Codice Penale art. 157 - Prescrizione. Tempo necessario a prescrivere. 1 2[I]. La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria 4. [II]. Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell'aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell'aumento massimo di pena previsto per l'aggravante. [III]. Non si applicano le disposizioni dell'articolo 69 e il tempo necessario a prescrivere è determinato a norma del secondo comma. [IV]. Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva. [V]. Quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni 5. [VI]. I termini di cui ai commi che precedono sono raddoppiati per i reati di cui agli articoli 375, terzo comma, 449 , 589, secondo e terzo comma, e 589-bis, nonché per i reati di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale. I termini di cui ai commi che precedono sono altresì raddoppiati per i delitti di cui al titolo VI-bis del libro secondo, per il reato di cui all'articolo 572 e per i reati di cui alla sezione I del capo III del titolo XII del libro II e di cui agli articoli 609-bis, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies, salvo che risulti la sussistenza delle circostanze attenuanti contemplate dal terzo comma dell'articolo 609-bis ovvero dal quarto comma dell'articolo 609-quater 6. 7 [VII]. La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall'imputato. [VIII]. La prescrizione non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell'ergastolo, anche come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti.
[1] Articolo così sostituito dall'art. 61l. 5 dicembre 2005, n. 251. Il testo dell'articolo, come modificato dall'art. 125, l. 24 novembre 1981, n. 689, era il seguente: «La prescrizione estingue il reato: 1) in venti anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni; 2) in quindici anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a dieci anni; 3) in dieci anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a cinque anni; 4) in cinque anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione inferiore a cinque anni, o la pena della multa; 5) in tre anni, se si tratta di contravvenzione per cui la legge stabilisce la pena dell'arresto; 6) in due anni, se si tratta di contravvenzione per cui la legge stabilisce la pena dell'ammenda. - Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo al massimo della pena stabilita dalla legge per il reato, consumato o tentato, tenuto conto dell'aumento massimo di pena stabilito per le circostanze aggravanti e della diminuzione minima stabilita per le circostanze attenuanti. - Nel caso di concorso di circostanze aggravanti e di circostanze attenuanti si applicano anche a tale effetto le disposizioni dell'articolo 69. - Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e quella pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva». Precedentemente la Corte cost., con sentenza 31 maggio 1990, n. 275, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo nella parte in cui non prevedeva che la prescrizione del reato potesse essere rinunziata dall'imputato. [2] V. l'art. 10 l. n. 251, cit., che recita: «1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. - 2. Ferme restando le disposizioni dell'articolo 2 del codice penale quanto alle altre norme della presente legge, le disposizioni dell'articolo 6 non si applicano ai procedimenti e ai processi in corso se i nuovi termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti. - 3. Se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione». La l. n. 251, cit., è entrata in vigore l'8 dicembre 2005. Successivamente la Corte cost., con sentenza 23 novembre 2006, n. 393, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 3 del citato art. 10 l. n. 251, cit., limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché». [4] Corte cost. 18 gennaio 2008, n. 2 ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionali dell'art. 157, primo e quinto comma, del codice penale, come sostituiti dall'art. 6, l. 5 dicembre 2005, n. 251, sollevate in riferimento all'art. 3 Cost. [5] Corte cost. 18 gennaio 2008, n. 2 ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionali dell'art. 157, primo e quinto comma, del codice penale, come sostituiti dall'art. 6, l. 5 dicembre 2005, n. 251, sollevate in riferimento all'art. 3 Cost. [6] Comma modificato dall'art. 1, l. 22 maggio 2015, n. 68 che ha inserito la frase: «per i delitti di cui al titolo VI-bis del libro secondo»; dall'art. 4, l. 1° ottobre 2012, n. 172, che ha aggiunto, in fine l'ultimo periodo, dall'art. 1, d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv., con modif., dalla l. 24 luglio 2008, n. 125 che aveva sostituito le parole «589, secondo e terzo comma» con le parole «589, secondo, terzo e quarto comma» , dall'art. 1, comma 3 lett. a), l. 23 marzo 2016, n. 41 che ha sostituito le parole «e 589, secondo terzo e quarto comma» con «, 589, secondo e terzo comma, e 589-bis» e, da ultimo, dall'articolo 1, comma 4, l. 11 luglio 2016, n. 133 che ha inserito, al primo periodo, le parole «375, terzo comma,» dopo le parole: «agli articoli» . [7] La Corte cost., con sentenza 28 maggio 2014, n. 143, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, «nella parte in cui prevede che i termini di cui ai precedenti commi del medesimo articolo sono raddoppiati per il reato di incendio colposo (art. 449, in riferimento all'art. 423 del codice penale)». InquadramentoNel Titolo VI del Libro Primo del Codice è contenuta la regolamentazione legislativa delle cause di estinzione del reato e della pena; al Capo primo, tra le cause estintive del reato, figura poi la prescrizione. La disposizione normativa in esame è stata così sostituita dall'art. 6 l. 5 dicembre 2005, n. 251 (c.d. legge ex Cirielli). Secondo l'orientamento teorico ormai maggioritario, l'istituto della prescrizione si collega direttamente alla natura ed alla funzione della pena. Trattasi cioè di un istituto che segna il punto di demarcazione della sopravvenuta inutilità della pena; il trascorrere del tempo porta insomma ad una diminuzione dell'utilità sociale della sanzione. Nel senso che, laddove il fatto e la condanna siano troppo marcatamente distanziati tra loro sotto il profilo cronologico, la pena inflitta smette di essere in grado di svolgere le funzioni che ad essa sono proprie. Parte della dottrina ha ritenuto di poter individuare la ragione dell'incidenza del fattore cronologico nell'esistenza di un profilo personologico, nel senso che il trascorrere del tempo ipso facto comporterebbe una trasformazione nella personalità del soggetto destinatario della sanzione; questa quindi andrebbe impropriamente e vanamente ad essere inflitta nei confronti di un soggetto ormai radicalmente mutato. Teoria che contiene però una postulazione non condivisibile; la quale risiede nel convincimento che si debbano necessariamente verificare, nel reo, cambiamenti favorevoli in senso risocializzante, in diretta derivazione dal trascorrere del tempo. Si è quindi scritto che: “[...] il meccanismo estintivo ora in esame si può spiegare solo in un contesto utilitaristico: la sua funzione sembra tuttavia possedere una matrice oggettiva e sociale, anziché soggettiva. Il tempo è cioè in grado di estinguere la punibilità, non già perché rileva come fattore del rapporto tra il reo e la sua precedente azione illecita, bensì perché dilata fino a lacerare il rapporto tra il fatto pregresso e la società del presente, la quale non trova più nella pena intempestiva alcuna forma di rassicurazione e per questo vi rinuncia, onde non cedere a mere pulsioni retributive” (Micheletti, 351). Profili generaliIl carattere sostanziale dell'istituto. La dottrina più risalente riteneva che la prescrizione estintiva del reato rappresentasse una rinuncia, da parte dell'ordinamento — effettuata in via preventiva ed astratta, oltre che cristallizzata in norme di legge — all'operatività della pretesa punitiva nei confronti di un soggetto giudicabile. Una rinuncia che — stando a tale impostazione concettuale — trarrebbe origine dalla “forza deleteria del tempo”, elidendo in radice il reato — piuttosto che la sola azione penale — in quanto essa coinvolgerebbe “direttamente la pretesa punitiva dello Stato, e non il solo rapporto processuale, che può anche non essersi costituito” (Manzini, 484). La ratio dell'istituto — per la verità quasi sempre presente, nel corso delle varie epoche storiche, sebbene secondo differenti connotazioni — è stata poi anche individuata nell'inevitabile diminuzione dell'interesse dell'ordinamento, rispetto all'irrogazione di sanzioni in relazione a fatti-reato collocati ormai lontano nel tempo; accadimenti comunque contra legem, ma dei quali risulta ormai attenuato lo stesso ricordo sociale, in ragione proprio del trascorrere di un lasso di tempo troppo ampio, fra la commissione del fatto e l'accertamento dello stesso (Mantovani, 829). Altri Autori hanno posto l'accento anche sul carattere per così dire utilitaristico della figura giuridica in esame; per cui — oltre che sullo scemare dell'interesse statale all'accertamento del reato ed all'inflizione della pena, correlato allo “svanire del ricordo del fatto e delle conseguenze sociali di esso”, si è posto l'accento sul fatto che “sorgono, col passare del tempo, gravi difficoltà per la raccolta del materiale probatorio a causa della scomparsa dei testimoni, delle tracce del reato” (Antolisei, 665). Secondo altra parte della dottrina, il trascorrere di un determinato lasso di tempo — astrattamente e preventivamente giudicato troppo ampio dal legislatore — rende vano e non più consigliabile l'esercizio della potestà sanzionatoria; infatti: “vengono a cadere le esigenze di prevenzione generale che presiedono alla repressione dei reati: le esigenze di prevenzione, come dimostra l'esperienza, a poco a poco si affievoliscono, fino a spegnersi del tutto” (Fiandaca e Musco, 465). Sul punto, colgono allora nel segno le critiche mosse all'attuale disciplina, con riferimento alla posizione del recidivo. In relazione al quale è evidentemente delineato un “diritto penale soggettivo a sfondo sintomatico presuntivo, in quanto la potenzialità criminogena permane nel tempo slegata da ogni limite temporale” (Diotallevi, in Rassegna Lattanzi-Lupo, 504). La natura di istituto sostanziale della prescrizione costituisce un dato ormai comunemente accettato, da parte di tutti i commentatori della norma (fra tanti, Pisa, 79). Parimenti condivisa è l'opinione secondo la quale il giudice è tenuto a rilevare e dichiarare d'ufficio la prescrizione, in ogni stato e grado del processo. Precisiamo infine che, l'intervento della causa estintiva del reato in commento prevale sul proscioglimento nel merito del giudicabile, salvo il caso in cui dall'incarto processuale emerga con assoluta evidenza la prova dell'innocenza del soggetto. Dunque, occorre che sia acquisita la prova positiva della non colpevolezza, in termini di certezza giuridica e non sulla base della insufficienza o contraddittorietà delle prove a carico (Diotallevi, in Rassegna Lattanzi-Lupo, 504). Sul punto, si potrà vedere in giurisprudenza quanto enunciato da Cass. VI, n. 10284/2016; secondo tale orientamento, appunto, la formula di proscioglimento nel merito può prevalere sulla declaratoria di estinzione per prescrizione, ma solo allorquando la prima possa esser pronunciata all'esito di una operazione meramente ricognitiva, che manifesti pacificamente la totale assenza della prova inerente alla colpevolezza dell'imputato, oppure la prova positiva, in ordine all'innocenza dello stesso, senza che residuino contraddittorietà o spazi riservati comunque alla ponderazione. Il momento iniziale (rinvio) Il punto di inizio della decorrenza della prescrizione estintiva del reato coincide con la consumazione del reato, in relazione al reato consumato, ovvero con la cessazione dell'attività del soggetto agente, per quanto attiene al reato tentato. Si tiene poi conto della cessazione dell'attività antigiuridica già instauratasi e protrattasi entro un certo arco temporale, per quanto attiene al reato permanente. Trattasi di argomenti che si trovano diffusamente sviscerati nella sedes materiae, ossia nel commento inerente all'art. 158. Giova qui soltanto evidenziare come, in presenza di una situazione di incertezza circa il tempus commissi delicti, debba farsi applicazione del principio generale del favor rei. Ossia, fissare la consumazione del reato all’epoca più risalente, dunque più favorevole per il giudicabile. La giurisprudenza ha però precisato come a tale applicazione di favore non possa farsi ricorso, allorquando sia invece possibile giungere all'individuazione del momento commissivo del reato mediante l'adozione di un procedimento logico-deduttivo, pienamente ammissibile nel processo penale. Non sfuggirà, comunque, come l'indicazione dell'epoca di commissione del reato costituisca onere gravante sull'accusa e non sull'imputato (Diotallevi, in Rassegna Lattanzi-Lupo, 506; si veda anche la giurisprudenza sotto riportata). Il principio del favor rei opera nel solo caso di incertezza circa l'epoca di consumazione del reato; così, tale termine deve essere fissato in modo tale che risulti più favorevole all'imputato. Deve però trattarsi di incertezza assoluta, circa la data di commissione del fatto stesso. Non trova invece applicazione tale principio, allorquando possa giungersi a stabilire tale data - elidendo la suddetta incertezza - mediante l'utilizzo di un procedimento logico-deduttivo, pienamente consentito (Cass. III, n. 1182/2007). Il Supremo Collegio ha poi anche precisato come l'onere di fornire con precisione la prova del tempo di commissione di un dato reato non spetti al giudicabile, bensì al P.M.; la conseguenza di tale impostazione concettuale è che — laddove sia carente la prova certa circa il momento consumativo del reato — questo deve essere collocato alla data più risalente, quindi più favorevole per l'imputato (Cass. II, n. 35662/2014). Cass. S.U. n. 51/2020 ha anche ribadito il principio di diritto – già espresso in Cass. III, n. 23259/2015 – secondo il quale il decorso del termine di prescrizione inizia, per quanto attiene ai reati consumati, dal giorno in cui la condotta illecita risulti totalmente esaurita. Nella pratica ciò significa che il periodo utile per il consolidamento della prescrizione deve essere calcolato partendo dalle ore zero del giorno successivo, rispetto a quello nel quale sia stata interamente compiuta la condotta incriminata, per terminare alle ore ventiquattro dell’ultimo giorno, considerato secondo il calendario comune. La attuale formulazione normativaLa norma attualmente vigente aggancia il decorso del termine prescrizionale, in primo luogo, al massimo edittale della pena; ossia, alla sanzione stabilita — nella sua più ampia estensione — in relazione ad ogni reato. Rispetto all'originaria struttura dell'istituto, sotto riportata, tale scelta legislativa ha cagionato un quasi generalizzato accorciamento del termine prescrizionale; e tale restringimento non poteva non risultare palesemente incongruo, rispetto ai tempi medi del processo. Non vi è peraltro chi non rilevi come la prescrizione — nella sua applicazione pratica ed in diretta conseguenza con tale abbreviazione dei relativi termini — abbia gradualmente visto trasformarsi la sua funzione. In rapporto infatti alla palese inadeguatezza dei termini oggi vigenti, la prescrizione è andata assumendo sempre più le vesti di una modalità quasi ordinaria di soluzione della vicenda processuale; è cioè diventata, la prescrizione, quasi una sorta di aspettativa per l'imputato, venendo così ad assumere sempre più i contorni di soluzione comunque prospettabile (e spesso anche auspicabile, quale comoda scappatoia) per il soggetto giudicabile. L'istituto si è quindi andato gradualmente trasformando — nonché distorcendo — sotto il profilo funzionale. Nasce infatti quale strumento finalizzato, in via esclusiva, ad elidere le improvvide conseguenze di giudizi la cui eco sia ormai lontana nel tempo, inerenti ad accadimenti illeciti il cui disvalore sia ormai profondamente attenuato dall'azione del tempo; assume invece improvvidamente, nella comune esperienza giudiziaria, una funzione quasi di vera e propria strategia processuale. Con inevitabili ricadute, in termini di dispendio di energie processuali e di risorse umane, visto che finisce praticamente col vanificare lo svolgimento (spesso farraginoso, articolato, problematico), di una immensa moltitudine di processi. Con comprensibili ripercussioni negative — per ciò che concerne l'aspetto più squisitamente processuale — sulle potenzialità deflattive connesse ai riti alternativi; ossia, su uno dei cardini del nuovo sistema penale, ai quali viene ovviamente fatto sempre ricorso in misura sempre decrescente, proprio nella speranza di lucrare comunque la prescrizione (una soluzione processuale che, si ripete, appare comunque benigna per il reo, a fronte della possibilità di vedersi irrogare una condanna). La dottrina ha allora giustamente scritto, sul punto, che: “Le modifiche introdotte al regime della prescrizione dalla l. n. 251/2005 a prescindere da qualche spunto apprezzabile, sono riuscite nell'ardua impresa di mettere d'accordo tutti (o quasi) i commentatori in un giudizio di fondo sostanzialmente negativo, principalmente perché si sono limitate, in un'impostazione di tipo meramente novellistico, a incidere su singoli profili, ma non sull'assetto originario, che al contrario necessitava in toto di un ripensamento” (Beltrani, n. 39, 92). Ed evidentemente, tale inadeguatezza era stata comunque già avvertita dal legislatore, nel momento in cui si accingeva a trasformare l'originario impianto della figura giuridica in commento. Tanto vero, che il collegamento fra termine prescrizionale e pena edittale massima venne temperato con l'inserimento di una clausola di salvaguardia, contenuta nella frase «e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria». In aggiunta a tale soglia minima di durata del termine prescrizionale, si è introdotto un secondo rimedio, rappresentato dall'individuazione di una serie di fattispecie delittuose, in relazione alle quali il termine di prescrizione risulta raddoppiato (art. 157 comma 4). La norma vigente, come sopra accennato, collega la durata del termine prescrizionale alla pena edittale, che il legislatore indica in relazione al reato consumato o tentato. In tal modo, il computo del termine è indifferente rispetto ad aumenti e diminuzioni sanzionatorie, eventualmente scaturenti dall'intervento di forme di manifestazione circostanziata del reato stesso. Qui si è giustamente evidenziato quanto segue: “Una novità, questa, chiaramente orientata ad ottenere una migliore predeterminabilità del termine di estinzione, a fronte dell'eccessivo potere discrezionale concesso in passato al giudice, il quale, modulando il bilanciamento delle circostanze che un tempo influiva sul computo dell'intervallo estintivo, finiva per gestire la prescrizione come una causa di clemenza giurisdizionale” (Micheletti, 356). La disciplina previgente Il testo antecedente, rispetto alla succitata riforma del 2005, disponeva quanto segue: «... La prescrizione estingue il reato: 1) in venti anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni; 2) in quindici anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a dieci anni; 3) in dieci anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce della reclusione inferiore a cinque anni, o la pena della multa. 4) in cinque anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione inferiore a cinque anni, o la pena della multa; 5) in tre anni, se si tratta di contravvenzione per cui la legge stabilisce la pena dell'arresto; 6) in due anni, se si tratta di contravvenzione per cui la legge stabilisce la pena dell'ammenda....». La norma dunque rapportava il decorso del termine prescrizionale a “sei intervalli estintivi, modulati in funzione della gravità del reato” (Micheletti, 356). Le problematiche di diritto intertemporale La regolamentazione legislativa della disciplina transitoria dettata in materia si trova nell'art. 10 l. 5 dicembre 2005, n. 251, laddove è stabilito che: «2. Ferme restando le disposizioni dell'art. 2 c.p., quanto alle altre norme della presente legge, le disposizioni dell'art. 6 non si applicano ai procedimenti e ai processi in corso se i nuovi termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti. 3. Se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione». Giova precisare che la Consulta ha dichiarato la illegittimità costituzionale di tale disposizione normativa, limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché» (Corte cost. n. 293/2006). L'esclusione dell'operatività della nuova norma più favorevole al reo, in relazione ai processi che — alla data di entrata in vigore della nuova legge — si trovassero già in appello, è stata invece ritenuta fondata su una ragionevole opzione legislativa (Corte. cost. n. 72/2008). Una scelta basata sulla finalità di scongiurare la dispersione del materiale probatorio già formatosi, secondo una progressione rapportata ai più lunghi tempi di prescrizione vigenti al momento del compimento dell'atto stesso (Diotallevi, 510). I Giudici di Piazza Cavour hanno poi precisato che — ai fini dell'operatività delle norme più favorevoli introdotte dalla legge del 2005 — il momento di discrimine è segnato dalla pronuncia della sentenza di primo grado, che determina già la pendenza del grado d'appello del processo (Cass. S.U., n. 47008/2009). L'individuazione del momento della pendenza del grado d'appello, ai fini dell'applicabilità o meno della disciplina più favorevole ora vigente, è stata foriera di ampio dibattito in dottrina e giurisprudenza. Alcuni hanno infatti ritenuto di poter far coincidere il momento di verificazione della pendenza in grado d'appello del processo (con conseguente esclusione della disciplina più favorevole), con la mera pronuncia della sentenza di primo grado, ossia con il momento della lettura del dispositivo; sganciando dunque il concetto di pendenza del grado di appello, sia dal momento del deposito della motivazione della sentenza di primo grado, sia da quello del deposito dell'impugnazione (si veda, per una diffusa analisi della complessa problematica, Beltrani, n. 43, 82). La giurisprudenza ha poi definitivamente chiarito come — per ciò che attiene all'efficacia delle norme transitorie dettate dalla l. n. 251/2005 — la pronuncia della sentenza di condanna in primo grado determini già la pendenza del grado di appello, momento in cui è preclusa l'applicazione retroattiva del più favorevole trattamento sanzionatorio introdotto dalla riforma (vedere giurisprudenza sotto riportata). Affrontando la tematica della successione di leggi penali incidenti sulla prescrizione, i Giudici di legittimità hanno precisato come – in presenza di una condotta interamente verificatasi durante la vigenza di una legge più favorevole al reo, ma di un evento realizzatosi sotto l'impero di una norma più sfavorevole – debba applicarsi la prima disciplina, quale disciplina in vigore al tempo della cessazione della condotta. Trattavasi nella fattispecie concreta di un omicidio colposo plurimo, causato da inosservanza della normativa antinfortunistica in tema di protezione dagli effetti nocivi dell'amianto. La condotta risultava interamente posta in essere durante la vigenza della legge antecedente all'intervento della l. n. 251/2005, mentre il decesso delle persone offese si era verificato dopo l'entrata in vigore di tale norma (la quale risulta, sul punto, più sfavorevole al reo). La Corte ha come detto giudicato applicabile il previgente testo dell'art. 157 (si veda Cass. IV, n. 13582/2019; il principio si trova già espresso in Cass. IV n. 16026/2018). Le questioni di costituzionalitàSi segnalano alcune questioni di legittimità costituzionale, distinguendo quelle dichiarate infondate dalla stessa Corte costituzionale da quelle invece ritenute non fondate dalla Corte di cassazione. Quelle dichiarate infondate dalla Corte costituzionale. Tra queste citiamo innanzitutto la questione di legittimità dell'art. 10 comma 3 l. 5 dicembre 2005, n. 251, che è stata posta con riferimento agli artt. 3, 10 e 11 Cost., nella parte in cui esclude l'operatività dei più favorevoli termini di prescrizione ai processi già pendenti in appello, al momento dell'entrata in vigore della legge medesima (Corte cost. n. 72/2008). Questione similare si è posta in relazione al medesimo art. 10 comma 3 l. 5 dicembre 2005, n. 251 — per asserito contrasto con l'art. 117 Cost. e con l'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con l. 4 agosto 1955, n. 848 — laddove è esclusa l'applicabilità dei più brevi termini prescrizionali, in ordine ai processi che, alla data di entrata in vigore della legge, risultino già pendenti in grado d'appello oppure in Cassazione (Corte cost. n. 72/2008). La Consulta ha inoltre dichiarato non fondate alcune questioni concernenti i commi 1 e 5 dell’art. 157, che erano sospettati di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost. Il Giudice delle leggi ha qui precisato che le pene irrogate dal Giudice di pace — di natura esclusivamente pecuniaria — sono da ricondurre sotto l’egida normativa del primo e non del quinto comma dell’art. 157; tale ultima previsione normativa, infatti, ha riguardo a quei «reati non puniti con una pena detentiva o pecuniaria e cioè, in definitiva, a reati per i quali le pene para-detentive siano previste dalla legge in via diretta ed esclusiva» (Corte cost. n. 2/2008). Quelle dichiarate infondate dalla Corte di Cassazione La Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità inerente all'art. 10 l. 5 dicembre 2005, n. 251 — perché sospettato di contrasto con gli artt. 3, 11, 117 Cost. e 49 comma 1 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (come sostituita dalla Carta proclamata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, in vigore dal giorno 1 dicembre 2009, data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona) — laddove esclude dall'operatività dei nuovi termini prescrizionali vigenti i processi che, alla data di entrata in vigore della legge, siano pendenti in appello o cassazione. La Corte ha qui osservato che l'art. 49 succitato, a differenza dell'art. 2 che regola la successione delle leggi penali nel tempo, si riferisce esclusivamente alle norme incriminatrici propriamente dette (Cass. II, n. 46884/2011). Il Supremo Collegio ha poi ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale inerente alla norma in commento — in relazione agli artt. 3 e 111 Cost. — laddove equipara il termine di prescrizione previsto per i delitti puniti con la sola pena pecuniaria a quelli invece sanzionati con pena detentiva. La Corte ha osservato che il diverso regime prescrizionale poggia non sul tipo di sanzione irrogata, bensì sulla natura dell'illecito, differenziandosi i trattamenti in base al fatto che si tratti di delitti o di contravvenzioni (Cass. fer., n. 30218/2011). Ambito di operatività del termineMolti interpreti della norma hanno, nel corso del tempo, invocato una riforma che recidesse i legami esistenti fra lo scorrere del termine prescrizionale e lo svolgimento del giudizio; in tal modo, si sarebbero tenute separate le ragioni attinenti alla durata presuntiva della volontà punitiva dell'ordinamento e quelle invece concernenti il contenimento, entro tempi consoni, del processo. Ciò sarebbe servito a “rimediare al paradossale fenomeno dell'oblio sciente, cui si assiste nel nostro ordinamento allorché la presunzione di dimenticanza viene a maturazione durante il rito della memoria che si celebra nel processo penale” (Micheletti, 355). L'attuale stesura della norma — non recependo tali istanze — vincola invece il termine della prescrizione estintiva del reato allo snodarsi dell'iter processuale. Il meccanismo congegnato dal legislatore ha reso la stragrande maggioranza delle fattispecie di reato — molte delle quali anche di alta offensività — suscettibili di giungere alla prescrizione entro un tempo palesemente insufficiente, in concreto, per giungere ad un accertamento definitivo; in relazione ad alcuni reati di maggior gravità, al contrario, il tetto prescrizionale si è inutilmente dilatato in maniera abnorme. Precisiamo infine che il calcolo del termine di prescrizione deve essere operato facendo riferimento alla qualificazione giuridica che venga ritenuta al momento della decisione, ossia sussunta in sentenza (Pisa, 82). Rapporti con il rito alternativo ex art. 444 c.p.p.
Prima della legge di riforma più volte richiamata — dunque allorquando le circostanze attenuanti avevano una incidenza determinante, al fine di individuare la pena da prendere in considerazione per il calcolo della prescrizione — costituiva ancoraggio fermo, nella dottrina e nella giurisprudenza, la ininfluenza dei riti premiali sulla durata del termine di prescrizione del reato. Ciò costituiva il precipitato logico delle marcate differenze ontologiche e strutturali, esistenti fra la diminuente collegata al rito e la diminuzione collegata alle circostanze del reato. Il tema ha ormai completamente perso consistenza. E infatti, secondo l'ormai pacifico insegnamento del Supremo Collegio, il giudice che si trovi a valutare l'accordo finalizzato all'applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.– una volta superato il vaglio preliminare, in ordine alla eventuale sussistenza dei requisiti utili alla pronuncia ex art. 129 c.p.p. - ha dinanzi solo due epiloghi possibili: l'accoglimento o il rigetto dell'accordo stesso. Deriva da ciò che la ricomprensione – all'interno dell'accordo intercorso fra le parti - di circostanze attenuanti, incide esclusivamente sull'entità della pena da irrogare e non sulla durata del termine prescrizionale, così da farne conseguire anche la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione (Cass. S.U., n. 18/2000). Rapporti con la non punibilità per particolare tenuità del fatto. Cass. 1, n. 43700/2021 è intervenuta sul tema del rapporti esistente fra la prescrizione e l'istituto di cui all'art. 131 bis. Secondo la decisione del Supremo Collegio, la declaratoria di estinzione del reato che sia determinate dal decorso del termine di prescrizione deve prevalere sulla esclusione della punibilità dichiarata ex art. 131 bis, ossia in presenza di un fatto da considerarsi di particolare tenuità. L'estinzione per prescrizione estingue infatti il reato in radice ed ha quindi un effetto più favorevole per l'imputato; il secondo istituto non tocca invece la stretta oggettività del fatto e il suo intrinseco disvalore penale. Disposizioni in tema di circostanzeIl computo delle circostanze e il giudizio di bilanciamento Sotto l'impero della precedente formulazione dell'istituto, era riconosciuto al giudice il potere di valutare — ai fini dell'applicazione del termine prescrizionale — la fattispecie di reato oggetto di giudizio nella sua interezza; ossia, all'esito di eventuali diminuzioni scaturenti dal riconoscimento di circostanze attenuanti. E in virtù di tale intervento, era anche possibile ottenere un diverso termine di prescrizione. La norma, nella veste assunta all'esito della sopra ricordata riforma del 2005, stabilisce invece un meccanismo di calcolo del termine prescrizionale che è sostanzialmente impermeabile, rispetto all'influenza delle forme di manifestazione del reato. Le circostanze attenuanti ed aggravanti, pertanto, non possono più entrare nel computo della pena edittale, ai fini dell'individuazione del termine di prescrizione vigente in relazione all'ipotesi di reato per la quale si procede. L'unica eccezione alla regola della ininfluenza delle circostanze, in sede di determinazione della pena ai fini dell'individuazione del termine di prescrizione, è dettata dal legislatore con riferimento alle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena diversa da quella ordinaria, nonché alle circostanze aggravanti ad effetto speciale (dunque quelle che — ai sensi dell'art. 63 comma 3 ultimo periodo c.p. — importano un aumento della pena in misura eccedente il terzo). In tale ultimo caso, si terrà conto dell'aggravante nella sua massima estensione, ossia prendendo in considerazione l'aumento massimo di pena ivi previsto. Ricordiamo che la recidiva reiterata presenta la forma, la struttura e la funzione di circostanza aggravante a effetto speciale; come tale essa incide sulla determinazione del tempo necessario per il maturare del termine prescrizionale, determinandone un allungamento anche rilevante. Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, inoltre, la recidiva reiterata può essere computata soltanto in sede di individuazione del termine ordinario di prescrizione e non, contemporaneamente, anche di quello massimo. Operazione che finirebbe per porre più volte a carico del soggetto il medesimo elemento, in spregio del principio del ne bis in idem sostanziale (questo è l'orientamento di Cass. VI, n. 47269/2015). In senso contrario, si è sottolineato come il contestuale computo della recidiva al duplice fine suddetto (di individuare prima la pena-base in relazione alla quale computare il termine ordinario di prescrizione e poi il relativo termine massimo), non implichi alcun a violazione del principio del ne bis in idem sostanziale secondo i principi definiti dall'art. 4 CEDU (è l'orientamento sposato, da ultimo, da Cass. VI, n. 50089/2016 e Cass. VI, n. 48954/2016). La giurisprudenza di legittimità, nel suo massimo consesso (Cass. S.U. n. 49935/2023), ha precisato che – in punto di determinazione del periodo di tempo occorrente per il consolidarsi dell’effetto estintivo legato alla prescrizione - l’aumento sanzionatorio derivante dalla recidiva, allorquando questa integri una circostanza aggravante ad effetto speciale, non può essere computato, se la recidiva stessa sia stata contestata in via suppletiva, dopo che era già decorso il termine di prescrizione fissato, in relazione al reato secondo la originaria contestazione. I Giudici di legittimità hanno poi anche ripetutamente spiegato come sia destinata a restare priva di effetti la contestazione di recidiva, che si collochi in un momento temporalmente successivo rispetto al concretizzarsi dei presupposti necessari per la declaratoria di estinzione per prescrizione. In presenza di reato ormai prescritto, l'impossibilità di procedere alla contestazione di recidiva e così di pronunciare sentenza di condanna (eventualmente corredata da statuizioni di tipo civilistico) deve quindi ritenersi preclusa; ciò in ragione del fatto che – allorquando sia maturato il termine di prescrizione - la prosecuzione del processo è inconciliabile con l'obbligo di immediata declaratoria della causa estintiva. Il principio di diritto è quindi nel senso che la contestazione di recidiva, alla quale consegua il prolungamento dei termini di prescrizione, che sia effettuata successivamente al maturare del termine di prescrizione, non possa valere a far rivivere un reato estinto (così Cass. VI, n. 47499/2015 e, da ultimo, Cass. II, n. 37884/2020; si veda anche Cass. VI, n. 55748/2017, sul tema della irrilevanza della contestazione suppletiva di una circostanza aggravante, allorquando il termine di prescrizione sia ormai spirato). Stando alla notizia di decisione attualmente disponibile, i contrasti giurisprudenziali che - sul punto specifico - si sono agitati, sono stati definitivamente ricomposti dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione all'udienza del 28/09/2023. Il massimo consesso di legittimità, dunque, ha deciso che - ai fini della determinazione del termine di prescrizione del reato - l'aumento di pena relativo alla recidiva, allorquando la stessa costituisca circostanza aggravante a effetto speciale, non vada computato, nel caso in cui la contestazione della recidiva sia avvenuta in via suppletiva, una volta già definitivamente spirato il termine di prescrizione dettato per il reato, nella originaria contestazione.
L'indifferenza delle forme circostanziate, in sede di calcolo della pena edittale ai fini che ora interessano, ha come logico corollario la abolizione del giudizio di bilanciamento ex art. 69, che era invece previsto dalla normativa antecedente Il dettato del comma 3 – che come detto esclude la possibilità di giudizio di bilanciamento – risulta in realtà pleonastico, stante l'inequivocabile tenore della vigente legislazione. La suddetta ininfluenza delle circostanze attenuanti, in sede di determinazione della pena da porre a base del calcolo del termine prescrizionale, rende infatti in radice impossibile qualsivoglia comparazione ex art. 69; e quindi, rende superflua la espressa dizione normativa. La esclusione della rilevanza delle circostanze attenuanti generiche – con riferimento in particolare alle attenuanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria, nonché a quelle ad effetto speciale - ha peraltro anche superato indenne il vaglio di costituzionalità (Corte cost. n. 324/2008). Secondo la Corte, in tema di determinazione del tempo necessario a prescrivere, l'aumento della pena conseguente all'applicazione di una circostanza aggravante deve essere valutato pure se questa sia stata contestata in via suppletiva, dopo la scadenza del termine di prescrizione inerente al reato non aggravato, a patto però che la contestazione stessa sia intervenuta prima dell'emissione della sentenza (Cass. V, n. 26822/2016; ). La Corte di Cassazione ha poi anche precisato come la mera contestazione di un'aggravante ad effetto speciale non possa produrre in maniera automatica il risultato di prolungare il termine di prescrizione del reato, allorquando tale circostanza non venga ritenuta in sentenza (dunque non venga richiamata dal giudice in motivazione o in dispositivo e neppure presa in considerazione, in sede di determinazione della pena da comminare). Ciò sta a significare che – prescindendo appunto dalla mera contestazione – occorre che tale circostanza, perché possa produrre effetti sul termine di prescrizione, venga poi o espressamente menzionata in motivazione o in dispositivo, oppure anche computata quoad poenam (Cass. V, n. 27632/2019). La «soggettivizzazione» del termine (rinvio) Si tratta di uno dei temi maggiormente spinosi, tra quelli posti dalla attuale modulazione legislativa della prescrizione. Per una trattazione più diffusa del tema - riguardante l'intero tema della soggettivizzazione del limite massimo di prescrizione - rinviamo alla sede più opportuna, che è il commento all'art. 161. Evidenziamo solo che il meccanismo di calcolo creato dal legislatore inserisce dei parametri che conducono a termini anche molto diversi tra loro; tali coefficienti sono essenzialmente fondati sulla valutazione della vita anteatta del soggetto sottoposto a giudizio. Vengono quindi stabiliti parametri diversi di aumento del tetto prescrizionale, che sono basati sul fatto che si tratti di soggetto che versi o meno in una condizione di recidiva ex art. 99, ovvero nei confronti del quale sia intervenuta declaratoria quale delinquente abituale (art. 102 o 103), ovvero professionale (art. 105). L'opzione di introdurre differenziazioni del tetto prescrizionale fondate sullo status personale del giudicabile è stata, peraltro, aspramente censurata dai commentatori. Ne è infatti apparsa ben poco chiara la ratio, “A meno che — è ovvio — non ci si voglia avvalere del giudizio penale, e soprattutto degli strumenti a disposizione dell'accusa, come un'aberrante forma di controllo dei criminali più incalliti. Si tratterebbe tuttavia di una linea di politica criminale — forse anche non spiacente al Legislatore storico — così irriducibilmente incompatibile con il principio di eguaglianza da non sollevare dubbi sulla sua illegittimità” (Micheletti, 358). La recidiva che sia stata solo contestata all'imputato, poi ritenuta ma non applicata dal giudice di merito, in quanto valutata subvalente rispetto ad una circostanza attenuante, non inciderà sul computo del termine di prescrizione (Cass. II, n. 53133/2016). Segnaliamo Cass. S.U. n. 20808/2019, a mezzo della quale le Sezioni Unite penali hanno cristallizzato il seguente principio di diritto: «La valorizzazione dei precedenti penali dell’imputato per la negazione della attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee; in tal caso la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato». La Corte ha qui approfondito varie tematiche, attinenti alle caratteristiche strutturali specifiche e alle peculiarità funzionali della recidiva, trattandosi di circostanza non esclusivamente incidente sul trattamento sanzionatorio, bensì anche produttiva di ulteriori effetti indiretti. Tra questi, sono stati espressamente menzionati i riflessi che la recidiva produce sulle sorti della punibilità, in particolare richiamandosi l’aumento del tempo occorrente per il consolidamento del termine ordinario e di quello massimo di prescrizione. Tematiche applicativeVerranno ora passate in rassegna le questioni di natura pratica ed attuativa che sembrano di maggior rilievo e che, all'indomani dell'intervento della ex Cirielli, si sono più aspramente agitate in dottrina e in giurisprudenza. Con l'avvertenza che, in riferimento alle questioni ivi affrontate, sarà poi possibile verificare l'orientamento del Supremo Collegio, nella parte dedicata alla casistica. Segue. In relazione alla ricettazioneNel caso in cui sia contestato il delitto di cui all'art. 648, l'ipotesi di particolare tenuità prevista dal comma 3 rappresenta una circostanza attenuante; non deve pertanto essere computata, in sede di individuazione della pena edittale, ai fini dell'individuazione del termine prescrizionale. Segue. In relazione alla confisca (rinvio)Per una approfondita disamina delle questioni maggiormente interessanti, in materia di rapporti fra prescrizione e confisca, rinviamo ovviamente al commento inerente all'art. 240. Ci limitiamo a richiamare qui il tema dei rapporti fra la prescrizione e la confisca, conseguente al reato di lottizzazione abusiva. La Cedu è intervenuta sul punto affermando il principio secondo il quale deve considerarsi illegittima la confisca del bene, a fronte della declaratoria di prescrizione del reato (Corte EDU del 29 ottobre 2013 nel caso Varvara c. Italia). Analoga posizione aveva del resto assunto la Corte di Cassazione, laddove aveva ritenuto che l'estinzione del reato di lottizzazione abusiva — maturata ancor prima dell'esercizio dell'azione penale — inibisse al giudice la possibilità di compiere i necessari accertamenti attinenti agli elementi costitutivi oggettivi e soggettivi del reato, ai fini dell'emissione della misura di sicurezza reale (vedere Cass. III, n. 5857/2011 riportata anche in casistica). Segnaliamo però la presenza di alcuni arresti di segno contrario, ad opera del Supremo Collegio. La Corte ha infatti statuito che il giudice – in presenza di una lottizzazione abusiva - può procedere alla confisca del bene lottizzato, sulla base di adeguata motivazione in ordine alla riconducibilità soggettiva del fatto all'imputato (Cass. III, n. 16803/2015; sulla stessa direttrice interpretativa si è situata Cass. IV, n. 31239/2015). Trattasi dell'orientamento emerso all'indomani della pronuncia della Consulta (Corte cost. n. 49/2015), che – pur tenendo adeguatamente conto dei suddetti principi enunciati dalla CEDU nella sentenza Varvara – ha chiarito come non possa essere aprioristicamente escluso che una declaratoria di estinzione per prescrizione si accompagni ad una motivazione analitica ed approfondita in punto di responsabilità, utile ai fini della confisca. Misura che comunque il giudice penale – a norma dell'art. 44 comma 2 d.P.R. n. 380/2001 - è sempre tenuto ad adottare, contestualmente a sentenza che accerti in via definitiva la sussistenza di una lottizzazione abusiva. In questa pronuncia la Corte Costituzionale, dunque, ha fornito una difforme lettura degli indirizzi convenzionali, ha infatti ritenuto erronea una interpretazione della sentenza Varvara dalla quale si intenda desumere l'esistenza di un legame necessitato fra confisca e sentenza irrevocabile di condanna per il reato di lottizzazione abusiva. Cass. S.U., n. 13539/2020 ha infine risolto il contrasto esistente in giurisprudenza, dando continuità all'orientamento secondo il quale la confisca ex art. 44 d.P.R. n. 380/2001 può essere disposta anche al ricorrere della causa estintiva della prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, a patto però che l'esistenza del fatto sia stata già accertata –sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo – all'esito di un giudizio che abbia garantito il pieno contraddittorio fra le parti e la più ampia partecipazione degli interessati. Resta salvo il principio in base al quale – una volta che sia intervenuta tale causa estintiva - il giudizio, in ossequio al dettato dell'art. 129, comma 1 c.p.p., non può proseguire al solo scopo di effettuare tale accertamento. Laddove venga dichiarata – in sede di giudizio di impugnazione - l'estinzione per prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, il giudice d'appello e la Corte di Cassazione devono anche decidere sul gravame, a norma dell'art. 578-bis c.p.p., agli effetti della confisca de qua. Richiamiamo infine il tema inerente al rapporto fra prescrizione e confisca di cose che rappresentano il prezzo del reato. Qui non vi sono ulteriori dubbi, circa la confiscabilità di ciò che rappresenti prezzo o profitto del reato. A patto ovviamente che — in primo luogo — un accertamento nel merito vi sia stato; e inoltre, che i profili attinenti alla sussistenza del fatto, nonché alla riferibilità soggettiva al giudicabile e, infine, alla qualificazione giuridica del bene da apprendere, siano restati del tutto inalterati, nello snodarsi dei diversi gradi di giudizio. Resta invece inibita la confisca per equivalente. Sul tema della confiscabilità diretta delle cose costituenti prezzo o profitto del reato, si potrà vedere Cass. S.U. n. 31617/2015. Nella quale la Corte ha stabilito che - in caso di estinzione del reato per prescrizione - il giudice è legittimato a disporre la confisca diretta di ciò che rappresenta il prezzo o il profitto del reato. L'unica condizione risiede nel fatto che vi sia una condanna e che le statuizioni inerenti alla sussistenza del fatto delittuoso, nonché alla riconducibilità dello stesso al reo e, infine, alla qualità da attribuire al bene, permangano nei gradi ulteriori del processo. La medesima pronuncia ha peraltro affrontato anche il tema della esperibilità in tale caso (declaratoria di estinzione per prescrizione) della confisca per equivalente delle cose che rappresentano prezzo o profitto del reato, risolvendo la questione in senso negativo. Segue. In relazione alle sanzioni amministrativeIl principio di diritto è qui nel senso della sostanziale diversità ontologica dei due profili. Un eventuale accertamento del fatto compiuto all'interno del processo penale, infatti, non viene meno per effetto della eventuale declaratoria di estinzione del reato stesso. L'accertamento suddetto continuerà invece ad esplicare effetti, ai soli fini della sanzione amministrativa eventualmente inflitta. Per cui: laddove risulti prescritto un determinato fatto-reato, la declaratoria di estinzione dello stesso non comporta anche l'estinzione della sanzione amministrativa eventualmente comminata unitamente alla pena (vedere giurisprudenza sotto riportata). Secondo i Giudici di legittimità, la declaratoria di estinzione per prescrizione (si trattava — nella concreta fattispecie — di una contravvenzione per guida in stato di ebbrezza) della pronuncia in sede penale, non determina anche l'estinzione della sanzione amministrativa eventualmente irrogata contestualmente a quella (Cass. II, n. 42557/2004). Segue. In relazione all'ordine di demolizione nei reati ediliziOccorre premettere un cenno sulla natura dell'ordine di demolizione, che è una sanzione amministrativa avente un connotato squisitamente ripristinatorio; una sanzione dunque priva di specifiche finalità punitive e che riverbera effetti nella sfera giuridica di colui che si trovi in rapporto col bene, pure indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso. Nonostante tale sostanziale diversità fra le due modalità sanzionatorie, il consolidato orientamento giurisprudenziale tende a negare autonomia all'ordine di demolizione. Sottolineandone soprattutto la natura di sanzione amministrativa appartenente alla tipologia delle sanzioni ablatorie, nelle quali è comunque prevalente il carattere della accessorietà rispetto all'accertamento giudiziale conclusosi con l'emissione di condanna (vedere giurisprudenza sotto riportata). L'ordine di demolizione presuppone l'esistenza di una pronuncia di condanna, non essendo bastevole la sentenza che si limiti a dichiarare lo spirare del termine prescrizionale (Cass. III, n. 50441/2015; nello stesso senso, si veda Cass. III, n. 756/2011). Cass. III, n. 41498/2016 ha infine ben delineato la natura giuridica dell’ordine di demolizione emesso dal giudice con la sentenza di condanna, a norma dell’art. 31 comma 9 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. Trattasi dunque di una sanzione amministrativa che assolve ad una funzione ripristinatoria, rispetto al bene giuridico offeso dal reato; una sanzione che – al fine di assicurare la tutela al territorio - impone un “fare” al destinatario; che non ha uno scopo di tipo punitivo e che riveste un connotato eminentemente reale, incidendo essa nella sfera giuridica del soggetto che si trovi in rapporto con il bene da demolire, pur se estraneo alla perpetrazione del reato. Tutto ciò considerato - ha chiarito ancora il Supremo Collegio - l’ordine di demolizione presenta peculiarità tali che lo differenziano nettamente dal concetto di pena, nel senso tratteggiato dalla giurisprudenza della CEDU. Segue. La prescrizione e le pretese risarcitorieLa regola generale operativa in materia indica come, dall'estinzione del reato per prescrizione, derivi la caducazione anche del potere del giudice di emettere sentenza, in ordine alle pretese di tipo restitutorio azionate all'interno del processo penale. Il decorso del termine di prescrizione, relativo al diritto al risarcimento dei danni, derivanti da reato — laddove la relativa azione sia stata esercitata in ambito penale — resta inoltre interrotto per l'intera durata del processo penale, per poi riprendere a decorrere dal momento del passaggio in giudicato della sentenza in sede penale. Segnaliamo anche che — allorquando sia appurato il consolidarsi del termine di prescrizione in un momento antecedente all'emissione della sentenza di condanna — il giudice d'appello dovrà non solo emettere declaratoria di estinzione del reato, ma anche caducare le eventuali statuizioni di natura civilistica contenute nella sentenza di primo grado. Nel paragrafo dedicato alla casistica sono riportate le decisioni che interessano, sul punto specifico. Le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato il principio di diritto secondo il quale – nei confronti sia di sentenza di primo grado che abbia pronunciato declaratoria di estinzione del reato contestato per intervenuta prescrizione, sia di sentenza confermativa di tale decisione emessa dalla Corte d'Appello – è consentita l'impugnazione ad opera della parte civile, che si dolga dell'erronea applicazione della causa di estinzione della prescrizione (Cass. S.U., n. 28911/2019). La rinuncia alla prescrizioneLa disposizione normativa in commento stabilisce che la prescrizione è sempre espressamente rinunciabile ad opera dell'imputato. Trattasi di diritto personalissimo, spettante in via esclusiva all'imputato e non rientrante nell'alveo delle facoltà connesse al conferimento del mandato difensivo. Esso può inoltre essere esercitato soltanto dopo che si sia consolidato il termine prescrizionale, dovendosi ritenere priva di effetti giuridici una dichiarazione di rinuncia fatta in vista del futuro spirare del termine. Inoltre, una volta che si sia esercitata la facoltà di rinunciare, tale dichiarazione non è più ritrattabile ed esplica effetti durante l'intero svolgersi della vicenda processuale. Infine, l'utilizzo del termine «espressamente» vale ad escludere che possa rinunciarsi alla prescrizione mediante il compimento di atti processuali, valutabili quale facta concludentia (v. Bonilini e Confortini, 930). Evidenziamo come la parte della giurisprudenza di legittimità ritenga ammissibile la revoca della rinuncia, a patto che tale dichiarazione non abbia già riverberato effetti sulla regiudicanda, venendo magari posta a fondamento di una pronuncia di condanna. Si segnala l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale, in ordine al tema della revocabilità della dichiarazione di rinuncia alla prescrizione portata a conoscenza dell'A.G. E infatti la recente Cass. VI, n. 17598/2021ha espresso il principio di diritto secondo il quale la dichiarazione di rinuncia alla prescrizione già maturata produce definitivamente i propri effetti tipici, in coincidenza con la conoscenza di tale manifestazione di volontà da parte dell'autorità giudiziaria. Allorquando quindi tale volontà sia portata a conoscenza dell'a.g., la rinuncia produce il risultato di rimuovere il divieto di procedere oltre; tale divieto verrà dunque ad essere sostituito da un dovere contrario, consistente nell'obbligo di proseguire nell'espletamento dell'azione penale. E la genesi di tale dovere sarà da rinvenire proprio nella volontà dell'imputato, che avrà quindi espresso una “autorizzazione” non più eliminabile dallo stesso mediante una dichiarazione di revoca della rinuncia (nel medesimo senso si era espressa Cass. 5, n. 33344/2008). Un diverso orientamento considera comunque irrevocabili gli effetti della dichiarazione di rinuncia, ma ne restringe l'ambito di applicazione al ricorrere di alcuni requisiti. Si è quindi ritenuta revocabile la dichiarazione di rinuncia alla prescrizione, a patto che tale manifestazione di volontà non abbia già prodotto i suoi effetti, in quanto recepita in un provvedimento del giudice riguardante la "regiudicanda" (così Cass. 3, n. 8350/2019 e Cass. 6, n. 30104/2012). Secondo tale linea interpretativa, dunque, la dichiarazione di rinuncia alla prescrizione possa legittimamente essere revocata, a patto che non abbia già interamente prodotto i suoi effetti, per esser stata valorizzata in una sentenza di condanna (Cass. V, n. 11071/2014). La Corte ha poi anche stabilito l'ammissibilità della rinuncia alla prescrizione del reato, che sia già stata dichiarata in sentenza di primo grado, a patto però che l'imputato provi di non esser stato incolpevolmente a conoscenza dell'esistenza del processo promosso a suo carico. In tal caso, la proposizione del gravame diviene il primo momento utile per l'espressione della volontà di rinunciare (Cass. III, n. 4946/2012). Il diritto di rinunciare al consolidamento del termine di prescrizione postula poi necessariamente la forma espressa; questa non ammette tacite manifestazioni di volontà che siano dotate di valenza ad essa equiparabile. Il tema non è ormai più controverso, all'indomani dell'intervento di Cass. S.U., n. 18953/2016. Trattasi di questione che peraltro era già giunta all'attenzione delle Sezioni Unite in passato. In quella occasione, però, il quesito non era stato affrontato perché ritenuto irrilevante in relazione alla concreta fattispecie sub iudice, in quanto nessuno dei plurimi reati oggetto di applicazione pena risultava coperto da prescrizione in momento anteriore rispetto alla pronuncia della sentenza di patteggiamento (Cass. S.U., n. 5838/2013). Deve dunque ritenersi definitivamente chiarito come la richiesta exart. 444 c.p.p. - o magari l'adesione del soggetto alla proposta in tal senso formulata dal P.M. - non costituiscano equipollenti della rinuncia alla prescrizione; la dichiarazione di cui all'art. 157, comma 7 c.p. non può dunque esser sostituita da espressioni di contenuto assimilabile, né esser desunta da condotte processualmente significative. Casi di prescrizione c.d. “rinforzata”L'ultimo comma della norma in esame detta i casi di c.d. prescrizione rinforzata. Si tratta di fattispecie di reato in relazione alle quali vige un termine raddoppiato di prescrizione; la ratio della previsione — di carattere eccezionale rispetto alle regole ordinarie di computo del termine prescrizionale — è stata correttamente individuata nel fatto oggettivo di esser qui previste fattispecie di reato che normalmente postulano lo svolgimento di indagini estremamente lunghe e complesse. Il risultato è che — appunto mediante il raddoppio dei termini — si ottengono effettivamente tempi di prescrizione estremamente dilatati (Bricchetti e Pistorelli, 86). Giova precisare che — sull'impianto originario della norma — si sono succeduti nel tempo diversi interventi del legislatore. Ricordiamo infatti la l. n. 125/2008, la l. n. 172/2012 e infine la l. n. 68/2015. La Consulta ha inoltre dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo in esame, nella parte in cui include fra i reati per i quali è previsto il raddoppio del termine prescrizionale anche la fattispecie di reato di incendio colposo ex art. 449 (Corte cost., n. 143/2014). Dunque, attualmente le eccezioni alla regola ordinaria di computo del termine di prescrizione sono dettate, anzitutto, in relazione alle fattispecie di reato di omicidio colposo di cui all'art. 589 commi 2 e 3, nonché in ordine alle nuove fattispecie di omicidio stradale ex art. 589-bis, come introdotto nell'ordinamento ad opera della l. n. 41/2016. Ricordiamo sul punto che l'art. 3 lett. a) di tale novella ha modificato l'art. 157, sostituendo le originarie parole «589, secondo, terzo e quarto comma » ivi contenute, con la seguente attuale dizione: «589, secondo e terzo comma, e 589-bis». La medesima disposizione ha poi — alle lett. c) ed e) — soppresso il riferimento contenuto negli artt. 589 e 590 alla disciplina sulla circolazione stradale, nonché — alle lett. d) ed f) — abrogato i commi ed i richiami rispettivamente riferiti alle violazioni alle norme sulla circolazione stradale. L'intera disciplina è infatti sostanzialmente transitata — previe modifiche strutturali e sanzionatorie — sotto l'egida normativa degli artt. 589-bis e 589-ter, nonché 590 bis, 590-ter e 590-quater. Deriva da tale nuovo assetto che sono attualmente riconducibili entro l'alveo dei casi sottoposti a prescrizione raddoppiata, in primo luogo, l'omicidio colposo commesso con violazione delle norme che regolamentano la prevenzione degli infortuni sul lavoro e l'omicidio plurimo. Parimenti assoggettato a raddoppio dei termini è l'omicidio stradale ex art. 589-bis nella sua interezza. La stessa disciplina vige in ordine ai reati indicati nell'art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. ed ai reati indicati nel Titolo VI bis del Libro secondo (dunque, delitti contro l'ambiente indicati dall'art. 452-bis all'art. 452-terdecies); vi è poi il raddoppio della prescrizione per il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all'art. 572, oltre che per i reati indicati dalla Sezione Prima del Capo Terzo del Titolo XII del Libro Secondo (il riferimento è alle fattispecie comprese tra l'art. 600 e l'art. 604 incluso). Vengono poi raddoppiati i termini di prescrizione, anche con riferimento alle fattispecie di reato di violenza sessuale previste dagli artt. 609-bis, 609-quater, 609-quinquies e art. 609-octies. La l. n. 133/2016 (in vigore dal 2 agosto 2016), ha novellato l’art. 375, introducendo il reato di frode in processo penale e depistaggio. Il terzo comma di tale disposizione normativa prevede l’introduzione dell’art. 383-bis, che contiene circostanze aggravanti applicabili agli artt. 371-bis, 371-ter, 372, 373, 374 e 375; è dunque previsto che «la pena è della reclusione da quattro a dieci anni se dal fatto deriva una condanna alla reclusione non superiore a cinque anni; è della reclusione da sei a quattordici anni se dal fatto deriva una condanna superiore a cinque anni; è della reclusione da otto a venti anni se dal fatto deriva una condanna all'ergastolo». Il comma 4 del medesimo art. 1 l. 133/2016 stabilisce poi – al ricorrere appunto del fatto aggravato tipizzato dall’art. 375 comma 3 – che i relativi termini di prescrizione siano raddoppiati. E infatti, all’art. 157 comma 6 primo periodo, dopo le parole: «agli articoli» vengono inserite le seguenti parole: «375, terzo comma». Le fattispecie non soggette a prescrizioneL'ultimo comma della norma in commento stabilisce la imprescrittibilità dei reati per i quali la legge preveda la pena dell'ergastolo, anche come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti. Quali esempi di fattispecie delittuose non soggette a termine di prescrizione, si possono menzionare l'omicidio aggravato, la strage, il sequestro di persona a scopo di estorsione da cui derivi la morte del sequestrato. Trattasi insomma di ipotesi criminose di enorme gravità, in relazione alle quali l'ordinamento evidentemente ritiene — a ragione — che il tempo non possa svolgere la funzione di affievolire il ricordo, di elidere la gravità, di diminuire l'eco e far scemare l'interesse collettivo alla punizione dei responsabili; in dottrina si è infatti scritto che la imprescrittibilità di tali fattispecie di reato è stabilita dal legislatore “in considerazione della loro gravità, del fatto che più a lungo durano nel ricordo degli uomini e quindi non attenuano l'interesse statale alla loro repressione” (Fiandaca-Musco, 465). Parte della dottrina ed un determinato filone giurisprudenziale hanno ritenuto — in tema di successione di leggi penali — che al reato di omicidio aggravato, temporalmente collocato sotto l'impero dell'art. 157 nella veste antecedente alla ex Cirielli del 2005, dovesse continuare ad applicarsi la normativa sulla prescrizione vigente al momento del fatto. Tali disposizioni, infatti, risultano più favorevoli al reo nella parte in cui consentono — per effetto di circostanze attenuanti comuni o speciali, ritenute dal giudice e rapportate rispetto all'aggravante con il criterio della prevalenza o dell'equivalenza di elidere l'effetto dell'aggravante stessa. E così, di rendere soggetto a prescrizione anche il reato di omicidio aggravato. Su questo aspetto, si è sviluppato un aspro contrasto nella giurisprudenza di legittimità, ormai però risolto. La quaestio iuris affrontata dalle Sezioni Unite consisteva dunque nello stabilire la possibilità, o meno, che giungessero a prescrizione delitti sanzionabili astrattamente con l'ergastolo, che fossero stati perpetrati prima del giorno 8 dicembre 2005 (ossia, prima dell'intervento della più volte citata l. n. 251/2005), laddove il concorso di circostanze avesse cagionato l'applicazione di pena temporanea. E le Sezioni Unite hanno affermato la pacifica imprescrittibilità di tutti i delitti sanzionati in astratto con l'ergastolo e poi, in concreto, effettivamente puniti con pena perpetua. Pertanto, il delitto astrattamente sanzionabile con la pena dell'ergastolo - che sia stato perpetrato in epoca antecedente rispetto alla novella dell'art. 157, operata dalla l. 5 dicembre 2005, n. 251 - è comunque sempre imprescrittibile, anche laddove ricorrano circostanze attenuanti che comportino l'irrogazione di pena detentiva di carattere temporaneo (Cass. S.U., n. 19756/2016). Giova infine precisare — sempre in tema di imprescrittibilità di alcune fattispecie tipiche — che ai sensi dell'art. 7 secondo comma Cedu non vige il principio della irretroattività della legge incriminatrice, in relazione ai crimini contro l'umanità che offendono interessi transazionali. La diretta conseguenza di tale assunto è che, con riferimento al delitto di strage, non opera la regola che impone l'applicazione della norma più favorevole al reo, in caso di successione di leggi penali nel tempo. Avendo quindi riguardo all'assetto normativo vigente, in tema di reati puniti con la pena astratta dell'ergastolo — non soggetti alla causa estintiva in esame, a norma dell'art. 157 ultimo comma — la disciplina dell'imprescrittibilità trova applicazione anche ai fatti in grado di integrare il modello legale della strage, che si collochino temporalmente in epoca antecedente, rispetto alla novella di cui alla l. n. 251/2005. Ipotesi particolari di prescrizioneVerranno ora enucleate alcune fattispecie di reato, in relazione alle quali operano termini di prescrizione diversi rispetto a quelli che si otterrebbero mediante gli ordinari criteri di calcolo sin qui esposti. In primo luogo, quindi, verranno poste in evidenza le particolarità attinenti alla materia finanziaria. Si tratterà poi brevemente la materia dei reati elettorali. Infine, la questione attinente all'illecito amministrativo derivante dalla commissione di reato, ai sensi e per gli effetti del d.lgs. n. 231/2001. Segue. Nei reati finanziariQuali ipotesi particolari di prescrizione, citiamo dunque in primo luogo la materia dei reati finanziari. La disciplina in materia di prescrizione è qui dettata dall'art. 17 d.lgs. n. 74/2000. Tale articolo prevede — oltre che l'interruzione del corso della prescrizione per effetto dell'intervento del verbale di constatazione o dell'atto di accertamento delle relative violazioni — anche l'aumento, in ragione di un terzo, dei termini prescrizionali applicabili alle violazioni previste dal decreto medesimo. L'art. 2, comma 36-vicies-bis d.l. n. 138/2011, convertito con modificazioni dalla l. n. 148/2011, ha poi stabilito l'operatività di tale aumento del termine prescrizionale, solo a far data dall'entrata in vigore della legge di conversione di tale decreto. Attualmente, dunque, il termine massimo di prescrizione vigente per i delitti previsti dal suddetto d.lgs. n. 74/2000 — dall'art. 2 all'art. 10 — è pari ad anni dieci (anni sei è la prescrizione ordinaria ex art. 157, pari al tetto prescrizionale minimo; a ciò occorre aggiungere un periodo pari a un quarto — se non ricorrono recidiva, abitualità o professionalità nel reato — ai sensi dell'art. 161, così giungendosi ad anni sette e mesi sei; qui si potrà infine operare l'aumento ulteriore in ragione di un terzo a norma dell'art. 17 cit., così giungendosi ad anni dieci). Segnaliamo poi brevemente la questione affrontata dalla Corte giustizia UE (causa C-105/14, cd. sentenza Taricco ed altri del giorno 8 settembre 2015, domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Cuneo), concernente il seguente tema: «se il diritto dell'Unione imponga ai giudici degli Stati membri di disapplicare determinate disposizioni del loro diritto nazionale relative alla prescrizione dei reati, al fine di garantire una repressione efficace dei reati fiscali» [norme interessate art. 325 Tfue, Direttiva 2007/112/CE, Regolamento CE-Euratom n. 2988/95, Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (c.d. “convenzione Pif”)]. A mezzo di tale decisione, la Corte di giustizia dell'Unione Europea stabiliva come la attuale normativa italiana in materia di prescrizione del reato — con particolare riferimento agli artt. 160, ultimo comma e 161 — fosse atta a pregiudicare il rispetto degli obblighi gravanti sugli Stati membri, ai sensi del succitato art. 325, §§ 1 e 2, Tfue. Ciò sul presupposto che l'atteggiarsi complessivo dell'istituto non consentisse l’effettiva inflizione di sanzioni concretamente idonee a svolgere una funzione general-preventiva, in un ampio ventaglio di situazioni connotate da frodi di particolare gravità, lesive degli interessi finanziari dell’Unione europea. La medesima inidoneità della normativa italiana si sarebbe inoltre palesata nelle frodi risolventesi in aggressioni agli interessi finanziari dello Stato membro interessato. La stessa Corte di Giustizia (Grande Sezione), era poi tornata sulla problematica, con la sentenza emessa in data 5 dicembre 2017 (cd. Taricco-bis). Qui i Giudici fornivano la regola interpretativa del disposto di cui all’art. 325 §§ 1 e 2 Tfue, ritenendo che esso imponesse — nei procedimenti penali concernenti reati in materia di Iva — la disapplicazione di quelle norme interne di natura sostanziale, in grado di essere in concreto ostative rispetto all’irrogazione di sanzioni penali “effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave” (casi che siano idonei a ledere gli interessi finanziari dell’U.E.) E la giurisprudenza apicale di legittimità ha in effetti proceduto, in vari casi, alla disapplicazione della prescrizione disciplinata dalla norma italiana (si veda, ad esempio, Cass. III, n. 2210/2015). Segnaliamo poi anche l’ordinanza della CGCE n. 24/2017 di rimessione alla Corte di Giustizia, pronunciata dalla Consulta il 23 novembre 2016 (dep. 26 gennaio 2017), a mezzo della quale veniva devoluta la questione inerente all’interpretazione dell’art. 325 Tfue alla luce della succitata sentenza Taricco . Per una rivisitazione poi del concetto di “frode grave” — come delineato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Taricco — si potrà anche leggere Cass. III, n. 44584/2016. I Giudici di legittimità erano poi ancora intervenuti sul tema della possibile disapplicazione della disciplina della prescrizione, in relazione ai reati tributari. Il principio di diritto enunciato teneva conto degli approdi interpretativi forniti sia dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Sezione) in data 5 dicembre 2017 (C-42/17), sia delle possibili criticità del sistema (già evidenziate dalla Consulta nella succitata ordinanza 24/2017). La Cassazione ribadiva allora— in relazione ai reati tributari risalenti ad epoca antecedente, rispetto alla sentenza emessa dalla Grande Sezione della CGUE datata 8 settembre 2015 (causa C-105/14, Taricco) — la integrale vigenza della disciplina nazionale in tema di prescrizione. Si reputava infatti non riservato al Giudice nazionale il potere di disapplicare tale normativa, stante il divieto di irretroattività ex art. 325 §§ 1 e 2 TFUE, secondo l’interpretazione fornita dalla stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea (causa C. 42/17, sentenza della Grande Sezione in data 5 dicembre 2017). A dirimere la complessa questione è di recente intervenuta Corte cost. n. 115/2018 [pronuncia che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate - in relazione all’art. 2 l. n. 130/2008 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007) - dalla Corte di Cassazione (in riferimento agli artt. 3, 11, 24, 25 comma 2, 27 comma 3 e 101 comma 2 Cost.), nonché dalla Corte d’Appello di Milano (in riferimento all’art. 25 comma 2 Cost.)]. Tale sentenza pare dunque aver chiuso in maniera davvero definitiva il cd. caso Taricco. Essa ha anzitutto riaffermato la intangibilità di uno dei principi cardine dell’ordinamento costituzionale italiano, ossia del principio di legalità in campo penale. Ha poi ancora una volta cristallizzato il concetto della natura sostanziale della prescrizione, ribadendo anzitutto la vigenza del divieto di retroattività sul punto (risulta quindi ormai scongiurata ogni possibilità di disapplicazione in malam partem di norme appartenenti al diritto penale sostanziale, pena appunto la violazione del principio di legalità penale). Ha poi anche richiamato l’esigenza di una sufficiente determinatezza delle norme in tema di punibilità (censurando invece la genericità sia della regola Taricco, sia del dettato stesso dell'art. 325 Tfue, §§ 1 e 2, Tfue). Ha infine anche ribadito come non esista – sul tema della prescrizione – alcuna categorica esigenza di uniformità fra gli Stati dell’Unione Europea, potendosi ciascuno di essi regolare in conformità alle proprie tradizioni penalistiche ed al proprio impianto costituzionale. Segue. Nei reati elettoraliL'art. 100 d.P.R. n. 570/1960 (T.U. delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali) detta un termine prescrizionale estremamente breve, pari ad appena due anni. È ivi infatti previsto che — in relazione a tutte le fattispecie di reato contemplate dal medesimo Testo Unico — l'azione penale si prescriva nel termine di due anni. Il termine iniziale di decorrenza corrisponde alla data del verbale ultimo delle elezioni (per i concetti basilari in tema di decorrenza della prescrizione, si rinvia alla lettura del commento attinente all'art. 158). È inoltre stabilito che il decorso della prescrizione viene interrotto, testualmente, da qualsiasi atto processuale. Nonostante però l'intervento di tali atti e l'incidenza del relativo effetto interruttivo, la durata dell'azione penale non può comunque risultare prolungata per un tempo che complessivamente superi la metà del termine stabilito per la prescrizione. La dottrina ha poi precisato che: “Trattandosi di norme speciali la loro vigenza non viene meno, in assenza di una espressa previsione normativa contraria per effetto della modifica delle norme generali sulla prescrizione del reato, anche se la giurisprudenza più recente ha precisato che il termine biennale dalla data del verbale ultimo delle elezioni entro cui si prescrive l'azione penale per i reati elettorali non deroga in effetti al termine ordinario di prescrizione previsto dall'art. 157, in quanto costituisce esclusivamente il termine di decadenza entro cui è possibile per ogni elettore la promozione dell'azione penale” (Diotallevi, in Rassegna Lattanzi-Lupo, 540). Segue. In ordine alla responsabilità da reato delle persone giuridicheIl d.lgs. n. 231/2001 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell'art. 11 l. n. 300/2000) regolamenta la materia della responsabilità ascrivibile agli enti, in dipendenza da reati che siano stati commessi — ovviamente ad opera di persone fisiche — nell'interesse delle persone giuridiche medesime. L'art. 22 detta poi le norme che — in tale ambito — disciplinano l'istituto della prescrizione. Il dies a quo, per quanto attiene alla decorrenza del termine prescrizionale, coincide anzitutto con la data di consumazione del reato. Il decorso del termine viene interrotto dalla richiesta di applicazione di misure interdittive, oltre che dalla contestazione all'ente dell'illecito amministrativo (atto che il P.M. compie all'interno di uno degli atti previsti dall'art. 405 comma 1 c.p.p. — ai sensi del successivo art. 59 d.lgs. n. 231/2001 — allorquando non si risolva a chiedere l'archiviazione). Non è inoltre prevista la facoltà di rinunciare alla prescrizione, a differenza di quanto accade, come sopra già sviscerato, in relazione alla responsabilità riferibile alle persone fisiche. Giova precisare, altresì, che l'intervento di uno degli atti tipici sopra richiamati produce un effetto interruttivo nei confronti del decorso della prescrizione. Se però tale interruzione avviene grazie alla contestazione di illecito amministrativo ex art. 59 cit., vi sarà un blocco della prescrizione; questa infatti smetterà di decorrere, fino al momento della irrevocabilità della sentenza che definisce il giudizio, all'interno del quale sia stata formulata la suddetta contestazione di illecito amministrativo. Insomma, un assetto normativo che — in relazione all'istituto della prescrizione — è radicalmente difforme, rispetto al modello ordinario sopra analizzato. La giurisprudenza apicale di legittimità (Cass. VI, n. 11442/2016) ha stabilito come — laddove il reato presupposto della responsabilità amministrativa degli enti sia la corruzione — il computo dei termini di prescrizione debba effettuarsi tenendo presente il momento del versamento effettuato in esecuzione dell'accordo corruttivo. Il termine di prescrizione dell'illecito amministrativo ex art. 22 d.lgs. n. 231/2001 deve quindi decorrere dal momento consumativo del reato, collocabile appunto al tempo della dazione che rappresenti adempimento dell'intesa, nella quale si sostanzia la corruzione. Il principio di diritto che governa la materia del perfezionamento della corruzione – quale reato a duplice schema - si trova sussunto in Cass. S.U., n. 15208/2010). Ricordiamo anche il dictum di Cass. II, n. 52316/2016, sempre in tema di incidenza del decorso del termine prescrizionale sulla responsabilità da reato riconducibile all'ente. Qui la Suprema Corte ha spiegato come, in presenza di una declaratoria di estinzione per prescrizione in relazione al reato presupposto, il Giudice sia tenuto – a norma dell'art. 8 comma 1 lett. b) d.lgs. 231/2001- a compiere un accertamento autonomamente incentrato sul tema della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse ed a vantaggio della quale venne perpetrato l'illecito; verifica che però non può prescindere dalla pur incidentale constatazione in ordine alla sussistenza del reato (in tema si veda anche in Cass. III, n. 21192/2013). La prescrizione del reato in epoca successiva alla contestazione all'ente dell'illecito amministrativo, non ne comporta consequenzialmente l'estinzione, posto che – ai sensi dell'art. 22 del succitato d.lvo n. 231/2001 - il relativo termine smette di decorrere, dopo che sia stata esercitata l'azione, fino al momento dell'irrevocabilità della sentenza che definisca la posizione della persona giuridica. Rinviando ora alla lettura della norma sopra citata (art. 22 d.lgs. n. 231/2001), quanto alla regolamentazione della "prescrizione speciale"nello specifico campo, precisiamo come la Corte – nella motivazione della sentenza sopra richiamata - abbia chiarito che: «... in tema di responsabilità da reato degli enti, la disciplina della prescrizione dettata dall'art. 22 del decreto attua il criterio di di cui alla lett. f) dell'art. 11 l. n. 300/2000, il quale ripropone la disciplina contenuta nell'art. 28 l. 689/1981, rinviando attraverso essa ad una regolamentazione di stampo più civilistico che penalistico (i commi 3 e 4 dell'art. 22 ripropongono più o meno letteralmente la disciplina dettata in tema di prescrizione dell'illecito civile dall'art. 2945 c.c.)». Casistica
Si procederà ora ad estrapolare — tra la moltitudine di pronunce in tema — quelle che appaiono meritevoli di particolari attenzione. a) Dal momento che il fatto di particolare tenuità previsto dal secondo comma dell'art. 648, in tema di ricettazione, non rappresenta una autonoma fattispecie delittuosa, bensì circostanza attenuante speciale della figura principale, il calcolo del termine necessario al consolidarsi della prescrizione deve essere condotto mediante computo della pena prevista dal primo comma dell'articolo (Cass. II, n. 4032/2013). b) Laddove si proceda alla sospensione del termine di custodia cautelare a norma dell'art. 304 comma 1, lett. c) c.p.p., durante la pendenza del termine necessario alla stesura dei motivi della decisione, vi sarà la correlativa sospensione della prescrizione per l'intera durata di tale termine stabilito per la redazione della motivazione, anche nel caso in cui medio tempore la misura cautelare venga revocata (Cass. II, n. 52316/2016). c)La contravvenzione ex art. 256 d.lgs. 152/2006 (abbandono o deposito incontrollato di rifiuti) ha natura di reato commissivo eventualmente permanente; l'antigiuridicità dello stesso viene meno o grazie al sequestro del bene, oppure all'epoca dell'ultimo abusivo scarico di rifiuti, oppure infine al momento della pronuncia della sentenza di primo grado. Questo sarà dunque il momento di decorrenza iniziale del termine di prescrizione (Cass. III, n. 40850/2010). Parimenti, il modello legale di cui all'art. 734(distruzione e deturpamento di bellezze naturali) presenta la natura di reato solo eventualmente permanente. Può infatti ben concepirsi una condotta che si protragga fino al momento della cessazione – indotta dall'opera di un terzo - dell'attività contra legem; tale protrazione non si verifica però nel caso in cui la condotta antigiuridica, esaurendosi, non sia suscettibile di dispiegarsi nel tempo. In tale ultimo caso, il momento consumativo del reato viene a coincidere con l'ultimo dell'insieme di atti di cui si compone la condotta definitivamente lesiva del bene tutelato, sebbene si possano protrarre nel tempo le conseguenze dannose del fatto (Cass. III, n. 29508/2019). d) Il reato di riciclaggio - laddove esso si concretizzi in una pluralità di condotte consumative, sebbene realizzate in uno stesso contesto oggettivo ed in ordine al medesimo oggetto – presenta la struttura di reato unico a formazione progressiva e consumazione prolungata, che viene a cessare con l'ultima delle operazioni poste in essere; da tale momento pertanto dovrà farsi decorrere il termine di prescrizione (Cass. II, n. 29869/2016). e) In tema di delitti di violenza sessuale, si è deciso che – nel fenomeno della successione nel tempo di più leggi penali, che siano tutte successive al tempus commissi delicti – si dovrà procedere, al fine di stabilire il termine prescrizionale, alla individuazione della lex mitior ex art. 2 mediante verifica in concreto, che tenga conto di tutte le leggi succedutesi, senza arrestarsi a quella operante all'epoca di commissione del fatto ed a quella invece vigente all'epoca del giudizio (Cass. III, n.3385/2016) La Corte ha altresì chiarito come il fatto di minore gravità di cui all'art. 609-biscomma 3 rappresenti una circostanza attenuante ad effetto speciale e non un'autonoma ipotesi di reato, per cui la riconduzione della condotta entro tale ambito previsionale non influisce sul calcolo del termine di prescrizione (Cass. III, n. 47311/2015). f) In tema di reati finanziari, il termine di prescrizione del reato di cui all'art. 5 d.lgs. n. 74/2000 (omessa dichiarazione), decorre dal novantunesimo giorno successivo, rispetto a quello in cui è scaduto il termine ultimo utile, stabilito dalla legge per la presentazione della dichiarazione annuale; tale termine, per quanto attiene alla dichiarazione dei redditi per l'anno 2008 (quindi attinente al periodo di imposta 2007), deve essere fissato al 30 settembre 2008 e non – come invece sempre avviene, al 31 luglio, stante la proroga disposta dall'art. 3 del d.l. n. 97/2008, convertito con modificazioni dalla l. n. 129/2008 (Cass. III, n. 48578/2016). g) In materia di lesioni personali colpose originate da responsabilità medica, la decorrenza iniziale del termine di prescrizione deve coincidere con quello dell'insorgenza della malattia in divenire, pur se essa non si sia ancora cristallizzata in maniera irreversibile o non abbia ancora assunto il connotato della invalidità permanente (Cass. IV, n. 44335/2016). h) Il reato di detenzione di materiale pedopornografico ex art. 600-quater presenta la natura di reato permanente: la consumazione è dunque da fissare al momento in cui l'agente venga in possesso del materiale, mentre la cessazione coincide con la perdita di disponibilità dello stesso. La Corte ha quindi ritenuto legittimo – ai fini dell'individuazione della decorrenza del termine di prescrizione – far coincidere il tempus commissi delicti con l'accertamento del reato e quindi con il sequestro del materiale (Cass. III, n. 15719/2016). i) La natura di reato di evento, che connota il delitto di abuso d'ufficio ex art. 323, comporta la fissazione del momento consumativo – e quindi, del momento di iniziale decorrenza del termine prescrizionale – alla data del conseguimento dell'ingiusto vantaggio patrimoniale o della produzione, a carico di altri, del danno ingiusto (Cass. VI, n.28117/2015). l) Cass. S.U. n. 24906/2019 ha stabilito il principio di diritto secondo il quale: <<Non può essere ritenuta in sentenza dal giudice la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, ai sensi dell'art. 476, comma 2 c.p. qualora la natura fidefacente dell'atto considerato falso non sia stata esplicitamente contestata ed esposta nel capo di imputazione con la precisazione di tale natura o con formule alla stessa equivalenti, ovvero con l'indicazione della norma di legge di cui sopra>>.Sulla scorta di tale enunciazione, deve ritenersi che – laddove la suddetta circostanza aggravante a effetto speciale non risulti oggetto di testuale contestazione, in virtù appunto del richiamo esplicito al comma 2 dell'art. 476 – occorre almeno che sia riscontrabile, all'interno del capo d'imputazione, una evidenziazione testuale della valenza fidefacente dell'atto, oppure che siano state almeno adoperate in imputazione espressioni inequivocabilmente evocative di tale natura. In caso contrario – laddove cioè vi sia la mera menzione dell'atto considerato falso – risulteranno inesistenti le condizioni perché la circostanza aggravante in esame possa reputarsi effettivamente contestata all'imputato. Le inevitabili ricadute consisteranno allora nella riconduzione del fatto al trattamento sanzionatorio previsto dal comma 1 dell'art. 476, con l'individuazione del termine di prescrizione ordinario di anni sei e di quello massimo di anni sette e mesi sei. m) Risulta pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, il principio di diritto secondo cui il delitto di truffa contrattuale è da qualificare quale reato istantaneo e di danno, il cui momento consumativo - che segna la decorrenza del termine di prescrizione – deve essere individuato in relazione alle caratteristiche peculiari del singolo negozio, ponendo attenzione alle modalità ed ai tempi delle condotte; sarà in tal modo possibile individuare quando concretamente si sia verificato un effettivo pregiudizio per il soggetto raggirato, correlativamente al conseguimento dell'ingiusto profitto in capo all'agente (Cass. II, n. 19682/22 e, in senso conforme, Cass. 2, n. 11102/2017, Sez. F, n. 31497/2012). Nella truffa c.d. "contrattuale", il delitto giunge quindi a consumazione – con le note conseguenze in tema di prescrizione - non allorquando il soggetto passivo, in dipendenza dall'artificio o raggiro, assume l'obbligazione di corrispondere un bene economico, bensì nel momento in cui il soggetto agente ottiene il bene, con conseguente perdita dello stesso da parte del raggirato (Cass. II, n. 49932/2012, Cass. S.U. n. 18/2000). Profili processualia) Attinenti all'archiviazione. Il Supremo Collegio ha chiarito come — in caso di maturazione del termine prescrizionale dopo la proposizione della richiesta di archiviazione, ma prima della fissazione della Camera di Consiglio ex art. 410 c.p.p. —il G.i.p. sia legittimato a dichiarare la inammissibilità di tale opposizione ed a pronunciare decreto di archiviazione de plano. (Cass. II, n. 39226/2011 ; nello stesso senso si è espressa, più di recente, Cass. II, n. 37301/2019). È invece da ritenersi abnorme il provvedimento a mezzo del quale il G.I.P. — decidendo in ordine alla richiesta di archiviazione inoltrata dal P.M. — prima disponga la formulazione dell'imputazione e poi revochi tale provvedimento, sul presupposto dell'intervento della prescrizione, disponendo anche l'archiviazione (Cass. II, n. 42137/2010). b) Attinenti alle misure cautelari. Con riferimento al sequestro preventivo finalizzato alla confisca, a norma dell'art. 12- sexies d.l. n. 306/1992 (v. ora la corrispondente disciplina trasfusa nell'art. 240-bis), convertito nella l. n. 356/1992, segnatamente nel caso di interposizione personale fittizia aggravata a mente dell'art. 7 d.l. n. 152/1991, convertito con modificazioni in l. n. 203/1991 (v. ora le corrispondenti disposizioni contenute nell'art. 416-bis.1), la sussistenza del fumus commissi delicti non è ravvisabile nel caso in cui il reato presupposto venga dichiarato estinto per prescrizione. L'intervento di tale causa di estinzione del reato, infatti, elide la configurabilità delle condizioni legittimanti il vincolo cautelare di carattere reale (Cass. II, n. 11324/2015). La Corte ha altresì qualificato come illegittimo il sequestro preventivo — pur se finalizzato alla confisca — laddove sia maturato il termine prescrizionale in momento antecedente all'esercizio dell'azione penale, concretizzandosi così una situazione di assenza di fumus del reato, rilevabile anche in sede di Riesame (Cass. III, n. 24162/2011). Inoltre, il concetto di effetto devolutivo del riesame delle misure cautelari reali implica che il Tribunale è tenuto a prendere in considerazione – pur se non prospettato dal ricorrente - ogni aspetto relativo ai presupposti intrinseci della misura cautelare (fumus commissi delicti e, per ciò che attiene al sequestro preventivo, periculum in mora), ma non anche a procedere all'analisi di profili ulteriori, quali, potrebbero essere gli elementi di fatto dai quali poter dedurre l'intervenuta prescrizione del reato, laddove questi non vengano specificamente dedotti (Cass. III, n. 35083/2016). c) Attinenti alla fase dell'udienza preliminare. Secondo l'insegnamento dei giudici di legittimità, la sentenza di proscioglimento emessa in sede di udienza preliminare non è ricorribile in Cassazione ad opera dell'imputato, ma solo allorquando vi sia stato proscioglimento per esser questi risultato estraneo al reato, ovvero per insussistenza dello stesso; la sentenza che dichiari l'estinzione per prescrizione, resa dal G.U.P., è invece impugnabile in Cassazione anche laddove l'imputato non abbia rinunciato alla prescrizione, dal momento che a questi è pur sempre riservato il diritto di instare per una pronuncia liberatoria ai sensi dell'art. 129 comma 2 c.p.p., dunque con formula di rito più favorevole (Cass. III, n. 49663/2015). La Corte ha poi chiarito come non possa dedursi - in sede di legittimità - il vizio di mancanza e illogicità della motivazione della sentenza di non luogo a procedere, che sia stata pronunciata dal giudice dell'udienza preliminare per intervenuta prescrizione ai sensi dell'art. 425 c.p.p. Laddove infatti ciò fosse consentito e la Corte dovesse riscontrare la presenza di tale vizio, dovrebbe poi anche rimettere il processo all'esame del giudice di merito, cosa evidentemente incompatibile con l'obbligo di immediato proscioglimento exart. 129 c.p.p. (Cass. V , n. 2517/2016). È stata risolta dalle Sezioni Unite della Cassazione la questione di diritto inerente alla operatività – in favore di un coimputato che non abbia proposto appello – dell'effetto estensivo di cui all'art. 587 c.p.p., relativamente alla pronuncia estintiva per prescrizione pronunciata nei confronti di coimputato impugnante. In particolare, il contrasto concerne la possibilità di ritenere operante tale effetto estintivo – si ripete, in favore del coimputato non appellante - soltanto nel caso in cui il termine prescrizionale fosse spirato prima del passaggio in giudicato della sentenza nei confronti di quest'ultimo; ovvero se – dato per assodato che si sia in presenza di impugnazione non fondata su motivi di natura esclusivamente personale, riferibili al singolo appellante – il suddetto effetto estensivo agisca anche nel caso in cui la causa estintiva sia maturata in epoca successiva, rispetto al tempo dell'irrevocabilità della sentenza di condanna, pronunciata a carico del coimputato non appellante (trattasi di questione sollevata da Cass. V, ord. n. 278/2017). Cass. S. U. n. 3391/2017 ha dunque precisato che la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione non può riguardare – in virtù dell’effetto estensivo del gravame di cui all'art. 587 comma 1, c.p.p. - anche il coimputato non impugnante, laddove l’affermazione di penale responsabilità sia divenuta irrevocabile prima del verificarsi di tale causa estintiva. I Giudici di legittimità hanno infatti spiegato come l'opzione del coimputato appellante di andare avanti nel processo rappresenti una scelta processuale di natura esclusivamente personale, tale da neutralizzare il disposto del succitato art. 587 c.p.p. La pronuncia del giudice d'appello che dichiari l'estinzione del reato, verificatasi in un momento antecedente rispetto all'emissione della sentenza di primo grado deve contestualmente annullare le statuizioni civili in essa eventualmente contenute. Ne discende che una condanna dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita è da ritenersi illegittima (Cass. V, n. 44826/2014). La Corte — sempre in tema di rapporti fra effetto estintivo del reato determinato dalla prescrizione e pretese risarcitorie — ha spiegato quanto segue. Il disposto dell'art. 2947 c.c. deve essere letto nel senso che — allorquando il fattore genetico del danno sia rappresentato da un reato — al momento dell'estinzione di quest'ultimo per prescrizione, si estinguerà anche l'azione civile di risarcimento, stante l'equipollenza esistente fra le due figure. Il rimedio è qui rappresentato dal fatto che il soggetto leso si sia costituito parte civile nel processo penale, così interrompendo il decorso della prescrizione. Trattasi in tal caso di effetto interruttivo direttamente scaturente dall'esercizio dell'azione civile in sede penale e che si protrae, in maniera permanente, fino al passaggio in giudicato della sentenza in sede penale. L'effetto interruttivo verrà meno nel caso di revoca della costituzione di parte civile, ovvero nel caso in cui non sia coltivato il relativo diritto (Cass. VI, n. 17799/2014). d) Attinenti al dibattimento in primo grado. Nel caso in cui il difensore deduca un impedimento fondato sulla sussistenza di un contemporaneo impegno dinanzi ad altra A.G., il giudice del dibattimento deve focalizzare l'attenzione sulla prioritaria esigenza di impedire la maturazione del termine di prescrizione (Cass. III, n. 39367/2015). e) Attinenti alla fase d'appello. L'imputato conserva il diritto di proporre appello avverso la sentenza di primo grado dichiarativa dell'estinzione per prescrizione, anche nel caso in cui non abbia preventivamente rinunciato alla prescrizione stessa (Cass. II, n. 17102/2011). La Corte di Cassazione ha ritenuto ammissibile la domanda di revisione – che venga proposta a norma dell'art. 630, comma 1 lett. c) c.p.p.– nei confronti di pronuncia che, in grado di appello, abbia dichiarato estinto il reato per prescrizione, contestualmente confermando le statuizioni di tipo risarcitorio in favore della parte civile (Cass. V, n. 46707/2016). Ebbene, la pronuncia del giudice d'appello che dichiari l'estinzione del reato, verificatasi in un momento antecedente rispetto all'emissione della sentenza di primo grado deve contestualmente annullare le statuizioni civili in essa eventualmente contenute. Ne discende che una condanna dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita è da ritenersi illegittima (Cass. V, n. 44826/2014). La Corte — sempre in tema di rapporti fra effetto estintivo del reato determinato dalla prescrizione e pretese risarcitorie — ha spiegato quanto segue. Il disposto dell'art. 2947 c.c. deve essere letto nel senso che — allorquando il fattore genetico del danno sia rappresentato da un reato — al momento dell'estinzione di quest'ultimo per prescrizione, si estinguerà anche l'azione civile di risarcimento, stante l'equipollenza esistente fra le due figure. Il rimedio è qui rappresentato dal fatto che il soggetto leso si sia costituito parte civile nel processo penale, così interrompendo il decorso della prescrizione. Trattasi in tal caso di effetto interruttivo direttamente scaturente dall'esercizio dell'azione civile in sede penale e che si protrae, in maniera permanente, fino al passaggio in giudicato della sentenza in sede penale. L'effetto interruttivo verrà meno nel caso di revoca della costituzione di parte civile, ovvero nel caso in cui non sia coltivato il relativo diritto (Cass. VI, n. 17799/2014). Corte cost. n. 111/2022 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 568 comma 4 c.p.p., se letto nel senso della inammissibilità – in ragione della carenza di interesse a proporre impugnazione - del ricorso per cassazione proposto nei confronti di una sentenza di appello che, nella fase predibattimentale e senza instaurare qualsivoglia forma di contraddittorio, abbia proceduto alla declaratoria di non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato per prescrizione. Trattasi quindi di una tipologia di pronuncia non rientrante fra le previsioni del grado di appello e che – ove comunque emessa – risulterebbe affetta da una nullità assoluta e insanabile. Già il Supremo Collegio (Cass. S.U. n. 28954/2017, aveva in verità escluso la possibilità per il giudice d’appello di pronunciare sentenza predibattimentale di proscioglimento, atteso che il dettato degli artt. 469, 598, 599 e 601 c.p.p. non contiene rinvio alcuno – neppure per implicito – a tale disciplina. La pronuncia predibattimentale non può essere ammessa in secondo grado neppure a norma dell’art. 129 c.p.p.; l’obbligo per il giudice di dichiarare immediatamente il verificarsi di una causa di non punibilità postula infatti l’instaurazione di un momento giurisdizionale connotato dalla pienezza del contraddittorio. Le stesse Sezioni Unite avevano però anche chiarito come vi fosse una carenza di interesse a proporre ricorso, avverso tale tipo di sentenza. La Consulta è però come detto intervenuta, sancendo l’illegittimità costituzionale di tale lettura dell’art. 568 c.p.p. e la sussistenza dell’interesse ad impugnare. Una situazione che rende vieppiù impossibile l’emissione in appello di sentenza predibattimentale. f) Attinenti al giudizio di cassazione. La Corte ha sancito l'ammissibilità del ricorso straordinario in Cassazione ex art. 625- bis c.p.p., per errore di fatto sulla prescrizione del reato (da ultimo, si veda Cass. III, n. 10417/2020). La condizione di ammissibilità del ricorso è però rappresentata dal fatto che la statuizione sullo specifico tema discenda — secondo un nesso di immediata consequenzialità — da un errore di percezione cagionato da una svista o da un equivoco; non rientra in tale ipotesi, allora, il caso in cui l'eventuale errore sul maturarsi della causa estintiva del reato sia invece connesso ad una valutazione giuridica oppure ad un apprezzamento di fatto (Cass. S.U., n. 37505/2011). Inoltre, l'omesso esame, da parte della Cassazione, di motivi di ricorso non manifestamente infondati — laddove sia poi stata pronunciata declaratoria di inammissibilità — rappresenta errore di fatto rilevante ai fini del ricorso straordinario ai sensi dell'art. 625-bis c.p.p. Discende da ciò il fenomeno della rescissione della sentenza impugnata, anche nel caso in cui i motivi di ricorso non valutati non siano da accogliere, in quanto tale situazione incide tanto sull'aspetto della ripartizione delle spese, quanto sul profilo del possibile spirare del termine di prescrizione (Cass. IV, n. 17178/2015). Evidenziamo poi come il Supremo Collegio abbia chiarito ciò che accade nel caso di ricorso nei confronti di sentenza oggettivamente cumulativa (sentenza che abbia pronunciato condanna in relazione ad una pluralità di reati, tutti ascritti al medesimo imputato). Qui la Corte ha fatto richiamo al principio dell'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali che attengono alle distinte imputazioni. Ha quindi escluso che l'ammissibilità dell'impugnazione concernente uno solo dei reati possa comportare la nascita di un valido rapporto processuale, con riferimento anche ad altri reati, in relazione ai quali vi sia una inammissibilità dell'impugnazione. In ordine a tali ultimi reati – per i quali si viene dunque a formare il giudicato parziale - resta dunque preclusa la declaratoria di estinzione per prescrizione che si sia verificata dopo la pronuncia d'appello (Cass. S.U. 6903/2016; per un approfondimento, vedere Marandola, 1). I Giudici di legittimità hanno anche sancito il principio secondo il quale la inammissibilità del ricorso per Cassazione preclude la possibilità di rilevare d'ufficio, ex artt. 129 e 609, comma 2, c.p.p., l'ormai intervenuta estinzione del reato per prescrizione, che sia maturata in data precedente rispetto alla pronunzia della sentenza di appello (prescrizione che non sia stata fatta oggetto di specifica eccezione nel corso del giudizio di merito, né rilevata dal giudice d'ufficio e nemmeno posta a fondamento di specifico motivo di ricorso). Laddove invece il ricorso non sia inammissibile e risulti spirato – dalla data del commesso reato - il termine massimo di prescrizione la Corte di Cassazione pronuncerà sentenza di annulla mento senza rinvio essendo il reato estinto per prescrizione (Cass. II, n. 8936/2020; in motivazione è ribadito il principio di diritto in base al quale soltanto l'inammissibilità del ricorso impedisce il costitui rsi di un valido rapporto di impugnazione, elidendo la possibilità di dichiarare l'intervento di una delle cause di non punibilità di cui all'art. 129 c.p.p., tra le quali figura appunto la prescrizione consolidatasi nelle more del giudizio di legittimità). Secondo la Suprema Corte deve invece ritenersi ammissibile il ricorso per Cassazione, a mezzo del quale sia stato dedotto — anche come unico motivo — lo spirare del termine prescrizionale in epoca anteriore, rispetto alla pronuncia della sentenza impugnata e che erroneamente non sia stato dichiarato dal giudice di merito. Trattasi infatti di motivo di gravame consentito a norma a norma dell'art. 606 comma 1, lett. b) c.p.p. (il principio di diritto si trova espresso in Cass. S.U. n. 12602/2016; per un approfondimento, si veda Aielli, 4). Segnaliamo anche come sia stata recentemente condotta all'attenzione delle Sezioni Unite la seguente quaestio iuris: se il giudice di legittimità – a fronte di una sentenza d'appello affetta da vizio derivante da violazione del contraddittorio – sia tenuto sempre e comunque a dichiararne la nullità, oppure possa dare prevalenza alla causa estintiva del reato (ordinanza di rimessione Cass. III, n. 9140/2017). Le Sezioni Unite hanno anche stabilito come il vizio di inammissibilità del ricorso per cassazione inibisca la rilevabilità d'ufficio, a norma degli artt. 129 e 609 comma 2 c.p.p., dell'intervento della causa estintiva in esame che sia venuta a maturazione in epoca precedente rispetto alla pronuncia d'appello, ma che non sia stata né eccepita in tal sede, né rilevata dal giudice di secondo grado e nemmeno sussunta nei motivi di ricorso in cassazione. Il Supremo Collegio ha poi ripetutamente chiarito come l'inammissibilità del ricorso per Cassazione – inammissibilità nel caso di specie determinata dalla manifesta infondatezza dei motivi - impedisca di ritenere formato un valido rapporto d'impugnazione; ciò preclude la possibilità che venga rilevata e dichiarata l'estinzione del reato a norma dell'art. 129 c.p.p. (il principio di diritto – ulteriore rispetto alla questione di diritto devoluta – si trova enunciato in Cass. S.U., 12778/2020, con orientamento che si colloca peraltro sulla scia di Cass. S.U., n. 32/2000, di Cass. S.U., n. 23428/2005, di Cass. S.U., n. 19601/2008 e infine di Cass. S.U.,n. 12602/2015). A diversa soluzione deve invece pervenirsi, nel caso in cui l'intervenuta estinzione del reato venga dedotta — anche quale motivo unico di doglianza — in sede di proposizione del ricorso in cassazione. In tal caso, il motivo attinente all'erroneo mancato rilievo — ad opera del giudice di merito — del consolidarsi del termine prescrizionale maturato prima della sentenza impugnata, rappresenta un motivo di ricorso consentito a mente dell'art. 606 comma 1 lett. b) c.p.p. (Cass. S.U., n. 12602/2016). In data 27 ottobre 2022, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata in ordine al seguente tema: “se, avverso la sentenza di concordato in appello ex art. 599-bis c.p.p., sia consentito proporre ricorso per cassazione, al fine di dedurre il vizio di violazione di legge derivante dall’omessa dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione maturata anteriormente alla pronuncia di secondo grado”. I Giudici si sono pronunciati in senso affermativo, dichiarando quindi proponibile il ricorso in Cassazione inerente alla mancata declaratoria di estinzione per prescrizione maturata in epoca antecedente rispetto alla sentenza di secondo grado, anche in presenza di definizione del processo ai sensi dell’art. 599-bis c.p.p. (Cass. S.U. 19415/2023). La Corte ha poi ritenuto inammissibile per mancanza d'interesse, il ricorso proposto ad opera della parte civile avverso sentenza dichiarativa di estinzione per prescrizione. Ciò in quanto l'ingresso della parte civile nel procedimento penale comporta soltanto la coltivazione di una domanda restitutoria e di risarcimento danni; tale intervento resta pertanto estraneo al rapporto che si instaura l'imputato e il pubblico ministero, che esercita l'azione penale (Cass. II, n. 15821/2019). Secondo Cass. III, n. 15758/2020, a fronte di una sentenza d'appello emessa in violazione del contradditorio e dichiarativa – in riforma della condanna pronunciata in primo grado – dell’estinzione del reato per prescrizione, laddove l’imputato rinunci alla prescrizione (nella concreta vicenda, tale rinuncia era contenuta nella procura speciale rilasciata al difensore in vista del giudizio di legittimità), egli dimostra di avere un interesse concreto ed attuale rispetto alla celebrazione dell’appello; ne deriva che, in tal caso, la Corte di Cassazione deve annullare senza rinvio la suddetta sentenza, ritrasmettendo gli atti al giudice di secondo grado. È però da reputarsi tardiva e inefficace la rinuncia alla prescrizione del reato che venga manifestata solo all’indomani della pronuncia di sentenza nel grado di giudizio in cui tale causa estintiva è maturata (Cass. V, n. 11928/2020). Cass. VI, n. 48832/2022 è intervenuta sul tema della estinzione del reato per prescrizione, in presenza di dichiarazione sopravvenuta di parziale illegittimità costituzionale, inerente alla sospensione della prescrizione a causa dell’emergenza pandemica. La Corte ha qui chiarito che il principio della formazione progressiva del giudicato, conseguente ad una pronuncia di annullamento con rinvio non inibisce - per il principio del "favor rei" - la possibilità di dedurre, nel giudizio di legittimità nato a seguito di impugnazione della sentenza emessa all'esito del giudizio rescissorio, la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione, che sia maturata in data antecedente rispetto alla pronuncia di annullamento in fase rescindente, quale derivazione della declaratoria di illegittimità costituzionale - sopravvenuta nelle more del giudizio di rinvio – inerente alla disciplina sostanziale della sospensione della prescrizione, in ordine ai procedimenti penali differiti a causa dell'emergenza pandemica. La pronuncia in esame interviene con specifico riferimento alla dichiarazione di parziale incostituzionalità dell'art. 83, comma 9, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, laddove, in ordine all’emergenza pandemica, era prevista la sospensione del corso della prescrizione, con riguardo al periodo di tempo nel quale i procedimenti penali erano stati differiti a seguito dell’adozione di misure organizzative, ad opera dei capi degli uffici giudiziari e, comunque, non oltre il 30 giugno 2020. Tale pronuncia di illegittimità costituzionale è contenuta in Corte cost. n. 140 del 2021 e, nella concreta fattispecie, si colloca in epoca successiva, rispetto alla proposizione del secondo ricorso per cassazione, con conseguente spirare del termine di prescrizione del reato. g) Il Supremo Collegio ha escluso la possibilità di ricorso all'istituto della revisione, nel caso di sentenza dichiarativa di prescrizione. Essendo infatti la revisione un mezzo di impugnazione, sebbene di carattere straordinario, opera anche in relazione ad esso il generale principio di tassatività ex art. 568, comma 1 c.p.p. Dal momento quindi che l'art. 629 c.p.p.concerne esclusivamente le sentenze di condanna, le sentenze emesse a norma dell'art. 444 comma 2 e i decreti penali di condanna e vista la globalità delle disposizioni che regolamentano l'istituto della revisione, ne rimangono escluse le sentenza dichiarative della prescrizione. L'esclusione dalla possibilità di revisione opera anche nel caso in cui la Corte di Appello o la Corte di Cassazione – nel dichiarare estinto il reato per prescrizione – abbiano però confermato le statuizioni di tipo civilistico contenute nella sentenza impugnata, visto che anche in tal caso non viene comunque in essere una sentenza di condanna (Cass. II, n. 2656/2017; in senso conforme si veda Cass. II, n. 53678/2017, laddove è chiarito come l'istituto della revisione attenga solo ad una sentenza di condanna, per tale dovendosi intendere – a norma dell'art. 6 Cedu– qualunque decisione a mezzo della quale il giudice, prescindendo dal nomen iuris prescelto, irroghi una sanzione di tipo punitivo e non soltanto riparatorio o preventivo, come accade al contrario in caso di condanna al risarcimento del danno). h) Per quanto attiene ai rapporti di estradizione disciplinati dalla Convenzione europea del 13 dicembre 1957, l'intervenuta prescrizione del reato impedisce l'accoglimento della domanda - secondo la legislazione della parte richiedente o della parte richiesta (ai sensi dell'art. 10 l. 30 gennaio 1963, n. 300), soltanto con riferimento alle cd. estradizioni processuali (trattasi come noto di quelle forme di estradizione che ineriscono all'esercizio dell'azione penale, oppure comunque a un procedimento che non sia ancora pervenuto a sentenza passata in giudicato); tale causa ostativa non opera invece, con riferimento alle estradizioni avviate per finalità di esecuzione penale, ossia quelle cd. esecutive (Cass. VI, n. 41992/2019). Giova anche rammentare – sempre in tema di rapporti di estradizione regolati dalla suddetta convenzione europea - come la prescrizione del reato, quale causa ostativa all'accoglimento della richiesta, debba essere sempre accertata attenendosi alla clausola del trattamento di miglior favore per l'imputato, nel raffronto fra le diverse legislazioni nazionali (Cass. VI, n. 20150/2015). Sul tema dei rapporti giurisdizionali con le autorità straniere e, segnatamente, dell’estradizione verso l'estero, i Giudici di legittimità sono di recente nuovamente intervenuti. Hanno infatti deciso che - con riferimento alle domande presentate in forza della Convenzione europea di estradizione - osta all'accoglimento della richiesta l'intervenuta prescrizione del reato per il quale si proceda. Estinzione che deve essere verificata in base alla legge dello Stato richiedente o dello Stato richiesto, in forza della regola dell'applicazione esclusiva della disciplina dell'uno o dell'altro ordinamento, nonché avendo riguardo - ai fini del computo di tale termine - alla qualificazione giuridica attribuita da ciascun ordinamento al fatto oggetto di contestazione (Cass. VI, n. 6239/2020). 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L’inammissibilità del ricorso impedisce di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello”, in ilPenalista, 4 aprile 2016; Messina-Spinnato, Manuale breve Diritto Penale, Milano, 2018; Minnella, “Frodi in materia IVA: la Cassazione chiarisce quando la prescrizione non contrasta con il diritto UE”, in Guida al Diritto, 21 gennaio 2017, 5/2017; Pini, Il doppio aumento del tempo necessario a prescrivere per effetto della recidiva qualificata: violazione del principio del ne bis in idem?, in ilPenalista, 20 marzo 2018; Pisa, voce Prescrizione, in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986; Randazzo, Prescrizione del reato e pronuncia sulla domanda civile, in ilPenalista, 25 agosto 2017; Santoriello, Niente revisione per le sentenze che abbiano dichiarato la prescrizione del reato, in il Quot. 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