Codice Penale art. 230 - Casi nei quali deve essere ordinata la libertà vigilata.Casi nei quali deve essere ordinata la libertà vigilata. [I]. La libertà vigilata è sempre ordinata: 1) se è inflitta la pena della reclusione per non meno di dieci anni: e non può, in tal caso, avere durata inferiore a tre anni; 2) quando il condannato è ammesso alla liberazione condizionale [176, 177 1]; 3) se il contravventore abituale [104] o professionale [105], non essendo più sottoposto a misure di sicurezza, commette un nuovo reato, il quale sia nuova manifestazione di abitualità o professionalità; 4) negli altri casi determinati dalla legge [210 2-3, 212 3, 223 2, 225 2, 238, 417]. [II]. Nel caso in cui sia stata disposta l'assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro [216], il giudice, al termine dell'assegnazione, può ordinare che la persona da dimettere sia posta in libertà vigilata, ovvero può obbligarla a cauzione di buona condotta [237]. InquadramentoLa disposizione in oggetto prevede alcune ipotesi di applicazione obbligatoria della libertà vigilata, in relazione a casi di pericolosità presunta. Con l'abolizione di tutte le presunzioni di pericolosità ad opera dell'art. 31 l. 10 ottobre 1986, n. 663, l'applicazione della misura è in ogni caso condizionata al previo accertamento della concreta pericolosità sociale del sottoposto (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 565). Profili generaliLe ipotesi di applicazione obbligatoria della libertà vigilata. Il n. 1 della norma in commento, prevede l'applicazione obbligatoria della libertà vigilata (Gallucci, Rassegna, 1248): - Ai condannati alla pena non inferiore a dieci anni di reclusione, ed in tal caso la durata della misura non può essere inferiore a tre anni. La giurisprudenza ha tuttavia precisato che la disposizione non esclude, nella lettura coordinata con l'art. 228, comma 3 (in cui è stabilito solo il limite minimo di un anno), che il giudice possa applicare la libertà vigilata per il medesimo tempo di tre anni anche al condannato a pena inferiore a dieci anni (Cass., I, n. 35634/2012). Quando invece è inflitta la pena della reclusione non inferiore a dieci anni, è possibile, previo accertamento della pericolosità in concreto, applicare la misura di sicurezza della libertà vigilata per una durata anche superiore a quella minima di tre anni prevista dalla legge. Decorso però detto termine minimo il magistrato di sorveglianza, ove la pericolosità sia cessata, dovrà revocare la misura di sicurezza prima della scadenza del maggior termine per essa fissato dal giudice di cognizione (Cass., I, n. 10527/1988). L'applicazione del condono di due anni sulla maggior pena inflitta, effettuata ai sensi del d.P.R. 20 dicembre 1990, n. 394, non incide sulla quantità della pena prevista dall'art. 230 per farsi luogo alla libertà vigilata, e ciò sia perché, in generale, l'applicazione dell'indulto non si riflette (salve le ipotesi di cui all'art. 210, in caso di totale estinzione della pena) sull'applicabilità delle misure di sicurezza e sulle questioni ad essa inerenti, sia perché, in particolare, il condono di cui si discute è revocabile ai sensi dell'art. 4 del citato decreto (Cass. V, n. 867/1991). Il n. 2 della norma in commento, prevede l'applicazione obbligatoria della libertà vigilata (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 565): ai condannati ammessi alla liberazione condizionale. In tal caso la libertà vigilata non ha natura di misura di sicurezza, ma è finalizzata a monitorare il soggetto ammesso alla liberazione condizionale, onde verificarne l'effettivo ravvedimento. Ciò differenzia in maniera strutturale tale misura dalle altre forme di libertà vigilata previste dalla legge, in quanto non ne è stabilita una durata minima, né sussiste la possibilità di proroga. La sua durata, infatti, corrisponde alla pena residua da espiare all'atto della liberazione, o è di cinque anni se trattasi di condannato all'ergastolo (arg. ex art. 177, comma 2); inoltre, la sanzione nel caso di trasgressione degli obblighi imposti, non è costituita dall'applicazione, in aggiunta o in sostituzione, di un'altra misura di sicurezza, bensì dalla revoca della liberazione (in giurisprudenza Cass., I, n. 343/1991). Peraltro, al soggetto ammesso alla liberazione condizionale e quindi sottoposto a libertà vigilata, non può essere concesso l'affidamento in prova ai servizi sociali, e ciò in quanto l'affidamento è stato concepito dal legislatore come misura sostitutiva delle pene detentive (in giurisprudenza Cass., I, n. 19358/2009). Il n. 3 della norma in commento, stabilisce l'applicazione obbligatoria della libertà vigilata (Romano-Grasso-Padovani, Commentario, 566): - Ai contravventori abituali o professionali, che si rendano autori di altro fatto di reato integrante una nuova manifestazione della abitualità o professionalità. Il n. 4, infine, stabilisce l'applicazione obbligatoria della libertà vigilata: - Negli altri casi determinati dalla legge, previo accertamento della pericolosità in concreto. Possono citarsi i seguenti: a) Il caso previsto dall'art. 238, che stabilisce l'applicazione della libertà vigilata nei confronti della persona sottoposta a cauzione di buona condotta che non versi la somma o non depositi la garanzia. b) Il caso previsto dall'art. 210, comma 2, che prevede l'applicazione della libertà vigilata se cessa l'assegnazione a colonia agricola o a casa di lavoro, in conseguenza dell'estinzione della pena. c) Il caso previsto dall'art. 210, comma 3, che prevede l'applicazione della libertà vigilata se, a seguito di indulto o grazia, non deve essere eseguita, in tutto o in parte, la pena dell'ergastolo. d) Il caso previsto dall'art. 417 che, in caso di condanna per i delitti di associazione per delinquere o di associazione mafiosa, prevede genericamente l'applicazione di una misura di sicurezza, dunque, ai sensi dell'art. 215, comma 4, della libertà vigilata (Marinucci-Dolcini, Codice). L'art. 230, comma 2, prevede poi che il giudice possa ordinare la libertà vigilata (o la cauzione di buona condotta) al termine dell'assegnazione a colonia agricola o a casa di lavoro, sul presupposto che la pericolosità sociale del condannato, pur persistendo, sia attenuata, e quindi non sia più adeguata la misura di sicurezza detentiva. Analoga sostituzione può essere effettuata dal giudice in sede di riesame della pericolosità sociale dell'internato in o.p.g. o in casa di cura e custodia, a seguito degli interventi della Corte costituzionale sull'art. 222. Infine, la libertà vigilata può essere disposta in sostituzione del riformatorio giudiziario allorché la misura di sicurezza debba essere applicata dopo che il minore abbia raggiunto la maggiore età (Gallucci, Rassegna, 1253). CasisticaÈ particolarmente discussa la figura della libertà vigilata applicata ai sensi dell'art. 230, comma 2. La giurisprudenza ritiene che si tratti di una misura funzionalmente diversa dalla libertà vigilata prevista da altre disposizioni di legge, poiché non ha lo scopo di fronteggiare la pericolosità sociale del condannato, ma anzi, intanto è ordinata in quanto sia stato accertato che questi non è più socialmente pericoloso. In altre parole, il giudizio di pericolosità sociale è in insuperabile antitesi con il ravvedimento che costituisce il fondamento giuridico dell'istituto della liberazione condizionale (Cass., I, n. 2222/1991). Recentemente la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Firenze in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, degli artt. 177, secondo comma, e 230, primo comma, n. 2, c.p., nella parte in cui stabiliscono l'obbligatoria applicazione, in misura predeterminata e fissa, della misura della libertà vigilata al condannato alla pena dell'ergastolo ammesso alla liberazione condizionale e non consentono di disporne la revoca anticipata. La Corte costituzionale ha osservato che: liberazione condizionale e libertà vigilata costituiscono un tutt'uno e si delineano, unitamente considerate, come una misura alternativa alla detenzione. La libertà vigilata è fattispecie tutta particolare, quale attenuazione, in sede d'ammissione alla liberazione condizionale, dell'originaria pena detentiva; la misura, in inscindibile binomio con la liberazione condizionale, non è configurabile né come sanzione nuova né aggiuntiva, ed è solo nominalmente ascrivibile al genus delle misure di sicurezza, rispondendo ad una ben diversa logica e soddisfacendo ben diverse necessità, tra cui garantire i terzi, la collettività tutta, dai pericoli derivanti dall'anticipata liberazione del condannato. In particolare, l'applicazione della libertà vigilata non dipende da una valutazione in concreto del rischio che chi ne usufruisce nuovamente commetta reati, ma si lega inscindibilmente, derivandone quale conseguenza, alla condizione di liberato condizionalmente. A seguito della approvazione della legge n. 354 del 1975, l'istituto è assimilabile alle misure alternative alla detenzione, funzionalmente analogo alle modalità di esecuzione extramuraria della pena, finalizzato a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena. La liberazione condizionale va ricondotta all'obiettivo costituzionale della risocializzazione di ogni condannato. In questa prospettiva, le prescrizioni e gli obblighi derivanti dalla sottoposizione a libertà vigilata del condannato ammesso a liberazione condizionale trovano razionale fondamento, ex art. 27, terzo comma, Cost., nel sostegno e controllo che essi possono e devono offrire alla prova in libertà del condannato, per cui l'applicazione della misura, pur vincolata nell' an e nel quantum , non lo è nel quomodo in quanto il suo contenuto non tipizzato permette al magistrato di sorveglianza di individualizzare la portata e l'inevitabile afflittività della libertà vigilata, e così di adattare la misura alle esigenze del singolo caso. Il regime della libertà vigilata conseguente a liberazione condizionale non è di ostacolo alla risocializzazione della persona, ovvero all'effettivo reinserimento del condannato nel consorzio civile. L'art. 27, terzo comma, Cost. non si applica alle sole pene in senso stretto, irradiandosi su ogni aspetto e momento del percorso trattamentale (Corte cost. n. 66/2023). BibliografiaAlessandri, Pena e infermità mentale, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1976; Caraccioli, I problemi generali delle misure di sicurezza, Milano, 1970; Musco, voce Misure di sicurezza, in Enc. dir. Aggiornamento, I, Milano, 1997. |