Pisa, in Crespi-Forti-Zuccalà (a cura di), Commentario breve al codice penale, Padova, 2008.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario