Codice Penale art. 314 - Peculato (1) (2).Peculato (1) (2). [I]. Il pubblico ufficiale [357] o l'incaricato di un pubblico servizio [358], che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi [316-bis, 317-bis, 323-bis] (3). [II]. Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita [316-bis, 317-bis, 323-bis]. (1) Articolo così sostituito dall'art. 1, l. 26 aprile 1990, n. 86. (2) Per la confisca di denaro, beni o altre utilità di non giustificata provenienza, nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta, v. ora artt. 240-bis c.p., 85-bis d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e 301, comma 5-bis,d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (per la precedente disciplina, v. l'art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv., con modif., in l. 7 agosto 1992, n. 356). Per l'aumento della pena, qualora il fatto sia commesso da persona sottoposta a misura di prevenzione, v. art. 71 d.ls. 6 settembre 2011, n. 159. (3) L'art. 1 l. 27 maggio 2015, n. 69, ha sostituito le parole "da quattro a dieci anni" con le parole "da quattro anni a dieci anni e sei mesi". Precedentemente l'art. 1, comma 75, l. 6 novembre 2012, n. 190, aveva sostituito la parola «tre» con la parola «quattro ». competenza: Trib. collegiale arresto: facoltativo (primo comma); non consentito (secondo comma) fermo: consentito (primo comma); non consentito (secondo comma) custodia cautelare in carcere: consentita (primo comma); non consentita (secondo comma) altre misure cautelari personali: consentite (primo comma); v. per il secondo comma l'art. 2892 c.p.p. procedibilità: d'ufficio InquadramentoDelitto inserito nel Capo primo del Titolo Secondo del Libro Secondo del Codice; dunque collocato — sotto il profilo sistematico — tra i delitti contro la pubblica amministrazione, in particolare fra i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. La veste attuale della norma è il risultato, anzitutto, dell'intervento dell'art. 1 l. n. 86/1990; sotto l'aspetto sanzionatorio, poi, il massimo edittale è stato portato agli attuali anni dieci e mesi sei ad opera dell'art. 1 comma 1 lett. d) l. n. 69/2015. Per ciò che attiene all'interesse protetto dalla norma, occorre premettere come questa apra il Titolo dedicato ai delitti contro la pubblica amministrazione; delitti in relazione ai quali esiste un primo interesse pubblico di carattere generale, consistente nell'esigenza di assicurare il mantenimento di un ottimale livello di funzionamento della pubblica amministrazione. Pubblica amministrazione che non deve essere qui intesa soltanto come apparato istituzionalmente preposto allo svolgimento di quelle precise funzioni, che sono tipicamente connesse all'esplicazione del potere esecutivo; la nozione di pubblica amministrazione qui rilevante abbraccia invece tutto l’insieme delle entità pubbliche, alle quali sono demandate le funzioni proprie dello Stato (e quindi, anche le esplicazioni che sono riconducibili al potere giudiziario e legislativo). Trattasi quindi — secondo una accezione vasta e di plurima valenza — di qualsivoglia “attività imputabile allo Stato (inteso come articolazione) ovvero ad altro ente pubblico” (Caringella-De Palma-Farini-Trinci, 121) In tale collocazione sistematica, è dunque in primo luogo inserito il Capo concernente i delitti dei quali si possono rendere protagonisti i pubblici ufficiali e che sono commessi contro la pubblica amministrazione. In relazione a tali figure tipiche di reato, è stato individuato dagli interpreti — oltre al sopra detto interesse generale al buon funzionamento e, ancora più a monte, all'onore ed al prestigio della pubblica amministrazione — anche un interesse ancorato al principio costituzionale dell'imparzialità dell'amministrazione stessa. La dottrina ha giustamente evidenziato che il “termine imparzialità indica l'esigenza che l'amministrazione si comporti nei confronti dei destinatari dell'azione pubblica senza dar luogo a discriminazioni arbitrarie. Il principio di buon andamento, dal canto suo, esprime, per un verso, l'efficienza, l'efficacia, e per altro verso, il perseguimento di un fine pubblico nella sua doverosità istituzionale” (Caringella-De Palma-Farini-Trinci, 122). Se questi sono i principi generali che informano l'intera classe di reati dai quali rampolla il peculato, non si è peraltro mancato di sottolineare come tale figura delittuosa presenti un ulteriore oggetto specifico. Rappresentato, quest'ultimo, dall'interesse pubblico alla sicurezza del patrimonio mobiliare dello Stato; interesse al quale è ovviamente correlato un preciso dovere di fedeltà, gravante sul soggetto che di tali beni mobili disponga per ragioni attinenti all'ufficio ricoperto. Risulta però pacificamente condiviso il concetto secondo il quale l'interesse di tipo patrimoniale presenti una importanza marginale e secondaria, dovendosi invece considerare prioritario l'interesse alle modalità di svolgimento dell'attività funzionale (Riccio, 737). I soggettiSoggetto attivo Trattasi di un paradigma normativo costruito secondo lo schema classico del reato proprio, del quale si può quindi rendere autore esclusivamente il soggetto che ricopra una delle due qualifiche indicate dalla norma. E quindi, soltanto colui che sia o un pubblico ufficiale, ovvero un incaricato di pubblico servizio. Per la compiuta analisi definitoria di tali nozioni, si rinvia rispettivamente al commento inerente agli artt. 357 e 358. Sembra forse solo utile accennare al fatto che le nozioni ricavabili da tali articoli presentano una marcata connotazione funzionale, essendo proprio questa a definire il soggetto agente. Occorre allora rifarsi alle nozioni del diritto amministrativo; qui la funzione pubblica è definita quale attività che comporti l’esplicazione di una potestà e che sia rivolta ad un fine determinato e formalizzato sotto il profilo contenutistico. La nozione penalmente rilevante di pubblica funzione, peraltro, ha una matrice che è stata definita di tipo dinamico; e dunque la “funzione, cioè, è il farsi o il concretarsi del potere nell'atto singolo, ossia il momento dell'agire in cui questo non è ancora atto, ma già qualcosa di più dell'attività. Quindi la funzione pubblica è la deputatio ad finem non nel momento statico, ma dinamico” (De Luca-Segreto, 14). Richiamandosi allora al dettato del secondo comma dell'art. 357, la pubblica funzione — ossia, l'attività la cui esplicazione consente di attribuire ad un soggetto la qualifica di pubblico ufficiale — è definibile anzitutto come attività che sia regolamentata da norme di diritto pubblico; come attività dalla quale discenda, inoltre, l'emanazione di atti autoritativi; che sia poi connotata dall'attitudine ad esprimere la volontà della pubblica amministrazione; ovvero che si caratterizzi per lo svolgersi mediante uso di poteri che abbiano natura autoritativa o certificativa. Quasi residuale è invece la definizione del concetto di incaricato di pubblico servizio, dettato dall'art. 358. Ecco in tema una descrizione plastica ed esaustiva, che è certo utile riportare nella sua integralità: “... l'attività costituente pubblico servizio deve essere disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione e cioè da norme di diritto pubblico o da atti autoritativi. Il secondo elemento è di contenuto negativo ed a sua volta si distingue in due sub-elementi: uno costituente limite superiore (non deve trattarsi di pubblica funzione e quindi deve essere privo dei poteri di quest'ultima) ed uno costituente limite inferiore (esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e dalla prestazione di opera meramente materiale)” (De Luca-Segreto, 66). Con riferimento al concorso di persone nel reato, occorre richiamare la regola generale dettata dall’art. 117, in tema di mutamento del titolo del reato. Pare chiara la configurabilità del concorso di persone fra l’extraneus concorrente e l’intraneus, il quale rivesta la qualifica soggettiva specifica del reato proprio in commento. Non occorre, peraltro, che quest'ultimo sia necessariamente il soggetto che ponga in essere — nella attuazione concreta del fatto — la condotta appropriativa, potendo questa anche esser perpetrata dall'extraneus concorrente, secondo i criteri ordinari della concorsualità. A patto però che l'extraneus — nella fase esecutiva della condotta — si giovi comunque dell'esistenza, in capo al soggetto qualificato, di un possesso del denaro o della cosa mobile che sia legittimato da ragioni attinenti all'ufficio o al servizio. È utile evidenziare che il reato può essere perpetrato anche dal soggetto estraneo all'amministrazione, il quale se ne renda autore mediato, ossia che commetta il fatto traendo in inganno l'intraneus possessore della cosa ed appropriandosi di questa. Ciò in quanto la responsabilità ex art. 48 è configurabile anche in relazione ai reati propri. Si rinvia poi alla lettura del commento all'art. 322-bis, per quanto attiene ad una ulteriore specificazione della categoria di soggetti che possono rendersi protagonisti del reato in esame. Laddove infine di tale fatto si renda protagonista un militare, troverà applicazione il disposto dell'art. 215 c.p.mil.p. in tema di peculato militare. La giurisprudenza di legittimità ha precisato come sia configurabile il concorso nel reato proprio ad opera dell'"extraneus", a norma dell’art. 110, purché questi, al fine di appropriarsi della cosa, tragga giovamento dalla relazione di "possesso per ragioni di ufficio o di servizio", instaurata dal soggetto agente con il bene oggetto di appropriazione (Cass. VI, n. 36566/2024). Soggetto passivo Questo è in primo luogo lo Stato. Trattasi infatti del soggetto titolare sia degli interessi generali al buon andamento ed al prestigio delle istituzioni, sia degli interessi di natura più strettamente patrimoniale, tutti simultaneamente colpiti dalla condotta appropriativa. Dal momento però che la condotta può avere ad oggetto anche beni appartenenti a privati estranei all'amministrazione, sembra chiaro come anche tali soggetti possano vedere lesi — attraverso l'appropriazione posta in essere dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio — i propri interessi patrimoniali. E in tal senso, sembra del tutto coerente definire il modello legale in esame come un reato plurioffensivo. La struttura del reatoTrattasi come sopra accennato di un reato proprio (in quanto il soggetto attivo deve presentare determinate connotazioni oggettive e soggettive), nonché di carattere plurioffensivo (in quanto lesivo di una pluralità di beni giuridici). Si tratta infine di un paradigma normativo che ha natura di reato istantaneo. I Giudici di legittimità hanno stabilito come — in ossequio alla natura plurioffensiva del delitto in esame — l’assenza di un danno patrimoniale concretamente apprezzabile, quale derivazione diretta della illecita condotta appropriativa, non comporti automaticamente la inesistenza del reato. L’agire conforme alla figura tipica arreca infatti pur sempre un vulnus al bene giuridico di tipo non patrimoniale, che è parimenti tutelato dalla norma incriminatrice, ossia l’interesse alla legalità, all’imparzialità ed al corretto agire della P.A. (il principio di diritto si trova espresso in Cass. VI, n. 50198/2017, che concerneva l’appropriazione di un caricabatterie, ad opera di personale addetto all’effettuazione dei controlli in aeroporto). I presupposti necessariL’antefatto storico, oltre che logico-giuridico, della perpetrazione del reato è ovviamente rappresentato dal fatto che un soggetto qualificato (appunto, un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio) abbia il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile. Ulteriore presupposto indefettibile è però il fatto che tale rapporto con la cosa, ossia con ciò che diverrà poi l'oggetto materiale dell'indebita appropriazione, si sia instaurato «per ragione del suo ufficio o servizio». Trattasi di concetti che meritano una disamina approfondita e parcellizzata. Segue. La nozione di «ragione d'ufficio o servizio»Questo è un dato che funge da qualificazione del titolo stesso del possesso. Esso inoltre vale a stabilire una relazione di interdipendenza immediata, appunto tra il possesso e la funzione svolta dal soggetto agente. In sostanza, la mera qualifica soggettiva non è sufficiente a far trasmigrare il fatto dell'appropriazione entro l'alveo previsionale del delitto di peculato: non ogni forma di appropriazione commessa dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio, infatti, è automaticamente riconducibile sotto l'egida normativa della figura tipica in commento. Lo è certamente il fenomeno che — sotto il profilo naturalistico — si sostanzi in una appropriazione; ma a patto che esso abbia ad oggetto cose possedute, o delle quali il soggetto abbia comunque la disponibilità, in dipendenza di specifiche ragioni attinenti al servizio svolto o all'ufficio ricoperto. Ciò che dunque qui rileva è una connessione di tipo causale, tra le attribuzioni del soggetto e la presa in consegna della res. Tale interrelazione è stata in dottrina definita nel modo che segue: “...ad integrare la ragione di ufficio qualificatrice del possesso, non occorre che il pubblico ufficiale abbia una competenza strettamente legale a ricevere la cosa, ma è sufficiente che la consegna avvenga in dipendenza della qualità da lui rivestita o dell'ufficio o servizio al quale è preposto, e cioè che egli venga in possesso della cosa per una ragione inerente alla pubblica funzione, di cui è rivestito o del pubblico potere da lui esercitato” (Riccio, 740). Si è infine anche sottolineato come tale ragione — ad un tempo giustificatrice e titolo del possesso o della disponibilità — debba essere interpretata secondo una accezione oltremodo estesa. Comprensiva pertanto anche di quelle forme di possesso — o di acquisizione di disponibilità di denaro o di cose mobili — che derivino non da un espresso atto formale, bensì magari da prassi o consuetudini, consolidatesi nel particolare settore di attività o mansioni espletate (Carcano-Follieri, 495). Segue. La nozione di «possesso»Occorre in primo luogo evidenziare come non sussista alcuna rigida sovrapponibilità, fra il concetto civilistico di possesso, ricavabile dal dettato dell'art. 1140 c.c. e la nozione di possesso che è invece richiamata, ai fini dell'integrazione dell'archetipo normativo in commento. Il primo, infatti, postula l'esistenza di una relazione di fatto, materialmente apprezzabile, nonché tutelata mediante il riconoscimento delle azioni di spoglio e manutenzione. Altro è invece il concetto qui rilevante di possesso. Questo rimanda anzitutto all’esistenza di un potere; potere che viene riconosciuto al soggetto e che si tramuta nel dovere di custodire il denaro o la cosa mobile, ovvero nella possibilità di attribuire alla stessa una certa destinazione. Trattasi di un potere che è autonomamente esercitabile e che deve presentarsi “funzionalmente destinato all’esercizio dell’ufficio o del servizio, con l’obbligo di restituzione o di rispetto della destinazione” (Fiandaca-Musco, 144). Fra gli studiosi della norma, peraltro, sembra prevalere una visione molto larga di quello che è il fondamento oggettivo della condotta punita; si giunge infatti a far coincidere il concetto di possesso qui rilevante con quello di mera detenzione della res, della quale il soggetto vada poi ad appropriarsi. Il dato basilare, comunque, è rappresentato dal fatto che esista — quale momento prodromico, ad un tempo storico e logico, della condotta — una disponibilità della cosa in capo al soggetto agente. Disponibilità da intendersi tanto alla stregua di un potere di fatto, quanto come potere di natura meramente dispositiva. Aggiungiamo infine come la norma pacificamente postuli la piena legittimità del momento genetico del possesso o comunque della disponibilità. Deve trattarsi, insomma, di una relazione con la cosa che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio abbiano instaurato legittimamente; sarebbe a dire, senza l'adozione di condotte violente o intimidatorie ed in assenza di atteggiamenti in qualche modo truffaldini. In tali casi, infatti, la condotta sarebbe da ricondurre ad altre previsioni incriminatrici. Segue. La nozione di « disponibilità »La lettera della legge — laddove si individua il presupposto della condotta tipica nel possesso, o comunque nella disponibilità della res — rende chiaro il modo in cui il legislatore ha inteso i due concetti. Questi si atteggiano infatti quali momenti tra loro distinti dell'unica, vasta categoria rappresentata dalla disponibilità dell'oggetto materiale dell'appropriazione. Pare allora chiaro come qui il possesso — comprensivo della detenzione — altro non sia, se non una sottocategoria del concetto di disponibilità. Si è allora osservato, giustamente, come l'introduzione del concetto di disponibilità — nel testo vigente della norma — abbia in realtà avuto la funzione di rimarcare in maniera netta l'idea dell'esistenza di un potere giuridicamente rilevante sulla cosa, sebbene esso poi si risolva in un semplice potere di fatto. Pare infatti chiaro che, in assenza di un potere giuridico sulla cosa, non si potrebbe immaginare nemmeno la possibilità, per il soggetto agente, di abusare di tale potere (De Luca-Segreto, 99; i medesimi Autori hanno qui anche condivisibilmente evidenziato come tale idea della disponibilità — quale scaturigine ed elemento fattuale antecedente, rispetto alla condotta punita — elida anche in radice la diatriba attinente alla differenziazione fra cosa contenuta e cosa contenente). In conclusione. I concetti di possesso e di disponibilità sono stati così mirabilmente sintetizzati, con descrizione che riteniamo opportuno richiamare nella sua interezza: “...si ha il possesso o comunque la disponibilità del denaro o della cosa, da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio: 1) quando il soggetto ha un potere sulla cosa cosiddetto immediato, integrante possesso; 2) quando il soggetto ha il possesso in concorso con altri soggetti; 3) quando il soggetto ha della cosa soltanto il potere giuridico di disporne, avendo altri il possesso; 4) quando il soggetto ha della cosa soltanto la detenzione, purché essa si risolva in un potere giuridico sulla cosa (custodia, amministrazione, ecc.)” (De Luca-Segreto, 100). I Giudici di legittimità – sul punto relativo al concetto di disponibilità – hanno chiarito come non sia conforme al modello legale in commento la condotta tenuta da un consigliere regionale il quale, in mancanza di sua disponibilità dei fondi destinati al funzionamento del gruppo consiliare di appartenenza, percepisca rimborsi imputati proprio su tale fondo e inerenti a spese non passibili di rimborso. Il paradigma normativo de quo resta infatti integrato esclusivamente allorquando sussista una condotta di appropriazione di somme di denaro in ordine alle quali il soggetto agente abbia la effettiva e diretta disponibilità, mentre la legislazione regionale applicabile al caso di specie riconduce al solo capogruppo – e non al singolo componente del gruppo – la disponibilità dei fondi sopra detti (Cass. VI, n. 40595/2021). MaterialitàLa condotta punita La condotta tipica di appropriazione è qualificabile alla stregua di un atteggiarsi del soggetto agente, verso il denaro o verso la cosa mobile, quale proprietario e non più quale mero detentore nomine alieno. Viene dunque qui in rilievo il compimento di qualsivoglia atto — dispositivo o strettamente appropriativo — rientrante nella sfera dei diritti e delle facoltà spettanti al solo proprietario. La realizzazione dell'interversio possessionis (sotto il profilo psicologico) ed il compimento di atti spettanti al solo proprietario (quindi, il fatto di tenere un comportamento uti dominus) sono dunque gli elementi che connotano la condotta incriminata. In caso di particolare tenuità del fatto, potrà trovare applicazione la diminuzione sanzionatoria prevista dall’art. 323-bis. Questa è stata dunque così descritta: “Appropriarsi di una cosa è sinonimo di comportarsi verso di essa da proprietario (di fatto, s'intende, perché l'acquisto della proprietà non sarebbe giuridicamente possibile). Così agendo, l'autore inverte il possesso della cosa da possesso per conto di altri a possesso per conto proprio e la medesima osservazione può essere ripetuta riguardo alla disponibilità” (Vinciguerra, 340). A tale nozione della condotta di appropriazione deve ovviamente essere riportata la distrazione del bene. Un fatto che — nella veste della norma antecedente alla novella sopra ricordata del 1990 — era previsto in maniera disgiunta, rispetto a quella dell'appropriazione. Parte della dottrina ha per la verità inteso l’elisione del termine distrazione — nella attuale formulazione della norma — come l'espressione di una precisa intenzione del legislatore. Una intenzione tesa ad espellere dall'area della punibilità ex art. 314 le condotte distrattive, per ricondurle eventualmente sotto l'egida normativa dell'abuso d'ufficio di cui all'art. 323. Eppure, distrarre qualcosa altro non può significare, se non stornare verso altro scopo, impiegare cioè tale cosa per un uso difforme, rispetto a quello proprio derivante dalla intima destinazione (intesa, quest'ultima, in senso sia naturalistico che giuridico). Si tratta dunque del caso in cui il soggetto agente eserciti un potere dispositivo sulla res — della quale egli abbia la disponibilità giuridica per ragioni d'ufficio — in maniera tale da provocare una modifica nella destinazione funzionale della cosa stessa. Pare allora, in definitiva, preferibile ritenere che anche la condotta distrattiva sia pienamente in grado di integrare gli estremi della fattispecie delittuosa de qua. Molto dibattuta è, in dottrina e in giurisprudenza, la questione attinente alla punibilità a titolo di peculato delle cd. “spese di rappresentanza”. Trattasi di esborsi in relazione ai quali non esiste, in effetti, una precisa definizione normativa; si è infatti scritto quanto segue: “La natura in esame può essere riconosciuta esclusivamente alle spese destinate a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente al fine di accrescerne il prestigio nel contesto sociale in cui si colloca … tale funzione promozionale rappresenta la finalità che giustifica l’attribuzione della somma ed il suo utilizzo” (Giordano, 1). L'oggetto materiale della condotta Questo è da identificarsi innanzitutto nel denaro, ossia in monete o banconote che abbiano corso legale in Italia o all'estero. Agli effetti della legge penale, l'art. 458 stabilisce poi una equipollenza, tra le monete e le carte di pubblico credito (carte e cedole al portatore emesse dai Governi, e tutte le altre aventi corso legale emesse da istituti a ciò autorizzati). Rientrano poi nella previsione normativa tutte le altre cose mobili (sarebbe a dire, qualsivoglia tipo di bene, che presenti una specifica attitudine ad essere centro di imputazione di diritti e che differisca comunque dal denaro stesso, senza però essere riconducibile alla categoria dei beni immobili descritta dall'art. 812 c.c.). Per cosa mobile deve quindi qui intendersi ogni cosa che sia mobile per natura o comunque mobilizzabile, oltre che l'energia elettrica e tutto ciò che comunque possa avere un valore economicamente apprezzabile. La casistica fornita dalla realtà fenomenica è, per la verità, molto variegata. Si è giustamente osservato, in primo luogo, come non possa mai commettersi il reato di peculato, mediante appropriazione di una cosa non appartenente ad alcuno; per cui l’agente che, “mediante specificazione, rende commerciabile una res nullius, anche se ne consegue il possesso in virtù di ufficio, non commette peculato, in quanto manca l’appartenenza alla pubblica amministrazione” (Riccio, 738). La gamma di possibilità è ovviamente infinita, per cui sostanzialmente ogni cosa che possa divenire oggetto di appropriazione, potrà costituire l’oggetto materiale del reato, in presenza naturalmente degli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie; per cui, ad esempio “chi si appropria di cadaveri, appartenenti ad una clinica universitaria, potrà rispondere anche del reato di peculato e non già soltanto di sottrazione di cadaveri (art. 411)” (Riccio, 738). Non è poi controverso che si possa perpetrare il peculato su strumenti, attrezzature, arredi, mobili o in genere beni comunque in dotazione negli uffici e che siano inventariati e destinati all’utilizzo presso le varie amministrazioni. Aspramente criticata dagli interpreti più accorti è poi la tesi che ricomprende — fra i possibili oggetti materiali del reato di peculato — anche gli impulsi elettronici. Il problema ha tratto in passato spunto, essenzialmente, da vicende concrete, moltiplicatesi in proporzione alla sempre crescente diffusione dell’uso degli strumenti informatici. In particolare, il tema ineriva alla qualificazione giuridica da attribuire alle condotte di uso abusivo dell’utenza telefonica e della relativa connessione alla rete internet, ad opera di soggetti appartenenti alla Pubblica Amministrazione. Si è qui giustamente sottolineato — per la verità, dopo lungo e acceso contrasto di opinioni — come il fatto di considerare quale possibile oggetto di appropriazione tali elementi immateriali costituisse, sotto il profilo scientifico prima ancora che giuridico, una vera forzatura (Pisa, 1197). Per la giurisprudenza (v. infra), tale fatto è ormai pacificamente da ricondurre all’ipotesi del peculato d’uso; si parte infatti ora dal principio che oggetto materiale della condotta appropriativa altro non è, se non l’apparecchio telefonico o lo strumento informatico. Occorre infine che la cosa sulla quale si realizza la condotta di appropriazione appartenga a terzi, ossia possa essere definita altrui. Si tratta di una specificazione introdotta dalla sopra ricordata novella del 1990, la quale ha abrogato l’art. 315 ed ha ricompreso nell’alveo previsionale dell’articolo in esame le condotte di appropriazione aventi ad oggetto cose non solo di proprietà della pubblica amministrazione, ma anche appartenenti a terzi a questa estranei. Ciò che dunque rileva è il fatto che il soggetto agente possa o meno vantare sulla cosa un potere dispositivo autonomo. Derivante questo, ovviamente, non dalla sola proprietà, bensì da qualsivoglia altro diritto reale o di obbligazione, che legittimi eventualmente il soggetto al compimento autonomo di atti di appropriazione. Elemento psicologicoIl coefficiente psicologico richiesto dalla norma è il dolo generico, rappresentato dalla coscienza e volontà di porre in essere una condotta appropriativa, in relazione ad alcune tipologie di beni. Si è però giustamente sottolineato come tale coscienza e volontà debba riconnettersi alla generalità degli elementi costitutivi del fatto tipico. E dunque alla qualità soggettiva, all'esistenza del possesso o della disponibilità; ma anche alla natura, in sé considerata, delle cose che sono oggetto di appropriazione. Molto discussa è — sul punto specifico — la rilevanza che debba attribuirsi all'errore che verta su alcuno degli elementi costitutivi della fattispecie (destinazione della res, altruità della stessa, esistenza di una ragione ricollegabile all'ufficio o servizio, nonché riconoscimento della qualifica propria del soggetto agente). L'aspetto che, in particolare, rimane qui controverso è quello della configurabilità di un errore sul fatto — come tale in grado di escludere la punibilità — ovvero di un errore vertente su norma extrapenale integratrice del precetto, quindi destinata a non produrre un effetto scusante (si veda Caringella-De Palma-Farini-Trinci, 148). Parte della dottrina ha infatti rimarcato come l'errore, allorquando si incentri sulle norme extrapenali che regolamentano i confini dei poteri connessi alla funzione, si tramuti in effetti in un errore sul fatto. Si è fatto in proposito l'esempio del pubblico ufficiale che — pur avendo ben chiara l'esistenza del precetto ex art. 314 — esorbiti dai limiti dei suoi poteri dispositivi a causa di un errore sulla legge non penale, che disciplina i poteri dispositivi a lui riservati. In tal caso l'errore “non potrà dirsi caduto sul precetto ma su quel particolare elemento del fatto consistente nella delimitazione normativa delle facoltà spettanti al pubblico ufficiale. La condotta che questi vuole sarà dunque diversa da quella descritta nella fattispecie incriminatrice contenuta nell'art. 314” (Licitra, 101). La giurisprudenza, comunque, è tendenzialmente orientata a ritenere in tali casi esistente un errore non scusabile, vertente su norma extrapenale integratrice del precetto. Consumazione e tentativoIl delitto di peculato giunge a consumazione nel momento e nel luogo in cui si perfeziona la condotta di appropriazione; sul punto, è stata giustamente rimarcata l'irrilevanza — ai fini dell'individuazione del momento consumativo del reato — di una eventuale restituzione della cosa sottratta (Alpa,Garofoli, 170). Occorre sottolineare come la linea di demarcazione del momento consumativo del reato sia qui da ricercarsi nell'esistenza dell'interversio possessionis, in capo al soggetto agente: il reato, insomma, si consumerà nel momento e nel luogo in cui colui che ne aveva il semplice possesso o la sola disponibilità inizi, invece, ad atteggiarsi in maniera incompatibile con il mantenimento di tale tipo di rapporto con la cosa. Prendendo invece a comportarsi uti dominus e ad adottare schemi comportamentali che sono riservati unicamente al proprietario. Non sembrano davvero esservi ragioni — di ordine logico o pratico — perché si debba dubitare della configurabilità del tentativo. Ciò è a dirsi, in special modo, con riferimento a quelle modalità appropriative che — sotto l’aspetto attuativo, concretamente esecutivo — comportino il frazionamento dell’iter criminis in una pluralità di segmenti. Il c.d. peculato d'usoParticolarità della fattispecie Trattasi della previsione contenuta nel secondo comma della norma in commento, laddove è previsto il fatto del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che si appropri della cosa, ma al solo fine di farne un uso momentaneo; a patto però che, dopo tale uso, la cosa venga restituita, ossia riportata nella disponibilità materiale o giuridica dell'avente diritto. Sotto il profilo sistematico, la dottrina ormai prevalente interpreta la disposizione — differente sotto il profilo strutturale dall’ipotesi principale, nonché meno rigorosa per quanto concerne l’aspetto sanzionatorio — quale figura autonoma di reato, piuttosto che quale ipotesi circostanziata attenuata del delitto di peculato (in tal senso, fra tanti, Caringella-De Palma-Farini-Trinci, 152; per una opinione contraria, si veda De Luca-Segreto, 129). La ratio della più mite previsione sanzionatoria risiede evidentemente nella minor potenzialità lesiva nei confronti dei beni giuridici tutelati, che è insita in una condotta di appropriazione — e quindi, di utilizzo — che presenti connotati di limitatezza temporale e di non definitività. La stessa formulazione letterale della norma lascia poi intendere, in primo luogo, come debba trattarsi di condotta astrattamente conforme al paradigma normativo del peculato comune; vi deve però essere una appropriazione che si estenda entro un arco cronologico di più breve durata, sostanzialmente coincidente con quello necessario perché il soggetto agente faccia uso della cosa. Trattasi ovviamente di un concetto molto generico e di difficile definizione, chiaramente rimesso al prudente apprezzamento dell'interprete. Pare peraltro insito nella norma anche il fatto che lo stesso utilizzo della res non debba essere troppo distanziato — sempre sotto l'aspetto cronologico — rispetto alla precedente condotta appropriativa. Diversamente da quanto è a dirsi con riferimento alla figura principale di peculato comune, il peculato d'uso postula l'esistenza di un dolo specifico, atteso che la condotta appropriativa è qui posta in essere al precipuo fine di fare un uso cronologicamente limitato della cosa. In tema, si è specificato che il “dolo del peculato d'uso, pertanto, coincide con quello del peculato comune nei suoi contenuti rappresentativi (qualifica soggettiva pubblicistica, possesso o disponibilità per ragioni d'ufficio o di servizio, esistenza di diritti altrui sulla cosa), ma se ne differenzia sotto il profilo volitivo; si richiede infatti che il soggetto attivo agisca al solo scopo di fare un uso momentaneo della cosa” (Caringella-De Palma-Farini-Trinci, 154). Alcuni interpreti della norma, peraltro, hanno individuato qui la sussistenza di un dolo intenzionale; questo troverebbe origine nel fatto che l'utilizzo circoscritto nel tempo della cosa, nonché la restituzione della stessa, costituiscono in effetti proprio gli elementi costitutivi della fattispecie tipica. Momento fondamentale del peculato d'uso — e linea di demarcazione ontologica e concettale rispetto alla figura principale — è poi la restituzione della cosa oggetto di appropriazione. Il verbo restituire deve qui intendersi secondo una accezione in qualche modo lata, nel senso che esso implica semplicemente la reintegrazione della cosa nella sua destinazione funzionale originaria, ossia precedente rispetto alla condotta di appropriazione. Occorre però che tale momento della condotta sia concretamente apprezzabile, perché si possa reputare configurato il peculato d'uso. Sarebbe a dire che la restituzione della cosa deve avvenire in concreto. Non rileva dunque la mera volontà di restituire, laddove essa non si traduca in atti concreti di ricollocamento della cosa stessa nella posizione originaria e quindi, laddove l'intenzione non appaia poi trasmigrata nel campo dell'oggettività. La restituzione deve inoltre presentare il carattere della volontarietà, sebbene non anche quello della spontaneità. Infine, la dottrina prevalente esclude la configurabilità del tentativo di peculato d'uso (De Luca-Segreto, 133). Le cose passibili di peculato d'uso Con riferimento all'oggetto materiale della condotta del peculato d'uso, pare chiaro come — attenendosi rigorosamente alla lettera della norma — esso possa riguardare in via esclusiva le cose di specie. Nella norma di cui al secondo comma dell'art. 314 — a differenza di quanto accade in relazione all'ipotesi principale del peculato — è peraltro contenuto solo il riferimento alle cose, con esclusione quindi del richiamo anche al denaro, cosa fungibile per definizione. Ed è un dato letterale incontestabile, che già sembra indicare la volontà del legislatore di espellere dal perimetro applicativo della norma tutte le cose fungibili. Naturalmente, le cose fungibili possono divenire oggetto di peculato d'uso, laddove esse vengano considerate nella loro specificità, dunque considerate alla stregua di cose di specie [De Luca-Segreto, 127; l'esempio qui giustamente prospettato dagli Autori è quello nel quale ci si appropri di una somma di denaro individuata nelle varie banconote e dopo l'uso momentaneo (ad esempio come deposito cauzionale) vengano restituite le stesse banconote]. La restituzione — dopo il momentaneo utilizzo — del medesimo valore di cose di genere, pertanto, dovrebbe comportare la configurabilità del peculato d'uso. Quindi. Attenendosi a tale corrente dottrinaria, l'appropriazione di cose di specie seguita da uso momentaneo delle stesse dovrebbe comportare — ove seguita dalla restituzione delle medesime cose, integre quanto a valore specifico — la qualificazione della condotta quale peculato d'uso; parimenti, nel caso di appropriazione ed uso momentaneo di cose di genere, la restituzione di queste nel medesimo valore generico sottratto dovrebbe realizzare il fatto tipizzato dal secondo comma della disposizione normativa in esame. Contro tale impostazione, si è però sottolineato che le cose di genere e quelle consumabili vengono comunque sempre in rilievo non nella loro materialità, ossia con riferimento al valore specifico che esse presentano; tali cose devono invece essere sempre considerate quali rappresentative di un valore di genere, rapportato essenzialmente alla quantità. Si segnala l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, in ordine alla fattispecie di reato configurabile nel caso in cui venga fatto un uso momentaneo e a fini egoistici di un’auto di servizio. Ritengono alcuni essere in tal caso configurabile il reato di peculato e non quello di peculato d’uso, trattandosi di condotta vietata in senso assoluto; in carenza infatti di specifiche deroghe, il bene dovrebbe considerarsi destinato in via esclusiva al soddisfacimento di esigenze di carattere pubblico (in questo senso si sono espresse Cass. VI, n. 26330/2019 e Cass. VI, n. 39832/2019). Si rinvengono però diverse pronunce di segno contrario, le quali ritengono integrato in tale condotta il delitto di peculato d’uso; quest’ultimo orientamento pone l’accento sul pregiudizio che l’uso privatistico del bene arreca all’ordinaria funzionalità dell’attività amministrativa, pur in assenza di una significativa lesione di carattere patrimoniale (così Cass. VI, n. 5206/2017 e Cass. III, n. 26616/2013).. Il rapporto con altri delittiL'elemento distintivo basilare del modello legale in commento, rispetto ad altre figure delittuose, è costituito dall'essere qui il possesso - o comunque la disponibilità della res - un antecedente necessario, ossia il momento prodromico indefettibile della condotta. Dunque, nel peculato il soggetto agente ha già instaurato la relazione con la cosa, prima di compiere la condotta appropriativa cristallizzata nella previsione incriminatrice. Nel caso invece della truffa circostanziata ex art. 61 n. 9 — in quanto aggravata dall'abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri connessi all'esercizio di una pubblica funzione o di un pubblico servizio — è lo stesso impossessamento della cosa a rappresentare il risultato degli artifici o raggiri posti in essere dal soggetto attivo del reato. In questo caso, quindi, nel momento iniziale della condotta il soggetto agente ancora non ha la disponibilità della cosa della quale poi si approprierà. L'archetipo normativo in esame differisce dall'abuso d'ufficio ex art. 323 (che ha natura sussidiaria, lo ricordiamo), in quanto qui non si realizza una condotta propriamente consistente in una appropriazione, bensì una mera deviazione di carattere funzionale. Rappresentata essenzialmente dal fatto di adoperare beni ricollegabili alla pubblica funzione per un fine che è diverso, rispetto a quello in relazione al quale era stato legittimamente affidato il bene stesso al soggetto agente. Più sottile è invece la linea di confine esistente fra la figura del peculato e quella dell'appropriazione indebita di cui all'art. 646, aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 9. Parte della dottrina individua la differenza nell'esistenza o meno di una causa inerente all'ufficio o servizio ricoperto, quale ragione giustificatrice e titolo di legittimazione della disponibilità della cosa. Nel peculato, infatti, il soggetto agente ha la disponibilità della cosa direttamente per ragioni inerenti alla qualità; nell'appropriazione indebita aggravata, invece, tale “qualificazione del possesso non vi è ed il soggetto risponde del reato per aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o servizio” (De Luca-Segreto, 142). Ancora. Può divenire oggetto materiale della condotta di appropriazione anche ogni cosa mobile che si trovi custodita in un ufficio pubblico, ovvero presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio; se ne deduce che rientrano in tale categoria anche i corpi di reato, gli atti e i documenti. Potrà quindi realizzarsi il delitto di peculato anche nei confronti di tali oggetti, quando il soggetto agente rivesta la qualifica soggettiva richiesta. Tale qualità vale infatti a differenziare la fattispecie in commento dal fatto tipizzato dall'art. 351, come del resto dimostra l'espressa clausola di riserva ivi contenuta («qualora il fatto non costituisca un più grave delitto»). Si ritiene ammissibile il concorso fra il reato di peculato e quello di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza, tipizzato dall'art. 616. Non si ritiene infatti esistente un rapporto di specialità tra le due figure, nonostante l'inserimento — nella lettera dell'art. 616 — di una espressa clausola di riserva, contenuta nella frase «se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge». Trattasi infatti di fattispecie incriminatrici radicalmente differenti. Anzitutto, quanto a condotta tipica. Il peculato punisce infatti l'appropriazione di oggetti che vengono definiti in maniera onnicomprensiva, ossia solo sotto il profilo naturalistico ed ontologico (appunto con la dizione «denaro o altra cosa mobile»); la fattispecie ex art. 616, invece, prevede il diverso fatto di prendere indebitamente visione di una cosa (ovvero anche di sottrarla o distrarla), la quale cosa è ben determinata nella tipologia (trattasi appunto della corrispondenza). Nemmeno collima, del resto, il bene-interesse che è oggetto di salvaguardia nelle due disposizioni normative. Nessun dubbio, quindi, sulla piena ammissibilità del concorso fra le due fattispecie. Cass VI, n. 14402/2021 si è soffermata sul tema dell’ammissibilità del concorso fra le fattispecie di peculato e di bancarotta fraudolenta per distrazione; il thema decidendum consiste qui nel verificare se sia configurabile un concorso formale tra i due modelli legali (se quindi intercorra fra gli stessi un rapporto di specialità rilevante ai sensi degli artt. 15 e 84), o se tali norme si atteggino secondo il diverso schema del concorso apparente (nel senso pertanto che una di esse assorba interamente il disvalore dell'altra). Trattasi secondo i Giudici di legittimità di paradigmi normativi che tra loro si differenziano sotto molteplici profili: a) con riferimento al soggetto attivo; b) in ordine all'interesse tutelato (la bancarotta non esaurisce l'offensività del delitto di peculato; c) per quanto attiene alle modalità di aggressione al bene giuridico tutelato (secondo il modello legale delineato all’art. 314 non assume rilievo ogni condotta che abbia una natura appropriativa, a differenza di quanto invece avviene nel caso della bancarotta); d) per la carenza di una condizione di punibilità (questa è presente nel reato fallimentare, in relazione al quale vale a rendere soltanto eventuale il fatto che una condotta di carattere appropriativo possa trasmigrare entro l’alveo normativo della bancarotta); e) in riferimento al tempo di consumazione del reato (il peculato ha la veste di reato istantaneo, relativamente al quale – a differenza di quanto accade per la figura tipica della bancarotta – non assume rilievo la riparazione). Ritenendo quindi che i due paradigmi normativi siano tra loro nettamente differenziati – sia sul versante della struttura oggettiva, sia per quanto attiene alla offensività – la Corte ha concluso nel senso che essi possano sicuramente concorrere. CasisticaIn ordine al concetto di possesso — rilevante ai fini dell'integrazione della norma in esame — il Supremo Collegio ha chiarito come debba farvisi rientrare non solo il possesso che appartenga alla peculiare competenza funzionale dell'agente, bensì anche il tipo di possesso che si basi — in via concreta, pratica — sulla mera possibilità per il soggetto di disporre della cosa d'altri. Dunque, anche quel possesso che si leghi all'esplicazione della pubblica funzione solo per il tramite di un nesso di semplice occasionalità (Cass. VI, n. 9660/2015). La Corte — nel ribadire come il possesso qualificato che è postulato dalla norma sia non solo quello riconducibile alla specifica competenza funzionale del soggetto, ma anche quello derivante da una relazione di fatto con la res, della quale si abbia quindi anche solo una disponibilità di fatto, solo occasionalmente connessa al ruolo ricoperto, ha poi anche specificato in quale modo vada interpretata la dizione codicistica di «ragione di ufficio o servizio». In essa, infatti, rientra anche la disponibilità di denaro o cosa mobile originata da un esercizio illegittimo - e persino arbitrario - delle funzioni. Nella concreta fattispecie, infatti, alcuni pubblici ufficiali avevano proceduto ad una perquisizione arbitraria, appropriandosi poi del denaro rinvenuto. (Cass. VI, n. 14825/2014). Al direttore dell'ufficio postale spetta ancora la qualifica di pubblico ufficiale, stante l'esistenza di poteri di natura certificativa riservatigli, oltre che in ragione della matrice tipicamente pubblicistica del servizio postale svolto; ciò è a dirsi anche all'indomani della modifica legislativa che ha reso l'amministrazione postale un ente pubblico economico, con successiva conformazione giuridica quale società per azioni (Cass. VI, n. 3897/2008). Ancora con riferimento alla posizione dei dipendenti di Poste Italiane S.p.A., la Corte (Cass. VI, n. 10875/2016) ritiene di attribuire loro la qualifica di persona incaricata di pubblico servizio – come tale, possibile soggetto attivo del reato di peculato – allorquando operino in veste di “bancoposta” (trattasi dell'attività che consiste nell'espletamento di servizi di natura non riservata, quali quelli concernenti la raccolta di fondi mediante libretti di risparmio postale o buoni fruttiferi). Secondo la giurisprudenza di legittimità, deve riconoscersi la veste di incaricato di pubblico servizio – in quanto tale, possibile soggetto attivo della fattispecie codicistica in commento - al legale rappresentante di una società privata, la quale sia attiva nel mercato bancario e che, più in particolare, si occupi della gestione di fondi finanziari che siano stanziati da un ente pubblico e che siano finalizzati al conseguimento di un interesse di natura pubblicistica (Cass. VI, n. 39350/2017). Secondo Cass. VI, n. 14171/2020, al presidente di un'associazione di volontariato, ricompresa nel sistema integrato di protezione civile, deve esser riconosciuta la veste di incaricato di pubblico servizio; ne deriva che configura il delitto ex art. 314 la condotta da questi tenuta, consistente nell'appropriazione di somme di denaro conferite all'associazione stessa dalla Direzione Regionale della protezione civile e destinate al perseguimento delle specifiche finalità pubbliche. Al medico ospedaliero che svolga attività libero-professionale fuori dell'orario di servizio — si tratti di attività intramoenia o extramoenia — è comunque sempre riconosciuta la qualità di pubblico ufficiale; tale attività resta infatti assorbita nell'alveo del servizio sanitario pubblico. Deriva da tale impostazione la configurabilità del reato di peculato (Cass. VI, n. 40182/2007). La Corte ha anche spiegato come l'albergatore che sia deputato — per conto del Comune — alla riscossione dell'imposta di soggiorno dagli ospiti, abbia la qualifica di soggetto incaricato di pubblico servizio; l'eventuale appropriazione delle relative somme da parte di tale soggetto, pertanto, integra il delitto di peculato e non quello di appropriazione indebita (Cass. VI, n. 32058/2018). Cass. VI, n. 30227/2020 ha ribadito la riconducibilità entro l'alveo previsionale dell'art. 314 delle condotte poste in essere in epoca antecedente, rispetto all'entrata in vigore dell'art. 180, comma 4 del d. I. n. 34 del 19.5.2020, convertito nella legge n. 77 del 17.7.2020 (cd. Decreto Rilancio). Trattasi della norma che ha mutato la disciplina del versamento dell'imposta di soggiorno da parte dei gestori delle strutture alberghiere e ricettive, delineando la figura del gestore della struttura come responsabile del pagamento dell'imposta, secondo lo schema già dettato dall'art. 64 d.P.R. n. 600/1973, assoggettandolo anche a sanzioni amministrative nel caso di mancata corresponsione della stessa. Logico corollario di tale impostazione normativa è il fatto che - a decorrere dall'entrata in vigore della novella - non sia più configurabile in tali ipotesi il delitto di peculato; ciò in quanto il denaro ancora non versato a titolo d'imposta non rappresenta denaro altrui e il gestore – nella veste di soggetto giuridico onerato del tributo - non può essere qualificato quale incaricato di pubblico servizio ex art. 358. Nel precedente quadro normativo, il gestore della struttura operava al contrario nella veste di ausiliario dell'ente locale nella riscossione del tributo e – gestendo egli il pubblico denaro – era qualificabile come un agente contabile con obbligo di rendiconto. Il Supremo Collegio ha poi escluso - nella modifica del quadro legislativo di riferimento di natura extrapenale, che governa il meccanismo di corresponsione dell'imposta di soggiorno - la verificazione di un fenomeno di abolitio criminis; tale esito ricorre infatti soltanto nel caso in cui la modifica incida su norme effettivamente integratrici della legge penale, quali le norme che colmano sotto il profilo contenutistico le norme penali in bianco ovvero le norme di carattere meramente definitorio, ma non in relazione alele norme alle quali facciano mero richiamo gli elementi normativi della fattispecie incriminatrice. Sotto il profilo dogmatico si è quindi in presenza di una successione nel tempo di norme extrapenali, all'esito della quale – in relazione ai fatti verificatisi in epoca antecedente rispetto alla sopra citata novella legislativa - sono restati intonsi sia il precetto exart. 314, sia la qualifica soggettiva, la cui ricorrenza è postulata dalla norma ai fini della punibilità a titolo di peculato. In senso conforme si è recentemente ancora espresso il Supremo Collegio (Cass. VI, 1256/2022) . Cass. VI, n. 9213/2022 ha invece escluso la permanente rilevanza penale delle condotte di omesso, ritardato o parziale versamento dell'imposta di soggiorno, perpetrate ad opera del gestore di una struttura ricettiva in epoca antecedente rispetto alla data del 19 maggio 2020. In tale decisione, la Corte ha precisato come l'art. 5-quinquies del d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, introdotto dalla legge di conversione 17 dicembre 2021 n. 215, abbia comportato un meccanismo di applicazione retroattiva. Ciò sia con riferimento alle modifiche apportate dall'art. 180 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito dalla legge 20 luglio 2020, n. 77 (sarebbe a dire, la norma che aveva assegnato a tale operatore turistico la qualifica di responsabile d'imposta, laddove la norma precedentemente in vigore lo investiva – nella veste di agente contabile - del servizio pubblico di riscossione del detto tributo), sia in ordine alla disciplina sanzionatoria di tipo amministrativo e tributaria conseguente a tale nuova qualifica, così derogando alle regole che ordinariamente reggono il diritto intertemporale nel campo degli illeciti amministrativi. Segnaliamo che secondo Cass. S.U. n. 6087/2021, resta integrato il modello legale de quo, nella condotta serbata dal gestore o esercente di apparecchi da gioco elettronici con vincita in denaro, leciti ex art. 110 commi 6 e 7 TULPS, il quale si impossessi dei proventi del gioco - con riferimento alla parte degli incassi che sia destinata al pagamento del cd. PREU (acronimo indicante il “prelievo erariale unico", dovuto sull'importo delle giocate al netto delle vincite erogate e di competenza della AAMS, Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato) – omettendo dunque di trasferirli al concessionario competente. Il Supremo Collegio ha anche chiarito come al medico dipendente di ospedale pubblico, il quale espleti la cd. attività intramuraria allargata in regime di convenzione (attività svolta presso lo studio privato), sia da riconoscere la veste di pubblico ufficiale. E quindi colui il quale — una volta riscossa dal paziente la parcella dovuta per la prestazione effettuata secondo tale regime — ometta di corrispondere la quota riconosciuta alla A.S.L., commette il reato di peculato (Cass. VI, n. 29782/2017). L'elemento psicologico preteso dalla norma consiste nel semplice dolo generico, non essendo indispensabile — per l'integrazione della fattispecie ex art. 314 — il perseguimento di un ingiusto profitto. Infatti, essendo il delitto in esame un reato di natura plurioffensiva, la stessa appropriazione del denaro o della cosa mobile realizza il travalicamento dei confini, attribuiti dalla legge al possesso riservato al soggetto agente (Cass. VI, n. 8009/1993). L'uso del telefono d'ufficio per finalità egoistiche, personali, dunque estranee alle attribuzioni inerenti alla funzione svolta — oltre che non motivato da specifiche e comprovate ragioni d'urgenza o legittimato da uno specifico provvedimento abilitante — può concretizzare la condotta tipica del delitto di peculato. A condizione però che tale fatto provochi un danno apprezzabile al patrimonio della Pubblica Amministrazione, ovvero di terzi. Ciò consente di espellere dall'area del penalmente rilevante quelle condotte insignificanti sotto il profilo dell'esplicazione della funzione, nonché irrilevanti sotto l'aspetto delle conseguenze economiche. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto integrato il peculato d'uso, nel fatto di un amministratore comunale che — avendo avuto in uso un telefono per lo svolgimento delle funzioni — vi aveva attivato una connessione alla rete internet ed aveva adoperato servizi aggiuntivi, provocando all'ente un danno calcolato in circa 11.000,00 euro in un lasso di tempo pari ad un biennio (Cass. VI, n. 50944/2014). Sulla medesima direttrice interpretativa, si segnala altra decisione della Corte, secondo la quale non è ipotizzabile il reato di peculato — nella condotta consistente nel fare un utilizzo solo episodico e occasionale di una autovettura di servizio, laddove tale abusivo comportamento non abbia cagionato apprezzabili menomazioni alla funzionalità della pubblica amministrazione e non abbia provocato un danno economico di entità almeno valutabile. Da rapportarsi, tale danno, tenendo presente il consumo di carburante che si sia reso necessario per tale indebito utilizzo, nonché le energie lavorative degli autisti dipendenti che siano stati impiegati per tale uso personalistico, quindi distolti da altre funzioni proprie (Cass. VI, n. 7177/2010). In ordine alla medesima problematica — uso della vettura di servizio per scopi egoistici — segnaliamo anzitutto Cass. S.U., n. 19054/2013 (pronunciata con riferimento al delitto ex art. 646, ma importante comunque, in quanto contiene la perimetrazione del concetto di appropriazione). Ricordiamo poi come tale condotta sia stata a volte qualificata come peculato d'uso (si veda, fra tante, Cass. VI, n. 34248/2011); altre volte ricondotta sotto l'egida normativa dell'art. 323, ossia quale abuso d'ufficio (in tal senso da ultimo, Cass. VI, n. 19547/2012, laddove tale scelta viene limitata ai casi di mancanza di apprezzabile danno per la pubblica amministrazione, nonché motivata con il richiamo alla natura sussidiaria di tale figura tipica). Il fatto del pubblico ufficiale che ceda a soggetti terzi, estranei all'amministrazione, una scheda SIM – affinché questi la adoperino quali proprietari - integra il delitto di peculato. Risulta infatti in tal modo leso il vincolo di necessaria strumentalità fra la res e lo svolgimento delle funzioni che sono proprie dell'amministrazione (Cass. VI, n. 49258/2017). L'attività lavorativa non è assimilabile al concetto di cosa mobile, trattandosi invece di estrinsecazione di una energia umana, come tale non suscettibile di appropriazione. Discende da tale assunto, il fatto che non integra il reato di peculato, la condotta del pubblico ufficiale che volga a proprio vantaggio l'attività del soggetto sottoposto (Cass. VI, n. 18465/2015). La Corte ha però anche spiegato come siano riconducibili alla categoria dei beni mobili — possibili oggetto del delitto di peculato — anche quei beni immateriali , quale è ad esempio una banca dati informatica; ciò accade allorquando tali beni presentino un intimo valore immediatamente valutabile in termini patrimoniali (Cass. VI, n. 33031/2018). Il delitto di peculato deve ritenersi integrato non solo in presenza di una ragione di servizio (titolo legittimante il possesso) che sia riconducibile alle attribuzioni specifiche del soggetto, direttamente connesse alla funzione svolta, bensì anche in presenza di quelle situazioni di possesso originate da prassi e consuetudini. La Corte ha qui ritenuto configurabile il reato, in presenza di una condotta appropriativa posta in essere da un ausiliario socio-sanitario di una A.S.L.: questi era stato addetto a svolgere le mansioni di infermiere e si era appropriato di alcune siringhe, costituenti la dotazione del reparto. I Giudici hanno ritenuto che tale condotta fosse stata favorita proprio dal fatto che lo svolgimento della mansione avesse permesso il libero accesso e la facile instaurazione di una relazione con la res — così realizzandosi un nesso di necessaria occasionalità — anche prescindendo dunque dal requisito dell'affidamento in custodia (Cass. VI, n. 27850/2001). La nozione di possesso rilevante ai fini dell'integrazione della norma in esame deve ricondursi non solo alla materiale detenzione della cosa, bensì anche al concetto di disponibilità giuridica. Da intendersi, questa, quale attitudine del soggetto al compimento di atti dispositivi rientranti nelle sue competenze specifiche, oppure ricollegabili a prassi o consuetudini, che siano consolidate nell'articolazione amministrativa all'interno della quale il soggetto medesimo si trovi inserito e che gli consentano di maneggiare il denaro. Deriva da tale assunto il fatto che l'inversione del titolo detentivo, da parte del soggetto che prenda ad esplicare facoltà riservate al solo proprietario, può concretizzarsi anche secondo le forme della disponibilità giuridica — autonoma e priva di vincoli derivanti da norme o atti amministrativi — del denaro (Cass. VI, n. 7492/2012). La principale differenza strutturale riscontrabile fra i delitti di peculato e di truffa aggravata dall'abuso dei poteri, ovvero dalla violazione dei doveri connessi all'esercizio di pubbliche funzioni ex art. 61 n. 9, risiede nelle modalità acquisitive del possesso o della detenzione di ciò che formi oggetto dell'appropriazione. Ricorre infatti il delitto di peculato, allorquando la condotta appropriativa si esplichi su cose delle quali il soggetto agente aveva già il possesso, in un momento antecedente rispetto a tale condotta; il fatto sarà invece riconducibile entro l'alveo normativo della truffa, nel caso in cui il possesso stesso — prima inesistente — venga acquisito mediante una condotta fraudolenta (Cass. VI, n. 5087/2014). È configurabile il reato di abuso d'ufficio e non quello di peculato, allorquando vi sia un uso indebito di una determinata cosa, senza che però che da ciò derivi una perdita della stessa per chi ne sia proprietario e senza che si concretizzi un danno economico in capo all'avente diritto (Cass. VI, n. 14978/2009). Secondo l'insegnamento della Suprema Corte, la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, il quale adoperi il telefono in dotazione all'ufficio per fini egoistici — laddove non ricorrano ragioni d'urgenza e tale fatto non sia autorizzato da specifica autorizzazione — è riconducibile sotto l'egida normativa del reato di peculato d'uso. A condizione, però, che tale fatto comunque provochi una menomazione alla funzionalità dell'articolazione amministrativa alla quale appartenga il soggetto agente, oltre che un danno patrimoniale di entità perlomeno valutabile all'amministrazione. Il medesimo fatto, invece, dovrà essere considerato irrilevante sotto il profilo penale, quando risulti privo di conseguenze economiche e funzionali di apprezzabile portata, tanto da apparire del tutto privo di offensività in concreto (Cass. S.U. , n. 19054/2012). Il Supremo Collegio ha poi recentemente chiarito come integri gli estremi del delitto in commento la dazione a soggetto terzo – ad opera di un pubblico ufficiale - di una scheda SIM appartenente all'ufficio, affinché il percettore la adoperi liberamente; tale condotta viola infatti lo specifico vincolo di destinazione attribuito alla cosa dalla P.A., che ne è proprietaria (Cass. VI, 49258/2017). In ordine agli elementi differenziali esistenti fra la condotta tipica del peculato e quella invece in grado di integrare il delitto di appropriazione indebita, aggravata ex art. 61 n. 9, la Cassazione ha chiarito come esista una differenza che è insita nella stessa oggettività del reato. Nella previsione incriminatrice in commento, infatti, il possesso del denaro o della cosa mobile è motivato da ragioni inerenti all'ufficio o al servizio. Nella condotta tipica dell'appropriazione indebita aggravata, invece, si verifica un affidamento della cosa che avviene intuitu personae e che non è correlato alle specifiche ragioni d'ufficio; l'abuso dei poteri o la violazione dei doveri, dunque, svolgono in tal caso solo una funzione facilitatrice della condotta, in quanto valgono a rimuovere gli ostacoli rispetto all'attività appropriativa e ad agevolare l'agente nella commissione del fatto delittuoso (Cass. VI, n. 34884/2007). All'interno della locuzione - concettualmente molto ampia - di appropriazione, rientra anche la nozione di distrazione. Integra dunque il reato di cui all'art. 314 la condotta consistente nel distrarre una determinata cosa, ossia nell'attribuire a questa una destinazione differente, rispetto a quella intimamente connessa al titolo legittimante il possesso in capo al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio che si renda autore del fatto. Nella concreta fattispecie, la Cassazione ha ritenuto integrato il delitto di peculato, nella condotta serbata da un incaricato di pubblico servizio che, piuttosto che investire le somme delle quali aveva la disponibilità per le finalità istituzionali di natura pubblicistiche, le aveva invece investite nell'acquisto di quote di fondi (Cass. VI, n. 25258/2014). È riconducibile al delitto di peculato il fatto di un dipendente dell'Enel che — essendo deputato al percepimento dei pagamenti destinati all'ente stesso, oltre che dotato di poteri transattivi nei riguardi di soggetti morosi e, infine, del potere di procedere al distacco delle utenze — si appropri del denaro dovuto dagli utenti (Cass. VI, n. 11417/2003). Nel caso in cui il profitto del reato di peculato — ossia di uno di quei reati indicati nella lettera dell'art. 322-ter — sia rappresentato dal denaro (ossia, dal bene fungibile per eccellenza), il giudice deve procedere alla confisca del profitto stesso in forma specifica, a mente dell'art. 322-ter comma 1 e non alla confisca per equivalente, a norma del secondo comma della medesima disposizione normativa. (Cass. VI, n. 21327/2015). La Corte ha ritenuto pienamente ammissibile il concorso fra il delitto di peculato e quello di violazione, sottrazione o soppressione di corrispondenza, di cui all'art. 616, tra i quali non sussiste alcun rapporto di specialità. I Giudici hanno qui chiarito come la clausola di riserva contenuta in tale ultima disposizione normativa sia riferita alla condotta punita proprio nell'art. 616, che consiste nel violare, sottrarre o sopprimere corrispondenza. La sussidiarietà espressa nell'art. 616, dunque, fa salva l'eventualità che altra norma possa prevedere come reato il medesimo fatto di violare, sottrarre o distruggere corrispondenza; condotta che — al contrario — è del tutto estranea al contenuto attuativo minimo, che è necessario per il perfezionamento del delitto di peculato. Delitto che presenta, peraltro, anche una diversa oggettività giuridica. Infine, è qui forse importante sottolineare come il caso concreto concernesse la condotta di un impiegato del servizio postale, il quale — una volta forzato una certa busta — si era impossessato del denaro che era contenuto nella stessa (Cass. VI, n. 11654/2005). Si configura il delitto di peculato nel caso in cui il fatto sia perpetrato ad opera di un soggetto estraneo alla pubblica amministrazione il quale, traendo in inganno il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, si appropri di una cosa della quale questi abbiano il possesso per ragioni d'ufficio. Infatti, la colpevolezza ex art. 48 dell'autore mediato è ammissibile anche in relazione ai reati propri, in relazione ai quali la qualifica soggettiva rappresenta un presupposto o un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice (Cass. VI, n. 4411/1996). Si veda invece Cass. VI, n. 38757/2016, a mente della quale ricorrono gli estremi del delitto de quo, nella condotta del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che coscientemente permetta ad un terzo estraneo l'uso indebito di un bene pubblico, motivato da un intento egoistico collegato alla perpetrazione di un illecito penale. Tale utilizzo, infatti, rappresenta una frattura del legame fra la res e l'agente pubblico (trattavasi, nella concreta fattispecie, del responsabile di un impianto comunale di cremazione il quale, non documentando lo svolgimento del servizio, consentiva a terzi di locupletare il valore del carburante occorrente per lo svolgimento del servizio stesso). Con riferimento al tema dell'errore, la Cassazione ha ritenuto non scusabile l'errore caduto sulle norme di contabilità, in una fattispecie inerente ad ipotesi di peculato per ritardato trasferimento di somme incassate dal pubblico ufficiale addetto alla riscossione. Hanno infatti ritenuto i Giudice trattarsi di errore caduto non sul fatto, bensì su norma integrativa del precetto penale (Cass. VI, n. 10020/1996). La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto integrato il modello legale del peculato, anche nella declinazione ex artt. 48/314, allorquando la res sulla quale vada a cadere la condotta appropriativa si trovi nella disponibilità concorrente di una pluralità di pubblici ufficiali, uno solo dei quali – mediante induzione in errore in danno degli altri - se ne appropri (Cass. II, n. 28555/2024; nello stesso si erano già espresse Cass. VI, n. 21986/2023; Cass. VI, n. 30637/2020; Cass. V, n. 15951/2015 e Cass. VI, n. 39039/2013) Nella definizione di "spese di rappresentanza" rientrano esclusivamente quelle che sono deputate ad espletare una funzione rappresentativa esterna dell'ente pubblico e che siano connotate dallo specifico fine di aumentarne la reputazione ed accrescerne il decoro, nell'ambito sociale nel quale esso opera (Cass. VI, n. 10135/2012; Cass. VI, n. 6405/2016).Secondo il Supremo Collegio, risponde del reato di peculato l'amministratore dell'azienda comunale cd. in house il quale – una volta stornata parte della retribuzione spettantegli al soddisfacimento di finalità sociali – prelevi denaro dalle casse della società municipalizzata servendosi di una carta di credito aziendale, al fine di effettuare spese di carattere personale. Il reato resta integrato anche allorquando gli importi che, per un intento solidaristico, erano stati lasciati nelle casse aziendali ad opera dello stesso amministratore superino - magari anche notevolmente - le somme di denaro in seguito indebitamente prelevate (Cass. VI, 53974/2016; Cass. VI, n. 12087/2020 ha anche chiarito come – in tema di peculato - la prova dell'indebito utilizzo di una carta di credito destinata ad affrontare spese istituzionali possa esser desunta - almeno sotto il profilo indiziario - dalla sussistenza di una omessa o insufficiente rendicontazione delle spese sostenute ad opera del pubblico agente, spese delle quali non venga fornita neanche in ambito processuale una esatta giustificazione, essendo una condotta del genere fortemente evocativa dell'avvenuta appropriazione). All'amministratore e legale rappresentante di una società privata – la quale sia concessionaria del servizio di riscossione dei tributi in ambito comunale – spetta la qualifica di incaricato di un pubblico servizio. Tale veste deriva dalla marcata impronta pubblicistica, che caratterizza l'espletamento del servizio. La conseguenza è che colui che - officiato appunto del servizio di riscossione dei tributi e nell'espletamento di tale pubblica funzione - riscuota del denaro a titolo di imposte comunali e poi ne ometta il versamento nelle casse comunali, si rende protagonista del delitto di peculato (Cass. VI, n. 46235/2016). Profili processualiIl reato in esame è reato procedibile d'ufficio e di competenza del Tribunale in composizione collegiale; è prevista la celebrazione dell'udienza preliminare. Per esso: a) è possibile disporre intercettazioni; b) l'arresto in flagranza è previsto come facoltativo in relazione all'ipotesi di cui al primo comma, mentre non è consentito in relazione all'ipotesi indicata nel secondo comma; il fermo è consentito in presenza dell'ipotesi di cui al primo comma, mentre non è consentito al ricorrere dell'ipotesi indicata nel secondo comma; c) è consentita l'applicazione della custodia in carcere e delle altre misure cautelari personali, ma solo al ricorrere dell'ipotesi di cui al primo comma; al ricorrere dell'ipotesi di cui al secondo comma della norma è peraltro consentita l'applicazione della misura interdittiva della sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio, ai sensi dell'art. 289 comma 2 c.p.p. In caso di condanna per il delitto in commento, l’art. 322-quater prevede la riparazione pecuniaria, da attuarsi mediante pagamento di una somma equivalente al prezzo o al profitto del reato, a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio (norma così novellata dalla l. n. 3/2019). L’art. 3 l. n. 97/2001 prevede che il dipendente di amministrazioni o enti pubblici, nei confronti del quale venga disposto il rinvio a giudizio in ordine al reato di peculato previsto dal primo comma della norma in commento, debba essere trasferito ad altro ufficio. L’art. 317-bis prevede, in caso di condanna per il reato di cui all’art. 314, la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nel caso in cui sia però inflitta, per effetto dell’applicazione di circostanze attenuanti, una pena inferiore ai tre anni di reclusione, tale interdizione avrà carattere temporaneo. Come conseguenza di sentenze definitive o ancora in attesa di passaggio in giudicato, in relazione al delitto in commento, vi è la previsione della incandidabilità alle cariche elettive regionali e negli enti locali provinciali, comunali e circoscrizionali, nonché la previsione della sospensione e decadenza di diritto per incandidabilità in relazione alle medesime cariche (si vedano gli artt. 7, 8, 10 e 11 d.lgs. n. 235/2012). L’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992, conv., con modif., in l. n. 356/1992 prevede, in caso di condanna o di applicazione di pena ai sensi e per gli effetti dell’art. 444 c.p.p., la confisca di denaro, beni o altra utilità, di cui non venga giustificata la provenienza e di cui — anche per interposta persona — il condannato risulti titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo. Occorre però che denaro, beni o altre utilità appaiano sproporzionati rispetto al reddito dichiarato dal condannato ai fini delle imposte sul reddito, ovvero all’attività economica svolta (v. ora art. 240-bis). L’art. 322-ter — come novellato dall’art. 1 l. n. 190/2012 — prevede, in relazione anche al reato di cui all’art. 314, la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo; qualora ciò non sia possibile, è prevista in tali casi la confisca di beni, di cui il colpevole abbia la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. Sottolineiamo che, prima della suddetta modifica — mediante la quale è stata inserita anche la previsione della confisca del profitto del reato, oltre che del prezzo dello stesso — la disposizione legislativa era stata aspramente criticata, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza. Si era, infatti, giustamente evidenziato come — almeno con specifico riferimento al reato di peculato — la previsione della confisca «per equivalente» esclusivamente in ordine al prezzo del reato, e non anche in relazione al profitto dello stesso, presentasse un marcato aspetto incongruità. Ciò in quanto — essendo concettualmente ipotizzabile in relazione al delitto in commento solo un profitto e non un prezzo — tale previsione rendeva sostanzialmente non operativa tale misura ablativa del tantundem (Amato, 73). La novella sopra riportata ha ora giustamente colmato tale evidente lacuna. BibliografiaAntolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, II, Milano, 2008; Alpa-Garofoli, Manuale di Diritto Penale - Parte speciale, t. 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