Codice Penale art. 41 - Concorso di cause.Concorso di cause. [I]. Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento [62 n. 5]. [II]. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita. [III]. Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui. InquadramentoDopo avere affermato, nell'art. 40 c.p., che l'evento dannoso o pericoloso dal quale dipende l'esistenza del reato deve essere conseguenza dell'azione o dell'omissione del soggetto agente — così espressamente riconoscendo l'esigenza della sussistenza di un legame causale tra la condotta e l'evento —, il legislatore, con l'art. 41, ha disciplinato positivamente il fenomeno, in particolare con riferimento alle concause, ovvero al possibile concorso nella produzione di uno stesso evento di più condizioni, che possono essere antecedenti, concomitanti o successive rispetto alla condotta del reo. Detto fenomeno non è eccezionale, ma rispecchia l'ordinario svolgimento dei « decorsi causali », poiché alla produzione di un evento concorrono, di norma, più fattori causali ed è molto raro che la singola condotta del reo esaurisca da sola il processo causativo: affinché la condotta umana assurga a « causa », nei termini rilevanti per il diritto penale, occorre che essa costituisca una delle condizioni necessarie che concorrono a determinare l'evento tipico (Fiandaca-Musco, PG, 251 ss.). La dottrina ritiene che solo apparentemente il compito dell'interprete risulterebbe agevolato, nella ricostruzione del concetto di « causalità », dall'esistenza della disciplina di cui agli artt. 40 e 41 (perlopiù assunta quale riscontro alle soluzioni ricavate aprioristicamente), poiché dette norme si prestano a letture diverse, non riuscendo ad indicare un modello ben definito e univoco di causalità. L'unica certezza è costituita dal fatto che l'art. 40, comma 1, c.p., nel prescrivere che l'evento dannoso o pericoloso dal quale dipende l'esistenza del reato deve essere conseguenza della condotta del reo, riconosce esplicitamente l'esigenza della sussistenza di un legame causale tra la condotta e l'evento (Fiandaca-Musco, PG, 228 ss.). Non avendo il codice penale esplicitato quali siano le condizioni necessarie affinché l'evento lesivo possa essere considerato conseguenza della condotta, sono state elaborate in argomento numerose teorie. Si è osservato che la dottrina tradizionale non avrebbe elaborato alcuna teoria realmente ed esattamente consapevole della funzione del rapporto di causalità all'interno della struttura del reato, e ciò ha comportato che il rapporto causale sia stato considerato come un quid autonomo, avulso dagli altri problemi del diritto penale, e ne siano state formulate nozioni aventi un valore assoluto, ovvero valide per tutti i tipi di reato, senza rendersi conto della diversa funzione dell'evento nei reati dolosi, nei reati colposi e nei reati a responsabilità da rischio totalmente illecito, e della conseguente necessità di una corrispondente differenziazione della ricerca in tema di causalità, poiché (Pagliaro, PG, 352 ss.): a) nei reati dolosi, il rapporto causale deve spiegare come mai l'evento costituisca la realizzazione del volere; b) nei reati colposi, esso deve offrire un collegamento tale da rendere possibile il concretizzarsi della qualifica normativa di negligenza, imprudenza ed imperizia o di violazione di norme; c) nei reati a responsabilità da rischio totalmente illecito, infine, si deve porre il requisito causale della evitabilità finalistica del risultato. Le principali dottrine sulla causalitàIl problema della determinazione dei casi in cui l'evento costituisce conseguenza della condotta è stato tradizionalmente all'attenzione della dottrina, in particolare di quella tedesca (poiché l'ordinamento tedesco non contiene una disciplina positiva della causalità), ma anche di quella italiana, non avendo il codice penale esplicitato quali siano le condizioni necessarie affinché l'evento lesivo possa essere considerato conseguenza della condotta: a ) i fautori della teoria condizionalistica pura (ovvero dell'equivalenza o della condicio sine qua non) ( Siniscalco, 639), che si richiama ai principi filosofici della causalità elaborati da Stuart Mill, ritengono che ogni singola condizione antecedente, che non possa essere mentalmente eliminata senza che l'evento stesso venga meno, ne costituisca causa. Tuttavia, nel considerare equivalenti tutte le condizioni, la teoria si presta ad applicazioni inaccettabili, per un verso, ampliando indiscriminatamente il campo della responsabilità penale (ad es., potrebbe rispondere di omicidio — avendo posto in essere una condizione dell'evento morte — il ladro che abbia derubato Tizio, successivamente deceduto in un sinistro stradale verificatosi mentre si recava al più vicino Commissariato di P.S. per denunciare il furto; e persino, estremizzando, i genitori che abbiano generato il figlio poi ucciso da terzi), per altro verso, originando notevoli incertezze nei casi in cui risultino ignote le leggi causali che regolano la produzione di determinati fenomeni (ad es., quando non si conoscono i possibili effetti nocivi dell'assunzione di una determinata sostanza, eliminando mentalmente la sua assunzione come possibile causa, non sarà mai dato sapere se l'evento morte o lesioni — in concreto verificatosi — si sarebbe ugualmente verificato); b ) i fautori della teoria della causalità adeguata, elaborata non da un giurista, ma dal fisiologo Von Kries, ritengono che il rapporto di causalità tra la condotta e l'evento sia configurabile soltanto nei casi in cui la condotta umana risulti idonea, proporzionata, adeguata a determinare l'evento, in chiave probabilistica: diversamente dalla teoria condizionalistica pura, si propone, pertanto, di considerare, tra le varie possibili condotte antecedenti, soltanto quelle veramente rilevanti. Peraltro, il riferimento alla probabilità del verificarsi dell'evento come effetto della condotta, collega la configurabilità del rapporto di causalità ad un elemento — la probabilità — che appare estraneo al campo della causazione effettiva dei fenomeni naturali; inoltre, come la teoria condizionalistica, anche la teoria in esame giunge a risultati incerti, finendo col considerare atipico l'evento che derivi dalla condotta sulla base di un processo di sviluppo causale ancora ignoto (si pensi, ad es., alle possibili conseguenze dannose dell'assunzione di farmaci, sulla base di interazioni scientificamente non ancora verificate). Nell'ambito di questa teoria, la dottrina tedesca ha più recentemente precisato che il rapporto di causalità sussisterebbe in tutti i casi nei quali, con giudizio di prognosi operato ex ante (cioè al momento in cui ha luogo la condotta) ed in concreto (cioè impiegando le medesime conoscenze dell'agente) non risulti improbabile che la condotta potesse produrre l'evento: tuttavia, attraverso il giudizio di prognosi operato ex ante non potrebbe essere escluso il nesso di derivazione causale in tutti i casi nei quali la condotta era in astratto idonea a produrre l'evento, ma quest'ultimo sia stato prodotto dal sopraggiungere di un fattore causale non previsto e non prevedibile per l'agente (ad es.: Tizio spara a Caio per ucciderlo, con condotta che, valutata ex ante ed in concreto, aveva elevata probabilità di successo, nondimeno Caio, soltanto ferito, muore in un incidente stradale verificatosi mentre lo portavano in ospedale). Per porre rimedio a questa obiezione, si potrebbe aver riguardo non alla prevedibilità dell'evento astratto (es.: la morte), ma dello specifico evento verificatosi nel caso concreto (es.: la morte in un sinistro stradale, che è ben diversa da quella avvenuta in conseguenza dello sparo), che nel caso esaminato non sussisterebbe. Tuttavia, la dottrina dominante reputa ugualmente inaccoglibile la teoria, poiché essa, comunque, “si espone ad un triplice ordine di obiezioni. Primo: non è agevole conciliare il requisito della prevedibilità ex ante dell'evento con l'accertamento della causalità che dovrebbe invece basarsi su giudizi ex post e di natura rigorosamente oggettiva, cioè che prescindono dalle capacità di previsione sia dell'agente-modello sia dell'agente concreto. Secondo: sul terreno più specifico della dottrina generale del reato, la teoria dell'adeguatezza finisce per includere nell'ambito della causalità considerazioni che, invece, più propriamente appartengono alla sfera della colpevolezza. Terzo: lo stesso concetto di adeguatezza, in quanto fondato sui giudizi di probabilità propri della vita sociale, è inevitabilmente soggetto ad applicazioni incerte” (Fiandaca-Musco, PG, 256); c ) i fautori della teoria della causalità umana, elaborata da Antolisei (PG, 245 ss.), condivisa da numerosi altri Autori (per tutti, Bettiol-Pettoello Mantovani, Diritto, 308 ss.; Romano, Commentario, I, 397 ss.), e recepita dalla giurisprudenza meno recente, interpretando sistematicamente gli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che il rapporto di causalità tra condotta ed evento sussista se (1) l'agente abbia posto in essere una condotta antecedente, che costituisca condizione senza la quale l'evento non si sarebbe verificato; (2) l'evento non si sia verificato per il concorso di fattori causali eccezionali (art. 41, comma 2, c.p.), cioè quelli che hanno una minima probabilità di verificarsi, in rarissimi casi, come effetto di una data condotta, e per tale ragione sfuggono alla signoria dell'uomo, risultando imprevedibili. Peraltro, la ritenuta necessità che l'evento (nel momento in cui ha luogo la condotta) risulti “astrattamente prevedibile” per l'agente, e conseguentemente dominabile da parte sua, confonde l'accertamento del rapporto di causalità (che attiene al profilo oggettivo del reato) e quello della colpevolezza (che attiene all'elemento psicologico), con commistione rilevabile, in relazione a numerose applicazioni pratiche, anche nella giurisprudenza meno recente che aveva recepito la teoria; d ) per tale ragione, secondo i fautori della teoria della causalità scientifica (elaborata in Italia dal Mantovani), è necessario chiarire i concetti di “prevedibilità” e “probabilità”: il relativo giudizio andrebbe operato non in relazione alle personali cognizioni dell'agente (onde evitare che si formi una pluralità di nozioni di causalità, in relazione ai possibili diversi livelli di conoscenza), né in relazione alle conoscenze umane medie (onde evitare di incorrere negli stessi inconvenienti che rendono non accoglibile sic et simpliciter la teoria della causalità umana), bensì sulla base della migliore scienza ed esperienza di un dato momento: la condotta costituirebbe condicio sine qua non dell'evento soltanto nei casi in cui quest'ultimo risulti prevedibile, come conseguenza della prima (non sulla base di valutazioni che attengano alla psiche dell'agente, bensì) in virtù delle superiori conoscenze scientifiche raggiunte negli specifici campi di volta in volta coinvolti; e) secondo i fautori della teoria dell'imputazione obiettiva dell'evento (elaborata dalla più recente dottrina tedesca, ed accolta, in Italia, tra gli altri, dal Romano, sempre per mitigare le inaccettabili conseguenze di una applicazione senza temperamenti della teoria condizionalistica), in alcuni casi nei quali l'uomo non è in grado di governare il decorso eziologico, non si tratta di stabilire se l'agente abbia cagionato l'evento, ma di decidere se questo gli possa essere obbiettivamente imputato come suo proprio fatto, ed a questo fine vanno necessariamente individuati dei parametri ulteriori di attribuzione giuridica dell'evento rispetto a quelli condizionalistici, di natura oltretutto non strettamente causale. Partendo dalla premessa che l'accertamento della sussistenza del rapporto di causalità è finalizzato a valutare se l'agente possa esser ritenuto penalmente responsabile in ordine al verificarsi di un evento, si propone — sempre che una condotta costituisca condicio sine qua non di un evento — di specificare il campo dell'indagine sulla sussistenza del nesso di derivazione causale dell'evento dalla condotta, attraverso il ricorso a due criteri ulteriori: e1 ) — in virtù del criterio dell'aumento del rischio, l'imputazione oggettiva dell'evento ha luogo in tutti i casi nei quali la condotta tenuta dall'agente abbia significativamente incrementato le probabilità del verificarsi dell'evento in concreto verificatosi (“ sarebbero, infatti, giuridicamente vietate soltanto le azioni che vanno al di là del rischio socialmente consentito e che producono eventi costituenti realizzazione del rischio vietato: mentre sarebbero lecite le condotte che non comportano un rischio disapprovabile o che non aumentano le chances di verificazione di eventi lesivi “: Fiandaca-Musco, PG, 259). Ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra condotta ed evento, la condotta deve, dunque, aver provocato un aumento del rischio cui il bene tutelato è sottoposto, con la conseguenza che l'imputazione dell'evento all'agente dovrebbe essere esclusa 1) per difetto di un rischio obiettivamente riprovato; 2) per difetto di un rapporto di rischio tra il pericolo determinato dall'agente e le modalità dell'evento concreto; 3) per equivalenza del rischio in caso di azione alternativa lecita; 4) per diminuzione del rischio (Padovani, 135 s.); e2 ) — in virtù del criterio dello scopo della norma violata, la possibilità di imputare oggettivamente l'evento viene meno in tutti i casi nei quali quest'ultimo, pur causalmente dipendente dalla condotta, non costituisce tuttavia concretizzazione dello specifico rischio che la norma violata intendeva prevenire: ad es., nel caso tradizionalmente di scuola del soggetto ingrato che porta in un bosco, con l'intenzione (non materializzata esternamente) di ucciderlo, il ricchissimo congiunto, peraltro in concreto morto per il crollo accidentale di un massiccio tronco d'albero, schiantato da un fulmine, se è vero che la condotta tenuta dal soggetto è condicio sine qua non dell'evento, e che ha aumentato il rischio del verificarsi dell'evento in concreto verificatosi, è anche vero che l'evento concreto non rientrava tra quelli che l'art. 575 c.p. (norma incriminatrice in ipotesi violata) mirava ad impedire. Nelle sue attuali elaborazioni, la teoria dell'imputazione obiettiva dell'evento (inizialmente elaborata dalla dottrina con riferimento ad un sistema giuridico-penale come quello tedesco, nell'ambito del quale, a differenza che in Italia, il codice penale non contiene norme sul nesso di causalità), “ seppure suggestiva e talora capace di suggerire soluzioni equilibrate, non si è ancora tradotta in formulazioni così rigorose e convincenti, tali da farle assegnare un ruolo indiscusso nell'ambito dei criteri dell'accertamento causale. Non è, tuttavia, improbabile che dalla discussione ancora in corso possano emergere sviluppi più appaganti “ (Fiandaca-Musco, PG, 260 s.). Essa non è stata sinora mai espressamente accolta dalla giurisprudenza di legittimità, che anzi ne rifiuta esplicitamente la validità giuridica, ritenendola, in linea di principio, “non condivisibile ed ormai ampiamente superata “ (Cass. IV, n. 840/2008), pur riaffiorando come implicito fondamento di alcune interpretazioni (per un esempio in tema di responsabilità per le conseguenze dell'illecita esposizione di lavoratori alle polveri d'amianto, cfr. Cass. IV, n. 988/2003). La disciplina positivaLa nozione di «causalità» normativamente accolta dall'ordinamento interno è delineata dagli artt. 40, e più ancora 41, del codice penale: per la dottrina, infatti, “è evidente (...) che l'art. 40, comma 1, non dice nulla sul rapporto causale in senso stretto e proprio. L'art. 41, invece, nei suoi tre commi, si sofferma sul problema giuridico della causalità, dettando una regola e prevedendo un'eccezione con riferimento alle ipotesi in cui, per l'interferenza di varie serie o fattori causali, è ragionevolmente controvertibile l'attribuzione oggettiva di un evento a un soggetto “ (Ronco, 161). L'art. 40, comma 1, c.p. stabilisce il principio (generale, poiché “riguarda così i delitti che le contravvenzioni, così i delitti dolosi che i colposi, i preterintenzionali e persino quelli fondati sulla responsabilità obbiettiva”) che primo elemento costitutivo del reato è “l'elemento fisico o materiale, il quale ricorre quando c'è un'azione od omissione e si verifichi un evento ad esso legato da rapporto di causalità” (Relazione del Guardasigilli sul Libro I del Progetto definitivo del C.P., 1929, 83). Non si dubita che il codice penale vigente abbia accolto il principio dell'equivalenza delle cause o della condicio sine qua non, in virtù del quale le cause concorrenti che siano da sole sufficienti a determinare l'evento sono, tutte e ciascuna, causa dell'evento stesso; partendo da tale premessa, la dottrina in atto dominante (Stella, Fiandaca-Musco), nel solco della teoria della causalità scientifica, ha rielaborato la teoria condizionalistica, apportandovi i correttivi ritenuti necessari a superare le principali obiezioni cui essa, se intesa « in senso stretto », andava incontro, evidenziando, in particolare, che: a ) il timore del possibile regresso all'infinito nell'individuazione degli antecedenti causalmente collegati all'evento, viene considerato infondato, poiché “sul terreno dell'imputazione penalistica, si selezionano come antecedenti causali le sole condotte che assumono rilevanza rispetto alla fattispecie incriminatrice di volta in volta considerata: così ad es., non verrebbe mai in mente ad un giudice di ritenere condizione (penalmente rilevante) la procreazione dell'omicida da parte dei genitori. In ogni caso, l'obiezione relativa all'eccessiva estensione del concetto di causa non tiene conto della operatività del dolo e della colpa, come fattori che contribuiscono a circoscrivere l'ambito di rilevanza di tutti i possibili antecedenti del risultato lesivo. Ad es., se un rivenditore di armi vende un'arma ad un soggetto insospettabile legittimato ad acquistarla, e l'arma viene usata per commettere un omicidio, nessun rimprovero — neppure di negligenza — potrebbe essergli mosso” (Fiandaca-Musco, PG, 242 s.). In questo caso, peraltro, l'accertamento della causalità viene collegato, da un lato, a valutazioni dal risultato incerto, perché estremamente soggettive (è ben chiaro che il genitore non abbia posto in essere una condicio sine qua non penalmente rilevante del successivo omicidio del figlio; tuttavia, se si prescinde da questo caso di scuola estremo, il giudizio di “rilevanza” dell'antecedente può prestarsi, in casi pratici meno estremi, a valutazioni discordi), dall'altro, a tematiche a ben vedere attinenti al giudizio sulla colpevolezza, estranee al campo della causalità (così come si contesta, da parte della stessa dottrina, ai fautori della teoria della causalità umana); b ) per quanto riguarda la possibile “causalità alternativa ipotetica” (che si manifesta nei casi in cui l'azione produce un evento che si sarebbe comunque ugualmente verificato, per effetto di un diverso fattore causale: si pensi, ad es., all'esplosione di un colpo d'arma da fuoco che abbia ucciso un uomo che sarebbe comunque di lì a poco rimasto ucciso da una fuga di gas tossico all'interno del suo appartamento), non sarebbe corretto ritenere che, all'esito del procedimento di eliminazione mentale, risulti che l'evento-morte non sia stato causato dalla condotta (poiché esso si sarebbe ugualmente verificato): in realtà, in tal caso, gli eventi-morte sono distinti, poiché l'uno costituisce conseguenza dell'esplosione del colpo d'arma da fuoco, l'altro della fuga di gas. Ai fini dell'accertamento del nesso di derivazione causale di un evento da un'azione, attraverso il procedimento di eliminazione mentale, l'interprete deve, pertanto, considerare soltanto l'evento concreto oggetto della sua disamina, ovvero quello verificatosi hic et nunc, non anche gli altri possibili astratti eventi dello stesso tipo (tornando all'esempio appena fatto, occorrerà prendere in considerazione l'evento-morte prodotto dall'esplosione del colpo di arma da fuoco, non tutti gli altri possibili eventi-morte, aventi diversa matrice causale): “ciò che importa è che una catena causale sussista tra l'azione dell'autore e questo evento concreto, mentre è irrilevante la circostanza che potrebbero verificarsi eventi analoghi per effetto di altre cause operanti all'incirca nello stesso momento”; le eventuali serie causali alternative sono irrilevanti, in quanto ciò che rileva è che la condotta dell'agente non possa “essere eliminata mentalmente senza che l'evento nella sua conformazione concreta venga meno” (Fiandaca-Musco, PG, 243); c ) con riguardo alla c.d. “causalità addizionale”, che ricorre nei casi in cui l'evento è prodotto da più azioni concomitanti indipendenti, ciascuna causalmente idonea, anche da sola, a produrlo (si pensi al caso di scuola della concomitante somministrazione alla vittima, da parte di più agenti che abbiano operato l'uno all'insaputa dell'altro, di dosi di veleno tutte autonomamente sufficienti a provocare l'evento letale), si è osservato che “hanno efficacia causale quelle condizioni dell'evento che, cumulativamente considerate, ne costituiscono un presupposto necessario e che lo sarebbero alternativamente se l'altra condizione mancasse. Solo un uso acritico della tradizionale formula della condicio sine qua non, può qui condurre ad un evento senza causa e ad un fatto senza autore, laddove due soggetti diversi hanno di fatto causato la morte della vittima: in realtà, vanno ritenuti responsabili di omicidio entrambi gli agenti” (Fiandaca-Musco, 243). In applicazione del principio, la giurisprudenza ha, ad esempio, ritenuto che “nell'ipotesi di successive cessioni di sostanza stupefacente, il nesso di causalità materiale tra la prima cessione [condotta] e la morte dell'ultimo cessionario [evento], sopraggiunta quale conseguenza non voluta dell'assunzione della droga, non è interrotto per effetto delle successive cessioni (...); pertanto, risponde del reato di cui agli artt. 586 e 589 c.p. (...) anche l'originario fornitore” (Cass. VI, n. 31760/2003). Segue. L'accertamento del rapporto di causalitàRiepilogando quanto in precedenza esposto, può dirsi che è causa penalmente rilevante la condotta umana (azione od omissione) che si ponga come condicio sine qua non (cioè come condizione necessaria) nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l'evento da cui dipende l'esistenza del reato non si sarebbe verificato. La verifica della causalità postula il ricorso al giudizio controfattuale: la condotta umana è condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l'evento non si sarebbe verificato, mentre non lo è se, eliminata quella col pensiero, l'evento si sarebbe ugualmente verificato (Canzio, 1972). Il vero limite della teoria condizionalistica consiste “nell'incapacità della formula della condicio sine qua non di spiegare da sola perché, in assenza dell'azione, l'evento non si sarebbe verificato. In altri termini, il metodo dell'eliminazione mentale non funziona ove non si sappia in anticipo se in generale sussistano rapporti di derivazione tra determinati antecedenti e determinati conseguenti” (Fiandaca-Musco, PG, 244). Il rapporto di causalità tra condotta ed evento deve, in realtà, essere accertato secondo criteri obiettivi (preesistenti al giudizio), estraibili dall'osservazione empirica e connotabili dei requisiti della generalità e della ripetitività con elevato grado di conferma, ricorrendo a due possibili modelli: a ) secondo il metodo “individualizzante”, “l'accertamento del rapporto di causalità si svolge tra accadimenti singoli e concreti, non importa se unici o riproducibili nel futuro: da questo punto di vista, il giudice si comporterebbe come lo “storico”, il quale nel ricostruire le vicende si limita ad individuare connessioni tra eventi ben determinati e circoscritti, senza preoccuparsi di rinvenire leggi universali in cui sussumere il rapporto tra i singoli accadimenti” (Fiandaca —Musco, PG, 244). Questo metodo è stato accolto in una nota applicazione giurisprudenziale di merito, relativa al celebre caso delle “macchie blu” (eruzioni cutanee dalla quali inspiegabilmente erano risultati affetti gli abitanti di una zona nella quale era insediata una fabbrica che lavorava derivati di alluminio ed emetteva fumi di scarico, sia all'atto dell'apertura della fabbrica, sia trent'anni dopo): “la realtà è che questo è un Tribunale e non una Commissione di studi; che ai fini di un accertamento giudiziale di responsabilità, non interessa affatto promuovere nuove discoperte scientifiche sul tema. La presente causa è dominata dal fatto. Una volta che le circostanze di questo abbiano ineluttabilmente dimostrato la relazione tra [gli imputati] e le macchie, non vi è più, sul piano giuridico, alcun interesse a ricercarsi la precisa natura di tale relazione. Sul piano scientifico, naturalmente, è un'altra cosa, ma ciò non riguarda la competenza giudiziaria” (Trib. Rovereto, 17 gennaio 1969, Riv. it. dir. e proc. pen. 1971, 1040); b) secondo il metodo “generalizzante” la causalità dovrebbe essere desunta da “leggi generali che individuano rapporti di successione regolare tra l'azione criminosa e l'evento considerati non già come accadimenti singoli ed unici, ma come accadimenti “ripetibili”. Appare di tutta evidenza che il metodo generalizzante, arricchito dalla sussunzione dei nessi di derivazione causale sotto leggi scientifiche, offra maggiori garanzie: “essendo il nesso causale uno dei più importanti requisiti strutturali dei reati di evento, la sua determinazione non può essere affidata alla discrezionalità del giudice, ma deve essere effettuata alla stregua di criteri tendenzialmente certi ed il più possibile controllabili. È soprattutto in omaggio al principio di tassatività che il criterio della condicio va inteso in senso “generalizzante”, e non individualizzante: cioè il giudizio causale deve fornire una spiegazione adeguata dell'evento concreto e in questa prospettiva la spiegazione del nesso causale può correttamente effettuarsi soltanto alla stregua del modello della sussunzione sotto leggi scientifiche” (Fiandaca-Musco, PG, 245). Questo orientamento può dirsi dominante nella giurisprudenza, ormai ferma nel ritenere che un'azione antecedente può qualificarsi condizione necessaria di un evento, secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, a patto che essa rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica (la c.d. legge generale di copertura dell'evento) portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto. Ciò avviene quando esiste una legge scientifica, universale o statistica, di copertura dell'evento e, altresì, quando in tutti i processi esplicativi mediante leggi (che sono state, potevano o potrebbero enunciarsi nel loro decorso) un determinato antecedente si manifesta come condizione indispensabile o necessaria dell'evento (così Cass. IV, n. 4793/1991, fondamentale sentenza in tema di causalità relativa al tragico disastro di Stava, che per prima ha accolto i predetti principi, già dominanti in dottrina, efficacemente applicandoli in concreto). Le leggi generali «di copertura» Le leggi generali «di copertura» della condotta o dell'evento accessibili al giudice possono essere: a) «universali», ovvero consistenti in regole costanti, in quanto espressive dell'id quod usque ad huc accidit, grazie alle quali è possibile affermare che la verificazione di un'azione antecedente è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un dato evento; b) «statistiche», ovvero consistenti in regole ricorrenti, espressive dell'id quod plerumque accidit, in virtù delle quali è possibile, più limitatamente, affermare che il verificarsi di un'azione antecedente è accompagnato dal verificarsi di un dato evento, in una certa percentuale di casi: con la conseguenza che queste ultime sono tanto più dotate di validità scientifica quanto più possono trovare applicazione in un numero sufficientemente alto di casi e sono suscettibili di ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili. Nella valutazione della sussistenza del nesso di causalità, quando la ricerca della legge di copertura deve attingere al sapere scientifico, la funzione strumentale e probatoria di quest'ultimo impone al giudice di valutare dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di ponderare la scelta ricostruttiva della causalità ancorandola ai concreti elementi scientifici raccolti (gli studi che la sorreggono, le basi fattuali sulle quali gli approfondimenti sono stati condotti, l'ampiezza, la rigorosità e l'oggettività della ricerca, l'attitudine esplicativa dell'elaborazione teorica, il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica, nonché l'identità, l'autorità, l'indipendenza e la provenienza del soggetto che ha gestito la ricerca, come pure le finalità per le quali l'indagine è stata realizzata), astenendosi dal privilegiare opzioni ricostruttive fondate unicamente su una propria indimostrata opinione, poiché in caso contrario egli diverrebbe l'artefice della legge scientifica, non limitandosi ad esserne, come consentito, mero utilizzatore (Cass. IV, n. 38991/2010, e Cass. n. 18678/2012). Il giudice potrà ricostruire il nesso causale anche applicando una legge scientifica che non sia unanimemente riconosciuta, essendo sufficiente il ricorso alle acquisizioni maggiormente accolte o generalmente condivise, attesa la diffusa consapevolezza della relatività e mutabilità delle conoscenze scientifiche (Cass. IV, n. 36280/2012); non sarebbe censurabile in sede di legittimità la decisione con cui il giudice di merito, nel contrasto tra opposte tesi scientifiche, abbia privilegiato, all'esito di un accurato e completo esame delle diverse posizioni, l'una delle due, individuando la legge scientifica di copertura avente il consenso di numerosi ed autorevoli esperti, taluni dei quali partecipi al dibattito processuale, e motivando adeguatamente in ordine alle ragioni della propria opzione, in sintonia con gli elementi probatori acquisiti in ordine al nesso causale tra la condotta e l'evento determinatosi (Cass. IV, n. 46428/2012). Pur se il ricorso alle leggi universali di copertura è, indubbiamente, più tranquillizzante, nondimeno il giudice può legittimamente far ricorso anche a quelle statistiche (Stella 1988, 1243). La giurisprudenza, ha, in proposito, chiarito «il modello "della sussunzione sotto leggi" utilizzabile in campo penale sottintende, il più delle volte, necessariamente, il distacco da una spiegazione causale deduttiva, che implicherebbe una impossibile conoscenza di tutti i fatti e di tutte le leggi pertinenti: poiché il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, né procedere, quindi, ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, nella spiegazione causale si dovrà ricorrere ad una serie di assunzioni nomologiche tacite e dare per presenti condizioni iniziali non conosciute o soltanto azzardate, per cui, il nesso di condizionamento tra azione ed evento potrà essere riconosciuto soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente, non certamente, da escludere l'intervento di un diverso processo causale»; pertanto, ove non disponga di leggi universali, il giudice «dirà che è “probabile” che la condotta dell'agente costituisca, coeteris paribus, una condizione necessaria dell'evento; probabilità che altro non significa se non “probabilità logica o credibilità razionale”, la quale deve essere di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che, senza il comportamento dell'agente, l'evento non si sarebbe verificato, appunto, con alto grado di possibilità» (Cass. IV, n. 4793/1991). In proposito, la dottrina dominante osserva che, per attribuire l'evento all'agente sulla base di una legge statistica, “è necessario dimostrare in modo razionalmente controllabile che, senza il comportamento dell'agente, con un alto grado di probabilità l'evento non si sarebbe verificato. Certo, ciò non vuol dire che si possa quantificare una volta per tutte il livello minimo di probabilità di verificazione dell'evento sufficiente ai fini del riconoscimento del nesso causale: la percentuale di probabilità non potrà che variare da caso a caso, in ragione della peculiarità dei fenomeni di volta in volta osservati. Piuttosto, ciò che conta è che il grado di conferma della spiegazione ipotizzata rimanga “alto” alla stregua di un giudizio operato mediante una corretta applicazione delle regole relative, rispettivamente, alla formulazione dell'ipotesi causale ed all'individuazione dei fattori rilevanti; ai criteri sperimentali (o di altra natura) di sostegno probatorio della spiegazione proposta; alle scelte fra spiegazioni causali rivali; alla conferma ricavabile attraverso criteri diversi da quelli basati sull'esperienza (o sull'osservazione), quali ad es. la dignità o plausibilità teorica dell'ipotesi esplicativa prescelta et c.” (Fiandaca-Musco, PG, 248 s.). Altra dottrina richiede, perché un'azione risulti, agli effetti penali, causa dell'evento, la sussistenza di un rilevante grado di possibilità (c.d. probabilità relativa) che ad essa consegua l'evento: “tra le leggi scientifiche sono, quindi, utilizzabili non solo le c.d. leggi universali (di certezza), che esprimono una regolarità di successione dei fenomeni, non smentita da eccezioni (es.: legge di gravità), e perciò offrono la massima garanzia di certezza, scientifica e giuridica. Ma anche le leggi statistiche (di probabilità) che esprimono successione di fenomeni soltanto in una certa percentuale (es.: tra esposizione a morbillo e contagio, tra fumo e tumore polmonare) per il subentrare di fattori ignoti ma che pur sempre consentono di sussumere un evento sotto la causalità, se esso risulta percentualizzato in un rilevante grado di possibilità” (Mantovani, PG, 153). Alla luce di queste premesse, poteva essere affrontato e risolto il caso delle “macchie blu” (erroneamente risolto dalla giurisprudenza di merito attraverso il ricorso ad un metodo individualizzante di spiegazione causale): “anche qui è dato riscontare una serie di connessioni significative: elevato numero di “macchie blu” nei luoghi in cui si disperdevano i fumi dello stabilimento a fronte di una rarità di casi simili in luoghi in cui non esistono fabbriche di alluminio; coincidenza di danni alle persone, alle colture e agli animali nei medesimi luoghi; coincidenza degli avvenimenti attuali con quelli verificatisi trenta anni prima al momento dell'apertura della fabbrica; cessazione dei danni, allora come ora, in seguito alla messa in opera di un buon depuratore; guarigione delle persone che si allontanavano dalla zona e ricomparsa della macchie al loro rientro. Anche in questa ipotesi, quindi, in mancanza di conoscenze esaurienti sul completo meccanismo di produzione del fenomeno, soltanto una spiegazione di tipo statistico avrebbe potuto condurre al riconoscimento di un nesso causale tra emissione dei fumi della fabbrica e comparsa dei danni lamentati” (Fiandaca-Musco, PG, 252). Il grado di credibilità razionale necessario per affermare la derivazione dell'evento dalla condotta Nel corso degli anni, la giurisprudenza, superato l'orientamento “probabilistico” (per il quale occorreva accertare se l'intervento omesso, ove tempestivamente e correttamente eseguito, avrebbe avuto “serie ed apprezzabili probabilità di successo”; ci si spingeva fino all'imputazione di un evento ad un soggetto sol perché con la sua condotta aveva eliminato o anche soltanto ridotto le chances di salvezza del bene individuale protetto), ha iniziato a ritenere non sufficiente accertare che, senza la condotta dell'agente, l'evento, con «apprezzabile grado di probabilità», non si sarebbe verificato, in quanto l'accertamento del rapporto causale richiede un più alto grado di probabilità o di credibilità razionale, vicino alla certezza, e, pertanto, postula un accertamento di derivazione dell'evento dalla causa in termini di alta probabilità. I contrasti sono stati composti dalle Sezioni Unite ( Cass. S.U., n. 30328/2002, la ormai “mitica” sentenza Franzese) le cui argomentazioni, pur se specificamente riferite ad una fattispecie di colpa medica, costituiscono ormai più in generale un punto fermo. Le Sezioni Unite, dopo aver ribadito la perdurante validità della teoria condizionalistica (temperata dal riferimento alla “causalità umana”, quanto alle serie causali sopravvenute, autonome ed indipendenti ex art. 41, comma 2), e la necessità di procedere al giudizio controfattuale, al fine di verificare se, eliminata mentalmente la condotta presa in considerazione, l'evento si sarebbe ugualmente verificato, hanno poi confermato la necessità che la spiegazione causale dell'evento verificatosi hic et nunc provenga da attendibili risultati di generalizzazioni del senso comune: a tal fine, si è detto, occorre fare ricorso generalizzante alla sussunzione del singolo evento sotto leggi scientifiche, che legittima l'affermazione che l'antecedente può essere considerato condizione necessaria dell'evento, se rientra tra le condizioni che le indicate leggi di copertura consentono di ritenere suscettibili di provocare l'evento. Il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente di ancorare il giudizio controfattuale (altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza) a parametri oggettivi in grado di esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria, anche per i più complessi sviluppi causali dei fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici. Per quanto riguarda la concreta “verificabilità processuale” della causalità, le Sezioni Unite non hanno condiviso l'orientamento che (pur con specifico riferimento ai trattamenti terapeutici), faceva riferimento, per ritenere accertato il nesso di condizionamento, alle “serie ed apprezzabili probabilità di successo” del trattamento omesso, in quanto, con questa formula, si esprimono coefficienti indeterminati di probabilità, con il rischio di violare i principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia costituzionale di responsabilità per fatto proprio ex art. 27 Cost. L'accertamento processuale dell'esistenza del nesso di condizionamento deve, al contrario, aver luogo alla stregua di canoni di “certezza processuale”, non dissimili da quelli utilizzati per l'accertamento degli altri elementi costitutivi della fattispecie, e deve condurre, all'esito del ragionamento di tipo induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da un “alto grado di credibilità razionale”. Si è, pertanto, affermato che la “certezza processuale” può derivare anche dall'esistenza di coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista, quando, corroborati da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza, nel caso di specie, di altri fattori interagenti, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del rapporto di causalità; per converso, limiti elevati di probabilità statistica o addirittura schemi interpretativi dedotti da leggi universali richiedono sempre la verifica concreta che conduca a ritenere irrilevanti spiegazioni diverse. Di conseguenza, non sarebbe consentito dedurre automaticamente — e proporzionalmente — dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell'ipotesi sull'esistenza del rapporto di causalità, poiché è inadeguato esprimere il grado di corroborazione dell'explanandum mediante coefficienti numerici, essendo corretto enunciarli in termini qualitativi. Nel ritenere che l'accertamento della sussistenza del nesso di causalità deve aver luogo non con riferimento a coefficienti percentuali numerici, ma in termini qualitativi, secondo i canoni dell'accertamento indiziario, le Sezioni Unite hanno, pertanto, condiviso, in tema di prova del nesso di causalità, il riferimento (in precedenza pure sostenuto da parte della giurisprudenza) alla c.d. probabilità logica che, rispetto alla c.d. probabilità statistica, consente la verifica aggiuntiva dell'attendibilità dell'impiego della legge statistica al singolo evento: solo attraverso l'utilizzazione di questi criteri può giungersi alla certezza processuale sull'esistenza del rapporto di causalità in modo non dissimile dall'accertamento relativo a tutti gli altri elementi costitutivi della fattispecie con criteri non dissimili dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall'art. 192, comma 2, c.p.p. al fine di pervenire alla conclusione, caratterizzata da alto grado di credibilità razionale, che, esclusa l'interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell'imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione necessaria dell'evento, attribuibile perciò all'agente come fatto proprio. A conclusione del loro ragionamento, le Sezioni Unite hanno affermato che “non é consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con «alto o elevato grado di credibilità razionale» o «probabilità logica»“; diversamente, nei casi in cui permanga il dubbio sulla sussistenza del nesso causale tra la condotta e l'evento, la mancanza di certezza impedisce la configurabilità del reato contestato (poiché il nesso causale è uno degli elementi costitutivi del reato), imponendo il proscioglimento con formula (“piena”, ex art. 530, comma 1, c.p.p.: neanche in motivazione potrà trovare ingresso una formula dubitativa) del fatto non costituente reato. Secondo la dottrina, «posto che dopo la sentenza “Franzese” il criterio centrale dell'accertamento causale è quello c.d. della “credibilità razionale” della spiegazione eziologica, questo deve essere inteso nel senso più ampio e comprensivo possibile. Non solo, cioè, con riguardo all'esclusione nella vicenda storica di possibili serie causali alternative, ma anche nel senso di un'attendibilità scientificamente adeguata della legge di copertura adottata. Una valutazione di attendibilità che si pone naturalmente in termini particolarmente stringenti quanto (...) si contendono il campo due (o più) leggi di copertura, ma che non deve mancare neppure nei casi in cui una sola sia la legge di spiegazione causale che viene in considerazione. E della quale, dunque, dovrà essere accertata l'attendibilità con riferimento ad esempio all'ampiezza delle verifiche empiriche sulla cui base è stata formulata, con riferimento al prestigio scientifico degli istituti di ricerca che l'hanno formulata, ed in generale a qualunque elemento da cui sia desumibile il grado della sua attendibilità. In mancanza di un grado “sufficiente” di attendibilità s'impone l'assoluzione, così come in mancanza di un'adeguata motivazione sull'attendibilità della legge causale adottata s'impone l'annullamento (se del caso, con rinvio)» (Palazzo, 186, per il quale, inoltre, in presenza di un contrasto di opinioni così radicato in sede scientifica, non avrebbe senso disporre il rinvio, poiché l'esistenza di questo contrasto, tra teorie scientifiche tutte degne di credito, è già sufficiente per escludere in radice che si possa pervenire all'affermazione di una spiegazione causale oltre ogni ragionevole dubbio i merito). In un'interessante applicazione giurisprudenziale, in tema di responsabilità per il reato di lesioni gravissime dolose (art. 583 c.p.) dovute alla trasmissione del virus Hiv, si è ribadito che l'accertamento del nesso di causalità non è legato al solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica; ne deriva che anche coefficienti medio-bassi di probabilità cosiddetta frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica — sostenuti da verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità alla fattispecie concreta — se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza, nel caso concreto, di altri fattori interagenti in via alternativa, possono essere utilizzati ai fini del riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento (Cass. V, n. 8351/2013: in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di appello aveva confermato l'affermazione di responsabilità, in ordine al reato di lesioni gravissime, dell'imputato, il quale, consapevole di essere affetto da virus Hiv, aveva omesso di riferirlo alla convivente, ritenendo accertato il nesso di causalità sulla scorta di un dato statisticamente significativo indicato in valori prossimi al 50%, corroborato da ulteriori elementi legati sia alla frequenza dei rapporti sessuali tra le parti, sia ad elementi idonei ad escludere l'esistenza di fattori alternativi). Si è anche ritenuto, in tema di omicidio colposo, che sussiste il nesso di causalità tra l'intempestiva diagnosi di una malattia tumorale ed il decesso del paziente, anche a fronte di una prospettazione della morte ritenuta inevitabile, laddove dal giudizio controfattuale risulti l'alta probabilità logica che la diagnosi tempestiva avrebbe consentito il ricorso a terapie atte a incidere positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che la morte si sarebbe verificata in epoca posteriore o con minore intensità lesiva (Cass. IV, n. 50975/2017). Si è, da ultimo, precisato che l'accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento va svolto su base totalmente oggettiva, con un giudizio ex post, mediante il procedimento c.d. di eliminazione mentale e va tenuto ben distinto rispetto alla diversa e successiva indagine sull'elemento soggettivo del reato che deve essere valutato, invece, con giudizio ex ante, alla stregua delle conoscenze del soggetto agente (Cass. V, n. 51233/2019: fattispecie in cui l'imputato aveva colpito con più schiaffi la vittima che, nella caduta, si era fratturata le ossa nasali con conseguente ostruzione delle vie respiratorie e decesso per asfissia: la S.C. ha confermato la condanna per omicidio preterintenzionale, ritenendo che l'evento morte fosse oggettivamente conseguenza dell'azione e l'imprevedibilità dello stesso, collegata alle fratture nasali, dovesse essere valutata ex ante ai soli fini dell'elemento psicologico). La possibile rilevanza del sapere scientifico sopravvenuto In un'epoca di incessanti ed inarrestabili progressi tecnologici, è ben possibile, soprattutto in tema di “responsabilità da prodotto”, che, in ordine alla sussistenza del nesso di causalità tra la produzione e commercializzazione di determinati prodotti ed il successivo verificarsi (anche a notevole distanza di tempo) di determinati macro-eventi lesivi (alterazioni ambientali, malattie professionali), si debba registrare, nel momento in cui fu posta in essere la condotta, un iniziale deficit di conoscenze scientifiche in ordine ai reali meccanismi di causazione dell'evento medesimo, e che tale deficit venga colmato da successive scoperte scientifiche. A tal riguardo, deve tenersi presente che, ai fini dell'indagine sul nesso di derivazione causale, che va effettuata ex post, assumono rilievo le basi nomologiche note al momento del giudizio. Diversamente, soltanto ai fini dell'indagine riguardante l'elemento psicologico dell'agente, che va effettuata ex ante, occorre valutare il comportamento posto in essere dall'agente, e, pertanto, assumono rilievo le (in ipotesi diverse) basi nomologiche note all'agente nel momento in cui la condotta fu posta in essere (Cass. IV, n. 21028/2011). Il giudice potrà quindi ritenere sussistente il nesso di causalità tra la condotta ascrivibile all'agente e l'evento verificatosi, valorizzando scoperte scientifiche sopravvenute; in tal caso, dovrà, peraltro, valutare: - se l'agente, al momento della condotta, fosse del tutto ignaro della possibile nocività del prodotto; - se la avesse ignorata per colpa generica o specifica, non avendo fatto nulla per averne consapevolezza; - se ne fosse stato consapevole, ma cionondimeno avesse commercializzato il prodotto ritenendo erroneamente, per c.d. colpa cosciente, che non vi sarebbero state in concreto conseguenze dannose; - se, pur essendo consapevole della possibile nocività del prodotto, perché in possesso di conoscenze superiori rispetto a quelle della comunità scientifica (si pensi al caso in cui essa fosse emersa nell'ambito di ricerche private eseguite da scienziati alle dipendenze del produttore), avesse accettato il rischio delle sue possibili conseguenze dannose, agendo con dolo eventuale; - se, nella medesima situazione, avesse commercializzato il prodotto pur essendo certo della sua nocività e delle sue conseguenze dannose, agendo con dolo diretto. Dalla situazione in concreto accertata dipenderanno anche le statuizioni eventualmente conseguenti all'esercizio dell'azione civile nel processo penale, imputabili al produttore a titolo contrattuale ex art. 1494 c.c., ed a titolo extracontrattuale ex art. 2050 c.c.: il diverso criterio di imputazione della responsabilità civile, rispetto a quella penale, potrebbe legittimare, pur in presenza di un medesimo fatto, statuizioni penali e civili disomogenee. La causalità nei reati omissivi impropri e nei reati colposi. Rinvio I problemi che si pongono nell'accertamento del rapporto di causalità in relazione ai reati omissivi impropri ed ai reati commissivi colposi sono esaminati, rispettivamente, sub artt. 40 e 43. Il concorso di causeL'idoneità delle teorie sin qui passate in rassegna a dar conto del nesso di derivazione causale tra condotta ed evento, ai fini dell'imputazione di quest'ultimo all'agente, va verificata alla luce della disciplina dettata dall'art. 41 c.p. in relazione alle possibili concause che, unitamente alla condotta umana, abbiano concorso a produrre l'evento lesivo; occorre, in particolare, verificare se, ed a quali condizioni, un antecedente che di per sé costituisca causa dell'evento, tale rimanga anche in presenza del concorso di più fattori causali (concause) indipendenti dalla condotta dell'agente. L'art. 41 c.p. disciplina specificamente sia il concorso di cause sia il fenomeno delle concause, elevando “al valore di una disposizione generale l'affermazione che un evento possa dipendere da più antecedenti invece che da uno soltanto di essi”, ed intendendo stabilire “che gli antecedenti, in tal caso, adempiono una funzione causale, anche se ciascuno di essi non sia da solo sufficiente a produrre l'evento: purché però tutti concorrano, nel loro insieme, alla produzione dello stesso” (Relazione del Guardasigilli al re sul Libro I del Progetto definitivo del C.P, 1929, 85). L'art. 41, comma 1, ribadisce l'equivalenza delle condizioni dell'evento: “a ben vedere, si tratta soltanto di una forse superflua riaffermazione della teoria condizionalistica già verosimilmente accolta nell'art. 40, comma 1, c.p. Esemplificando: la responsabilità penale del feritore non viene meno se il soggetto passivo del ferimento decede, nel corso dell'intervento chirurgico, a causa di una preesistente cardiopatia” (Fiandaca-Musco, PG, 262). Anche la giurisprudenza ritiene che, nel caso in cui l'evento sia determinato dalle condotte di più soggetti (c.d. concorso di cause indipendenti), il concorso delle condotte opera su di un piano di reciproca equivalenza. In particolare, si è affermato che l'art. 41 ha accolto la teoria della condicio sine qua non, secondo cui le cause concorrenti che non siano da sole sufficienti a determinare l'evento, sono tutte e ciascuna causa dell'evento: ciò premesso, si è ritenuto, in tema di fallimento determinato da operazioni dolose, che non interrompono il nesso di causalità tra l'operazione dolosa e l'evento fallimentare né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente verso il dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all'art. 41, né il fatto che l'operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l'aggravamento di un dissesto già in atto, poiché la nozione di “fallimento”, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara, è ben distinta da quella di “dissesto”, che ha natura economica ed evoca un fenomeno in sé reversibile (Cass. V, n. 40998/2014). Le cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l'evento L'art. 41, comma 2 (con il quale si stabilisce che le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità, quando siano da sole sufficienti alla determinazione dell'evento), “si riferisce all'ipotesi, in cui vi sia un concorso di cause successive e fra loro indipendenti. Viceversa, quando le cause siano tra loro simultanee, non sarebbe possibile riferire l'evento all'una piuttosto che all'altra causa; e, in conseguenza, l'evento deve considerarsi ex necesse come prodotto da tutte le cause. Quando invece le cause siano tra loro dipendenti, anche se successive, non potrebbe ugualmente escludersi il rapporto di causalità, perché l'evento, attraverso il legame derivativo delle cause, finisce per risalire anche agli antecedenti non prossimi, in guisa da trovare piena giustificazione il principio: causa causae est causa causati” (Relazione del Guardasigilli, cit., 1929, 85). Per comprendere il significato della disposizione, deve premettersi che, tra le possibili serie causali: a) sono “autonome” quelle consistenti in fattori causali sopravvenuti rispetto alla condotta criminosa, rispetto alla quale operano in autonomia, nonché precedenti rispetto al verificarsi dell'evento astratto (che sarebbe stato prodotto dalla condotta), e che producono (da soli) un evento concreto diverso, risultando assolutamente estranee rispetto alla condotta, che ne costituisce mera “occasione” (ad es., rispetto all'esplosione, da parte del soggetto agente, di un colpo d'arma da fuoco all'indirizzo della vittima, costituisce serie causale autonoma il sopravvenire di un fulmine che uccida la stessa vittima, poi colpita dalla pallottola ad evento morte già intervenuto). Si è già osservato che la teoria condizionalistica va interpretata nel senso che, ai fini della penale responsabilità, la condotta dell'agente deve essere causa dell'evento concreto, e non di un evento astratto dello stesso tipo: la conseguenza è che, nell'esempio predetto, le serie causali autonome escludono del tutto la sussistenza del nesso causale ex art. 40, comma 1: le serie causali autonome esulano, pertanto, dal campo di operatività dell'art. 41, comma 2; b) sono “apparentemente indipendenti” quelle consistenti in fattori causali sopravvenuti i quali — pur autonomamente in grado di produrre l'evento — si innestano sulla condotta dell'agente, interagendo con essa (si pensi, ad es., al caso del fulmine che abbia colpito ed ucciso la vittima condotta nel bosco, ferita ed abbandonata dall'agente). In questo caso, nel rispetto della disciplina dettata dall'art. 41, comma 2, si ritiene che il nesso di causalità tra la condotta dell'agente e l'evento sia interrotto soltanto dal fattore autonomo sopravvenuto, che si caratterizzi per assoluta atipicità ed eccezionalità, risultando imprevedibile: “in forza dell'art. 41, comma 2, e del suo intento delimitativo, un nesso causale penalmente rilevante dovrebbe perciò essere escluso in tutti i casi in cui l'evento lesivo — ancorché legato da un nesso condizionalistico alla condotta tipica — non sia inquadrabile in una successione normale di accadimenti: si pensi non solo al caso del ferito che muore a causa dell'incendio dell'ospedale, ma anche a quello del soggetto che, indotto a fare una passeggiata nel bosco durate una tempesta, muore per al caduta di un fulmine, ovvero dello zio che spinto dal nipote avido dell'eredità a fare un viaggio muore a causa di un incidente aereo” (Fiandaca-Musco, PG, 263). In sintesi: le cause sopravvenute idonee ad escludere il rapporto di causalità non sono solo quelle che innescano un percorso causale completamente autonomo da quello determinato dall'agente, ma anche quelle che realizzano una linea di sviluppo del tutto anomala ed imprevedibile della condotta antecedente. In tale accezione, parte della dottrina (Mantovani, PG, 147 ss.) ritiene che il nesso di causalità tra la condotta dell'agente e l'evento sarebbe escluso soltanto da quelle cause sopravvenute che presentino le connotazioni del caso fortuito e/o della forza maggiore: in tal modo sarebbe superata anche l'esigenza, ravvisata da altra parte della dottrina (Antolisei, PG, 253), di estendere per analogia l'ambito dell'art. 41, comma 2, fino a ricomprendere anche le cause preesistenti e concomitanti, sufficienti da sole a determinare l'evento; altro orientamento intende il caso fortuito in chiave soggettiva, come causa di esclusione della colpevolezza. Anche a parere della giurisprudenza (Cass. IV, n. 1214/2006, Cass. IV, n. 10626/2013; Cass. V, n. 29075/2012), l'art. 41, comma 2, c.p. è una norma di fondamentale importanza all'interno dell'assetto normativo che il codice ha inteso attribuire al tema della causalità, ed il suo scopo è quello di temperare il rigore derivante dalla meccanica applicazione del principio generale contenuto nell'art. 41, comma 1, che si ritiene abbia accolto il principio condizionalistico o dell'equivalenza delle cause: “se il comma 2 in esame venisse interpretato nel senso che il rapporto di causalità dovesse ritenersi escluso solo nel caso di un processo causale del tutto autonomo verosimilmente si tratterebbe di una disposizione inutile perché, in questi casi, all'esclusione si perverrebbe con la mera applicazione del principio condizionalistico previsto dall'art. 41, comma 1. Deve, pertanto, trattarsi, secondo questo condivisibile orientamento, di un processo non completamente avulso dall'antecedente, di una concausa che deve essere, appunto, «sufficiente» a determinare l'evento. Ma questa sufficienza non può essere intesa come avulsa dal precedente percorso causale perché, altrimenti, torneremmo al caso del processo causale del tutto autonomo per il quale il problema è risolto dall'art. 41 c.p., comma 1”; perché possa parlarsi di causa sopravvenuta idonea ad escludere il rapporto di causalità (o la sua interruzione, come altrimenti si dice) “si deve dunque trattare di un percorso causale ricollegato all'azione (od omissione) dell'agente ma completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale; di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta” (Cass. IV, n. 9967/2010). È noto l'esempio riportato nella relazione ministeriale al codice penale: l'agente ha posto in essere un antecedente dell'evento (ha ferito la persona offesa) ma la morte è stata determinata dall'incendio dell'ospedale nel quale il ferito era stato ricoverato, “il che, appunto, non solo non costituisce il percorso causale tipico (come, per es., il decesso nel caso di gravi ferite riportate a seguito dell'aggressione) ma realizza una linea di sviluppo della condotta del tutto anomala, oggettivamente imprevedibile in astratto e imprevedibile per l'agente che non può anticipatamente rappresentarla come conseguente alla sua azione od omissione (quest'ultimo versante riguarda l'elemento soggettivo ma il problema, dal punto di vista dell'elemento oggettivo del reato, si pone in termini analoghi)” (Cass. IV, n. 9967/2010). In sintesi: ai fini dell'apprezzamento dell'eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l'evento, il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento non si riferisce solo al caso di un processo causale del tutto autonomo, giacché, in tal caso, la disposizione sarebbe pressoché inutile (in quanto all'esclusione del rapporto causale si perverrebbe comunque sulla base del principio condizionalistico o dell'equivalenza delle cause di cui all'art. 41, comma 1); la disposizione di cui all'art. 41, comma 2, c.p. si applica, invece, anche nel caso di un processo non completamente avulso dall'antecedente, ma caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta. Il principio è ormai pacifico in giurisprudenza, per la quale le cause sopravvenute idonee ad escludere il rapporto di causalità sono “sia quelle che innescano un processo causale completamente autonomo rispetto a quello determinato dalla condotta dell'agente, sia quelle che, pur inserite nel processo causale ricollegato a tale condotta, si connotino per l'assoluta anomalia ed eccezionalità, collocandosi al di fuori della normale, ragionevole probabilità” (Cass. IV, n. 53541/2017: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso l'interruzione del nesso causale tra la condotta colposa dell'imputato, consistita nell'aver spostato a motore spento un'autovettura in discesa senza freno a mano, e la morte della vittima, travolta dal veicolo, essendo prevedibile sia che il veicolo potesse andare ad urtare le persone presenti sulla sua traiettoria, sia che taluno potesse incautamente tentare di interromperne la marcia venendo travolto); ai fini dell'apprezzamento dell'eventuale interruzione del nesso causale tra condotta ed evento, il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento si riferisce non solo al caso di un processo causale del tutto autonomo, ma anche a quello di un processo non completamente avulso dall'antecedente, e però caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta (Cass. II, n. 17804/2015; in applicazione del principio, la S.C. Corte ha ritenuto che correttamente la sentenza impugnata avesse escluso l'interruzione del nesso causale in relazione ad una lesione subita dalla vittima di un tentativo di rapina in conseguenza di un'azione difensiva da essa stessa posta in essere, in quanto il ferimento non rappresenta uno sviluppo anomalo della tentata rapina, bensì una ragionevole conseguenza delle prevedibili reazioni della persona offesa; conforme, Cass. IV, n. 18800/2016, per la quale non può ritenersi causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento il comportamento negligente di un soggetto che trovi la sua origine e spiegazione nella condotta colposa altrui: in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la condanna per omicidio colposo plurimo del ricorrente perché, non provvedendo ad un'idonea manutenzione dell'impianto frenante di un autobus, aveva cooperato a cagionare la morte di alcuni dei passeggeri unitamente all'autista del veicolo che, ignorando il segnale acustico relativo al cattivo funzionamento dell'impianto frenante, aveva proseguito la marcia, perdendo successivamente il controllo del mezzo che era fuoriuscito dalla carreggiata ed era precipitato in un dirupo). Con riferimento a fattispecie di omicidio colposo configurato a carico di una madre, per avere consentito che il proprio figlio dell'età di tre anni si accompagnasse, senza essere specificamente affidato ad alcuno, ad un gruppo di persone che frequentavano la piscina di uno stabilimento balneare nella quale il piccolo era poi annegato, la S.C. ha ritenuto che non potesse essere qualificata come inopinata od assolutamente imprevedibile per la madre l'assenza di un bagnino addetto alla tutela dei bagnanti che utilizzavano la piscina, od una sua incuria o disattenzione (Cass. IV, n. 13939/2008). La giurisprudenza ha ritenuto che un sisma non costituisce di per sé causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento, consistito nel crollo totale di tre sole costruzioni di un centro abitato (Cass. V, n. 24732/2010: fattispecie di crollo di edificio costruito in violazione della normativa antisismica, in assenza del crollo totale di tutte le altre costruzioni dello stesso centro abitato: la S.C. ha osservato che i terremoti di massima intensità sono eventi rientranti tra le normali vicende del suolo, e non possono essere considerati come eventi eccezionali ed imprevedibili quando si verifichino in zone già qualificate ad elevato rischio sismico, o comunque formalmente qualificate come sismiche). Esulano dall'ambito delle cause sopravvenute, simultanee o preesistenti, da sole sufficienti a determinare l'evento, quelle che abbiano causato l'evento in sinergia con la condotta dell'imputato, atteso che, venendo a mancare una delle due, l'evento non si sarebbe verificato, e che, quindi, esse non possono essere qualificate come del tutto indipendenti dalla condotta del soggetto agente (Cass. V, n. 13114/2002, in fattispecie di omicidio preterintenzionale, nel quale la morte era sopraggiunta in conseguenza di percosse inferte a soggetto anziano ed in non buone condizioni di salute; Cass. V, n. 15220/2011, in fattispecie nella quale erano state inferte percosse, con un bastone e con calci e pugni, ad un soggetto portatore di gravi affezioni al sistema cardio-circolatorio ed assuntore di sostanze stupefacenti). In un appassionante caso giurisprudenziale, premesso che “il rapporto di causalità tra l'azione e l'evento può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma e successiva, che si inserisca nel processo causale in modo eccezionale, atipico e imprevedibile, mentre non può essere escluso il nesso causale quando la causa successiva abbia solo accelerato la produzione dell'evento, destinato comunque a compiersi sulla base di una valutazione dotata di un alto grado di credibilità razionale o di probabilità logica”, si è ritenuto che correttamente i giudici di merito, “sulla base di un ragionamento probatorio esente da vizi logici e che aveva escluso ogni interferenza di fattori alternativi, avessero affermato l'efficacia causale della condotta del medico psichiatra che aveva autorizzato l'uscita dalla struttura sanitaria di una paziente malata di mente e con forti istinti suicidari, affidandola ad una accompagnatrice volontaria priva di specializzazione adeguata, alla quale non aveva fornito qualsivoglia informazione sullo stato mentale della malata e sui precedenti tentativi di suicidio dalla stessa attuati” (Cass. IV, n. 10430/2004). In presenza di una causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento, l'agente potrà essere ritenuto penalmente responsabile unicamente per l'azione (od omissione) già posta in essere, se (anche a prescindere dal legame con l'evento prodotto dalla causa sopravvenuta) essa integri di per sé estremi di reato (art. 41, comma 2, ult. parte). Le tendenze giurisprudenziali più recenti Sta emergendo, in seno alla giurisprdudenza più recente, la teoria cosiddetta del "rischio", secondo la quale, con riferimento ai reati colposi omissivi impropri, l'effetto interruttivo del nesso causale può essere dovuto a qualunque circostanza che introduca un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che il garante è ordinariamente chiamato a governare (Cass. IV, n. 123/2019: fattispecie in cui la S.C. ha escluso l'interruzione del nesso causale tra la condotta dell'imputato, titolare di una azienda agricola, che aveva installato un cancello automatico non corrispondente alle norme di sicurezza che scorreva su un binario danneggiato, e la condotta delle persone offese, che, per farlo funzionare, lo avevano sollevato manualmente venendone schiacciate, rilevando che, poiché il cancello già in precedenza era fuoriuscito più volte dal binario, il tentativo di ripristino da parte delle vittime non poteva ritenersi atipico o abnorme; conforme, Cass. IV, n. 20270/2019: fattispecie in cui la S.C. ha escluso che potesse considerarsi quale fattore interruttivo del nesso causale tra la condotta dello specializzando che aveva indicato una dose errata di medicinale da somministrare ad una paziente ed il decesso della stessa, la successiva condotta del medico specialista che aveva poi materialmente somministrato tale quantità, non potendosi ritenere "nuovo" il rischio determinato dalla realizzazione dell'errore primario, che il primo agente era chiamato ad evitare; Cass. IV, n. 22691/2020: fattispecie in tema di omicidio colposo, in riferimento alla quale la S.C. ha escluso l'interruzione del nesso causale tra la condotta del direttore e del commissario di tiro di un poligono - che avevano omesso di adottare le cautele atte a prevenire il rischio di incendio del poligono stesso, e quella di un tiratore, che, rientrato nel locale in fiamme per recuperare il fucile, era deceduto per le lesioni riportate). Si è, da ultimo, ribadito che le cause sopravvenute idonee ad escludere il rapporto di causalità sono solo quelle che innescano un processo causale completamente autonomo da quello determinato dalla condotta omissiva o commissiva dell'agente, ovvero danno luogo ad uno sviluppo anomalo, imprevedibile e atipico, pur se eziologicamente riconducibile ad essa (Cass. IV, n. 10656/2024: fattispecie relativa a responsabilità per omicidio colposo per violazione di norme antinfortunistiche, in relazione alla quale è stata esclusa la rilevanza deterministica esclusiva di sopravvenute complicanze nosocomiali, causa ultima del decesso del lavoratore, per il lungo periodo di immobilizzazione patito in conseguenza di gravi fratture vertebrali). Segue. CasisticaCircolazione stradale La condotta negligente od imprudente originata dall'altrui condotta colposa non costituisce causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento, non risultando abnorme né del tutto imprevedibile (Cass. IV, n. 4912/2010, in tema di gare di velocità — nella specie: gara motociclistica —, per la quale, in presenza di una preesistente condotta colposa del soggetto garante della sicurezza della circolazione stradale sia nei confronti dei partecipanti alla gara che degli utenti della strada, non può ritenersi interruttiva del nesso di causalità una successiva condotta parimenti colposa posta in essere da altro soggetto, che risulti non eccezionale né imprevedibile. Nel caso di specie, a fronte della colposa omissione dell'adozione, da parte degli organizzatori, delle cautele imposte dall'ordinanza prefettizia che aveva autorizzato la gara — richiedendo che il percorso di gara fosse segnalato dalla presenza di personale qualificato munito di bandierine di segnalazione —, la S.C. ha ritenuto che non costituisse causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento, il comportamento colposo del conducente di un autobus che, nell'approssimarsi ad una intersezione con una strada compresa nel percorso di gara e non adeguatamente segnalata con la presenza di apposito personale, aveva omesso di fermarsi e dare la dovuta precedenza, così cagionando la morte di uno dei motociclisti concorrenti). L'esclusione del nesso causale si verifica allorquando l'evento sia stato prodotto dal sopraggiungere di un fattore che — per manifesti caratteri di assoluta eccezionalità ed imprevedibilità — assuma il ruolo di causa esclusiva, facendo degradare tutti gli altri fattori a quello di mera occasionalità. Ne consegue che l'utente della strada non è responsabile dell'infortunio patito da un terzo anche per colpa di quest'ultimo, soltanto quando la sua condotta risulti immune da qualsiasi addebito, sia sotto il profilo della colpa specifica, che della colpa generica, ponendosi in tal caso come mera occasione dell'evento, e non sua concausa (Cass. IV, n. 32202/2010: nel caso di specie, l'imputato, pur viaggiando alla guida del mezzo su una strada con diritto di precedenza, aveva tenuto una velocità non adeguata allo stato dei luoghi — trattavasi di velocità prossima a quella massima consentita, ma non adeguata in ragione della presenza di un'intersezione che solo poco tempo prima, a seguito di un mutamento di segnaletica, aveva perso il diritto di precedenza — e, pur avendo apprezzato che il conducente di un furgone — la vittima —, aveva impegnato la strada, omettendo di rispettare la innovata disciplina della precedenza, aveva limitato la propria reazione al solo segnalamento acustico e ad una manovra di sterzata — che aveva provocato l'impatto —, anziché procedere ad un'immediata azione di frenatura che l'incidente avrebbe evitato). Il mancato uso, da parte della vittima, della cintura di sicurezza non vale di per sé ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del conducente di un'autovettura che, violando ogni regola di prudenza e la specifica norma del rispetto dei limiti di velocità, abbia reso inevitabile l'impatto con altra autovettura sulla quale viaggiava la vittima, e l'evento, non potendo considerarsi abnorme né del tutto imprevedibile il mancato uso delle cinture di sicurezza, il quale può, tuttavia, riflettersi sulla quantificazione della pena e sull'ammontare risarcitorio (Cass. IV, n. 42492/2012). Particolarmente ricca è la casistica giurisprudenziale in tema di reati commessi con violazione di norme sulla circolazione stradale con coinvolgimento di pedoni. In generale, si è osservato che il comportamento colposo del pedone investito dal conducente di un veicolo costituisce mera concausa dell'evento lesivo, che non esclude la responsabilità del conducente, e può costituire causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l'evento, soltanto nel caso in cui risulti del tutto eccezionale, atipico, non previsto né prevedibile, cioè quando il conducente si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone ed osservarne per tempo i movimenti, che risultino attuati in modo rapido, inatteso ed imprevedibile (Cass. IV, n. 23309/2011, in fattispecie nella quale è stata esclusa l'imprevedibilità della condotta del pedone che aveva iniziato l'attraversamento sulle strisce, in corrispondenza della quali era irregolarmente parcheggiato un voluminoso furgone, osservando che in prossimità di esse, ed a maggior ragione quando la visuale risulti in parte ostruita, non può ritenersi imprevedibile la presenza di un pedone in fase di attraversamento; Cass. IV, n. 10635/2013, in fattispecie nella quale è stata ritenuta la responsabilità di un motociclista per l'investimento di un anziano pedone i cui movimenti erano agevolmente avvistabili). Si è successivamente ribadito che, per escludere la responsabilità del conducente per l’investimento del pedone, è necessario che la condotta di quest'ultimo si ponga come causa eccezionale ed atipica, imprevista e imprevedibile, dell'evento, che sia stata da sola sufficiente a produrlo, ed, in applicazione del principio, è stata confermata la condanna per il reato di omicidio stradale del conducente di un furgone, chiuso nella parte posteriore e privo di dispositivi idonei a monitorare il percorso in retromarcia, per l'investimento di un pedone avvenuto durante tale manovra, che avrebbe dovuto essere eseguita con particolare attenzione, avvalendosi anche dell'ausilio di terzo, non essendo imprevedibile la presenza di un pedone sul percorso stradale da compiere in retromarcia (Cass. IV, n. 37622/2021). Comportamento anomalo del lavoratore Può ritenersi ormai pacifico, anche nell'ambito della giurisprudenza più recente, che il datore di lavoro è destinatario delle norme antinfortunistiche proprio per evitare che il dipendente compia scelte irrazionali che, se effettuate, possono pregiudicarne l'integrità psico-fisica; egli è, pertanto, esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia eccezionale, imprevedibile, abnorme, tale da non essere preventivamente immaginabile, in quanto si concretizzi nell'aver fatto l'esatto contrario di quel che si dovrebbe fare per non incorrere in infortuni, e non già quando l'irrazionalità della condotta del dipendente sia controllabile, o comunque ipotizzabile, in anticipo, non risultando del tutto esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, e, come tale, del tutto imprevedibile. Il mancato adempimento da parte dell'operaio delle prescrizioni impartitegli dal datore di lavoro non costituisce, pertanto, causa sopravvenuta da sola idonea a produrre l'evento-morte o —lesioni dello stesso operaio in conseguenza di violazioni della normativa antinfortunistica (Cass. IV, n. 21587/2007 e n. 22249/2014). Quanto all'individuazione dei limiti entro i quali il comportamento imprudente del lavoratore può interrompere il rapporto causale tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l'evento colposo occorso al lavoratore, si ritiene correntemente che deve trattarsi di condotta del tutto anomala ed esorbitante dal procedimento di lavoro al quale è addetto, che si traduca nell'inosservanza di precisi ordini esecutivi o di disposizioni di sicurezza; ne consegue che soltanto la condotta del lavoratore che, di sua iniziativa, compia una operazione diversa da quella rientrante nelle fasi delle lavorazioni affidategli, oppure non osservi specifiche norme antinfortunistiche, può porsi come causa esclusiva dell'evento dannoso, risultando del tutto anomala, anormale, imprevista ed imprevedibile, ed in quanto tale può interrompere il nesso di causalità tra il comportamento colposo del datore di lavoro (o dell'imprenditore, dei dirigenti e dei preposti) e l'evento verificatosi. Si è, più recentemente, chiarito che deve definirsi abnorme “il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro” (Cass. IV, n. 7188/2018); un successivo orientamento ha osservato che la condotta colposa del lavoratore risulta abnorme ed idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo non tanto quando risulti imprevedibile, bensì quando risulti tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Cass. IV, n. 5794/2021; Cass. IV, n. 33976/2021). Sono stati ritenuti non anomali: a) i comportamenti del lavoratore che si era messo alla guida di un carrello elevatore, nonostante ciò non rientrasse nelle sue mansioni (Cass. IV, n. 15009/2009); b) del lavoratore di un panificio che aveva introdotto la mano negli ingranaggi privi di protezione di una macchina «spezzatrice», riportando l'amputazione di una falange ungueale (Cass. IV, n. 7955/2014); c) del lavoratore, deceduto per essere rimasto intrappolato nella bobina di una macchina per la lavorazione di tessuti, priva di dispositivi di protezione atti a eliminare il rischio di trascinamento e intrappolamento, risultando priva di rilievo nell'eziologia dell'evento l'assunzione, da parte del lavoratore, di farmaci a base di benzodiazepine, idonei a produrre depressione del sistema nervoso centrale (Cass. IV, n. 5794/2021). Qualora l'evento sia riconducibile alla violazione di una molteplicità di disposizioni in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, il comportamento del lavoratore che abbia disapplicato elementari norme di sicurezza non può considerarsi eccentrico o esorbitante dall'area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia in quanto l'inesistenza di qualsiasi forma di tutela determina un ampliamento della stessa sfera di rischio fino a ricomprendervi atti il cui prodursi dipende dall'inerzia del datore di lavoro (Cass. IV, n. 15175/2018). In una delle rarissime applicazioni di segno contrario, è stata riconosciuta valenza interruttiva del nesso di causalità tra l'evento ed ogni violazione di prescrizioni antinfortunistiche eventualmente riferibile al datore di lavoro, al comportamento imprudente del lavoratore che, essendo addetto all'esecuzione di lavori ad un altezza di sei metri, aveva utilizzato, per accelerare i tempi di lavorazione, un improprio carrello sollevatore, in luogo del regolare mezzo di sollevamento già impegnato per altri lavori (Cass. IV, n. 7267/2010); più recentemente, premesso che la condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore, idonea ad escludere il nesso causale, non è solo quella che esorbita dalle mansioni affidate al lavoratore, ma anche quella che, nell'ambito delle stesse, attiva un rischio eccentrico od esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia, è stata confermata la sentenza che aveva escluso la responsabilità del datore di lavoro per le lesioni riportate da un lavoratore, il quale, per sbloccare una leva necessaria al funzionamento di una macchina utensile, aveva introdotto una mano all'interno della macchina stessa anziché utilizzare l'apposito palanchino di cui era stato dotato (Cass. IV, n. 5007/2019). È stata riconosciuta l'abnormità della condotta del lavoratore, deceduto in conseguenza dell'utilizzazione di un macchinario pericoloso, diverso da quello fornito in dotazione e non presente in azienda, ma autonomamente acquisito dal lavoratore all'insaputa del datore di lavoro (Cass. IV, n. 33976/2021). Errore diagnostico-terapeutico del medico Si discute tradizionalmente se la colpa del medico, che sia incorso in errore diagnostico, ovvero abbia adottato interventi terapeutici non corretti, possa costituire evento causale sopravvenuto, interruttivo del nesso di causalità tra una precedente condotta e l'evento lesivo successivamente verificatosi. La giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che l'errore nel trattamento sanitario non interrompe il nesso di causalità, tra condotta illecita precedente ed evento lesivo, perché “non è eccezionale la condotta di un medico che affronti senza l'osservanza delle regole dell'arte medica il caso sottopostogli (...) nel caso in esame non può ipotizzarsi l'ipotesi prevista dall'art. 41, comma 2, perché la causa sopravvenuta non solo non costituisce uno sviluppo del tutto autonomo ed eccezionale della prima condotta inosservante ma rientra nell'ambito delle conseguenze prevedibili di questa condotta addebitabile [agli imputati] di cui costituisce una possibile, e quindi prevedibile, conseguenza” (Cass. IV, n. 9967/2010; Cass. I, n. 36724/2015, per la quale, in particolare, le eventuali omissioni dei sanitari nella prestazione delle successive terapie mediche non elidono il nesso di causalità tra la condotta lesiva posta in essere dall'agente e l'evento morte). Secondo Cass. V, n. 18396/2022, in particolare, l'eventuale negligenza o imperizia dei medici, ancorché di elevata gravità, non elide ex se il nesso causale tra la condotta lesiva e l'evento morte, in quanto l'intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini dell'esclusione del nesso di causalità occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l'evento letale; in applicazione del principio, si è ritenuto che la serie causale, innescata dalle percosse che avevano determinato la frattura della vertebra sacrale della vittima, non fosse stata interrotta dalle negligenti omissioni dei sanitari, che - unitamente ad altre concause, quali le prolungate carenze di alimentazione e di idratazione della vittima - avevano favorito e accelerato, ma non autonomamente determinato, lo scompenso cardiaco risultato, infine, fatale). Si è, ad esempio, ritenuto che l'eventuale colpa dei sanitari nella prestazione delle cure alla vittima di un incidente stradale, anche se grave, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente, tale da interrompere ex art. 41, comma 2, il nesso causale tra il comportamento dell'agente (nella specie, di colui che ha causato l'incidente) e la successiva morte del ferito, perché l'agente, provocando l'evento-lesioni, ha reso necessario l'intervento dei sanitari, la cui imperizia o negligenza non costituisce un fatto imprevedibile ed atipico, ma un'ipotesi che si inserisce nello sviluppo della serie causale innescata dal primo agente, sicché non è normalmente idoneo a determinare l'interruzione del nesso causale (Cass. IV, n. 41293/2007, in fattispecie nella quale la S.C. ha escluso l'interruzione del nesso di causalità, precisando che l'errore medico non costituisce un accadimento al di fuori di ogni immaginazione, a maggior ragione nel caso in cui l'aggravamento della situazione clinica del ferito e la necessità di interventi chirurgici complessi risultino preventivabili in ragione della gravità delle lesioni determinate dall'incidente stradale). Va, peraltro, segnalato uno dei pochi casi nei quali la giurisprudenza ha ravvisato l'interruzione del nesso causale per effetto di errore terapeutico. Una persona che viaggiava a bordo di un'autovettura aveva riportato lesioni non molto gravi (frattura del femore e stato commotivo) a seguito di un incidente stradale ascrivibile a colpa del conducente; ricoverata in ospedale, la vittima era stata sottoposta ad intervento chirurgico di osteosintesi, viziato da gravi errori di esecuzione (in particolare, erano applicate al femore fratturato viti che, per la loro eccessiva lunghezza, avevano provocato emorragie, infezione e cancrena), che avevano determinato la necessità di tre emotrasfusioni, nell'esecuzione delle quali, il medico aveva (ulteriormente) errato nell'individuazione del gruppo sanguigno, fino al conclusivo exitus. La S.C. ha ritenuto che tale finale condotta erronea, pur inserendosi nella serie causale dipendente dalla condotta dell'automobilista che aveva provocato l'incidente, avesse agito «per esclusiva forza propria», interrompendo il nesso di condizionamento: rispetto all'evento-morte concretamente verificatosi, l'originaria condotta colposa dell'automobilista, pur costituendo un antecedente necessario per l'efficacia delle cause sopravvenute, è stata, pertanto, considerata non quale di fattore causale, bensì quale mera occasione (Cass. V, n. 6870/1976). Nel citare la decisione, si è più recentemente osservato che “in questo caso si è in presenza di un rischio non particolarmente grave, innescato dall'incidente; sopravviene non solo un errore di esecuzione dell'intervento di osteosintesi, ma anche e soprattutto un errore gravissimo costituito dall'erronea individuazione del gruppo sanguigno, originatosi in una situazione in cui non si provvedeva alla cura della frattura ma si tentava di rimediare agli errori commessi dal chirurgo. Tali contingenze evidenziano l'incongruenza e l'incommensurabilità tra l'originario rischio attivato dall'incidente automobilistico e quello realizzatosi a causa del gravissimo errore consistito nella fallace individuazione del gruppo sanguigno; e giustificano la ritenuta interruzione del nesso causale” (Cass. IV, n. 21588/2007). La giurisprudenza esclude che possa invocare esonero da responsabilità il chirurgo che si sia fidato acriticamente della scelta del collega più anziano, pur essendo in possesso delle cognizioni tecniche per coglierne l'erroneità, ed avendo pertanto il dovere di valutarla e, se del caso, contrastarla; in applicazione del principio, è stata confermata la sentenza che aveva affermato la responsabilità del medico-ginecologo per il decesso di una paziente a seguito di emorragia conseguente a intervento di parto cesareo, per aver omesso di valutare e contrastare, nonostante la assoluta gravità delle condizioni in cui versava la persona offesa, la decisione del collega più anziano di non procedere ad intervento di isterectomia (Cass. IV, n. 7667/2018). Va facendosi largo in giurisprudenza la c.d. teoria del fattore di rischio, per la quale è configurabile l'interruzione del nesso causale tra condotta ed evento quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta (Cass. IV, n. 33329/2015: fattispecie nella quale la S.C. ha escluso il nesso causale tra l'errore nell'originaria diagnosi dell'entità della patologia, dovuta al mancato espletamento dei necessari accertamenti strumentali, ed il decesso del paziente, giacché l'evento letale era stato determinato da un gravissimo errore dell'anestesista, qualificato dalla Corte «rischio nuovo e drammaticamente incommensurabile», rispetto a quello innescato dalla prima condotta). È stata, ad esempio, configurata l'interruzione del nesso causale tra condotta ed evento quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta (Cass. IV, n. 3312/2017: fattispecie nella quale la S.C. ha escluso il nesso causale tra l'omessa segnalazione - da parte dell' anestesista che aveva effettuato la visita propedeutica ad un intervento di rinoplastica - di alcuni indici di difficoltà di intubazione del paziente ed il successivo decesso dello stesso per edema indotto della laringe con conseguente arresto cardiaco causato da ipossia, avendo attribuito portata interruttiva del nesso causale alla condotta omissiva e negligente di altro anestesista, subentrato al collega, che - dopo aver effettuato la visita anestesiologica - aveva autonomamente scelto la procedura da adottare, aveva eseguito le manovre di intubazione del paziente ed era intervenuto al momento della crisi respiratoria). In una recente ed interessante applicazione, si è ritenuto che, in caso di omicidio colposo di persona già affetta da malattia, l'azione dell'imputato deve considerarsi in rapporto di causalità con l'evento quando risulti dimostrato che essa abbia prodotto un trauma che ha influito sulla evoluzione dello stato morboso, provocando o accelerando la morte, mentre va escluso il rapporto di causalità quando si accerti che il trauma non era, nemmeno in via indiretta, sufficiente a cagionare l'evento letale (Cass. IV, n. 49773/2019: fattispecie in cui, in un caso di investimento della vittima, che decedeva dopo varie settimane dal fatto, la S.C. ha riconosciuto il nesso causale tra la condotta dell'agente ed il decesso, atteso che questo era dovuto ai politraumatismi ed alla frattura scomposta del bacino derivanti dal fatto, mentre la pregressa patologia da cui la vittima era affetta - una neoplasia mammaria con metastasi ossee - non rivestiva il ruolo di causa che da sola potesse escludere il nesso di causalità tra la condotta colposa dell'imputato e l'evento morte). Rifiuto di terapie Il rifiuto di terapie, anche salvavita, ai sensi della legge 22 dicembre 2017, n. 219, da parte del paziente capace d'intendere e volere non costituisce causa sopravvenuta sufficiente a determinare l'evento e ad interrompere il nesso di causalità, dovendo essere considerato non un evento anomalo e eccezionale, ma uno dei possibili esiti ordinari della proposta di terapia conseguente all'insorgere di una patologia potenzialmente letale (Cass. I, n. 14560/2022). Il fatto illecito del terzo come concausaAi sensi dell'art. 41, comma 3, “causa preesistente, simultanea o sopravvenuta” può essere anche l'altrui fatto illecito: “l'ultima parte dell'articolo ha una funzione meramente chiarificatrice. Le cause, infatti, che cooperarono alla produzione dell'evento possono essere le più diverse: umana, naturale, cosciente, non intelligente, lecita, illecita, dolosa, colposa. Fissato bene il concetto che l'art. 4[1] regola i rapporti di causalità materiale e/o fisica, è intuitivo che tali distinzioni sono irrilevanti per l'oggetto di quella norma, e perciò potrebbe ritenersi perfino superflua la espressa dichiarazione che le disposizioni dell'articolo si applicano anche nel caso in cui la causa sopravvenuta consista nel fatto illecito altrui, doloso o colposo. Tuttavia essa mi è sembrata opportuna, perché, precisamente in relazione a tale ipotesi, ed in specie per il caso che il fatto illecito sia opera della parte lesa, si sono agitate le più vive discussioni in dottrina e in giurisprudenza, per determinare entro quali limiti l'evento possa mettersi a carico dell'autore del fatto. Il Progetto nettamente stabilisce che l'ipotesi rientra nella norma generale sulla causalità. Se il concorso del fatto altrui, e specialmente della parte lesa, nella produzione dell'evento possa essere tenuto in conto nella determinazione della pena, è problema del tutto diverso, il quale attiene alla responsabilità: il Progetto ha preso in considerazione tale problema nella disciplina delle circostanze del reato” (Relazione del guardasigilli al re sul libro I del Progetto del Codice Penale, 1929, 85). La dottrina ha osservato che dall'art. 41, comma 3, risulta, sul piano del nesso condizionale, che neppure il fatto illecito altrui (da intendere sempre come fatto doloso altrui) “acquista rilievo ai fini dell'esclusione del nesso medesimo. (...) La regola che il comma 1 e il comma 3 riconoscono fondamentale per il nesso di condizionamento è dunque l'equivalenza di tutte le condizioni, preesistenti, simultanee, sopravvenute, siano a loro volta dipendenti o meno dalla condotta del soggetto e consistano pure in fatti illeciti di terzi. (...) Se con i comma 1 e 3 l'art. 41 ribadisce pertanto la teoria dell'equivalenza delle condizioni (...), nel co. 2° la disposizione detta invece un criterio di delimitazione del nesso di condizionamento” (Romano, Commentario, 399). Anche la giurisprudenza ritiene concordemente che l'art. 41, comma 3, conferma il principio condizionalistico (“la connessione tra la condotta umana e l'evento si configura anche quando il processo causale mostra la presenza di altre condizioni costituite dal fatto illecito altrui”: Cass. IV, 21588/2007), e non pone alcun problema teorico-pratico, limitandosi a tipizzare una possibile concausa: “il nesso di causalità non resta escluso dal fatto volontario altrui, cioè, quando l'evento è dovuto anche all'imprudenza di un terzo o dello stesso offeso, poiché il fatto umano, involontario o volontario, realizza anch'esso un fattore causale, al pari degli altri fattori accidentali o naturali” (Cass. IV, n. 4287/1986: nella specie, relativa ad annullamento di sentenza di assoluzione da omicidio colposo, la Cassazione ha ritenuto erroneo il ragionamento seguito dalla Corte di merito, la quale, pur avendo considerato che l'imputato si era comportato con evidente imprudenza, aveva concluso che, tuttavia, ciò non significava che egli dovesse rispondere dell'evento verificatosi a titolo di colpa, in tal modo operando una erronea sovrapposizione tra nesso oggettivo di causalità ed elemento soggettivo del reato, in quanto nel processo causale si era inserito un evento eccezionale ed imprevedibile, che aveva avuto un'influenza decisiva nella determinazione dell'evento, e cioè l'urto volontario, dato dalla vittima con il gomito al braccio sinistro dell'imputato, che aveva provocato la rotazione e lo sparo della pistola che questi stava controllando). Si è precisato che, ai sensi dell'art. 41, comma 3, il fatto illecito altrui, qualora sopravvenga, esclude il nesso di condizionamento soltanto se, come qualsiasi altra causa sopravvenuta, si risolva in un fatto eccezionale, straordinario, atipico, imprevisto ed imprevedibile, da solo sufficiente a determinare l'evento (Cass. IV, n. 4793/1991, relativa al crollo dei bacini di Stava: con riguardo alla fattispecie concreta, si è ritenuto che non costituisca certamente avvenimento eccezionale o straordinario l'omissione di cautele o di atti d'ufficio da parte di coloro che dovrebbero adottare le prime, o dei pubblici ufficiali che dovrebbero porre in essere i secondi, poiché, dopo una precedente, colpevole omissione, non può vedersi una “interferenza di serie meramente occasionale”, né un evento eccezionale, nella successiva omissione di chi sia tenuto ad un determinato comportamento). Anche con riguardo ai reati colposi conseguenti ad incidenti stradali, si è ribadito che deve essere esclusa la responsabilità del conducente quando il fatto illecito altrui, ed in particolare della vittima, configuri — per le sue caratteristiche — una vera causa eccezionale, atipica e non prevedibile che sia stata da sola sufficiente a provocare l'evento (Cass. IV, n. 28615/2005, che ha considerato quale causa eccezionale, atipica e non prevedibile, da sola sufficiente a provocare l'evento, il comportamento della vittima, che aveva attraversato l'incrocio a piedi all'improvviso, con il semaforo rosso e correndo diagonalmente lontano dalle strisce, mentre la velocità dell'investitore era molto moderata). Il rapporto di causalità nel concorso esterno in associazione di tipo mafiosoLe Sezioni unite (Cass.S.U., n. 33748/2005) hanno esaminato le connotazioni del rapporto di causalità nel concorso esterno in associazione di tipo mafioso (ex artt. 110 e 416-bis), affermando che assume il ruolo di «concorrente esterno» il soggetto che, pur non essendo inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione, ed essendo alieno dalla affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo esplichi un'effettiva rilevanza causale, e quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione od il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione (ovvero, per quelle operanti su larga scala, come «Cosa nostra», di un suo particolare settore, ramo di attività od articolazione territoriale), e risulti diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima. L'efficienza causale del contributo fornito dal concorrente extraneus alla concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo costituisce elemento essenziale e tipizzante della condotta concorsuale, di natura materiale o morale: e non è sufficiente una valutazione ex ante del contributo, risolta in termini di mera probabilità di lesione del bene giuridico protetto, essendo necessario un apprezzamento ex post, in esito al quale sia dimostrata, alla stregua dei comuni canoni di «certezza processuale», l'elevata credibilità razionale dell'ipotesi formulata in ordine alla reale efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente. Ed anche il contributo causale recato dalla condotta dell'agente alla conservazione od al rafforzamento dell'associazione, oltre al fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, deve rientrare nel “fuoco” del dolo, dovendo l'interessato agire nella consapevolezza e volontà di recare un contributo alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio; non sarebbe, pertanto, sufficiente il mero dolo eventuale, inteso come mera accettazione da parte del concorrente esterno del rischio di verificazione dell'evento, ritenuto solamente probabile o possibile insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti. Ciò premesso, si è ritenuto che il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso sia configurabile anche nell'ipotesi del «patto di scambio politico-mafioso», in forza del quale un uomo politico, non partecipe del sodalizio criminale (e quindi non stabilmente inserito nel relativo tessuto organizzativo e privo della affectio societatis) si impegni, a fronte dell'appoggio richiesto all'associazione mafiosa in vista di una competizione elettorale, a favorire gli interessi del gruppo, nei casi in cui: a) gli impegni assunti dal politico a favore dell'associazione mafiosa presentino il carattere della serietà e della concretezza, in ragione dell'affidabilità e della caratura dei protagonisti dell'accordo, dei caratteri strutturali del sodalizio criminoso, del contesto storico di riferimento e della specificità dei contenuti; b) all'esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé ed a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell'accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell'intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali. In seguito si è, tuttavia, registrato un primo revirement, non ritenendosi più necessario — per la configurabilità del concorso esterno — individuare la sussistenza di un nesso di causalità tra la condotta dell'extraneus ed il mantenimento o il rafforzamento della cosca, atteso che, « altrimenti, si dovrebbe escludere la punibilità in caso di insuccesso della campagna elettorale «mafiosa» per non essere stato il politico colluso risultato vincitore, con il conseguente depotenziamento del clan di 'ndrangheta che non ha conseguito il risultato perseguito e magari con il potenziamento, certo non voluto, dell'eventuale clan contrapposto che è riuscito a far eleggere l'avversario politico », laddove è evidente il disvalore « della condotta di chi si è impegnato a strumentalizzare il mezzo illecito, costituito dall'operatività di una associazione mafiosa, per conseguire il risultato della elezione, alterando il corretto gioco democratico posto alla sua base. Ne consegue che, ferma restando la sufficienza di un contributo dotato di rilevanza causale, indispensabile per sfuggire alla perniciosa assimilazione del concorso esterno con la più labile ed evanescente figura della contiguità... il patto politico-elettorale si collocherà a pieno nel contesto del disvalore giuridico sociale previsto dagli artt. 110-416-bis c.p. allorché in seguito a quel patto si dia inizio alla realizzazione di una delle prestazioni costitutive del suo oggetto, ferma restando la serietà della promessa della prestazione corrispettiva: la messa in movimento delle forze costitutive della associazione criminosa per l'accaparramento dei voti necessari all'elezione del politico, fermo restando l'impegno serio e concreto di costui di agire, una volta eletto, per gli interessi e vantaggi dell'organizzazione criminosa » (Cass. II, n. 8028/2014: in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto corretta la decisione impugnata, la quale aveva ravvisato il reato di cui agli artt. 110-416 bis con riferimento alla condotta del politico che, pur beneficiando del sostegno del gruppo mafioso, non era risultato eletto). La necessità dell'efficacia causale del contributo del concorrente esterno stata, peraltro, successivamente ribadita da Cass. VI, n. 33885/2014, per la quale “assume il ruolo di «concorrente esterno» il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e privo dell'affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo esplichi un'effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione (o, per quelle operanti su larga scala come «Cosa nostra», di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima”. In applicazione del principio, la S.C. ha annullato, con rinvio, l'ordinanza applicativa della misura cautelare emessa nei confronti dell'amministratore giudiziario di una società sottoposta a confisca di prevenzione, in quanto il «contributo esterno» non poteva desumersi solo dall'aver consentito al precedente titolare, aderente al sodalizio, di intromettersi nella gestione aziendale, senza verificare l'intenzionalità di tale comportamento e la sua incidenza causale sul contesto associativo. L'elaborazione giurisprudenziale relativa alla rilevanza causale del contributo del concorrente esterno riprende, più o meno pedissequamente, i principi affermati dalla sentenza Franzese, senza considerare che in quest'ultima si discorreva di reati con evento in senso naturalistico, laddove, al contrario, nei reati associativi vi è un mero evento in senso giuridico, necessariamente consistente nella mera offesa del bene giuridico tutelato: "il concorso di persone è essenzialmente, e prima di tutto, concorso di condotte e tra condotte: l'efficacia causale, qualora il reato commesso in concorso preveda un evento tipico, si riferisce all'insieme delle condotte, e non a ciascuna di esse singolarmente considerate. Ma nei reati associativi un evento tipico non è contemplato. Occorrerà dunque acconciarsi a riconoscere la necessità che il concorso si dislochi lungo l'asse delle condotte associative tipiche; non solo, ovviamente, quelle di partecipazione, ma anche quelle di organizzazione o di direzione. Così, ad esempio, il commercialista che cura la mimetizzazione di imprese controllate dalle cosche potrà risultare semplicemente (ma sufficientemente) un concorrente 'esterno' rispetto a condotte 'intratipiche' di organizzazione, e così via dicendo"; peraltro, "costituisce opera vana lo sforzo di impostare il rapporto tra la condotta tipica e quella del concorrente eventuale sul piano della causalità. Il nesso che le condotte debbono presentare per assumere una dimensione concorsuale dovrebbe piuttosto essere colto su un piano diverso, quello della strumentalità" (Padovani, 497). Altra dottrina osserva, in particolare, che, "prescindendo da qualunque valutazione in termini eziologici (…) ci si dovrebbe invero concentrare sulla sola circostanza che dell'apporto del concorrente ci si sia 'serviti' per la commissione del reato: nella relazione tra comportamenti umani – e non più tra una condotta ed un puro evento naturalistico – il tratto saliente sarebbe, insomma, quello della scelta di 'utilizzare' il contributo (ad es., quello consistente nel fornire mezzi, informazioni, suggerimenti 'strategici', e così via dicendo) di altri soggetti, finalizzandolo al perseguimento del piano criminoso di volta in volta deliberato" (De Francesco, 2012, 2500 ss.), Si è anche osservato che "la strumentalità, implicando la prova dell'effettiva utilizzazione del contributo esterno (per commettere una, o più, delle condotte tipiche associative, e, al limite, un intero 'comparto' di tali condotte) ha una portata selettiva ignota ai tautologismi di cui talora sembra pervasa la giurisprudenza proclive a identificare la rilevanza concorsuale in una idoneità ex antea dagli enigmatici confini" (Padovani, 498). Il rapporto di causalità nella responsabilità civile aquiliana: cenniChiamate a pronunziarsi sulle connotazioni del nesso di causalità ai fini dell'affermazione di sussistenza della responsabilità civile aquiliana (in relazione ad un delicato caso di responsabilità del Ministero della salute, a titolo di omissione, per danni conseguenti ad emotrasfusioni con sangue infetto) le Sezioni Unite civili (Cass. civ. S.U., n. 576/2008) hanno ritenuto che, anche in tema di responsabilità civile aquiliana, «il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro, se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano — ad una valutazione ex ante — del tutto inverosimili ». Resta, peraltro, ferma la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: « nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova « oltre il ragionevole dubbio» (in applicazione del principio, si è ritenuto che, sussistendo a carico del Ministero della sanità — oggi Ministero della salute —, anche prima dell'entrata in vigore della l. 4 maggio 1990, n. 107, un obbligo di controllo e di vigilanza in materia di raccolta e distribuzione di sangue umano per uso terapeutico — il giudice, accertata l'omissione di tali attività con riferimento alle cognizioni scientifiche esistenti all'epoca di produzione del preparato, ed accertata l'esistenza di una patologia da virus Hiv, Hbv o Hcv in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento). Il principio è stato successivamente riaffermato, rilevandosi che, in tema di responsabilità aquiliana, nella comparazione delle diverse concause, nessuna delle quali appaia del tutto inverosimile e senza che una sola assuma con evidenza una efficacia esclusiva rispetto all'evento, è compito del giudice valutare quale di esse appaia «più probabile che non» rispetto alle altre nella determinazione dell'evento (Cass. civ. III, n. 23933/2013: in applicazione del principio, si è ritenuto che, nell'ipotesi in cui si sostenga l'esistenza d'un nesso causale tra la condotta posta in essere da organi della P.A. per il depistaggio di indagini giudiziarie, avviate a seguito di un disastro aereo, e il danno da fallimento della compagnia aerea proprietaria del velivolo coinvolto nel disastro, la cui immagine si lamenta essere stata lesa dal depistaggio finalizzato ad avvalorare la tesi del cedimento strutturale dell'aereo e dell'inaffidabilità tecnica e commerciale della compagnia, è incongruo limitarsi ad attribuire alla situazione di preesistente dissesto finanziario — desunto dalla revoca della concessione di volo intervenuta sei mesi dopo il disastro — la causa del fallimento della società, e del danno da questo derivante, essendo invece necessario comparare le concause, verificando in concreto se la situazione di irrecuperabile dissesto fosse effettivamente preesistente al disastro aereo, oppure se uno stato debitorio non patologico per una compagnia aerea si sia aggravato in modo decisivo proprio per la riconosciuta attività di depistaggio con discredito commerciale). Si è anche chiarito che, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41, qualora la condotta abbia concorso, insieme a circostanze naturali, alla produzione dell'evento, e ne costituisca un antecedente causale, l'agente deve rispondere per l'intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato; non sussiste, invece, nessuna responsabilità dell'agente per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che non ne costituisce un antecedente causale, e si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, né per quelli preesistenti. Anche in queste ultime ipotesi, peraltro, debbono essere addebitati all'agente i maggiori danni, o gli aggravamenti, che siano sopravvenuti per effetto della sua condotta, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, e non si sarebbero verificati senza di essa, con conseguente responsabilità dell'agente stesso per l'intero danno differenziale (Cass. civ. III, n. 9528/2012). In materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali trova diretta applicazione la regola contenuta nell'art. 41, secondo la quale il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni: va, pertanto, riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge (Cass. civ. I, n. 23990/2014). Qualora la produzione di un evento dannoso possa apparire riconducibile alla concomitanza della condotta umana e del fattore naturale, ed autonomo, rappresentato dalla pregressa situazione patologica del danneggiato, il giudice, accertata l'efficienza eziologica della condotta rispetto all'evento, in applicazione della regola di cui all'art. 41, deve procedere, anche con ricorso a criteri equitativi, alla valutazione della causalità giuridica di ogni singola concausa, si da delimitare l'obbligo risarcitorio dell'autore della condotta, con esclusione delle conseguenze dannose determinate dal fortuito (Cass. civ. III, n. 24204/2014: nel caso di specie, relativo all'investimento di pedone affetto da morbo di Alzheimer, la S.C. ha ritenuto corretta la decisione con cui il giudice di secondo grado ha valutato, ai fini della liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante, l'incidenza concorrente di detta patologia con la causa lesiva costituita dal sinistro, apprezzando l'evoluzione propria della malattia, nonché il suo aggravamento in ragione delle lesioni conseguenti al sinistro stradale). Con riferimento alla responsabilità civile della P.A.per le condotte penalmente illecite dei dipendenti della P.A. dirette a perseguire finalità esclusivamente personali, si è successivamente affermato che “Lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi – non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato od abusivo od illecito, non ne integrino uno sviluppo oggettivamente anomalo” (Cass. civ., S.U., n. 13246/2019). Il rapporto di causalità nella responsabilità da reato degli enti immaterialiLa giurisprudenza ha ritenuto che, ai fini dell'estensione della confisca del profitto del reato dalla persona giuridica direttamente giovatasi delle condotte illecite a quella che l'abbia successivamente incorporata, è necessario che anche in capo a quest'ultima sussista un effettivo vantaggio, da determinarsi in applicazione del principio generale di cui all'art. 41, con la conseguenza che la confisca è preclusa qualora emergano fatti sopravvenuti ed indipendenti dall’ente incorporante, idonei ad interrompere il nesso causale tra il beneficio obiettivo conseguente alle attività contra legem e l'atto d’incorporazione (Cass. I, n. 39573/2019: in applicazione del principio, la S.C. ha annullato con rinvio la decisione del giudice dell'esecuzione che, nel respingere l'opposizione al provvedimento di rigetto della richiesta di una banca di revocare la confisca del profitto, disposta a suo carico in relazione a reati di market abuse commessi dal funzionario di altro istituto di credito incorporato, aveva ritenuto sussistente il requisito del vantaggio in considerazione del risanamento del bilancio della società incorporata conseguente a detta illecita condotta, omettendo di considerare che l'incorporazione era avvenuta sei anni dopo e che in tale periodo si erano verificate nell'incorporata condotte di mala gestio potenzialmente suscettibili di aver disperso le obiettive utilità derivanti dai reati stessi). Profili processualiLa prova del nesso di causalità. La dipendenza di un evento da una determinata condotta deve essere affermata anche quando le prove raccolte non chiariscano ogni passaggio della concatenazione causale e possano essere configurate sequenze alternative di produzione dell'evento, purché ciascuna tra esse sia riconducibile all'agente e possa essere esclusa l'incidenza di meccanismi eziologici indipendenti. (Cass. IV, n. 22147/2016: fattispecie relativa al decesso di un lavoratore in conseguenza dell'abbattimento di un albero, con riguardo alla quale - nel dubbio sull'esatta dinamica del sinistro - è stata, comunque, assegnata rilevanza causale alla condotta del datore di lavoro che aveva omesso di fornire ai propri dipendenti le attrezzature necessarie per l'esecuzione in sicurezza dei tagli, di formarli ed informarli sui rischi connessi a quella lavorazione e di vigilare adeguatamente sul cantiere). BibliografiaBeltrani, sub art. 41, in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretta da Lattanzi-Lupo, II, Aggiornamento, Milano, 2015; S. Beltrani, Commento a Trib. Torino 14 maggio 2012, in Guida dir. 2012, n. 42, 15 ss.; Blaiotta, La causalità nella responsabilità professionale, Milano, 2004; Blaiotta, Causalità giuridica, Torino, 2010; Blaiotta, Il sapere scientifico e l'inferenza causale, in Cass. pen. 2010, 1265 ss.; Brusco, Investimento stradale e decesso avvenuto per cause sopravvenute, in ilpenalista.it, 2018; Brusco, La causalità nella responsabilità penale del medico, in Danno e resp. 2007, 1209 ss.; Canzio, Prova scientifica, ragionamento probatorio e libero convincimento del giudice nel processo penale, in Dir. pen. e proc. 2003, 1193; G.A. De Francesco, Il concorso esterno nell’associazione mafiosa torna alla ribalta del sindacato di legittimità, in Cass. pen. 2012, 2500 ss.; Federici; Sulla rilevanza dell'errore terapeutico intervenuto fra condotta ed evento, in Giur. it. 2013, 1394 ss.; Fiandaca, Nota a Cass., 25 settembre 2001, Covili, in Foro it. 2002, II, 289; Grotto, L'accertamento della causalità nell'ambito degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Spunti per un dibattito, in Giust. pen. 2014, 5, II, 306 ss.; Guariniello, Dai tumori professionali ai tumori extraprofessionali da amianto, in Foro it. 2001, II, 260; Guariniello, Fumo di tabacco e tumori professionali nella giurisprudenza della Corte di cassazione, in Foro it. 2014, II, 18 ss; Stuart Mill, A system of Logic Ratiocinative ad Inductive, III, London, 1886; A. Pagliaro, Imputazione obiettiva dell'evento, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1992, 779 ss.; Pagliaro, Causalità e diritto penale, in Cass. pen. 2005, 1037 ss.; F. Palazzo, Morti da amianto e colpa penale, in Dir. pen. e proc. 2011, 2, 185; C.E. Paliero, Le fattispecie causalmente orientate sono davvero « a forma libera »?, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1977, 1499; Siniscalco, voce Causalità (rapporto di), in Enc. dir., VI, Milano, 1968, 639 ss.; Stella, La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1988, 1248; Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 2000; F. Stella, Etica e razionalità del processo penale nella recente sentenza sulla causalità delle Sezioni unite della Corte di cassazione, in Riv. it. dir. pen. 2002, 767; Stella, Verità, scienza e giustizia: le frequenze medio-basse nella successione di eventi, Riv. it. dir. pen. 2002, 1215; Stella, Giustizia e modernità, Milano, 2003; Stella, Fallacia e anarchia metodologica in tema di causalità, in Riv. it. dir. pen. 2004, 21; S. Vinciguerra, Sulla causalità nel diritto penale italiano. Qualche riflessione, in Giur. it. 2012, 721 ss. |