Codice Penale art. 53 - Uso legittimo delle armi.

Geppino Rago

Uso legittimo delle armi.

[I]. Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale [357] che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi [585 2] o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all'Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona (1).

[II]. La stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza.

[III]. La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l'uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica [55] (2).

(1) Comma modificato dall'art. 14 l. 22 maggio 1975, n. 152.

(2) V. art. 158 r.d. 18 giugno 1931, n. 773; artt. 1 e 3 l. 4 marzo 1958, n. 100; art. 41 l. 26 luglio 1975, n. 354; art. unico l. 28 giugno 1977, n. 374; nonché art. VI della Convenzione fra i Paesi aderenti al Trattato del Nord Atlantico (N.A.T.O.), firmata a Londra il 19 giugno 1951 e resa esecutiva in Italia con l. 30 novembre 1955, n. 1335.

Inquadramento

Secondo la dottrina maggioritaria (Marini, 261; pulitanò,1), la norma in esame prevede una causa di giustificazione che, in quanto tale, fa venir meno l’antigiuridicità del fatto.

Controversa, in dottrina, è la ratio della norma in commento.

Infatti, a fronte di autori (Antolisei, PG 1975, 215) che la ravvisano «nella necessità di tutelare l'autorità e il prestigio delle persone che esercitano una pubblica funzione», si contrappongono, quelli che, facendo leva sulla circostanza che si tratta di una norma introdotta dal legislatore fascista (non essendo prevista nel codice Zanardelli), ritengono che l'intento del suddetto legislatore fu quello di «sottolineare la prevalenza del potere di coercizione statuale nelle situazioni che pongono in conflitto i cittadini e l'autorità» (Fiandaca-Musco, PG, 312; Romano, Commentario 563, la ritiene una norma che «manifesta una certa impronta autoritaria»; Mezzetti, § 2, parla di una innovazione avente «carattere prettamente "politico"»; Mantovani, PG 1979, 245; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 283); da ultimo, nel dichiarato intento di deideologizzare il dibattito, anche alla stregua di un esame della normativa anglo americana, si è sostenuto che «il fondamento della non punibilità attinge a considerazioni relative alle condizioni nelle quali il soggetto pubblico opera per conseguire lo scopo dell'attuazione del dover di ufficio» (Ardizzone, 979).

La norma è strutturata su tre commi: nel primo e secondo comma si rinvengono i presupposti soggettivi ed oggettivi per l'operatività della scriminante: nell'ultima parte del primo comma, con l'art. 14 della l. n. 152/1975, furono introdotte specifiche ipotesi delittuose avverso le quali l'uso delle armi è consentito “comunque” al fine «di impedire la consumazione dei suddetti delitti».

Infine, il terzo comma rinvia alla legislazione speciale in cui è espressamente previsto l'uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica.

Nel comma 1 è prevista è prevista una classica clausola di riserva che rende applicabile l'uso legittimo delle armi «ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti», ossia l'esercizio di un diritto o adempimento di un dovere (art. 51) e la difesa legittima (art. 52).

La dottrina si è interrogata sul significato della suddetta clausola.

Alcuni autori, rilevando che il rinvio o è troppo vasto (non essendo pertinente all'esercizio di un diritto) o è troppo ristretto (non essendo richiamato lo stato di necessità), o troppo ovvio (essendo la legittima difesa applica a chiunque), ritengono che, in realtà, la scriminante in esame debba essere inquadrata nell'ambito di quella dell'adempimento del dovere della quale, quindi, costituirebbe una specificazione (Romano, Commentario, 562).

La maggioranza della dottrina, ritiene la scriminante dell'uso delle armi norma sussidiaria che si applica solo se non trovano applicazione le precedenti scriminanti di cui agli artt. 51-52 (Fiandaca-Musco, PG, 312; Ardizzone, 977; Mantovani, PG 1979, 245).

Peraltro, qualunque delle due opzioni si voglia accogliere, «il dato assolutamente certo è che se il pubblico ufficiale agisce in una situazione nella quale siano presenti i requisiti dell'adempimento del dovere o della legittima difesa, il caso dovrà essere risolto applicando le rispettive disposizioni e non quelle dell'art. 53. Analogamente se vengono riscontrati i requisiti richiesti nell'art. 53, quest'ultima disposizione troverà applicazione a preferenza delle altre» (Ardizzone, 976).

Di conseguenza, quanto ai rapporti con l'adempimento del dovere, la differenza va rinvenuta nell'uso o meno della violenza e, quindi, della coercizione diretta: nell'adempimento del dovere ex art. 51, l'uso delle armi rappresenta una modalità, anche soltanto eventuale dell'adempimento di un dovere imposto da un ordine legittimo della pubblica autorità (ad es. l'ordine di custodia cautelare eseguito spianando contro il catturando un'arma da fuoco, integra, in astratto, un'ipotesi di violenza privata che, però, non è punibile perché il fatto è eseguito sulla base di un legittimo ordine dell'autorità giudiziaria); al contrario, l'art. 53  prevede l'uso delle armi nei casi in cui la forza pubblica vi sia costretta dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza dell'autorità (Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 282).

Quanto, invece, ai rapporti con la legittima difesa, i punti di differenza, sono diversi:

a) nella legittima difesa, si può far uso legittimo delle armi, per difendere un diritto proprio o altrui (agente di polizia che, durante uno sgombero, essendo aggredito da uno degli occupanti lo colpisce con un manganello procurandogli delle lesioni, è scriminato ex art. 52  perché difende il proprio diritto all'incolumità), al contrario della scriminante in esame, per la quale è sufficiente la necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza dell'autorità (Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 282);

b) la legittima difesa è applicabile a chiunque, laddove l'art. 53 riserva la scriminante al pubblico ufficiale;

c) la legittima difesa è invocabile per la protezione di qualsiasi diritto, al contrario della scriminate in esame che si applica solo per far fronte «alla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza dell'autorità»; non costituisce una differenza la circostanza che solo nella legittima difesa sono previsti i requisiti dell'attualità del pericolo e della proporzione perché, com'è stato rilevato, essi sono desumibili implicitamente dalla stessa norma (Mezzetti, § 5).

Infine, si è osservato che la scriminante in esame ha, comunque, un autonomo ed esclusivo campo di applicazione (il che deporrebbe a favore dell'autonomia concettuale rispetto alle altre scriminanti) nelle ipotesi di violenza di massa «in cui la reazione non è personalizzabile soltanto verso il singolo aggressore, come richiederebbe la legittima difesa, e, comunque, l'uso della armi o di altro mezzo di coazione fisica dovrebbe ritenersi giustificato anche nei confronti delle vittime facenti parte della massa» (Ardizzone, 977).

I presupposti soggettivi

L'art. 53 riserva l'applicabilità della scriminante a due categorie di soggetti:

a) i pubblici ufficiali;

b) «qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza» (art. 53 comma 2).

I pubblici ufficiali

L'art. 53 comma 1 indica i pubblici ufficiali come i destinatari della scriminante.

Ciò significa, innanzitutto, che sono esclusi sia gli incaricati di un pubblico servizio che gli esercenti di un servizio di pubblica necessità (Fiandaca-Musco, PG, 312), sia i militari per i quali, però, non essendo qualificabili come pubblici ufficiali, si applica l'art. 41 cod. pen. mil. di pace, intitolato anch'esso “Uso legittimo delle armi” a norma del quale «Non è punibile il militare, che, a fine di adempiere un suo dovere di servizio, fa uso, ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza.

La legge determina gli altri casi, nei quali il militare è autorizzato a usare le armi o altro mezzo di coazione fisica».

In particolare, quanto alle guardie giurate, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che le medesime «anche se in servizio presso pubbliche amministrazioni, in quanto destinate alla vigilanza e alla custodia di entità patrimoniali, rivestono la qualità di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio esclusivamente in relazione allo svolgimento di attività complementari a quelle istituzionalmente a loro affidate»: ex plurimis Cass. VI, n. 46744/2013

È, poi, opinione comune (Fiandaca-Musco, PG, 312; Antolisei, PG 1975, 215; Pagliaro, 278; Romano, Commentario, 564; Mantovani, PG 1979, 245; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 283) che non tutti i pubblici ufficiali sono destinatari della scriminante ma solo quelli che appartengono alla “Forza pubblica” ossia a quei corpi che sono preposti alla tutela dell'ordine e della sicurezza pubblico, come si desume espressamente dalla stessa lettera della legge.

Per l'individuazione dei suddetti pubblici ufficiali, la giurisprudenza formatasi in relazione all'art. 329 (che ha come soggetto attivo del reato proprio “l'agente della forza pubblica”), è consolidata nel ritenere tali «tutti quegli organismi pubblici non militarizzati i cui dipendenti sono investiti di potestà di coercizione diretta su persone e cose ai fini della tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica» (Cass. VI, n. 4259/1987; Cass. VI, n. 38119/2009).

Ai sensi dell’art. 16 l. n. 121/1981, si può  affermare che rientrano nella categoria dei Pubblici Ufficiali ai quali si applica la scriminante in esame: gli agenti della Polizia di Stato (Cass. VI, n. 22529/2015; Cass. V, n. 38229/2008; Cass. VI, n. 7337/2004), della Polizia penitenziaria, del Corpo forestale dello Stato (per il quale dispone anche l'art. 1 comma 1 l. n. 36/2004, il quale ribadisce la disposizione dell'art. 16 l. n. 121/1981), i Carabinieri (Cass. IV, n. 45015/2008; Cass. IV, 9961/2000), i militari del Corpo della Guardia di finanza (Forze di polizia dello Stato ad ordinamento militare).

Rientrano nella suddetta categoria anche gli agenti di Polizia Giudiziaria in considerazione della funzione che svolgono.

Secondo la giurisprudenza vi rientrano anche gli agenti della Polizia Municipale (Cass. VI, n. 38119/2009; Cass. VI, n. 5393/2006): tuttavia, sul punto, va osservato che l'art. 3 l. n. 65/1986 (Legge-quadro sull'ordinamento della Polizia Municipale) dispone che gli addetti al servizio di polizia municipale esercitano nel territorio di competenza le funzioni istituzionali previste dalla presente legge e collaborano, nell'ambito delle proprie attribuzioni, con le Forze di polizia dello Stato, previa disposizione del sindaco, quando ne venga fatta, per specifiche operazioni, motivata richiesta dalle competenti autorità e l'art. 7 d.m. n. 147/1987, in attuazione della suddetta legge, ha ribadito che gli addetti alla polizia municipale di cui all'art. 1 che collaborano con le forze di polizia dello Stato ai sensi dell'art. 3 l. n. 65/1986, esplicano il servizio in uniforme ordinaria e muniti dell'arma in dotazione, salvo sia diversamente richiesto dalla competente autorità, e prestano l'assistenza legalmente richiesta dal pubblico ufficiale alle cui dipendenze sono funzionalmente assegnati»: il che ha fatto ritenere ad una parte della dottrina (Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 283) che gli agenti di Polizia Municipale non rientrano nella categoria di cui al primo comma bensì in quella di cui al comma 2.

Altre persone

L'art. 53 comma 2  riserva l'applicabilità della scriminante, ad un'altra ben definita categoria e cioè «a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza».

Il riferimento è, con evidenza, al privato cittadino.

Sul punto si è osservato che «è prevista una riserva di competenza di quest'ultimo con riguardo all'impiego dei mezzi di coazione fisica e al potere di chiedere rinforzo: sembrerebbe pertanto che la mera partecipazione spontanea del cittadino all'uso delle armi o di altri strumenti coattivi non possa scriminare il suo fatto corrispondente a figura di reato. Deve notarsi, tuttavia, che non è una qualsiasi richiesta del pubblico ufficiale a far sorgere l'obbligo in capo al cittadino, ma solo la richiesta che (non senza particolari formalità) avvenga nei casi in cui la legge prevede un dovere di collaborazione del privato con l'autorità (p.e. art. 652» (Romano, Commentario, 564 ss.; Mezzetti, § 9): ma, su quest'ultimo punto, si è osservato, in contrario, che l'ampia formulazione della norma non consente di restringere la richiesta del pubblico ufficiale ai soli casi consentiti dalla legge (Forte, 437, il quale, peraltro precisa che «non sarà scriminato il privato che presti assistenza al soggetto non qualificabile pubblico ufficiale — come nel caso del militare che non rivesta la qualifica di pubblico ufficiale — essendo pur sempre necessario che sussista la competenza del pubblico ufficiale ad intervenire con l'uso della forza»).

La norma non esaurisce il suo ambito al solo privato cittadino.

Si è visto, che, ad es., la legge prevede tale ipotesi anche per gli Agenti di Polizia Municipale.

E, alla stessa conclusione deve pervenirsi per il personale facente parte di uffici di vigilanza e di investigazione privata (metronotte; guardie del corpo) relativamente ai quali l'art. 139 r.d. n. 773/1931 (t.u.l.p.s.) dispone che «Gli uffici di vigilanza e di investigazione privata sono tenuti a prestare la loro opera a richiesta dell'autorità di pubblica sicurezza e i loro agenti sono obbligati ad aderire a tutte le richieste ad essi rivolte dagli ufficiali o dagli agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziari».

I presupposti oggettivi

Dalla lettura del secondo comma dell'art. 53 c.p. si desume che i presupposti oggettivi per l'applicabilità della scriminante, sono i seguenti:

a) l'uso delle armi dev'essere effettuato dal pubblico ufficiale «al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio»;

b) l'uso delle armi dev'essere necessitato, e la necessità deve derivare: b1) dalla violenza o resistenza altrui; b2) o, comunque, per impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.

Alla stregua dei suddetti principi, Cass. IV, n. 48082/2017, ha affermato che «Non rientra nell'ambito applicativo della scriminante di cui all'art. 53 c.p. l'ipotesi di un colpo esploso accidentalmente dalla pistola d'ordinanza di un agente di polizia che attinga a morte un soggetto nel corso di una colluttazione seguita all'inseguimento».

L'adempimento di un dovere

Ad avviso di una parte della dottrina, il suddetto presupposto rappresenta un limite di natura oggettiva all'operatività della scriminante nel senso che «l'impiego dei mezzi di coazione deve rimanere entro i confini di una oggettiva realizzazione di interessi pubblici: in presenza di quest'ultima, un'eventuale motivazione soggettiva del pubblico ufficiale o del suo subordinato sarebbe pertanto da ritenersi irrilevante» (Romano, Commentario, 563; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 284): secondo questa tesi, quindi, alla scriminante in esame si applica la regola di cui all'art. 59 comma 1.

Altri autori, invece, ne danno un'interpretazione soggettiva nel senso che, nella valutazione della scriminante, occorrerebbe tener conto della direzione finalistica della condotta caratterizzante la volontà dell'agente (Marini, 258), con la conseguenza che la scriminante, in deroga all'art. 59 comma 1 si applica solo ove fosse dimostrata la sussistenza, in capo all'agente, della rappresentazione e volontà di adempiere al dovere del proprio ufficio.

Pertanto, si può affermare che:

- ove la condotta sia improntata esclusivamente ad «uno scopo di vendetta o di arbitraria sopraffazione» (Fiandaca-Musco, PG, 313), la scriminante, non si applica comunque;

- se, invece, coesistono motivi di natura privatistica (rancori; motivi politici ecc.) con quelli richiesti dalla norma (adempimento di un dovere del proprio ufficio), i primi rimangono assorbiti nell'adempimento del dovere (Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 283).

L'uso necessitato delle armi.

Si verifica il secondo dei presupposti richiesti dalla norma (condotta necessitata) quando «il pubblico ufficiale non ha altra scelta per adempiere al proprio dovere, al di fuori di quella di far uso di un mezzo coercitivo» (Fiandaca-Musco, 313): di conseguenza, non è applicabile la scriminante ove l'agente:

a) avrebbe potuto respingere la violenza con mezzi diversi dall'uso delle armi (ad es. intavolando un colloquio per persuaderlo a desistere);

b) avrebbe potuto usare un mezzo di coazione meno lesivo di quello utilizzato (uso di idranti o candelotti fumogeni invece che una violenta carica): (Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 284).

Negli stessi termini Cass. V, n. 41038/2014 secondo la quale «il ricorso all'uso delle armi deve costituire l'extrema ratio nella scelta dei mezzi necessari per l'adempimento del dovere, essendo esso ammissibile solo quando non sono praticabili altre modalità d'intervento né sono superati i limiti di gradualità dettati dalle esigenze del caso concreto ed è inoltre rispettato il principio di proporzione, inteso come necessario bilanciamento tra interessi contrapposti in relazione alla specifica situazione»»: Cass. IV, n. 35962/2020.

È opinione condivisa in dottrina (Romano, 566; Pagliaro, 278; Mantovani, PG 1979, 247;Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 284; Mezzetti § 8; Pulitanò, 4;Ardizzone, 984;Forte, 443 ss.) e, in giurisprudenza (Cass. V, n. 41038/2014; Cass. VI, n. 22529/2015) quella secondo la quale, benché non espressamente previsto, l'uso delle armi dev'essere proporzionato che al tipo ed al grado della resistenza opposta, in quanto anche l'autorità dello Stato è sottoposta ai principi supremi dell'ordinamento giuridico e, quindi, al rispetto di una rigorosa gerarchia dei valori desumibili dalla Carta Costituzionale: di conseguenza, per la configurabilità della scriminante dell'uso legittimo delle armi occorre che non vi sia altro mezzo possibile e che tra i vari mezzi di coazione venga scelto quello meno lesivo (Cass. IV, n. 36280/2012 § 11.1.2. nel caso “Aldrovandi”, escluse la configurabilità dell’art. 53 cod. pen. in quanto la condotta posta in essere dagli agenti di P.S. fu “sproporzionatamente violenta e repressiva”).

In conclusione, quanto ai requisiti oggettivi, può affermarsi che «per la configurabilità della scriminante dell'uso legittimo delle armi occorre che si verifichino le condizioni di seguito indicate, in presenza della quali è da escludersi la responsabilità dell'agente per il verificarsi dell'evento più grave da lui non voluto, anche nei confronti di terzi estranei al reato: a) che non vi sia altro mezzo possibile; b) che tra i vari mezzi di coazione venga scelto quello meno lesivo; c) che l'uso di tale mezzo venga graduato secondo le esigenze specifiche del caso, nel rispetto del fondamentale principio di proporzionalità»: Cass. IV, n. 6719/2015 (con nota di Donizetti).

Va rammentato, poi, che il suddetto principio, oltre che trovare copertura costituzionale (ex plurimis Corte  cost., n. 85/2013), costituisce uno degli articoli fondamentali della Cedu, la quale all'art. 2, comma 2, stabilisce che «La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario:

a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale;

b) per eseguire un arresto regolare o per impedire l'evasione di una persona regolarmente detenuta;

c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un'insurrezione».

Sul punto è pacifica la giurisprudenza della Corte Edu la quale, nei casi di c.d. police brutality ha reiteratamente affermato che sussiste la violazione della suddetta norma quando l'autorità di pubblica sicurezza, nell'esercizio delle proprie funzioni, utilizzi in modo sproporzionato la forza. Da ultimo, ad es., la CorteEdu, 17 aprile 2014, Guerdner and Others c. Francia — in una fattispecie in cui un agente della Gendarmeria aveva sparato, uccidendolo, un arrestato che aveva tentato di fuggire — ha ribadito che l'uso della forza letale da parte degli agenti (nella specie ritenuta non necessaria) è legittimo solo quando sussista una reale minaccia per essi e non sia possibile neutralizzare tale minaccia attraverso modalità di azione meno estreme (ad es. inseguimento). Corte EDU sez. V, 19 maggio 2022, Bouras c. Francia.

La Corte Edu, 25 agosto 2009, ricorso n. 23458/02 — Giuliani e Gaggio c. Italia, invece, nel c.d. caso Placanica (sentenza), ha dichiarato, all'unanimità, che non vi era stata violazione dell'art. 2 Cedu sul piano materiale per quanto riguarda l'uso eccessivo della forza; ha, invece, dichiarato, a maggioranza, la violazione dell'art. 2 sul piano procedurale (come ad es. l'autopsia il giorno successivo al decesso di Carlo Giuliani da parte di due medici nominati dalla procura): la suddetta sentenza per i principi e per gli ampi richiami ai precedenti è particolarmente importante. Sulla problematica, Moscardini.

Quanto alle armi, si ritiene che si debba «far riferimento esclusivamente a quelle in dotazione alla forza pubblica secondo quanto indicato dalle disposizioni di servizio e in ogni caso finalizzate all'adempimento del dovere, che costituisce la limitazione funzionale caratteristica dell'art. 53. Si tratterà in sostanza della nozione di «armi» che si desume dalle disposizioni normative inserite nel codice penale e nelle leggi speciali, con particolare riferimento agli artt. 30-45 del Testo Unico di pubblica sicurezza» (Mezzetti, § 3; Ardizzone, 980): quindi, secondo questa tesi, l'applicabilità della scriminante è esclusa nei casi in cui l'agente utilizzi armi personali o armi improprie.

In contrario, però, si è osservato che si tratta di un falso problema perché la circostanza che la norma autorizzi, genericamente, anche “un altro mezzo di coazione fisica”, consentirebbe, comunque, l'applicabilità della scriminante (Forte, 442; Pulitanò, 4).

Per mezzi di coazione, si intendono «idranti, particolari tecniche di movimento di jeeps, lanci di lacrimogeni, cariche a cavallo ecc. l'uso di cani particolarmente addestrati è espressamente previsto per talune evenienze» (Ardizzone, 980).

L'uso delle armi può essere rivolto sia contro persone che contro beni (abbattere una porta per effettuare un arresto) o contro animali (se ostacolino l'adempimento del dovere) «purché il destinatario reale sia il soggetto che ostacoli l'adempimento del dovere o l'impedimento della consumazione dei reati indicati nell'ultima parte del comma 1 dell'art. 53 c.p.» (Ardizzone, 980).

La condotta che giustifica l'uso delle armi

I requisiti della violenza, della resistenza e della commissione di reati particolarmente gravi, sono indissolubilmente legati alla reazione necessitata delle forze dell'ordine di cui al precedente paragrafo: non vi può essere uso legittimo delle armi se, a monte, non vi è una violenza, una resistenza o la commissione di reati particolarmente gravi.

La violenza

La violenza è definita come quel comportamento attivo in atto, «tendente a frapporre ostacoli all'adempimento del dovere di ufficio», (Fiandaca-Musco, 2014, 313).

Si ammette che, nel lemma “violenza”, possa essere ricompresa anche la minaccia (in tal senso pare orientata la giurisprudenza che parla di violenza e resistenza «costituite dall'impiego della forza, fisica o morale»: Cass. I, n. 941/1983; Ardizzone, 982, adduce come argomento la circostanza che il termine generico di violenza giustifica un'interpretazione che in esso ricomprenda sia la violenza fisica che quella psichica e cioè la minaccia) purché, secondo una parte della dottrina, sia seria e grave (Fiandaca-Musco, PG, 313; Pulitanò, 4; Mezzetti, § 6).

In dottrina si discute se la violenza debba assumere i requisiti di cui agli artt. 336-337.

La dottrina più recente dà una risposta negativa rilevando che «diverse sono le condizioni di tipicità sotto cui stanno la violenza e la resistenza indicate nell'art. 53 e la violenza e la minaccia dei reati di cui agli artt. 336 e art. 337 [...] la violenza reale, pur riconducibile al tipo di condotta descritta nell'art. 337, sembra estranea alla situazione necessitante dell'art. 53» (Ardizzone, 982; Mezzetti, § 6).

La giurisprudenza pare ritenga il contrario, almeno stando ad un datato precedente, in cui l'affermazione sembra più che altro un obiter: Cass. IV, n. 6327/1989  secondo la quale l'uso delle armi uso è consentito solamente nel caso in cui il pubblico ufficiale «si trovi di fronte alla necessità di respingere una violenza o superare una resistenza costruttiva, siccome integranti i reati previsti dagli artt. 336 e segg. del codice penale».

Non è necessario che la violenza sia diretta esclusivamente contro il pubblico ufficiale che, poi, fa uso delle armi, essendo sufficiente che la violenza sia diretta a contrastare l'attività posta in essere in adempimento del dovere (come ad es. avviene, nei casi di disordini di piazza che sfociano in violenza di massa) (Ardizzone, 982).

La resistenza

Controversa è la nozione di resistenza che giustifica l'uso delle armi.

Secondo la tesi tradizionale, la resistenza che l'art. 53 prende in considerazione è solo quella attiva e cioè minacciosa come ad es. la resistenza armata o l'apposizione di ostacoli all'intervento delle Forze dell'Ordine (Antolisei, PG, 216; Mezzetti § 6; in giurisprudenza, Cass. IV, n. 6327/1989).

Ad opposta conclusione perviene la più recente dottrina (Romano, Commentario, 565; Fiandaca-Musco, PG, 314; Mantovani, PG 1979, 246; Pagliaro, 278) che, peraltro, subordina l'uso della armi al criterio della proporzione sicché, ad es., non è ammissibile sparare su chi blocca il traffico assumendo un semplice atteggiamento passivo (sdraiarsi sulla strada o sui binari) potendosi ottenere lo stesso risultato (sgombero) con altri mezzi (persuasione; sollevare di peso i manifestanti e trasportarli altrove).

In ambito giurisprudenziale, la problematica si è posta per la fattispecie della fuga.

Ad una iniziale giurisprudenza contraria comunque all'uso della forza in caso di fuga di persone per sottrarsi alla cattura (Cass. IV, n. 6327/1989; Cass. V, n. 7570/1999), da ultimo, in aderenza a quanto sostenuto dalla dottrina più recente, si è affermato il principio secondo il quale, in caso di fuga, non si può escludere in assoluto l'uso delle armi «essendo necessario procedere alla valutazione delle modalità con le quali la fuga stessa è realizzata e dovendosi ritenere che, quando tali modalità siano tali da porre a repentaglio l'incolumità di terze persone, l'uso delle armi, opportunamente graduato secondo le esigenze del caso e sempre nell'ambito della proporzione, è legittimo, sempre che non sia possibile un altro mezzo di coazione di pari efficacia ma meno rischioso» Cass. IV, n. 9961/2000; Cass. IV, n. 20031/2003; Cass. V, n. 6719/2015).

È utile rammentare che la suddetta giurisprudenza si pone in linea con quella della Cedu (v. supra).

I reati ex l. n. 152/1975

Con l'art. 14 l. 22 maggio 1975, n. 152, è stata introdotta un'altra ipotesi in cui è ammesso l'uso delle armi in alcuni specifici delitti tassativamente elencati: strage, naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.

La norma è apparsa subito di problematica interpretazione perché non è dubitabile che, anche prima della sua introduzione, il pubblico ufficiale, per opporsi al compimento di quei gravissimi reati (quindi, anche in fase di semplice tentativo), ben avrebbe potuto utilizzare le armi (Antolisei,Pg 1975, 216; Fiandaca-Musco, Pg, 315).

La dottrina è divisa e varie sono state le risposte al tentativo di dare alla novità legislativa, una funzione autonoma.

Ad avviso di alcuni autori (Fiandaca-Musco,Pg, 315; Pulitanò, 2015, 278) la norma sarebbe priva di alcuna utilità.

Secondo un altro autore (Pulitanò, 1), la scriminante in esame, relativamente ai tassativi casi indicati dalla novella, sarebbe caratterizzata dal fatto che non sarebbe necessario il requisito di proporzione.

Variegata è la posizione della dottrina in ordine all'applicabilità della disposizione in commento al tentativo.

Secondo un autore (Pagliaro, 279), sarebbe verosimile la tesi secondo la quale rientra nell'ambito della scriminante «anche l'intervento diretto a impedire un tentativo dei delitti in questione», quindi, in sostanza, la scriminante sarebbe applicabile anche agli atti preparatori, il che trova contraria la quasi totalità della dottrina che osserva che, prima del tentativo il fatto non ha alcuna rilevanza penale.

Infine, ad avviso, di altra parte della dottrina, la norma è applicabile solo ove risulti superata la soglia del tentativo: nell'ambito di tale tesi, alcuni autori ritengono che «durante l'iter dei delitti in oggetto, e sino e non oltre la loro consumazione, l'uso della armi è legittimo pur se non sussiste in concreto una violenza in atto o una resistenza (per esempio: in assenza di pericolo immediato per i soggetti passivi ed anche senza intimazione o a seguito di appostamento predisposto)»: Mantovani , PG 1979, 247; Antolisei , PG 1975, 216; secondo altri autori (Romano, Commentario, 565; Mezzetti § 7; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 285), invece, l'intervento sarebbe ammesso una volta varcata la soglia del tentativo (ad es. sparare per impedire una rapina a mano armata) e sino all'esaurimento dell'azione o al verificarsi dell'evento, e, comunque deve sempre rispettare i consueti limiti della necessità e della proporzionalità.

Gli altri casi di uso legittimo delle armi

La fattispecie è prevista nell'ultimo comma dell'art. 53 c.p. che, appunto, con una norma di chiusura, stabilisce che «la legge determina gli altri casi nei quali è autorizzato l'uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica».

Una ricognizione della normativa vigente, consente di ritenere che i suddetti casi sono i seguenti:

- art. 41 c.p.mil.p.;

- artt. 13, 5, 6 l. n. 100/1958 (Uso delle armi da parte dei militari e degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria in servizio alla frontiera e in zona di vigilanza);

- art. 1 l. n. 354/1975 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà)

- articolo unico l. n. 374/1977 (Estensione delle disposizioni dell'art. 169 del regolamento per il Corpo degli agenti di custodia alle forze armate in servizio esterno agli istituti penitenziari):

- art. 158 comma 2 r.d. n. 773/1931;

- artt. 1, 2 l. n. 494/1940 (Disciplina del servizio di vigilanza alla frontiera compiuto da militari);

- art. 19 l. n. 145/2016 (Disposizioni concernenti la partecipazione dell'Italia alle missioni internazionali).

Bibliografia

Ardizzone, Uso legittimo delle armi, in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 976; Donizetti R. L'uso legittimo delle armi tra l'affermazione del principio di proporzionalità e le incertezze giurisprudenziali in materia di fuga in Dir. Pen. Cont. 31 luglio 2015; Forte, Uso legittimo delle armi, in Trattato di diritto penale, parte generale, II, Torino, 2013, 425; Marini, Uso legittimo delle armi (Diritto penale), in Nss. D.I., XX, Torino, 1975, 258; Mezzetti, Uso legittimo delle armi, in Dig. d. pen., XV, Torino, 1999; Moscardini C.: Sull’uso letale della forza da parte degli agenti statali: tra obblighi convenzionali e prospettive nazionali, in Riv. it. dir. pen. proc., 2017, p. 1567 ss.; Pagliaro, Il reato, in Trattato di diritto penale, diretto da Grosso-Padovani-Pagliaro, Milano, 2007; Pulitanò, Uso legittimo delle armi, in Enc. giur., XXII, Roma, 1994.

 

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