Codice Penale art. 50 - Consenso dell'avente diritto (1).Consenso dell'avente diritto (1). [I]. Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona [5 c.c.] che può validamente disporne [579]. (1) V., per l'invalidità degli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica o siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume, l'art. 5 c.c. V., inoltre, per una deroga a tale principio, con riguardo al trapianto di rene tra persone viventi, l'art. 1, l. 26 giugno 1967, n. 458. V. anche sulle attività trasfusionali relative al sangue umano e ai suoi componenti la l. 6 marzo 2001, n. 52 e la l. 21 ottobre 2005, n. 219. InquadramentoIl consenso dell'avente diritto è disciplinato dall'art. 50 come causa di giustificazione (o scriminante) comune. Il suo fondamento è individuato nelle connotazioni negoziali del consenso stesso: se il titolare del bene giuridico tutelato attribuisce ad un terzo il diritto di ledere il predetto bene, il terzo pone in essere la lesione esercitando un diritto, e tale suo comportamento non potrebbe mai risultare antigiuridico. La dottrina prevalente (Antolisei, 2003, 290; Romano, 529) valorizza, al contrario, la rinunzia alla tutela del bene da parte del suo titolare, che comporta il venir meno del suo interesse alla repressione del comportamento del terzo agente; a tale ratio non sfuggono considerazioni di politica del diritto: « nel confronto tra il bene protetto di volta in volta dalla norma e il bene dell'autodeterminazione del singolo, la legge preferisce entro dati limiti il secondo: si ha così anche in questo caso quel bilanciamento dei beni che rappresenta il sostrato tipico delle cause di giustificazione, risolto qui nel senso della prevalenza della libertà individuale, intesa come valore speciale di rango superiore » (Romano, 529). La giurisprudenza ha osservato che la disposizione contenuta nell'art. 50 costituisce espressione di un principio generale di autoresponsabilità, operante anche nella sfera dei diritti privati (Cass. civ.S.U., n. 1682/1997, per la quale ciò comporta, in materia di responsabilità aquiliana, l'esclusione dell'antigiuridicità dell'atto lesivo per effetto del consenso del titolare, purché il consenso sia stato validamente prestato ed abbia avuto ad oggetto un diritto disponibile). Una risalente decisione (Cass. civ. I, n. 2077/1977) ha ritenuto che il consenso del danneggiato escluda la responsabilità civile per il fatto illecito configurabile come reato soltanto in relazione ai delitti, non anche alle contravvenzioni. Dall'ambito dell'art. 50 esulano le fattispecie nelle quali il dissenso della vittima ha natura giuridica di elemento costitutivo del reato (ad es., la violenza sessuale ex art. 609-bis e l'omicidio del consenziente ex art. 579): in tali casi gli atti compiuti dal soggetto agente con il valido consenso della vittima non sono meramente scriminati, bensì tout court privi di rilievo penale, per difetto di tipicità. In considerazione del fatto che, nell'omicidio del consenziente, il consenso è elemento costitutivo del reato, la giurisprudenza ha chiarito che, nel caso in cui il reo incorra in errore circa la sussistenza del consenso, trova applicazione la previsione dell'art. 47, in base alla quale l'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso, nel caso di specie individuabile nel delitto di omicidio volontario (Cass. I, n. 12928/2016: la S.C. ha precisato che il consenso previsto quale scriminante dall'art. 50 non corrisponde al consenso richiesto dall'art. 579, atteso che, in questa seconda ipotesi, il consenso incide sulla tipicità del fatto e non quale mera causa di giustificazione). Natura giuridica del consensoLa natura giuridica del consenso scriminante è controversa. La dottrina tradizionale riteneva che si trattasse di un negozio giuridico di diritto privato o di diritto penale (così, rispettivamente, Grispigni, 101 ss. e Carnelutti, 116); quella in atto dominante (Antolisei, 2003, 290; Mantovani, 247) ritiene che il consenso scriminante abbia natura giuridica di mero atto giuridico in senso stretto; altra dottrina (Romano, 534) ritiene, peraltro, che «nel consenso non rileva tanto la dichiarazione di volontà produttiva dell'effetto dell'esclusione dell'antigiuridicità, quanto la stessa volontà liberamente e genuinamente formatasi nel soggetto. In questo senso, è meglio sottolineare che si è di fronte ad una autonoma figura del diritto penale: il consenso è un mero atto di volontà, con cui il soggetto rinuncia alla tutela del bene, rappresentandosi ed accettando, seppure in termini eventuali, il fatto lesivo altrui (comprensivo, a seconda delle volte, della sola condotta, o della condotta e dell'evento) ». Legittimazione al consensoProfili generali Per avere efficacia scriminante, il consenso deve, sotto il profilo soggettivo, essere prestato, ad un tempo: a) validamente, cioè volontariamente, ovvero per libera scelta non condizionata da errore, violenza o dolo; b) da soggetto legittimato, cioè dal titolare del bene tutelato dalla norma penale, che in difetto sarebbe soggetto passivo del reato. Il consenso può essere espresso anche dal rappresentante legale o volontario del soggetto legittimato, se la rappresentanza risulti in concreto compatibile con la natura dell'atto cui si consente (ad es., non sarebbe valido il consenso espresso dal rappresentante in proprio favore); se più sono i titolari del bene, la condotta dell'agente risulta scriminata soltanto in presenza del consenso di tutti gli aventi diritto. Con riguardo alla legittimazione al consenso da parte degli enti immateriali, la giurisprudenza (Cass. V, n. 3901/2001), in riferimento ad una fattispecie di truffa in danno di una società o di un ente, ha chiarito che il consenso dell'avente diritto alla diminuzione patrimoniale conseguente alla condotta del soggetto attivo è ipotizzabile solo nel caso in cui essa risulti da una specifica deliberazione, legittimamente assunta, che deroghi alle disposizioni normalmente vigenti; ne consegue che non sussiste la scriminante in esame, ma la mera accondiscendenza delle persone fisiche preposte al controllo dell'operato dei dipendenti, nel caso in cui a costoro sia stato arbitrariamente consentito di lasciare in anticipo il posto di lavoro, pur in presenza di documentazione attestante, contrariamente al vero, che essi avevano esattamente adempiuto alla loro prestazione; c) da soggetto capace. In generale, è sufficiente la mera capacità naturale, ovvero di intendere e di volere (art. 428 c.c.), che va riconosciuta ad ogni soggetto che non versi in situazione di minorazione psichica accertata da preventivo provvedimento di interdizione. Peraltro, con riferimento ai diritti di natura patrimoniale, la dottrina ritiene necessaria la capacità di agire (art. 2 c.c.): « nei casi in cui il codice civile impedisce al soggetto un valido trasferimento di tali diritti, sarebbe illogico pensare ad una validità ed efficacia del suo consenso ad esempio a condotte del terzo distruttive o sottrattive » (Romano, 535). Oggetto del consensoProfili generali Per avere efficacia scriminante, il consenso deve anche, sotto il profilo oggettivo: a) essere prestato lecitamente, cioè non per ragioni turpi o contrarie a norme imperative od al buon costume; b) avere ad oggetto un diritto disponibile. Preso atto dell'impossibilità di individuare un criterio che consenta in assoluto di individuare quali siano i diritti disponibili e quali quelli indisponibili, l'orientamento preferibile ritiene necessaria una disamina caso per caso. Diritti disponibili Sono generalmente considerati disponibili: a) i diritti patrimoniali; b) i diritti inerenti alla sfera della personalità (onore, libertà personale), salvo che la loro lesione non violi norme a tutela dell'ordine pubblico o del buon costume: ad es., sarebbe valido il solo consenso ad offese episodiche, e certamente invalido quello ad un sequestro di persona a tempo indeterminato. Diritti indisponibili Sono sempre indisponibili i diritti appartenenti alla collettività (ad es., il diritto all'ambiente salubre) ed i diritti individuali tutelati in quanto di interesse pubblico (ad es., il diritto alla salute). Rientrano tra i diritti indisponibili anche gli interessi dello Stato-amministrazione, considerati dalle norme a tutela della P.A., dell'amministrazione della giustizia e della fede pubblica, e gli interessi della collettività dei consociati, considerati dalle norme a tutela del sentimento religioso, dell'ordine pubblico, dell'incolumità pubblica, del buon costume, dell'economia pubblica, della famiglia. Gli atti di disposizione del proprio corpo Con riguardo alla disponibilità o meno dell'integrità fisica del consenziente, un limite è posto dall'art. 5 c.c., a norma del quale gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordinamento pubblico o al buon costume; detta disposizione non pone alcun problema nei casi in cui l'atto di disposizione del proprio corpo sia espressamente consentito dalla legge (ad es., in materia di trapianti, l. n. 91/1999 e l. n. 458/1967). La giurisprudenza è ferma nel ritenere che il divieto posto dall'art. 5 c.c. operi anche ai fini penali (per tutte, Cass. V, n. 5544/1992, per la quale, ai fini della configurabilità del delitto di omicidio preterintenzionale, il consenso prestato ad una iniezione di eroina che abbia provocato effetti letali, si pone indubbiamente contro il buon costume e comunque contro la legge, posto che le iniezioni per endovena sono praticabili solo da personale sanitario qualificato, ed è quindi un consenso non valido e non atto a scriminare il reato). Il consenso dell'avente diritto può avere efficacia scriminante anche rispetto alle percosse e alle lesioni se viene prestato volontariamente nella piena consapevolezza delle conseguenze lesive all'integrità personale, sempre che queste non si risolvano in una menomazione permanente che, incidendo negativamente sul valore sociale della persona umana, elide la rilevanza del consenso prestato (Cass. I, n. 9326/1998: fattispecie concernente pratiche erotiche sadomasochistiche, in relazione alla quale la S.C. ha affermato che, pur volendo ritenere operante, ai sensi dell'art. 5 c.c., non il limite del buon costume, bensì soltanto il divieto di diminuzioni permanenti della propria integrità fisica, il consenso dell'avente diritto espresso nel momento iniziale della condotta non basta ad escludere l'antigiuridicità della condotta, essendo, al contrario, necessario che detto consenso sia presente durante l'intero sviluppo di essa; ne consegue che la scriminante in esame non può essere invocata allorché l'avente diritto manifesti, esplicitamente o mediante comportamenti univoci, di non essere più consenziente al protrarsi della condotta cui aveva inizialmente aderito). La giurisprudenza ha anche chiarito che non ha efficacia scriminante il consenso eventualmente prestato dalla vittima alle lesioni che le siano state inferte al fine di commettere una frode assicurativa (art. 642 c.p.), attesa la contrarietà all'ordine pubblico e al buon costume, ai sensi dell'art. 5 c.c., di atti di disposizione del proprio corpo volti a farne l'oggetto di un mercimonio, attraverso la promessa o la corresponsione di denaro in cambio di una menomazione dell'integrità fisica, ovvero di abusi funzionali al perseguimento di un vantaggio ingiusto, attraverso l'asservimento della menomazione al compimento di un atto illecito o fraudolento (Cass. I, n. 46895/2019; Cass. I, n. 590/2020). Il diritto alla vita Il bene della vita è assolutamente indisponibile: di conseguenza, l'art. 579 (alla cui trattazione si rinvia per la disamina dei casi Welby e Englaro), non considera scriminato l'omicidio del consenziente, limitandosi a punirlo meno severamente rispetto all'omicidio (art. 575). Proprio in considerazione dell'assoluta indisponibilità del diritto alla vita ed all'integrità personale, la giurisprudenza ha negato l'efficacia scriminante del consenso prestato da uno stunt-man, successivamente rimasto vittima di un investimento verificatosi nel corso di una ripresa cinematografica, a che si girasse una scena rischiosa per la sua vita e per la sua incolumità personale (Cass. IV, n. 8611/1981). La disciplinaProfili generali Il consenso, per avere efficacia scriminante, deve essere manifestato prima della commissione del reato (Cass. II, n. 6287/1973), ovvero, al più tardi, nel momento del fatto lesivo (Romano, 537), non ex post: la ratifica successiva dell'operato dell'agente sarebbe, pertanto, improduttiva di effetti scriminanti. Con riguardo ad attività tendenzialmente destinate a protrarsi per un lasso di tempo apprezzabile, il consenso dell'avente diritto ha efficacia scriminante soltanto se permanente. La revoca del consenso Il consenso è sempre revocabile da parte del soggetto legittimato prima della commissione della condotta consentita (Cass. civ. I, n. 2077/1977), sempre che la situazione di fatto determinatasi a seguito dell'originario consenso lo permetta: ad es., nel corso dell'intervento di chirurgia estetica (non necessario, e perciò praticabile soltanto previo consenso dell'interessato, perché altrimenti lesivo dell'altrui integrità fisica), il consenso non potrebbe esser revocato. Nel caso in cui l'agente non si sia reso conto dell'intervenuta revoca del consenso, potrà, ricorrendone le condizioni, invocare la disciplina dettata dall'art. 59. La forma del consenso e della revoca: consenso tacito e presuntoAi fini della prestazione del consenso scriminante (così come della sua revoca) non è imposta alcuna forma predeterminata, ma naturalmente può acquistare efficacia la sola manifestazione di volontà che sia stata esternata, anche attraverso un comportamento tacito, ed abbia rivelato in maniera precisa ed inequivocabile il proprio proposito, risultando percepibile dai terzi (c.d. consenso tacito); diversamente, a nulla varrebbe la convinzione ipotetica ed eventuale che il consenso sarebbe stato dato se richiesto (c.d. consenso presunto), poiché, ai fini della applicabilità dell'art. 50, è necessario il requisito della effettività (Cass. VI, n. 3125/1982). La giurisprudenza (Cass. II, n. 3675/1988) ha precisato che la convinzione di impossessarsi della cosa altrui con il consenso dell'avente diritto fa venir meno il dolo del reato di furto (artt. 624 ss. c.p.), per la cui sussistenza è necessaria la coscienza di agire contro o senza la volontà del titolare: tale consenso deve ritenersi effettivo, quando vi sia stata l'espressa autorizzazione alla sottrazione, oppure tacito, se esso venga desunto da un inequivocabile comportamento del detentore, ovvero presunto, nel caso in cui colui che sottrae la cosa ritenga in buona fede di averne il permesso, in assenza o nell'impossibilità materiale di acconsentire alla sottrazione da parte di chi la detiene. In quest'ultimo caso, l'agente deve potere ragionevolmente presumere, in base a fatti sicuri, nel momento stesso in cui agisce, che l'avente diritto, se avesse potuto, avrebbe dato il suo consenso: non è, quindi, sufficiente la mera supposizione della ipotetica prestazione del consenso de quo. Per quanto riguarda il consenso putativo si rinvia al commento dell'art. 59. Il consenso ai reati colposiLa giurisprudenza (Cass. V, n. 4743/1977, e Cass. IV, n. 671/1979) è ferma nell'escludere la compatibilità tra il consenso dell'avente diritto ed i reati colposi, per due ordini di ragioni: a) si richiama, in primo luogo, l'inefficacia del consenso in relazione agli atti di disposizione del proprio corpo eccedenti quelli consentiti dall'art. 5 c.c.; b) si osserva, inoltre, che la prestazione del consenso, che presupporrebbe la volontarietà della lesione cui si consente, mal si concilierebbe con l'involontarietà del reato colposo. In senso contrario, la dottrina (Fiandaca-Musco 520) osserva: a) quanto al primo rilievo, che « l'argomento (...) non vale a dimostrare una sorta di inconciliabilità di principio tra esimente del consenso e reato colposo: dimostra soltanto che la tesi della compatibilità ha una portata pratica assai limitata, considerato lo scarso numero di reati colposi posti a tutela di interessi disponibili »; b) quanto al secondo rilievo, che « si può consentire ad un'attività pericolosa, senza per questo volere l'effettiva verificazione dell'evento lesivo: così, la volontaria assunzione del rischio da parte del titolare del bene varrà certamente a scagionare l'agente tutte le volte in cui la lesione che di fatto si verifichi rientri nell'area di disponibilità riconosciuta dall'art. 5 c.c. Per fare un esempio: se tre giovani salgono sulla motocicletta di un amico pur consapevoli che la strada sconnessa può provocare una caduta, e la caduta poi si verifica cagionando loro lievi escoriazioni, nessun dubbio che il conduttore della moto potrà beneficiare dell'esimente preveduta dall'art. 50 ». CasisticaAtti di “nonnismo” Con riguardo agli atti di “nonnismo” in ambiente militare, non è ipotizzabile la sussistenza della scriminante del consenso dell'avente diritto, neanche quando il soggetto passivo abbia accettato di sottoporsi a prove di iniziazione, in quanto la manifestazione di volontà della recluta non può mai ritenersi libera da condizionamenti, in considerazione della forzata convivenza e del clima di intimidazione creato dai militari più anziani nei confronti dei più giovani (Cass. I, n. 23599/2002, in fattispecie riguardante la condotta violenta denominata “sbrago”). Reati contro la fede pubblica Il consenso non ha efficacia scriminante in relazione ai reati contro la fede pubblica, attraverso i quali il legislatore intende tutelare il bene-interesse della fede pubblica documentale, costituente preminente interesse sociale, e come tale tipicamente indisponibile da parte dei singoli consociati (Cass. V, n. 83/1976 e Cass. V, n. 16328/2009). Occupazione arbitraria del demanio marittimo Il preteso consenso dell'avente diritto è irrilevante in tema di arbitraria occupazione del demanio marittimo ex artt. 54, 55, 1161 c. nav. (Cass. III, n. 23214/2004: la S.C. ha precisato, in motivazione, che è irrilevante anche l'acquiescenza degli organi preposti alla tutela del predetto demanio marittimo). Violazioni della normativa antinfortunistica Il lavoratore subordinato non può validamente prestare il proprio consenso alla violazione degli obblighi legali posti dalla normativa antinfortunistica a tutela della sua incolumità personale, in quanto detto consenso avrebbe ad oggetto, di massima, reati colposi (cfr. & 6), e comunque sempre diritti indisponibili (Cass. V, n. 4743/1977). Videocontrollo a distanza dell’attività dei lavoratori Secondo la giurisprudenza (Cass. III, n. 22148/2017), integra il reato previsto dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970, n. 300) l'installazione di un sistema di videosorveglianza potenzialmente in grado di controllare a distanza l'attività dei lavoratori, anche quando, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali e di provvedimento autorizzativo dell'autorità amministrativa, la stessa sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti: la tutela penale è, infatti, rivolta alla salvaguardia di interessi collettivi, la cui regolamentazione è affidata alle rappresentanze sindacali o, in subordine, ad un organo pubblico, in luogo dei lavoratori uti singuli, il cui consenso, a causa della posizione di svantaggio rivestita quali soggetti deboli del rapporto di lavoro, non assume alcun rilievo esimente. Altre applicazioni In tema di peculato, si rinvia alla giurisprudenza riportata sub art. 314. In tema di esercizio abusivo di una professione, si rinvia alla giurisprudenza riportata sub art. 348 In tema di frode in commercio, si rinvia alla giurisprudenza riportata sub art. 515. In tema di maltrattamenti in famiglia, si rinvia alla giurisprudenza riportata sub art. 572. In tema di diffamazione, si rinvia alla giurisprudenza riportata sub art. 595. Consenso informato e trattamenti medico-chirurgiciProfili generali L'attività medico-chirurgica, per essere legittima, presuppone il «consenso» del paziente, che non si identifica con quello di cui all'art. 50, ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento, « al di fuori di taluni casi eccezionali (allorché il paziente non sia in grado per le sue condizioni di prestare un qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità di cui all'art. 54) » (Cass. IV, n. 37077/2008), poiché il medico non ha un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell'ammalato (Cass. IV, n. 11335/2008). Il consenso “informato” Il «consenso», per legittimare il trattamento terapeutico, deve essere «informato», « cioè espresso a seguito di una informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o dell'intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e l'indicazione della gravità degli effetti del trattamento. Il consenso informato, infatti, ha come contenuto concreto la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale » (Cass. IV, n. 37077/2008). Tale conclusione fonda sul rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dall'art. 32 Cost., per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge. Intervento in assenza di valido consenso “informato” La giurisprudenza ha escluso che « dall'intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido possa di norma farsi discendere la responsabilità del medico a titolo di lesioni volontarie ovvero, in caso di esito letale, a titolo di omicidio preterintenzionale », poiché il medico, « salve situazioni anomale e distorte (nelle quali potrebbe ammettersi la configurabilità di tali reati: per esempio, nei casi in cui la morte consegua ad una mutilazione procurata in assenza di qualsiasi necessità o di menomazione inferta, con esito mortale, per scopi esclusivamente scientifici) », generalmente agisce, pur se erroneamente, a fini terapeutici, e quindi con una finalità incompatibile con il dolo del delitto di lesioni (Cass. IV, n. 37077/2008). La forma del consenso Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico non deve essere espresso necessariamente per iscritto, ma può dedursi anche dal comportamento complessivo tenuto dal paziente e dalla interpretazione datane dai prossimi congiunti (Cass. V, n. 45801/2008). Le lesioni prodotte involontariamente Si è molto discusso in ordine all'individuazione dei limiti entro i quali eventuali lesioni involontariamente prodotte nell'esercizio dell'attività medico-chirurgica, soprattutto nei casi di interventi « disperati » ovvero « di urgenza », possono risultare non punibili. Con riguardo ai trattamenti medici non necessari (ad es., quelli estetici di chirurgia plastica), la non punibilità può derivare dalla combinazione dell'esercizio del diritto (all'esercizio della professione medica) ex art. 51, con il consenso dell'avente diritto (che si sia voluto sottoporre al trattamento) ex art. 50. Diversamente, in relazione agli interventi necessari, ove essi presentino notevoli rischi, la condotta del medico potrà essere qualificata come adempimento (ex art. 51) necessitato (ex art. 54) di un dovere, a tutela dell'altrui incolumità personale. In entrambi i casi, l'esonero da responsabilità postula imprescindibilmente il rispetto delle regole dell'arte medica, poiché in caso contrario, difettando l'intenzionalità (dolo), sussisterebbe pur sempre una ipotesi di colpa professionale. È sempre necessario (se utilmente acquisibile) il consenso del paziente a sottoporsi all'intervento; in relazione a detto consenso, peraltro, non potrebbe ritenersi operante la disciplina dettata dall'art. 5 c.c. (che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo, quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica), nei casi in cui il danno subito sia proporzionato al vantaggio ricevuto, o quanto meno auspicato come conseguenza dell'intervento. Segue . L'intervento delle Sezioni Unite La giurisprudenza (Cass. S.U., n. 2437/2009) ha ritenuto che, ove il medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, nel senso che dall'intervento stesso è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo della fattispecie di cui all'art. 582 (lesioni personali), che sotto quello della fattispecie di cui all'art. 610 (violenza privata). Si è, in proposito, osservato che l'espletamento dell'attività medica trova il suo fondamento non tanto nella scriminante tipizzata del consenso dell'avente diritto ex art. 50, quanto nella stessa finalità, che le è propria, di tutela della salute, come bene costituzionalmente garantito (c.d. autolegittimazione dell'attività medica), e che il consenso informato è un diritto della persona che fonda sugli artt. 2, 13 e 32 Cost.: « ove manchi o sia viziato il consenso “informato” del paziente, e non si versi in situazione di incapacità di manifestazione del volere ed in un quadro riconducibile allo stato di necessità, il trattamento sanitario risulterebbe eo ipso invasivo rispetto al diritto della persona di prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare ». È stata poi delineata la differenza tra intervento chirurgico realizzato « contro » la volontà del paziente (in tali casi la condotta del medico che abbia operato in corpore vili “contro” la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, è sicuramente illecita, anche penalmente, « a prescindere dall'esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell'altrui volere ») ed intervento chirurgico realizzato « in assenza » del suo consenso allo specifico trattamento praticato, ma con esito fausto, ovvero il cui risultato abbia prodotto un beneficio per la salute del paziente (il che accade nel caso del mutamento del tipo di intervento operatorio, effettuato — in ipotesi — per ragioni di necessità, senza che tale variatio fosse stata in precedenza consentita dal paziente). Le Sezioni Unite hanno escluso che questa fattispecie possa integrare gli estremi dell'art. 610 (violenza privata), che dovrebbe caratterizzarsi per una lesione od immediata esposizione a pericolo dei beni della vita, dell'integrità fisica o della libertà di movimento del soggetto passivo. Nel caso in cui il paziente anestetizzato abbia prestato il consenso ad un intervento chirurgico diverso da quello poi realizzato, ed alla relativa anestesia (ad esempio, quando, nel corso dell'intervento consentito, sia emersa la necessità clinica di operare diversamente da quanto previsto o programmato), le Sezioni Unite hanno osservato che difetta la possibilità di configurare il requisito della « costrizione », che richiederebbe il dissenso della vittima della condotta del medico agente, indotta a fare, tollerare od omettere qualche cosa, contro la propria volontà. Il chirurgo non potrà, pertanto, rispondere del delitto di lesioni per il sol fatto di essere intervenuto chirurgicamente sul corpo del paziente (salvo che nelle ipotesi teoriche di un intervento “coatto”), poiché, in realtà, la sua condotta mira a fini terapeutici, e, pertanto, la correttezza del suo agire dovrà essere valutata tenendo conto dell'obiettivo terapeutico perseguito e dell'esito dell'intervento, oltre che del rispetto o meno delle regole dell'arte medica: « ove l'intervento chirurgico sia stato eseguito lege artis, e cioè come indicato in sede scientifica per contrastare una patologia ed abbia raggiunto positivamente tale effetto, dall'atto così eseguito non potrà dirsi derivata una malattia, giacché l'atto, pur se “anatomicamente” lesivo, non soltanto non ha provocato — nel quadro generale della “salute” del paziente — una diminuzione funzionale, ma è valso a risolvere la patologia da cui lo stesso era affetto ». Segue. Le applicazioni successive Ancora con riguardo alla valenza del consenso del paziente, la giurisprudenza (Cass. IV, n. 34521/2010) ha successivamente chiarito che, in caso di intervento medico-chirurgico con esito infausto, il consenso del paziente (che, se espresso validamente e nei limiti di cui all'art. 5 c.c., preclude la possibilità di configurare il delitto di lesioni volontarie, assumendo efficacia scriminante), non è necessario, purché l'intervento medico-chirurgico sia penalmente lecito, in presenza di ragioni di urgenza terapeutica o nelle ipotesi previste dalla legge; al contrario, in presenza di una manifestazione di volontà esplicitamente contraria all'intervento terapeutico, l'atto, asseritamente terapeutico, costituirebbe un'indebita violazione non solo della libertà di autodeterminazione del paziente, ma anche della sua integrità, ma, in caso di esito fausto dell'intervento, la sussistenza di un pericolo grave ed attuale per la vita o la salute del paziente, pur non scriminando la condotta, escluderebbe il dolo intenzionale di lesioni, in quanto il medico che interviene nonostante il dissenso del paziente, si rappresenta la necessità di salvaguardarne, cionondimeno, la vita o la salute poste in pericolo. Risponde di omicidio preterintenzionale (art. 584) il medico che sottoponga il paziente ad un intervento (dal quale consegua la morte di quest'ultimo) in assenza di finalità terapeutiche, ovvero per fini estranei alla tutela della salute del paziente, ad esempio provocando coscientemente un'inutile mutilazione, od agendo per scopi estranei (scientifici, dimostrativi, didattici, esibizionistici o di natura estetica), non accettati dal paziente; al contrario, non ne risponde, nonostante l'esito infausto, il medico che sottoponga il paziente ad un trattamento non consentito ed in violazione delle regole dell'arte medica, quando nella sua condotta sia rinvenibile una finalità terapeutica, o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici, poiché in tali casi la condotta non è diretta a ledere, e l'agente, se cagiona la morte del paziente, risponderà di omicidio colposo ove l'evento sia riconducibile alla violazione di una regola cautelare (Cass. IV, n. 34521/2010). Con riferimento ad un intervento di chirurgia maxillo-facciale, non connotato dall'urgenza ma finalizzato a migliorare l'aspetto fisico del paziente in funzione della sua vita di relazione oltre che a regolarne la postura dentale, si è, infine, affermato che il consenso informato del paziente esclude la colpa del sanitario solo se esso non si limiti alla semplice enumerazione dei possibili rischi ed alla prospettazione delle possibili scelte, ma investa sia la mera riuscita dell'intervento, sia il giudizio globale su come la persona risulterà all'esito di quest'ultimo (Cass. IV, n. 4541/2013). La prescrizione di farmaci off label In tema di prescrizioni di farmaci c.d. off label (cioè per finalità terapeutiche diverse da quelle che ad essi sono riconosciute), l'art. 3, comma 2, l. n. 94/1998 (c.d. legge Di Bella, perché ha convertito un decreto legge approvato per la necessità e l'urgenza di assicurare una procedura di sperimentazione accelerata al c.d. “trattamento Di Bella” per la cura delle malattie oncologiche) ha indicato quali presupposti di liceità del trattamento (Cass. IV, n. 37077/2008): a) la presenza del consenso informato del paziente; b) l'impossibilità, in base a dati documentabili, di trattare utilmente il paziente in label, cioè con medicinali per i quali sia stata già approvata una certa indicazione terapeutica o una certa via o modalità di somministrazione; c) la notorietà e conformità dell'impiego off label a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale. Consenso ad attività sportive violenteLesioni provocate nel rispetto delle regole del gioco Nel caso di lesioni provocate senza violazione della disciplina sportiva, difetta la tipicità del fatto doloso o colposo: il responsabile dell'evento lesivo che abbia rispettato le regole del gioco, il dovere di lealtà nei confronti dell'avversario e l'integrità fisica di costui, non è, pertanto, penalmente perseguibile, per difetto di tipicità della condotta, a meno che non abbia travalicato i limiti di ciò che è consentito (si pensi al calciatore che, senza alcuna necessità, abbia sferrato un calcio fortissimo al pallone colpendo intenzionalmente un avversario che si trovi in posizione di pericolo). Un recente intervento della giurisprudenza (Cass. IV, n. 3284/2022; Cass. IV, n. 8609/2022), premesso che l’attività sportiva costituisce una pratica lecita ma pericolosa, rispetto alla quale i partecipanti accettano di correre i relativi rischi, sempre che la loro integrità fisica non sia da altri deliberatamente lesa o colposamente danneggiata a seguito della violazione di predeterminate regole cautelari, ha ribadito che, caso di fatti dannosi cagionati durante l’attività sportiva, ai fini dell’accertamento della responsabilità penale dell’atleta antagonista della vittima, non può farsi riferimento ai criteri del “rischio consentito” e dell’ “agente modello”, ma devono essere applicati i criteri ordinari per l’accertamento della colpevolezza nei reati di evento, in applicazione dei quali deve procedersi alla verifica oggettiva del fatto dannoso (e dunque della condotta e del nesso causale tra questa e l’evento lesivo occorso) nonché la configurabilità del dolo o della colpa, con riferimento a quest’ultima individuando la regola cautelare che presidia l’attività sportiva e la doverosità della condotta richiesta secondo canoni di prudenza, perizia e diligenza, nonché l’osservanza delle specifiche regole di gioco volte a evitare il pericolo di lesioni. Lesioni provocate in violazione delle regole del gioco Con riferimento alle lesioni provocate per effetto di condotte volontarie, poste in essere in violazione delle regole del gioco, ma per finalità miranti al conseguimento del risultato sportivo, si ritiene che il fatto-reato (questa volta corrispondente a quello tipico) sia scriminato dall'esercizio dell'attività sportiva. Detta scriminante (formalmente non prevista dall'ordinamento) è talora desunta dalla combinazione tra l'affermazione del diritto exart. 51 dell'agente ad esercitare l'attività sportiva (considerata socialmente utile, e come tale autorizzata), e del consenso dell'avversario exart. 50 (che può ritenersi espresso per il solo fatto della sua partecipazione all'attività, e sempre con il limite del rispetto delle regole del gioco). La giurisprudenza configura, nella fattispecie, una causa di giustificazione non codificata, fondata sull'analogia, da ritenere consentita perché in bonam partem (ma su tale affermazione va registrato il dissenso di parte della dottrina, che non ammette tale forma di analogia, privilegiando l'esigenza di certezza giuridica posta a fondamento del principio di tassatività): « l'esercizio di attività sportiva costituisce una causa di giustificazione, non codificata, in base alla quale per il soddisfacimento dell'interesse generale della collettività a che venga svolta attività sportiva per il potenziamento fisico della popolazione, come tale tutelato dallo Stato, è consentita l'assunzione del rischio della lesione di un interesse individuale relativo all'integrità fisica. Tale esimente presuppone in ogni caso che non sia travalicato il dovere di lealtà sportiva, nel senso che devono essere rispettate le norme che disciplinano ciascuna attività e che l'atleta non deve esporre l'avversario ad un rischio superiore a quello consentito in quella determinata pratica ed accettato dal partecipante medio » (Cass. IV, n. 2765/2000). La giustificazione di questa impostazione fonda sul principio del c.d. rischio consentito: « chi partecipa ad una competizione sportiva — che prevede come normale il contatto fisico tra i contendenti — sa, e accetta, che questo contatto possa avvenire anche in forme violente e anche contravvenendo alle regole del gioco. Acconsente dunque ai rischi che provengono sia dal contatto fisico normale sia da quello che deriva dalla violazione delle regole disciplinari. Non può invece rientrare nel rischio consentito, e quindi essere coperta dall'esimente, ciò a cui il giocatore non ha espressamente o tacitamente consentito: in particolare il fatto lesivo volontario a meno che quel particolare tipo di attività sportiva non preveda che il contendente colpisca volontariamente l'avversario (per es. nel pugilato, attività sportiva nella quale, peraltro, si pongono analoghi problemi nel caso di colpi "proibiti") » (Cass. IV, n. 20595/2010). Si è successivamente osservato che l'area del rischio consentito è delimitata dal rispetto delle regole tecniche del gioco, la violazione delle quali, peraltro, va valutata in concreto, con riferimento all'elemento psicologico dell'agente il cui comportamento può essere - pur nel travalicamento di quelle regole - la colposa, involontaria evoluzione dell'azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l'avversario approfittando della circostanza del gioco; ciò premesso, la S.C., esclusa la configurabilità di un'aggressione fisica per ragioni avulse dalla dinamica sportiva, ha ritenuto scriminata, perché costituente rischio consentito, la condotta del giocatore che, in un incontro di calcio di particolare rilevanza agonistica, durante un'azione volta a interrompere un contropiede della squadra avversaria, aveva colpito uno degli avversari con un calcio, causandogli una frattura, pur intendendo intervenire sulla palla (Cass. IV, n. 9559/2016). Lo svolgimento di attività sportive può costituire causa di giustificazione unicamente con riguardo alle condotte che abbiano offeso l'integrità fisica o morale di soggetti coinvolti, come partecipanti, nella medesima attività sportiva, e l'effetto scriminante può riguardare soltanto quell'attività che risulti strettamente connessa, con riguardo al profilo soggettivo, alle finalità del gioco (Cass. III, n. 33864/2007, che ha escluso l'applicabilità della scriminante in favore di un dirigente e di un calciatore di una società sportiva resisi responsabili di atti violenti in danno degli avversari, iniziati sul campo da gioco e proseguiti negli spogliatoi). Lesioni provocate con condotte contrarie od estranee alle finalità del gioco La cosciente violazione della regola sportiva di comportamento finalizzata al conseguimento del risultato sportivo non va però confusa con la condotta violenta coscientemente diretta a colpire l'avversario ma non finalizzata al conseguimento del predetto risultato: « se la violazione è diretta esclusivamente ad impedire l'azione dell'avversario non potrà essere ritenuto volontario l'atto lesivo (per rimanere agli esempi nello sport del calcio: chi colpisce volontariamente l'avversario con una gomitata al volto risponde per dolo; non è così per chi contrasta irregolarmente l'avversario alle spalle per impedire lo sviluppo dell'azione di gioco anche se il contrasto è stato da lui voluto). Insomma è la finalizzazione allo sviluppo del gioco che contraddistingue l'atto lesivo doloso da quello in cui è voluto soltanto il contrasto, sia pure irregolare, dell'avversario » (Cass. IV, n. 20595/2010, per la quale, inoltre, è estranea alla copertura del rischio consentito « la condotta di gioco che si manifesti come assolutamente sproporzionata — per es. il difensore per fermare l'avversario lo travolge violentemente incurante delle conseguenze che possono derivare dall'impatto — o che appaia, sia pure ad una superficiale valutazione ex ante, idonea a ledere l'integrità fisica dell'avversario — per es. lo sgambetto volontario di un giocatore in corsa —. In questi casi non si rientra più nell'azione sportiva, pur dannosa, ma in una fattispecie nella quale non esiste la giustificazione dell'atto che si rivela esorbitante rispetto alle finalità del gioco e l'agente deve essere chiamato a rispondere delle conseguenze della sua azione sotto il profilo colposo (nel caso di violenza sproporzionata rispetto alle finalità del gioco ed estranea a principi di lealtà e correttezza) ». Le lesioni provocate da colpi inferti volontariamente non sono, quindi, scriminate se la condotta è estranea alle finalità del gioco, « il che si verifica, per es., quando l'azione lesiva sia posta in essere al di fuori dell'azione di gioco (si può fare l'esempio del calcio inferto ad un avversario in una zona del campo estranea all'azione) » (Cass. IV, n. 20595/2010: quest'ultima decisione ha escluso che rientrasse nell'ambito del rischio consentito la condotta dell'imputato il quale, nel corso di un incontro di calcio del campionato dilettanti, a gioco fermo, non aveva frenato tempestivamente il suo slancio, ed aveva tentato di sferrare un calcio al pallone che si trovava molto vicino al braccio di un avversario finito a terra, colpendo — anche per la situazione del campo, fangoso, il che rendeva particolarmente precario l'equilibrio — l'avversario — cui aveva cagionato la frattura dell'ulna —, osservando che in questo caso non vi era stata la violazione di una regola di gioco finalizzata al conseguimento del risultato dell'azione, ma unicamente « un intervento vietato sia perché il gioco era sospeso sia perché l'intervento del giocatore, malgrado la vicinanza della mano del giocatore a terra, costituiva grave imprudenza che travalicava le finalità del gioco e della quale erano prevedibili effetti lesivi »). Le lesioni colpose non scriminate In sintesi, può dirsi che « è la finalizzazione allo sviluppo del gioco che contraddistingue l'atto lesivo doloso da quello in cui è voluto soltanto il contrasto, sia pure irregolare, dell'avversario » (Cass. IV, n. 20595/2010). Residua il problema dell'individuazione del possibile ambito di responsabilità colposa non scriminata, in presenza di violazioni delle regole sportive: « se l'azione è finalizzata allo sviluppo del gioco la violazione della regola disciplinare, anche se volontaria, non è sufficiente a concretizzare una responsabilità per colpa proprio in base al principio del rischio consentito: ogni giocatore sa, e accetta preventivamente, che egli e i suoi avversari possono violare le regole del gioco creando il rischio di eventi dannosi ». Risulta, pertanto, estranea alla scriminate in esame « la condotta di gioco che si manifesti come assolutamente sproporzionata (per es. il difensore per fermare l'avversario lo travolge violentemente incurante delle conseguenze che possono derivare dall'impatto) o che appaia, sia pure ad una superficiale valutazione ex ante, idonea a ledere l'integrità fisica dell'avversario (per es. lo sgambetto volontario di un giocatore in corsa). In questi casi non si rientra più nell'azione sportiva, pur dannosa, ma in una fattispecie nella quale non esiste la giustificazione dell'atto che si rivela esorbitante rispetto alle finalità del gioco) » (Cass. IV, n. 20595/2010). In sintesi, si è da ultimo ritenuto che le lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva non sono scriminate: a) quando si constati assenza di collegamento funzionale tra l'evento lesivo e la competizione sportiva; b) quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e rilevanza dello stesso; c) quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all'azione, anche ove non consti, in tal caso, alcuna violazione delle regole dell'attività. In applicazione del principio, Cass. V, n. 21120/2018 ha ritenuto non scriminante le lesioni che, durante una partita di calcio, erano state cagionate da una “scivolata”, compiuta in violazione delle norme regolamentari, su un soggetto che usciva dalla propria area di rigore con il pallone in azione di contropiede, in un momento in cui la palla non poteva più essere raggiunta dall'agente il quale colpiva l'avversario privo ormai di essa. Le più recenti tendenze della giurisprudenza La giurisprudenza più recente (per tutte, Cass. IV, n. 37178/2022: fattispecie riguardante gare di automobilismo) esclude l’esistenza di una causa di giustificazione non codificata nel settore dell'attività sportiva agonistica, ricorrendo, anche in tale settore, ai principi generali in materia di colpa, e conseguentemente distinguendo tra: - inosservanza della regola cautelare sportiva; - individuazione di una regola cautelare, rilevante ai fini della responsabilità penale, che connoti di antidoverosità la condotta dell'atleta impegnato nella gara o nella pratica sportiva. Per quanto riguarda l’inosservanza della regola cautelare sportiva, si ribadisce che «la responsabilità colposa implica che la violazione della regola cautelare deve avere determinato la concretizzazione del rischio che detta regola mirava a prevenire (cosiddetta causalità della colpa), poiché alla colpa dell'agente va ricondotto non qualsiasi evento realizzatosi, ma solo quello causalmente riconducibile alla condotta posta in essere in violazione della regola cautelare», anche perché la stessa titolarità di una posizione di garanzia «non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso». Per quanto riguarda la verifica della causalità della colpa e l'indagine sulla esigibilità della condotta doverosa e sulla prevedibilità dell'evento in capo all'agente dannoso, i relativi oneri risultano ancora più stringenti nello specifico settore delle competizioni sportive, «ove la disciplina regolamentare è diretta primariamente ad assicurare la regolarità della competizione e ad indicare i criteri in base ai quali il gesto sportivo, pure violento o pericoloso, è ammesso, tenuto conto della natura e delle caratteristiche della gara, ovvero è sanzionabile, quale illecito sportivo». Le regole del gioco «non sono necessariamente regole cautelari dalla cui inosservanza consegua automaticamente (…) un addebito di colpa penale in presenza di eventi dannosi collegati eziologicamente al gesto sportivo»; invero, la regola del gioco che sanziona un fallo definisce «comportamenti resi leciti dalla accettazione da parte di tutti i partecipanti, e dalla loro inosservanza consegue una sanzione sportiva o disciplinare che assume rilevanza nell'ambito della stessa gara in cui è intervenuta la violazione, mediante l'applicazione di una punizione, una penalità o una squalifica, che potrebbe avere conseguenze anche nelle gare successive», ma non origina necessariamente una colpa penalmente rilevante. Si vengono così a delineare «due diverse aree, quella sportiva e quella penale, coperte da regole diverse, perché dirette a gestire "rischi" diversi»: - quelli sportivi, conosciuti e accettati dagli atleti, i quali in tale ambito sono consapevoli della potenziale lesività di determinate azioni di gioco, quale conseguenza possibile della pratica sportiva svolta; - quelli penali, quale conseguenza dannosa di azioni che esorbitano dall'ordinario sviluppo del gioco o della pratica sportiva interessata, aventi cioè un quid pluris che le rende perseguibili penalmente in quanto caratterizzate da dolo, allorquando siano volontariamente rivolte a procurare nocumento all'avversario, ovvero da colpa, allorquando si travalichi, per colpa appunto, il confine della lealtà sportiva tradendo l'affidamento serbato degli altri partecipanti alla competizione sul rispetto dei limiti della stessa. In entrambi i casi, la verifica della colpevolezza nei delitti colposi di evento nell'ambito delle competizioni sportive «non si esaurisce nell'accertamento della inosservanza da parte dell'atleta ad una specifica prescrizione del regolamento sportivo, ma deve estendersi alla individuazione di una regola cautelare che assuma rilievo ai fini penali, idonea a definire il comportamento doveroso secondo standard di prudenza e di diligenza che non esorbitino dalle regole del gioco e non si pongano in contrasto con il naturale sviluppo della pratica sportiva, confliggendo al contempo con i principi di correttezza e di lealtà che sovraintendono la competizione sportiva». Questa valutazione è rimessa al giudice di merito, il quale dovrà procedervi tenendo conto delle peculiarità del caso concreto, e non risulta suscettibile di sindacato da parte del giudice di legittimità, se sorretta da motivazione non contraddittoria e non caratterizzata da manifesta illogicità (così conclusivamente Cass. IV, n. 37178/2022). Segue. CasisticaLa disamina di alcune applicazioni giurisprudenziali relative a discipline ampiamente praticate potrà chiarire la portate pratica di tali affermazioni di principio. Calcio Con riguardo al gioco del calcio, si è ritenuto che « il mero illecito sportivo ricorre quando la condotta lesiva, quale quella del diretto controllo del tiro del pallone, del tentativo di impossessarsene o di contenderlo all'avversario ovvero di introdursi nell'azione di gioco, sia finalisticamente inserita nel contesto di un'attività sportiva. In tema di lesioni cagionate nel corso di quest'ultima, allorquando venga posta a repentaglio coscientemente l'incolumità del giocatore — che legittimamente si attende dall'avversario un comportamento agonistico anche rude, ma non esorbitante dal dovere di lealtà fino a trasmodare nel disprezzo per l'altrui integrità fisica — si verifica il superamento del cosiddetto rischio consentito, con il conseguente profilarsi della responsabilità per dolo o per colpa. Il fatto è doloso ove la gara sia solo l'occasione dell'azione volta a cagionare lesioni, è colposo se innestato nello svolgimento dell'attività agonistica e dipendente dalla violazione di norme regolamentari. L'accertamento del rischio consentito è questione di fatto, da risolvere caso per caso, in relazione al tipo di pratica sportiva nonché, nell'ambito di questa, al tipo di attività agonistica » (Cass. V, n. 9627/1992, che ha escluso il dolo in una fattispecie verificatasi durante un incontro tra dilettanti, nella quale il fatto lesivo si era verificato nel corso di un'azione di gioco tesa ad impedire che l'avversario si proiettasse col pallone verso la rete avversaria, ma ha ritenuto la colpa, poiché il difensore aveva commesso fallo con un violento calcio). È stata esclusa la configurabilità di un'aggressione fisica per ragioni avulse dalla dinamica sportiva, e riconosciuta l'applicabilità della scriminante del rischio consentito, nella condotta del calciatore che, in un incontro di particolare rilevanza, durante un'azione volta ad interrompere un contropiede della squadra avversaria, aveva colpito uno degli avversari con un calcio, causandogli una frattura, pur intendendo intervenire sulla palla (Cass. IV, n. 9559/2016). È stata esclusa l'applicabilità della scriminante del “rischio consentito” in materia sportiva, in un caso nel quale, durante un incontro di calcio, l'imputato aveva colpito l'avversario con un pugno al di fuori di un'azione ordinaria di gioco, « trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva, considerato che nella disciplina calcistica l'azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone ovvero da movimenti, anche senza palla, funzionali alle più efficaci strategie tattiche (blocco degli avversari, marcamenti, tagli in area etc.) e non può ricomprendere indiscriminatamente tutto ciò che avvenga in campo, sia pure nei tempi di durata regolamentare dell'incontro » (Cass. V, n. 42114/2011) ed in un caso nel quale un calciatore aveva colpito un avversario a gioco fermo (Cass. V, n. 33275/2017). Calcetto Rigore ancor maggiore si impone in relazione al gioco del calcetto, al cui contenuto regolamentare è assolutamente estranea la violenza fisica (Cass. V, n. 5589/1993). Basket Con riguardo al basket, si è ritenuto che non potesse ritenersi scriminato il comportamento del giocatore che aveva sferrato un pugno ad un avversario, attingendone la mandibola destra (Cass. V, n. 1951/2000). Competizioni amichevoli od amatoriali L'operatività del consenso scriminante presuppone che il rischio di subire lesioni (colpose) nel corso della competizione sportiva sia stato preventivato ed accettato dal partecipante: è stata, pertanto, esclusa la configurabilità della scriminante nei casi in cui le caratteristiche amichevoli od amatoriali della competizione rendano non prevedibile il verificarsi di lesioni gravi, in quanto tali eccedenti l'entità delle lesioni normalmente accettabili nel predetto contesto (Cass. V, n. 44306/2008, in fattispecie di lesioni gravi con effetti permanenti, derivate da uno “sgambetto” durante una partita di calcio tra compagni di scuola). Si è successivamente ritenuto che la causa di giustificazione non codificata del rischio consentito nell'attività sportiva non opera: - nell'ipotesi di lesioni personali cagionate nello svolgimento di una mera esibizione sportiva, poiché, in questo caso, ci si trova di fronte ad un'attività modellata sulla falsariga di una gara sportiva, ma, a differenza di quest'ultima, non disciplinata dalle regole stabilite dagli organismi di categoria, alla cui osservanza è ricondotta l'assenza di antigiuridicità del fatto (Cass. IV, n. 34977/2016: in applicazione del principio, la S.C. ha escluso l'operatività della scriminante in relazione alle lesioni provocate a seguito di uno scontro tra due natanti, nel corso di una esibizione non competitiva); - nell'ambito di manifestazioni, più o meno folkloristiche, imperniate su comportamenti violenti che mettono a rischio l'incolumità dei partecipanti e degli spettatori (Cass. V, n. 15170/2016: applicazione riguardante una "tradizionale" partita di calcio svolta in orario notturno, all'interno di una piazza cittadina, sfornita di qualsiasi regola di gioco e di riguardo nei confronti dei giocatori e degli spettatori). Karate È stata anche esaminata, con specifico riferimento al karate, la possibile rilevanza della diversità tra le competizioni ufficiali e gli incontri di allenamento: « l'esercizio di attività sportiva nella forma di un incontro di esibizione-allenamento è caratterizzata da una minore carica agonistica rispetto alle competizioni vere e proprie e richiede, pertanto, da parte dei contendenti, particolare cautela e prudenza per evitare il pregiudizio fisico dell'avversario, e quindi un maggior controllo dell'ardore agonistico, della forza e velocità dei colpi, sempre in relazione alla capacità di esperienza dell'avversario ed ai mezzi di protezione in concreto utilizzati » (Cass. IV, n. 2765/2000, relativa a lesioni personali colpose cagionate da un « calcio circolare » con cui un atleta aveva colpito l'avversario durante un allenamento). Braccio di ferro È stata rigettata la domanda di risarcimento proposta dal soggetto che, in una contesa amichevole di braccio di ferro, aveva riportato lesioni al braccio, per il rilievo che l'incontro si era svolto correttamente, e le lesioni erano state procurate dall'azione sul braccio delle forze muscolari contrapposte, caratteristica ineluttabile dello svolgimento di quel tipo di attività sportiva (Cass. civ. III, n. 20597/2004; in motivazione, le S.C. ha anche osservato che, qualora i praticanti di un'attività sportiva si siano costituiti in federazione sportiva ed all'interno di essa si siano dati delle regole per lo svolgimento delle competizioni ufficiali, ciò non preclude la possibilità di svolgere legittimamente tale attività in forma amichevole e senza il rispetto delle regole dettate per le competizioni ufficiali, qualora non si tratti, come nel caso di specie, di attività intrinsecamente pericolosa; né il mancato rispetto in quel contesto delle regole fissate per le competizioni ufficiali diviene autonoma fonte di responsabilità in capo ai partecipanti alla gara, dovendo invece il parametro valutativo della responsabilità per le lesioni riportate da uno dei contendenti essere costituito dall'aver seguito o meno le regole della normale prudenza). Profili processualiL'art. 530, comma 3, c.p.p. dispone che se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull'esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1. La giurisprudenza (per tutte, Cass. II, n. 20171/2013) evidenzia che, nell'ordinamento processuale penale, non è previsto un onere probatorio a carico dell'imputato, modellato sui principi propri del processo civile, ma è, al contrario, prospettabile un onere di allegazione, in virtù del quale l'imputato è tenuto a fornire all'ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all'accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore, fra i quali possono annoverarsi le cause di giustificazione (oltre al caso fortuito, alla forza maggiore, al costringimento fisico ed all'errore di fatto). BibliografiaCarnelutti, Il danno e il reato, Padova, 1926; Fiandaca, Luci ed ombre della pronuncia a sezioni unite sul trattamento medico-chirurgico arbitrario, in Foro it., 2009, II, 305; Grispigni, Il consenso dell'offeso, Roma, 1924; Palmieri, Trattamento medico terapeutico con esito fausto: principio di offensività ed irrilevanza penale del consenso, in Giust. pen., 2012, 1, II, 55; Roiati, La somministrazione di farmaci in via sperimentale tra consenso informato ed imputazione colposa dell'evento, in Cass. pen. 2009, 2381; Salerno, Consenso informato in medicina e qualità soggettive del paziente, in Giur. it. 2014, 2, 277; Vartolo, Le scriminanti non codificate. L'esercizio dell'attività sportive, in Riv. pen. 2013, 3, 258; Viganò, Omessa acquisizione del consenso informato del paziente e responsabilità penale del chirurgo: l'approdo (provvisorio?) delle sezioni unite, in Cass. pen. 2009, 1793. |