Codice Penale art. 176 - Liberazione condizionale (1).

Donatella Perna

Liberazione condizionale (1).

[I]. Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se ha scontato almeno trenta mesi e comunque almeno metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena non superi i cinque anni (2).

[II]. Se si tratta di recidivo, nei casi preveduti dai capoversi dell'articolo 99, il condannato, per essere ammesso alla liberazione condizionale, deve avere scontato almeno quattro anni di pena e non meno di tre quarti della pena inflittagli.

[III]. Il condannato all'ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena (3).

[IV]. La concessione della liberazione condizionale è subordinata all'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato [185, 186], salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell'impossibilità di adempierle [230 1 n. 2; 682 c.p.p.].

(1) Articolo così sostituito dall'art. 2 l. 25 novembre 1962 n. 1634. Il testo originario recitava: «[I]. Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni. [II]. La concessione della liberazione condizionale è subordinata all'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell'impossibilità di adempierle. [III]. La liberazione condizionale non è consentita se il condannato, dopo scontata la pena, deve essere sottoposto a una misura di sicurezza detentiva». Per la liberazione condizionale dei condannati che hanno commesso il reato quando erano minori degli anni diciotto, v. art. 21 r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404, conv., con modif., nella l. 27 maggio 1935, n. 835.

(2) V. per una ipotesi particolare di esclusione del beneficio l'art. 2 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv., con modif., nella l. 12 luglio 1991, n. 203; in argomento v. anche art. 104 d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230.

(3) Comma così sostituito dall'art. 28 l. 10 ottobre 1986, n. 663. Il testo originario recitava: «Il condannato all'ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia effettivamente scontato almeno ventotto anni di pena». Peraltro, una norma transitoria, contenuta nell'art. 3 l. 25 novembre 1962 n. 1634 aveva statuito che il condannato all'ergastolo prima del ripristino delle attenuanti generiche di cui all'art. 2 d.lg.lt. 14 settembre 1944, n. 288, poteva «essere ammesso alla liberazione condizionale quando» avesse «effettivamente scontato almeno venticinque anni di pena».

Inquadramento

La liberazione condizionale è considerata da una parte della dottrina una causa estintiva della pena, anzi tra le cause sospensive dell'esecuzione, cui segue, in caso di esito positivo della prova, l'estinzione della pena (Peyron, 225 ss., nozione, questa, accolta anche da Corte cost. n. 78/1977); da altra parte della dottrina è considerata una modalità di esecuzione della pena, attenuata rispetto al carcere (Manzini, Trattato, III, 108; Fiandaca-Musco, PG, 802). Si tratta certamente di un istituto di diritto sostanziale, ispirato alla finalità rieducativa della pena, che trova la sua ratio nell'inopportunità ed inutilità di far proseguire l'espiazione della pena ad un soggetto che abbia risposto positivamente al trattamento penitenziario, offrendogli la possibilità di un reinserimento graduale nel contesto sociale, purché abbia già scontato una certa frazione della pena inflitta, che, in ogni caso, non può essere inferiore a trenta mesi.

Profili di costituzionalità

La Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 43, r.d. 28 maggio 1931, n. 602, che attribuiva al Ministro della Giustizia la concedibilità del beneficio della liberazione condizionale, osservando che l'istituto — alla luce del'art. 27 comma 3, Cost. — ha assunto un peso e un valore più incisivi di quelli che aveva in origine, al punto che può dirsi sussistente un vero e proprio diritto per il condannato «a che venga riesaminato il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva », al verificarsi delle condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, onde accertare se la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo. Tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale (Corte cost., n. 204/1974).

In passato la norma aveva suscitato dubbi di costituzionalità in relazione agli artt. 3, comma 1, 13, comma 2, 27, comma 3, Cost., presupponendo la sua applicazione l'inizio della effettiva esecuzione della pena, pur nel realizzato scopo del ravvedimento, ciò risolvendosi, secondo alcuni, in trattamento contrario anche al senso di umanità; ulteriori dubbi aveva sollevato nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere la liberazione condizionale al condannato con sentenza irrevocabile che, benché libero, abbia già scontato un periodo congruo di custodia cautelare, dando prova di avvenuto ravvedimento.

La S.C. ha dichiarato manifestamente infondata la questione sotto entrambi i profili, utilizzando le stesse argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale in riferimento ad altra, analoga questione, relativa alla liberazione anticipata, anch'essa subordinata alla previa instaurazione dello status detentionis in espiazione di pena (Corte cost. n. 35/1990).

Ha osservato il Collegio che le deroghe in ordine alla necessità che sia iniziata l'espiazione della pena, previste in materia di concessione delle misure dell'affidamento in prova e della semilibertà, sono dovute a speciali motivi e sono riferite, appunto, a misure alternative, di natura diversa dalla liberazione anticipata (e tanto più, dunque, dalla liberazione condizionale); quanto, poi, al profilo dell'art. 27, comma 3, Cost., anche il residuo di pena detentiva è finalizzato, secondo il comando della sentenza di condanna, alla rieducazione dello stesso condannato, e non può consistere perciò in un trattamento contrario al senso di umanità (Cass. I, n. 1298/1992).

Presupposti

L'ammissione alla liberazione condizionale è possibile in presenza di determinati presupposti (Pagliaro, Principi, 752):

1) Il condannato a pena detentiva deve avere tenuto un comportamento dal quale sia desumibile il suo sicuro ravvedimento.

2) Il condannato deve avere già scontato almeno trenta mesi e comunque almeno metà della pena inflittagli. Nei casi di recidiva aggravata o reiterata il condannato deve avere scontato almeno quattro anni e non meno di tre quarti della pena inflittagli.

3) Il residuo pena non deve superare i cinque anni e, nel caso di condanna all'ergastolo, è necessario che siano stati scontati almeno ventisei anni di pena (l. 10 ottobre 1986, n. 633).

4) Devono essere state adempiute le obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nella impossibilità di adempierle.

Segue. Ravvedimento del condannato

La liberazione condizionale è sottoposta ad un presupposto fondamentale di carattere soggettivo: che il condannato abbia tenuto, durante il tempo dell'esecuzione della pena detentiva, un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.

Trattasi di presupposto che, se non dimostrabile, non consentirà la concessione del beneficio (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 285), ma è evidente la difficoltà di dare un contenuto oggettivo a quello che, in definitiva, è uno stato interiore dell'individuo.

Parte della dottrina richiede il pentimento morale per il reato commesso (Peyron, voce, Libertà condizionale, 227); altra parte, identifica il ravvedimento con la conseguita capacità del condannato di reinserirsi ordinatamente nel tessuto sociale, e con la garanzia di non recidività (Fiandaca-Musco, Diritto, p.g. 803).

In giurisprudenza si è precisato che  la nozione di ravvedimento comprende il complesso dei comportamenti tenuti ed esteriorizzati dal soggetto durante il tempo dell'esecuzione della pena, obiettivamente idonei a dimostrare, anche sulla base del progressivo percorso trattamentale di rieducazione e recupero, la convinta revisione critica delle pregresse scelte criminali ed a formulare - in termini di certezza ovvero di elevata e qualifica probabilità confinante con la certezza - un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condotta di vita del condannato all'osservanza delle leggi in precedenza violate (Cass. I, n. 19818/2021).

Quanto al ravvedimento, è innegabile che non vi sono tecniche e metodi scientifici per accertarlo (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 285).

La mancanza di criteri rigidi e predeterminati si riflette poi nelle soluzioni giurisprudenziali adottate: così, secondo un orientamento, esso implica la realizzazione, da parte del condannato, di comportamenti oggettivi dai quali desumere la netta scelta di revisione critica operata rispetto al proprio passato, e innanzitutto nel riconoscimento degli errori commessi, e nell'adesione a nuovi modelli di vita socialmente accettati (Cass. I, n. 45042/2014).

In tale ottica, assume particolare significato la fattiva volontà del reo di eliminare o di attenuare le conseguenze dannose del reato (Cass. I, n. 486/2016).

Secondo altro orientamento, invece, la mancata ammissione delle proprie responsabilità non può, di per sé, costituire sicuro indice del mancato ravvedimento, poiché l'art. 176 richiede soltanto l'adesione convinta al trattamento rieducativo, l'accettazione dell'espiazione della pena, ed i suoi positivi risultati (Cass. I, n. 33302/2013).

Particolare attenzione è posta all'atteggiamento serbato dal condannato nei confronti della vittima del reato: il giudice deve valutare il grado di interesse e di concreta disponibilità dimostrato, ma tale elemento va considerato globalmente, insieme alla condotta complessiva del soggetto ai fini dell'accertamento dell'efficacia dell'azione rieducativa (Cass. I, n. 9815/2008).

L' oggetto del giudizio è sempre e soltanto il comportamento tenuto dal condannato durante l'esecuzione della pena: indicazioni si potranno trarre dai rapporti del detenuto con i compagni di prigionia, il personale carcerario, i propri familiari; dalla volontà di reinserimento sociale (Cass. I, n. 2039/1990), dimostrata con l'attività di lavoro e di studio, dalle manifestazioni di altruismo e solidarietà sociale e dal fattivo intendimento di riparare le conseguenze dannose del reato (Cass. I, n. 4055/1991).

Le prove sul reale ravvedimento possono essere acquisite attraverso l'assunzione di informazione da parte degli organi che sovraintendono alla sorveglianza, o con istruttoria diretta dei giudici decidenti, i quali non hanno però l'obbligo di procedervi, ma solo un potere discrezionale da esercitare quando lo ritengano necessario (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 287).

Segue. Pena scontata e pena inflitta

Poiché l'art. 176 espressamente richiama il “tempo di esecuzione della pena”, si è dibattuto se costituisca precondizione all'ammissione del beneficio che il richiedente si trovi effettivamente in espiazione pena.

La giurisprudenza più risalente riteneva impossibile la fruizione del beneficio senza una previa instaurazione dello status detentionis (Cass. I, n. 1298/1992), ma in seguito è stato affermato che non osta alla concessione della liberazione condizionale il fatto che il condannato si trovi in detenzione domiciliare o addirittura in libertà, poiché il Tribunale di sorveglianza, per valutare le condizioni del ravvedimento, dispone di tutti gli strumenti previsti dagli artt. 666 e 678 c.p.p., compresa la possibilità di disporre indagini comportamentali attraverso i servizi sociali del Ministero della giustizia e degli enti locali territoriali (Cass. I, n. 2238/2005).

In dottrina vi è contrasto intorno al minimo legale di espiazione ex art. 176: secondo un primo orientamento, esso va inteso in senso cumulativo, ossia il minimo legale da espiare è di trenta mesi, suscettibile di aumento qualora la metà della pena sia superiore al minimo così individuato, cosicché potranno fruire del beneficio solo i condannati a pene intorno ai tre anni o superiori (Vassalli, 403); un altro orientamento, invece, propone un'interpretazione della norma in senso disgiuntivo, sì da rendere l'istituto applicabile a tutti i condannati a pene inferiori ai trenta mesi, che abbiano comunque espiato metà della pena loro inflitta (Menna).

È stato osservato che l'interpretazione disgiuntiva presenta il pregio di evitare discriminazioni tra i condannati a pena compresa fra trenta mesi e cinque anni, ammessi al beneficio dopo avere scontato più di metà della pena, e i condannati a pene superiori, che vi sarebbero ammessi dopo un tempo proporzionalmente più breve (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 278).

La giurisprudenza ha adottato l'orientamento restrittivo: si è affermato che, pur non prevedendo direttamente l'art. 176 alcuna limitazione del beneficio della liberazione condizionale fondata sulla entità della pena inflitta, essa può essere concessa solo a coloro che abbiano espiato almeno trenta mesi di pena: conseguentemente, non può trovare applicazione per le condanne inferiori (Cass. I, n. 1159/1976); tale disparità di trattamento rispetto ai condannati a pene detentive inferiori, trova la sua logica spiegazione nel fatto che queste ultime non possono consentire, nel breve tempo della loro esecuzione, un motivato giudizio sul ravvedimento del reo (Cass. I, n. 246/1976).

Si è ulteriormente precisato che l'espressione «pena inflitta», utilizzata nell'art. 176, va intesa nel senso di pena che il condannato deve scontare in concreto, cosicché per calcolare il minimo di pena espiata per l'ammissione al beneficio, occorre partire non già dalla pena inflitta in sentenza o che risulta da un provvedimento di cumulo, bensì da quella effettivamente eseguibile, tenuto conto delle detrazioni dipendenti da un qualsiasi fatto giuridico che incida sulla durata della pena stessa (Cass. I, n. 2904/1990); tuttavia, non può tenersi conto dell'indulto, ma solo dei periodi di pena effettivamente espiata, ai quali va sommato l'eventuale beneficio della liberazione anticipata (Cass. I, n. 10419/2009).

In caso di cumulo delle pene, la condanna alla quale bisogna riferirsi è quella unitariamente risultante dal provvedimento di cumulo (Cass. I, n. 2392/1984).

Infine, va segnalato che il presupposto dell'avvenuta espiazione della pena nella misura richiesta dall'art. 176 deve sussistere al momento della presentazione dell'istanza, e non a quello della decisione (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 280).

Segue. Recidivi

Il comma 2 dell'art. 176 introduce limiti di maggiore rigore per i recidivi, i quali possono essere ammessi alla liberazione condizionale se hanno scontato almeno quattro anni e non meno di tre quarti della pena inflitta: la giurisprudenza ha osservato che, essendo fissato in anni quattro (in luogo di trenta mesi) il limite di durata minimo della pena già scontata per essere ammessi al beneficio, per i recidivi la liberazione condizionale non può trovare applicazione in caso di condanne inferiori ad anni quattro (Cass. I, n. 1159/1976).

La recidiva può essere presa in considerazione solo se giudizialmente accertata e dichiarata dal giudice della cognizione (Cass. I, n. 1225/1986), ma non sono mancate pronunce secondo cui i limiti minimi di espiazione della pena vanno applicati ai recidivi anche se tale condizione soggettiva non è stata formalmente contestata o non risulta dalla sentenza (Cass. I, n. 969/1985).

Le restrizioni operano anche nel caso in cui detta aggravante sia stata oggetto di giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti, e non abbia comportato alcun aumento di pena (Cass. I, n. 26472/2009). Quanto alla limitazione costituita dal residuo da scontare non superiore a cinque anni, essa vale anche per i recidivi, trattandosi di norma di portata generale.

Segue. Ergastolo

La l. 25 novembre 1962, n. 1634, ha introdotto la possibilità di ammissione al beneficio anche per il condannato all'ergastolo che abbia scontato almeno ventotto anni di pena (poi ridotti a ventiseiex art. 28 l. 10 ottobre 1986, n. 663).

Ha osservato la dottrina che in tal modo si è in parte attenuato lo stridente contrasto tra una pena perpetua, come l'ergastolo, ed il principio della funzione rieducativa della pena accolto nel nostro ordinamento (Vassalli, 408).

Il periodo di pena di ventisei anni come sopra indicato non è a sua volta condonabile nemmeno in parte, dal momento che l'ergastolo è una pena perpetua e non temporanea, quindi non è determinabile a priori;  tuttavia, si applica anche al condannato all'ergastolo la riduzione prevista dall'art. 54 l. 26 luglio 1975, n. 354, cosicché, agli effetti del computo della quantità di pena che occorre avere espiato per essere ammessi al beneficio della liberazione condizionale, si considera quella parte di essa detratta nella misura di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata (cfr. Corte cost. n. 274/1983, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 54 l. n. 354/1975, nella parte in cui non prevedeva la possibilità di concedere anche al condannato all'ergastolo la riduzione di pena ivi prevista).

In giurisprudenza si è osservato che la natura di pena perpetua propria dell'ergastolo non è smentita dal fatto che ad esso siano stati estesi istituti come la liberazione condizionale ex art. 176 comma 3, o la liberazione anticipata ex art. 54 l. n. 354/1975: semplicemente, trascorso un determinato periodo di detenzione, anche il condannato all'ergastolo può fruire di quei benefici se ha dato prova, con la sua condotta, di ravvedimento, ovvero ha dimostrato attivo interesse all'opera di rieducazione (Cass. V, n. 2594/1993).

Va evidenziato che recentemente le Sezioni Unite penali sono state chiamate a stabilire se la condizione di commutazione della pena dell'ergastolo in pena che non comporti inevitabilmente la privazione della libertà personale per l'intera vita, posta dallo Stato estero richiesto con riferimento a condanna per la quale sia stata concessa l'estradizione in estensione, debba operare anche in relazione ad altra condanna alla pena dell'ergastolo, per la cui esecuzione sia stata concessa in precedenza, dal medesimo Stato estero, l'estradizione senza l'apposizione della stessa condizione, e che sia stata, insieme alla prima, oggetto di unificazione delle pene ai sensi dell'art. 663 c.p.p.

Le Sezioni Unite hanno in proposito affermato il seguente principio di diritto:

«La commutazione dell'ergastolo in attuazione di una condizione apposta in un provvedimento di estensione dell'estradizione, adottato da uno Stato estero il cui ordinamento non ammette la pena perpetua, esplica i suoi effetti soltanto in relazione alla pena oggetto della condizione, nell'ambito della relativa procedura di estensione, senza operare con riguardo ad altra pena dell'ergastolo - oggetto di cumulo con la prima - irrogata con una condanna per la cui esecuzione sia stato in precedenza emesso altro provvedimento di estradizione non condizionato». (Cass. S.U. n. 30305/2021).

Segue. Adempimento delle obbligazioni civili

L'adempimento delle obbligazioni civili derivanti da reato costituisce ulteriore presupposto per la concessione del beneficio, salvo che il condannato dimostri di essere nell'impossibilità di adempierle.

La dottrina ritiene che il risarcimento del danno derivante da reato costituisca un importante manifestazione dell'avvenuto ravvedimento (Peyron, 227).

È concorde la prevalente giurisprudenza, secondo la quale esso non basta da solo a costituire prova del ravvedimento, ma certamente rientra fra gli elementi all'uopo valutabili (Cass. I, n. 3675/2007); nel caso in cui il condannato si trovi nella impossibilità di adempiere, assumono rilievo le manifestazioni di effettivo interessamento per la situazione morale e materiale della persona offesa, e i tentativi fatti per attenuare, se non riparare interamente, i danni provocati (Corte cost. n. 138/2001; Cass. I, n. 12782/2021).

Quanto alle caratteristiche dell'impossibilità di adempiere, essa non coincide con l'indigenza assoluta o con la materiale impossibilità economica, ma va valutata in senso relativo, in base alle reali condizioni economiche del condannato e all'entità pecuniaria delle obbligazioni rimaste inadempiute (Cass. I, n. 25155/2011), nonché in relazione ad altre cause, quali l'irreperibilità del creditore, la sua non identificabilità, la rinunzia al credito, il comportamento del creditore che renda concretamente impossibile il soddisfacimento totale o parziale dell'obbligazione. In ogni caso, la dimostrazione dell'impossibilità di adempiere non costituisce onere probatorio della parte, ma va accertata d'ufficio, cosicché il suo mancato assolvimento non legittima il rigetto della richiesta di liberazione condizionale (Cass. cit.).

Tuttavia, il mancato pagamento delle spese processuali può fondare un giudizio negativo sulla sussistenza del requisito del “sicuro ravvedimento” in capo al condannato istante qualora questi, pur a fronte dell'inerzia dell'ufficio preposto alla riscossione, abbia omesso di attivarsi per sollecitare quantomeno la liquidazione di tali spese (Cass. I, n. 52627/2017).

Collaboratori di giustizia e dissociati dal terrorismo

A norma dell'art. 2, comma 2, d.l. 13 maggio 1991 n. 152, conv., con modif., in l. 12 luglio 1991, n. 203, i soggetti condannati per reati inclusi nel catalogo di cui all'art. 4-bis l. n. 354/1975, non possono comunque essere ammessi alla liberazione condizionale se non hanno scontato almeno due terzi della pena temporanea loro inflitta. Tale disposizione, a mente dell'art. 2, comma 3, d.l. n. 152/1991, cit., non si applica ai collaboratori di giustizia (ossia alle persone indicate nell'articolo 58-ter, l. n. 354/1975: coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati).

Tale deroga opera solo se la collaborazione sia stata effettivamente prestata, e non nei casi in cui essa sia impossibile o inesigibile (Cass. I, n. 13926/2010), in linea con quanto affermato dalle sentt. Corte cost.  nn. 68/1995 e n. 89/1999, secondo cui è impossibile una utile collaborazione quando l'accertamento integrale dei fatti e delle responsabilità è ormai cristallizzato in una sentenza irrevocabile.

Va poi ricordato che il citato art. 2 è stato modificato dall'art. 2, comma 28, l. 15 luglio 2009, n. 94, che ha esteso i presupposti di cui all'art. 4-bis, l. n. 354/1975 per la concessione dei benefici penitenziari, al caso in cui si deve decidere sull'applicazione della liberazione condizionale ad un soggetto condannato per i delitti di cui allo stesso art. 4-bis, commi 1-ter e 1-quater.

A sua volta l'art. 8 l. 29 maggio 1982, n. 304 (Misure per la difesa dell'ordinamento costituzionale), prevede che, in deroga a quanto disposto dall'art. 176 c.p., il condannato a pena detentiva per uno o più reati per i quali sia stata riconosciuta una delle circostanze attenuanti previste dagli artt. 2 e 3 (attenuanti previste per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione in caso di dissociazione e di collaborazione), che durante l'esecuzione della pena abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale se ha scontato la metà della pena inflittagli.

La complessa trama normativa derivante dagli indicati interventi legislativi, ad oggi, può essere così riassunta (Padovani, Codice, 1181):

a) per i condannati per i delitti ex art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater l. n. 354/1975, la liberazione condizionale può essere concessa solo se sussistono i requisiti di cui all'art. 176 e siano stati scontati almeno i due terzi della pena. Nel caso di dissociazione e collaborazione dei condannati per reati con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine costituzionale (l. 29 maggio 1982, n. 304), la liberazione condizionale presuppone il ravvedimento, e l'avere scontato la metà della pena inflitta;

b) per i soggetti di cui all'art. 58-ter l. n. 354/1975 (collaboratori di giustizia), la liberazione condizionale può essere concessa secondo quanto previsto dall'art. 176 c.p., e anche se sono condannati per i delitti previsti dagli artt. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater l. n. 354/1975, non è richiesto che abbiano scontato i due terzi della pena loro inflitta.

Minorenni

L'art. 21 del r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404, stabilisce che la liberazione condizionale dei condannati che commisero il reato quando erano minori degli anni 18 può essere ordinata dal Ministro in qualunque momento dell'esecuzione, e qualunque sia la durata della pena detentiva inflitta.

Dunque per il minorenne non valgono le limitazioni relative al minimo di espiazione della pena, sicché il beneficio può essergli concesso in ogni momento, e qualunque sia la pena inflitta, sempre che sia accertato il ravvedimento dell'interessato.

Anche nel caso del minorenne, l'effettivo ravvedimento deve sostanziarsi in una condanna assoluta della propria condotta criminale, quale giudizio meditato e sofferto scaturente da un profondo e sincero pentimento, dimostrato anche attraverso l'effettivo impegno del soggetto nel lenire le conseguenze materiali e morali del proprio operato nei confronti delle vittime. Esso comporta, inoltre, la valutazione della personalità del condannato, che deve prendere le mosse dal titolo e dalla gravità dei reati commessi (Cass. I, n. 3363/1990).

Condanna a pena militare detentiva

L'art. 21 r.d. 20 febbraio 1941, n. 303 (codice penale militare di pace), dispone che il condannato a pena militare detentiva per un tempo superiore a tre anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e in ogni caso non meno di tre anni, e abbia dato prova costante di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera tre anni.

La giurisprudenza ha affermato che la concessione della liberazione condizionale per il condannato militare, ancorché subordinata alla condizione della prova costante di buona condotta, non può prescindere dalla nozione di ravvedimento, intesa in una significazione particolare in rapporto alle esigenze di tutela delle forze armate. A tal fine basta che il comportamento del condannato sia, oltre che regolare, conforme ai valori dell'ordinamento militare (Cass. I, n. 2264/1987).

In alcune pronunce in materia di soggetti obbiettori di coscienza, si è ritenuto sufficiente che l'interessato abbia mantenuto una buona condotta, e cioè un comportamento conforme alle regole dell'ordinamento penitenziario militare, senza che sia necessaria la prova di un sicuro ravvedimento (Cass. I, n. 2264/1987).

Rapporti con la riabilitazione

Si tratta di istituti che operano su piani diversi: la liberazione condizionale è una causa di estinzione della pena, la riabilitazione elimina gli effetti penali della condanna, e ha quindi efficacia liberatoria completa.

Rapporti con la liberazione anticipata

Nel porre la linea di demarcazione tra liberazione condizionale e liberazione anticipata, la giurisprudenza ha affermato che la liberazione condizionale è correlata al sicuro ravvedimento del condannato, desunto dal suo comportamento globale, senza limitare l'osservazione alla sola condotta carceraria; la liberazione anticipata, invece, esige semplicemente la partecipazione all'opera di rieducazione, cioè l'adesione, ancorché attiva, a tutte le opportunità risocializzanti che l'espiazione della pena offre, senza che ciò comporti necessariamente una revisione critica del passato e l'abbandono delle spinte criminali manifestate con la commissione del reato (Cass. I, n. 2047/1989).

È controverso se la liberazione anticipata possa essere concessa anche per i periodi trascorsi in liberazione condizionale.

L'orientamento più risalente riteneva condizione necessaria per l'applicabilità del beneficio, che fosse in corso uno status detentionis in espiazione di pena, senza il quale non sarebbero state possibili l'osservazione della personalità, un programma di trattamento, la partecipazione al programma, né il perseguimento dell'obiettivo di reinserimento nella società, propri dell'istituto della liberazione anticipata.

Nel tempo si è andata invece affermando, « una diversa e meno restrittiva interpretazione alla stregua della quale, per l'accoglibilità dell'istanza di liberazione anticipata, non è necessario che sia in corso l'esecuzione della pena detentiva, ma è sufficiente che sia pendente il rapporto esecutivo» (Cass. I, n. 42468/2009); pertanto, si ammette che la liberazione anticipata possa essere concessa anche in riferimento ai periodi di liberazione condizionale, tanto più che, ormai, quest'ultima si è andata evolvendo in una diversa modalità di esecuzione della pena, attenuata rispetto al carcere, sicché escludere in tal caso l'operatività del beneficio sarebbe «illogicamente discriminatorio» (Cass., n. 42468/2009, cit.).

Rapporti con la libertà vigilata

L'art. 230, comma 1, n. 2, dispone che è sempre ordinata la libertà vigilata quando il condannato è ammesso alla liberazione condizionale: tale figura di libertà vigilata è strutturalmente diversa da quella disposta negli altri casi contemplati dalla legge, in quanto non ne è prevista una durata minima, né vi è possibilità di proroga. La sua durata, infatti, corrisponde alla pena residua da espiare all'atto della liberazione, oppure è pari a cinque anni nel caso di condannato all'ergastolo (arg. ex art. 177, comma 2); per altro verso, la sanzione nel caso di trasgressione degli obblighi imposti non è costituita dall'applicazione, in aggiunta o in sostituzione, di un'altra misura di sicurezza, bensì dalla revoca della liberazione (Cass. I, n. 343/1991).

Secondo un orientamento, la liberazione condizionale va assimilata ad una misura alternativa alla detenzione, come si deduce dal fatto che ad essa consegue la necessaria applicazione della libertà vigilata: ciò comporta che il periodo trascorso in libertà vigilata dal soggetto che fruisce della liberazione condizionale deve ascriversi all'espiazione della pena a tutti gli effetti (Cass. I, n. 39854/2012).

Liberazione condizionale e sentenze penali straniere

Le norme aventi ad oggetto l'esecuzione delle sentenze penali straniere (l. 3 luglio 1989, n. 257, intitolata «disposizioni per l'attuazione di convenzioni internazionali aventi ad oggetto l'esecuzione delle sentenze penali», e l. 25 luglio 1988, n. 334, di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983), postulano che lo Stato di esecuzione sia vincolato alla natura giuridica e alla durata della pena, o alla eventuale misura alternativa così come disposte dallo Stato di condanna. Per tale ragione, in caso di sentenza straniera riconosciuta in Italia, se il condannato è stato ammesso nello Stato di condanna al beneficio della liberazione condizionale, il p.m. deve prendere atto della improcedibilità dell'esecuzione, e richiedere al Tribunale di sorveglianza il solo recepimento del beneficio già concesso all'estero, per assicurarne gli effetti anche nel territorio nazionale, previa verifica di corrispondenza all'analogo istituto previsto dall'ordinamento interno (Cass. I, n. 30607/2014).

Profili processuali

Il giudice competente a concedere la liberazione condizionale, compresa quella speciale prevista dall'art. 8, l. n. 304/1982 (relativa ai c.d. terroristi pentiti: Cass. I, n. 3105/1989), è il Tribunale di sorveglianza, a norma dell'art. 70, l. n. 354/1975, come sostituito dall'art. 22, l. n. 663/1986.

Di conseguenza, una volta concesso il beneficio, anche le decisioni in ordine all'estinzione della pena e della libertà vigilata connesse alla menzionata misura, sono di esclusiva competenza del tribunale di sorveglianza (Cass. I, n. 29728/2011).

Per i minorenni, è competente il Tribunale per i minorenni ai sensi dell'art. 21 r.d.l. n. 1404/1934, il quale procede con le forme del procedimento di sorveglianza fino a quando il condannato non abbia raggiunto i 25 anni d'età.

Casistica

L'affidamento in prova al servizio sociale non può essere concesso a soggetto che sia sottoposto al regime della libertà vigilata conseguente a liberazione condizionale, poiché l'affidamento è misura strutturalmente concepita dal legislatore come sostitutiva delle pene detentive, mentre la liberazione condizionale è un istituto di diritto sostanziale, che comporta la immediata liberazione del detenuto e la sua sottoposizione alle prescrizioni della libertà vigilata (Cass. I, n. 19358/2009).

Bibliografia

Peyron, voce Libertà condizionale, in Enc. dir. XXIV, Milano, 1974; Menna, Sull'esclusione delle pene brevi dalla liberazione condizionale: profili di incostituzionalità, in Arch. pen., 1986; Vassalli, Funzione rieducativa della pena e liberazione condizionale, in Scuola pos. 1964.

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