Codice Penale art. 133 - Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena (1).

Pierluigi Di Stefano

Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena (1).

[I]. Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente [164, 169, 175, 203 2], il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta:

1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione;

2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;

3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa.

[II]. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole [103-105, 108], desunta:

1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;

2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;

3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;

4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo [735 2 c.p.p.].

(1) In tema di sostituzione della pena detentiva v. art. 58 l. 24 novembre 1981, n. 689; in tema di violazione tributaria v. art. 7 d.lg. 18 dicembre 1997, n. 472; in tema di sanzioni applicabili agli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato v. artt. 11 ss. d.lg. 8 giugno 2001, n. 231.

Inquadramento

L'art. 133, da valutare unitamente all'art. 132 in tema di discrezionalità vincolata del giudice nella determinazione della pena, fissa i parametri che il giudice deve utilizzare per determinare la pena in concreto, indicando nel primo comma quelli che attengono alla gravità del reato e nel secondo comma quelli che attengono alla capacità a delinquere del reo.

Nel commento all'art. 132 si precisa come, alla luce anche della elaborazione dottrinaria, quelli che la norma indica quali criteri di determinazione della pena e, perciò quali limiti alla discrezionalità del giudice sono, in realtà, elementi solo apparentemente univoci (Mantovani) poiché possono assumere una valenza diametralmente opposta ai fini della quantificazione della pena in dipendenza di quali siano le finalità prevalenti che l'interprete riconosce alla pena nel caso concreto. Si osserva, ad esempio, che per un soggetto per il quale, nella commissione del reato, abbia avuto influenza la pregressa vita in un quartiere povero e ad alta criminalità, laddove si valorizzi il profilo “retributivo” della pena andrebbe applicata una sanzione contenuta (il disvalore della condotta è minore perché influenzata da variabili esterne); laddove, invece, si valorizzi la funzione educativa, la pena dovrebbe essere maggiore per la maggior necessità di un recupero della persona rispetto alle condizioni di vita pregresse (Caraccioli, secondo cui la funzione della pena, desunta dalla norma in oggetto, è prevalentemente retributiva; Fiandaca Musco, PG).

Si osserva che, in realtà, nessuno degli elementi indicati dall'art. 133 trova, all'interno di tale stessa disposizione, una specifica caratterizzazione per comprendere se debba rilevare in termini positivi o negativi per il reo. Tale carattere dei singoli parametri deve, invece, essere desunto dalle aggravanti o dalle attenuanti, sia generali che speciali, le quali, in modo più diretto, valorizzano ciascun parametro dell'art. 133 secondo una più specifica e riconoscibile direzione. Inoltre, l'art. 133 non indica una gerarchia di importanza tra gravità del reato e profili soggettivi del reato e, quindi, quale sia il profilo principale sul quale commisurare la pena (Fiandaca Musco): l'applicazione giurisprudenziale, peraltro, mostra come, di fatto, la commisurazione della pena sia legata all'uso di formule generalizzate con frequente determinazione della pena in prossimità del minimo edittale, una situazione che, secondo la giurisprudenza, non richiede una specifica motivazione.

In definitiva, l'interpretazione dell'art. 133, è particolarmente legata alle prassi giurisprudenziali che, di fatto, completano l'individuazione dei parametri assegnando loro, a fronte della possibile lettura ambivalente, una specifica “direzione”.

Gravità del reato

Il primo comma prescrive al giudice, nell'esercitare il “potere discrezionale” nell'applicazione della pena, di considerare la “gravità” del reato. Di tale gravità offre poi i vari parametri, riferiti alla condotta, all'evento giuridico ed all'elemento soggettivo.

Si discute di gravità del fatto nell'ambito del tipo di reato; la norma non fa riferimento alla valutazione del trattarsi di un reato “di tipologia grave” (ovvero: il reato di omicidio è grave ed il reato di percosse non è grave) bensì al trattarsi di un reato grave nel suo ambito (il furto di autovettura è un furto grave, il furto della ruota di scorta è un furto lieve). Il primo profilo di gravità, è oggetto di valutazione del legislatore che fissa la pena edittale tra un minimo ed un massimo.

Modalità dell'azione

Le modalità dell'azione consistono nella natura, specie, mezzi, oggetto, tempo e luogo ed ogni altra modalità. La disposizione è chiara e le circostanze fattuali in esso richiamate sono tipiche basi di aggravanti generali e speciali, tali da consentire una univoca interpretazione di tale parametro.

Gravità del danno o del pericolo

Il parametro della gravità del danno o del pericolo provocato è riferito all' offesa nei confronti del bene giuridico protetto dalla norma, non sempre del tutto collimante con il danno materiale (anche un piccolo danno economico da peculato può risultare un grave evento giuridico sotto il profilo della lesione dell'interesse della P.A.). Invero, la precisazione di gravità del danno o del pericolo “cagionato alla persona offesa dal reato” introduce nella disposizione anche la valutazione specifica del danno percepibile (“anche morale”) subito dalla vittima. Non si può quindi affermare che il riferimento prevalente sia alla lesione del bene giuridico indipendentemente dalla valutazione “economica”.

In giurisprudenza si è affermato come le conseguenze dannose siano anche quelle indirette purché abbiano, comunque, una certa “prossimità” rispetto alla condotta e non si tratti, invece, di un danno particolarmente indiretto. È affermazione fatta, ad es., nel caso della colposa causazione della morte di un arrestato da parte di agenti di polizia, per il quale la Corte ha escluso che possa assumere rilievo, ai fini di commisurazione della pena, il discredito gettato dagli stessi sulle forze dell'ordine (Cass. IV, n. 1786/2009). Sempre restando a livello di esempio, valendo principalmente la casistica dei singoli reati, hanno rilievo anche le valutazioni extra penali per la corretta individuazione dei valori che devono essere considerati nella materia in esame. Ad es., in un caso di omicidio colposo, si è ritenuto che la collocazione della pena nel massimo della forbice edittale non possa essere giustificata dalla giovane età della vittima non potendosi inserire la aspettativa di vita tra i dati obiettivamente rilevanti (Cass. VI, n. 1786/2009).

Intensità del dolo e grado della colpa

L'intensità del dolo, facendo riferimento alla ricostruzione di tale elemento soggettivo, va misurata sulla scorta delle differenze tra dolo diretto ed indiretto, intenzionale ed eventuale, premeditazione e dolo di impeto.

Il grado della colpa va misurato, nell'ambito di colpa generica o specifica, sul livello di violazione delle regole da cui è derivato l'evento lesivo e sulla base della eventuale colpa cosciente.

In giurisprudenza si è precisato, in ordine alla valutazione dell'elemento psicologico in materia di concorso di persone nel reato (artt. 110 e 133), che non va fatta confusione tra intensità del dolo e grado della colpa, che è il criterio richiamato dall'art. 133, e l'entità dell'apporto causale del singolo che trova una disciplina nella normativa specifica sul concorso (Cass. IV, n. 978/1997).

Capacità a delinquere

Il secondo comma, per determinare la pena, aggiunge alla valutazione della gravità del reato la considerazione della “capacità a delinquere del colpevole”. Tale elemento è indicato senza alcuna graduatoria di importanza e, per determinarlo in concreto, vengono indicati vari parametri, sia “interni” che “esterni”.

Ad un primo approccio alla disposizione, risulta indiscutibile che si tratti della prospettiva della commissione di ulteriori reati per il futuro. Il fatto che si aggiunga al giudizio sulla colpevolezza di cui al primo comma, che già introduce la valutazione dell'atteggiamento psicologico nel tempo precedente la commissione del reato, chiarisce ulteriormente che la capacità a delinquere riguarda la prognosi positiva o meno quanto alla futura condotta.

Tale futura condotta che rileva è solo quella “penale”: la “capacità a delinquere” delimita la valutazione alla possibile commissione di reati e non, invece, ad altri profili comportamentali del reo.

Sono chiari, in ogni caso, i parametri di fondo che devono essere rispettati: la pena dovrà essere graduata rispetto al grado della colpevolezza e non potrà essere utilizzata quale “pena esemplare” per scoraggiare comportamenti.

Si osserva sul piano teorico, in dottrina, come anche il concetto di capacità a delinquere possa avere valutazioni diverse. In termini generali è stata intesa quale possibilità maggiore o minore che l'individuo torni a violare la legge penale. Mentre il parametro della gravità attiene essenzialmente ad una funzione retributiva della pena, l'ulteriore parametro generale della capacità a delinquere è ritenuto dalla dottrina il segno di una funzione della pena anche di tipo educativo (Antolisei).

Motivi a delinquere e carattere dal reo

Si tratta di “Motivo a delinquere quale causa psichica, lo stimolo che induce l'individuo a delinquere” e di “carattere del reo quale punto di incontro fra il temperamento e l'ambiente risultandone un determinato tipo di personalità”.

Precedenti penali, giudiziari, condotta e vita anteatta

Si tratta, anche in ragione di questa indicazione ampia, di una valutazione non formale ma sostanzialista, essendovi ricompresa ogni ipotesi di pregresse condanne e/o precedenti giudiziari, poco importa che vi sia stata una riabilitazione, l'amnistia, la prescrizione o qualsiasi altra forma di estinzione di ogni conseguenza diretta della condanna; ciò perché si tratta di valutazioni della situazione di fatto (Cass. IV, n. 18795/2016; Cass. VI, n. 16250/2013 ). Ovvero, una condotta pregressa indenne da condanne lascia intendere una personalità positiva senza il rischio di commissione di nuovi reati (Cass. VI, n. 11355/1994). Vanno, poi, valutati anche tutti i parametri utili di tipo oggettivo e conformi ai valori riconosciuti; si tratta di una clausola generale che, in concreto, va completata sulla scorta della scala di valori vigente (è positiva e valutabile una attività di volontariato mentre non è certo valutabile in termini negativi l'atteggiamento di protesta rispetto all'indirizzo politico dominante ; tale valutazione negativa, invece, era possibile nel 1930, in base alla stessa norma. Non è cambiato il testo bensi sono cambiati i valori).

Condotta contemporanea o susseguente

Secondo tali parametri, interpretati al fine di applicare le attenuanti generiche, ma con ragionamento generale, la norma consente la valutazione in termini negativi, appunto in quanto situazione di fatto, anche dei reati commessi successivamente a quello da giudicare, rientrando tali reati nel concetto di “condotta susseguente” (Cass. II, n. 24207/2013).

Segue. Comportamento processuale

È prassi comune la valutazione di condotte tenute nel contesto del processo ovvero, più spesso, generici riferimenti a condotte collocabili nell'ambito dello svolgimento del processo. Il comportamento processuale, sia quanto alla condotta “rispettosa” dei ruoli che quanto alle modalità di esercizio di facoltà processuali, è oggetto di specifiche valutazioni ma, anche, oggetto di clausole di stile, molto spesso finalizzate ad una riduzione verso il minimo della pena.

Prima e fondamentale regola è che l'esercizio di facoltà processuali dell'imputato, non può considerarsi come comportamento processuale negativo (Cass. III, n. 3654/1996).

Osserva la dottrina che si valorizzano comportamenti definiti “abbastanza evanescenti” come il non meglio definito “buon comportamento processuale”, l'” aver dimostrato resipiscenza” (formula che si assume essere spesso utilizzata al di fuori di qualsiasi valutazione di una reale resipiscenza). Di uso molto comune anche i riferimenti alla “confessione” ma anche, all'opposto, alla “non collaborazione”, alla “giovane età” (non è un comportamento processuale ma è una clausola di stile tra le più comuni), (Caraccioli). Tali parametri, poi, sono utilizzati sia al fine della determinazione della pena che al fine di affermare la applicabilità nel caso concreto delle attenuanti generiche.

Condizioni di vita individuale, familiare e sociale

Il concetto è abbastanza evidente, meno evidente la direzione che deve avere tale esame. Ovviamente, non può non tenersi conto dei principi generali dell'ordinamento al fine di ritenere che determinate condizioni non possono essere ritenute negativamente ai fini della disposizione: si veda, ad esempio, come Cass. V, n. 17696/2010  desse atto della illegittimità di valutare, nell'ambito del “tipo” di criteri (nella simile materia della gravità della condotta ai fini di una misura cautelare) gli “schemi culturali dell'etnia di appartenenza dell'imputato”.

Tendenzialmente, il parametro consente valutazioni in termini favorevoli (del tipo che si tiene conto della povertà e della scarsa educazione ricevuta in famiglia per un piccolo furto di necessità) piuttosto che sfavorevoli (del tipo “è benestante e non aveva alcuna ragione di commettere il piccolo furto”).

Nel più particolare tema della sostituzione delle pene detentive brevi con pena pecuniaria, la Cassazione ha escluso che l'art. 133 preveda la valutazione delle condizioni economiche (Cass. VI, n. 36639/2014); considerate invece negli articoli successivi (133 bis e 133 ter) per gli specifici fini ivi descritti.

Rapporto tra obbligo di motivazione e misura della pena

L'obbligo di motivazione in tema di commisurazione della pena, come ha rilevato la dottrina sopracitata nonché quella riportata a proposito dell'art. 132, è diventato fondamentalmente limitato alla indicazione delle ragioni per il superamento del minimo edittale, venendo inteso come un obbligo nei soli confronti dell'imputato, laddove, sul piano testuale, appare quale obbligo generale.

La regola che più frequentemente si legge è nel senso che “ quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall'art. 133 c.p., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio” (Cass. VI, n. 35346/2008); non manca, però, giurisprudenza che ritiene che tale obbligo diventi particolarmente rilevante solo quando si superi la media tra il minimo e massimo edittale (Cass. V, n. 35100/2019); se la pena è inferiore a tale soglia, si ritiene la sufficienza di espressioni del tipo: «pena congrua», «pena equa» o «congruo aumento», come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Cass. II, n. 36104/2017).

Quando, poi, diventa necessario dare una specifica motivazione, non vi è un obbligo di ripercorrere l'intero elenco dei parametri di legge ma è adeguata dimostrazione del corretto esercizio del potere discrezionale la indicazione di quali, tra i criteri, abbiano assunto uno specifico rilievo ai fini della determinazione della pena (Cass. V, 17953/2020Cass. I, n. 24213/2013).

Ancor più netta nel senso di sostenere che la motivazione sulla determinazione della pena è un diritto dell'imputato e non un obbligo generale, è quella giurisprudenza che afferma il concetto di “insindacabilità” di una pena determinata in misura prossima al minimo (Cass., IV, n. 21294/2013), anche se il termine appare eccessivo, non essendo certo preclusa la impugnazione nel merito da parte del pubblico ministero.

Le predette regole sono ulteriormente confermate dalla giurisprudenza secondo cui, per poter applicare una misura di pena prossima al massimo edittale, è necessaria una specifica e dettagliata motivazione e non certo le clausole di stile sopra citate (Cass. IV, n. 27959/2013).

Rapporto tra obbligo di motivazione e scelta tra la applicazione di pena detentiva o pecuniaria

In casi in cui un reato preveda una pena alternativa, detentiva o pecuniaria, si è affermato che la applicazione del massimo della pena pecuniaria non possa ritenersi di per sé una scelta che necessita di quella particolare motivazione che si richiede quando ci si discosti dal minimo edittale; la ragione è che la scelta della sola pena pecuniaria, secondo la valutazione della giurisprudenza, è un trattamento obiettivamente più favorevole; si è quindi affermato che la motivazione può anche esaurirsi nel mero riferimento alla “equità quale criterio di sintesi adeguato e sufficiente” (Cass. III, n. 37867/2015), ovvero “essendo sufficiente che dalla motivazione risulti la considerazione conclusiva e determinante in base a cui è stata adottata la decisione" (Cass. I, n. 3632/1995). Invece, laddove il giudice ritenga di applicare la pena detentiva, pur a fronte dell'alternatività, la motivazione deve vertere espressamente sulla ragione di tale scelta. In questo ultimo caso, quindi, si conferma quella linea secondo cui vi è un obbligo specifico di motivazione in caso di trattamento deteriore per l'imputato (Cass. IV, n. 10772/2018).

Nel caso, invece, di pena congiunta, la determinazione, e quindi l'obbligo di motivazione, di ciascun tipo di pena non è vincolata da un criterio di proporzionalità tra le due. I parametri dell'art. 133, difatti, consentono valutazioni indipendenti, tenendo anche conto che la pena detentiva presenta la medesima afflittività per qualsiasi persona mentre l'effetto sanzionatorio della pena pecuniaria dipende dalle condizioni economiche del condannato (Cass. III, 27779/2016).  Con riferimento ad un caso nel quale era stata applicata la pena detentiva in misura minima e quella pecuniaria in misura superiore alla media, si è ritenuta la necessità di una diffusa motivazione su tale ultima scelta, anche quanto alla decisione di una decisione così divaricata per i due tipi di pena (Cass. III, n. 25556/2019).  

Concorso di persone

Si afferma che l'art. 133 prevede parametri tipicamente individuali per cui, in ipotesi di reato in concorso, la pena è effetto di valutazioni per ciascun singolo imputato, non essendovi quindi alcun obbligo di valutazione comparativa tra diverse posizioni (Cass. II, n. 7191/2016; Cass. II, n. 1886/2017), restando ovviamente fermo il rilievo del particolare caso in cui alla diversità di trattamento corrisponda un caso di manifesta illogicità/contraddittorietà della motivazione di qualcuna delle diverse posizioni.

Bibliografia

Arcellaschi, Rassegna delle più recenti pronunce di legittimità in tema di criteri di commisurazione della pena ex art. 133 c.p. (ed obbligo motivazionale): un’occasione per riflettere sulla deriva dall’originario dettato normativo, in Indice pen. 2015, 370; Benenati, Quali limiti alla fungibilità con la pena delle misure coercitive non custodiali?, in Dir. pen. e proc.,1998, 1029; Borasi, Questioni sul calcolo della pena, in Riv. pen. 2012, 822; Buonvino, Brevi considerazioni sulla quantificazione della pena e il processo simpatetico, in Sociologia dir., 2014, fasc. 1, 181; Caterini, La proporzione nella dosimetria della pena - Da criterio di legiferazione a canone ermeneutico, in Giust. pen., 2012, II, 91; Corbetta, La cornice edittale della pena e il sindacato di legittimità costituzionale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, 134; Custodero, Capacità a delinquere e commisurazione della pena: problemi ed orientamenti, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, 78; Dolcini, L'art. 133 c.p. al vaglio del movimento internazionale di riforma, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, 398; Dolcini, La commisurazione della pena tra teoria e prassi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1991, 55; Dolcini, Pene detentive, pene pecuniarie, pene limitative della libertà personale: uno sguardo sulla prassi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2006, 95; Eusebi, Pena, in Il diritto-Enciclopedia giuridica; Inzerillo: Pene accessorie e discrezionalità del giudice (Nota a Cass., sez. un., 27 maggio 1998, Ishaka), in Giur. it., 2000, 382; Pagliaro, Sanzione (sanzione penale), in Enc. giur. Treccani, XXVIII, Roma, 1992; Tascone, Capacità a delinquere, in Enc. giur. Treccani, V, Roma, 1988; Tascone, Applicazione della pena, in Enc. giur. Treccani, II, Roma 1988.

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