Codice Penale art. 323 - [Abuso d'ufficio 1 2 .

Vito Di Nicola

[Abuso d'ufficio 12.

[[I]. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità3, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti 4, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni 5.

[II]. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.]6

 

competenza: Trib. collegiale

arresto: facoltativo

fermo: non consentito

custodia cautelare in carcere: non consentita

altre misure cautelari personali: consentite

procedibilità: d'ufficio

[1] Articolo così sostituito dall'art. 1 l. 16 luglio 1997, n. 234.

[2] Per la responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche, quando il fatto offende gli  interessi finanziari dell'Unione europea, v. art. 25, comma 1,  d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

[3] L'art. 23, comma 1, d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv., con modif., in l. 11 settembre 2020, n. 120, in vigore dal 17 luglio 2020, ha sostituito le parole "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità'" alle parole "di norme di legge o di regolamento". 

[4] Sull'obbligo di astensione degli amministratori degli enti locali, v. artt. 77 e 78 d.lg. 18 agosto 2000, n. 267.

[5] L'art. 1, comma 75, l. 6 novembre 2012, n. 190, ha sostituito alle parole: «da sei mesi a tre anni», le parole: «da uno a quattro anni».

Inquadramento

L'art. 23 del decreto-legge 16 luglio 2020 n. 76 (pubblicato nella G.U. 16 luglio 2020 n. 178), entrato in vigore il 17 luglio 2020 e  convertito  in l. 11 settembre 2020, n. 120, ha modificato l'art. 323, comma 1, c.p. sostituendo  le parole  "di norme di legge o di regolamento," con le seguenti: "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".

Ne consegue che il delitto di abuso d'ufficio è ora integrato dalla condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio e salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto attraverso la violazione di norme di legge o di regolamento ovvero attraverso la violazione del dovere di astensione ovvero la violazione di norme (regole di condotta): 1) specifiche, 2) espressamente ed esclusivamente previste da fonti primarie del diritto, con esclusione, quindi, di fonti secondarie (conseguentemente sono esclusi i regolamenti) e 3) a condizione che da tali regole di condotta non residuino margini di discrezionalità.

Tuttavia, anche dopo la riforma del reato di abuso d’ufficio la trasgressione di norme regolamentari può conservare rilevanza penale. E’ stato, infatti, precisato che la violazione di norme contenute in regolamenti può rilevare «nel caso in cui esse, operando quali norme interposte, si risolvano nella specificazione tecnica di un precetto comportamentale già compiutamente definito nella norma primaria e purché questa sia conforme ai canoni della tipicità e tassatività propri del precetto penale». E’ stato, pertanto, ritenuto che risponde del reato di abuso in atti d’ufficio il dirigente comunale che, avendo omesso di astenersi nella procedura di assegnazione di un posto di lavoro, dichiari vincitrice, in ordine a tale posto, una nipote, priva dei titoli richiesti anche dal Regolamento comunale sul punto (Cass. VI, n. 33240/2021).

Oggetto della tutela rimane il normale e regolare funzionamento della pubblica amministrazione ossia, secondo l'indicazione contenuta nell'art. 97 Cost., il buon andamento e l'imparzialità (par condicio civium) della stessa (Fiandaca-Musco, 242) da intendersi come uso non illegittimo e non ispirato a interessi non pubblici, da parte del pubblico agente, dei poteri inerenti alla funzione o servizio (Romano, 298).

Dalla nuova disposizione, che non brilla per chiarezza espositiva, scaturiscono non pochi problemi interpretativi.In ogni caso, deve ritenersi che l’interesse al buon andamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione costituisca, come per il passato, oggetto di una tutela bipartita: affidata, da un lato, al diritto penale mediante la configurazione dell’illecito tipizzato dall’art. 323 e, dall’altro, affidata al diritto amministrativo mediante l’esercizio dei poteri di autotutela e repressivi spettanti alla P.A. nonché attraverso la leva giurisdizionale innescata dai ricorsi amministrativi.

Va ricordato come, nel vigore della precedente formulazione normativa dell’art. 323, la Corte Costituzionale avesse dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 25, comma 2, e 97, comma 2, Cost., dell'art. 323,  nella parte in cui  il diritto vivente, includeva nel requisito della violazione di norme di legge, necessario per la configurazione della previgente fattispecie incriminatrice, anche la violazione dell'art. 97 Cost. e, dunque, dei principî di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione (Corte cost. n. 177/2016).

A seguito della recente modifica legislativa, ai fini della integrazione della fattispecie incriminatrice, deve ritenersi che la violazione dell’art. 97 Cost., almeno sotto il profilo del dovere d’imparzialità, costituisca inosservanza di una regola di condotta specifica, dovendo la par condicio civium essere inderogabilmente assicurata attraverso le modalità di esercizio del potere pubblico. Ne consegue che i pubblici agenti non possono adottare, stante il chiaro tenore dell’art. 97 Cost., provvedimenti discriminatori, con i quali mirino a favorire intenzionalmente determinati soggetti, attribuendo ad essi ingiusti vantaggi patrimoniali; tantomeno, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, possono vessare i soggetti privati, procurando loro  ingiusti danni. La parità di trattamento nei confronti della pubblica amministrazione è poi regola di condotta prevista espressamente da una norma che si colloca al vertice nella gerarchia delle fonti del diritto nazionale.

Soggetti

 

Soggetto attivo

L'abuso d'ufficio è un reato proprio, che può essere commesso esclusivamente dal «pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio».

Su queste basi, è stato ritenuto che anche gli estranei al pubblico ufficio o al pubblico servizio possono concorrere a detto reato, quando vi sia compartecipazione di questi all'attività criminosa del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio (Cass. III, n. 16449/2016) sicché non rileva la mancanza della qualifica giuridica soggettiva richiesta per l'integrazione della fattispecie incriminatrice quando l'extraneus abbia determinato o istigato il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio a commettere il reato.

Il d.lgs n. 75/2020 (attuazione della direttiva UE 2017/1371, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto penale) ha modificato l'art. 25 del d.lgs. n. 231/2001, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. In particolare, l'art. 5 d.lgs. n. 75/2020 ha aggiunto, al numero 2) dell'art. 25, primo comma, d.lgs. n. 231 del 2001, in fine il seguente periodo: “la medesima sanzione si applica, quando il fatto offende gli interessi finanziari dell'Unione europea, in relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 316 e 323 del codice penale”. Il reato di abuso d'ufficio implementa, pertanto, il catalogo dei reati per i quali è prevista la responsabilità della persona giuridica, sempre che dal fatto, che concretizza il reato di cui all'art. 323, consegua una lesione agli interessi finanziari dell'Unione europea.

Anche il funzionario di fatto, che va tenuto distinto dall'usurpatore di pubbliche funzioni, può commettere il delitto di abuso d'ufficio in quanto l'interesse protetto dalla norma incriminatrice può essere offeso attraverso il concreto esercizio dei poteri conferiti al funzionario di fatto, anche nei casi di invalidità dell'istituzione dell'ufficio o della nomina ovvero nell'ipotesi in cui il funzionario continui ad occupare l'ufficio pur dopo la scadenza del mandato (Segreto-De Luca, 484).

In giurisprudenza, conforme Cass. VI, n. 26697/2003.

E' stato ritenuto che non rilevano gli atti compiuti con difetto assoluto di attribuzione , ai sensi dell'art. 21-septies l. n. 241/1990, ma è invece necessario che la condotta sia realizzata “ nello svolgimento delle funzioni o del servizio ”, rientrando, invece, nell'alveo della norma incriminatrice le condotte che integrano la c.d. "carenza di potere in concreto". In applicazione di questo principi o di diritto la S.C. ha ritenuto immune da censure la sentenza di merito che ha ravvisato l'integrazione dell'elemento oggettivo del delitto di abuso d'ufficio nella condotta di un consigliere comunale con delega ai servizi cimiteriali che, in violazione di ogni norma in tema di appalti, aveva dato incarico ad una ditta di costruire dieci loculi, pagandoli in proprio, ottenendone così la disponibilità e promettendone cinque ad una famiglia del posto (Cass. III , n. 52053/2017) .

 

All'abuso d'ufficio non è applicabile la disposizione dell'art. 360 in quanto la fattispecie incriminatrice richiede che il fatto sia commesso nello “svolgimento” della funzione o del servizio e quindi impone uno stretto collegamento tra la commissione del reato e l'esercizio attuale di un'attività pubblica (Segreto-De Luca, 480).

A questo proposito la giurisprudenza — in una fattispecie che riguardava un rapporto di servizio esauritosi da anni con l'ente pubblico, chiamato a rispondere, in solido con l'autore dell'illecito, delle obbligazioni civili nascenti da reato — ha affermato che la regola dell'art. 360 c.p. presuppone che una determinata fattispecie non richieda necessariamente l'attualità dell'esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio ossia che l'agente sia titolare dei poteri o della qualità di cui abusa nell'immanenza della condotta criminosa (Cass. VI, n. 7877/1992).

Nozione di pubblico ufficiale

Cfr. subart. 357.

Nozione di incaricato di pubblico servizio

Cfr. subart. 358.

Soggetto passivo

Dottrina e giurisprudenza sono divise nel ritenere soggetto passivo del reato di abuso d'ufficio la sola Pubblica Amministrazione o, in aggiunta, anche il privato e ciò dipende dalla configurazione della fattispecie incriminatrice come reato monoffensivo o plurioffensivo.

Un primo indirizzo considera soggetto passivo del reato, ossia titolare dell'interesse tutelato dalla norma incriminatrice, esclusivamente la Pubblica Amministrazione anche quando il privato abbia subìto un danno dall'atto della P.A. (Contieri, 187; Grosso, 323; Cass. VI, n. 2319/1996) e, in tal caso, il privato riveste la qualifica di danneggiato (Cass. VI, n. 17/1998); un secondo indirizzo ritiene invece che il reato di abuso d'ufficio abbia natura monoffensiva, se finalizzato a procurare un ingiusto vantaggio (Cass. III, n. 18811/2010), sicché, in tal caso, il privato eventualmente danneggiato, non può essere considerato soggetto passivo del reato, e che invece abbia natura plurioffensiva, se finalizzato ad arrecare ad altri un danno ingiusto, in quanto idoneo a ledere, oltre all'interesse pubblico al buon andamento della P.A., anche il concorrente interesse del privato a non essere prevaricato nei suoi diritti dal comportamento illegittimo e ingiusto del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio (Romano,299; Cass. VI, n. 13179/2012) e, in tal caso, il privato danneggiato può essere considerato soggetto passivo del reato rivestendo la qualità di persona offesa (Cass. VI, n. 17642/2008).

Materialità

 

Condotta

L'elemento materiale che caratterizza l'abuso d'ufficio si risolve in una condotta di abuso che deve essere necessariamente realizzata nello svolgimento delle funzioni o del servizio (Cass. VI, n. 1269/2012) e che si concretizza:

a) attraverso la violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità ovvero, in alternativa,

b) mediante l'inosservanza di un obbligo di astensione.

Ai fini dell’integrazione dell’elemento oggettivo del reato di abuso d’ufficio, è stato chiarito che la condotta debba essere realizzata attraverso l’esercizio del potere pubblico attribuito al soggetto agente, configurando i comportamenti non correlati all'attività funzionale, o meramente occasionati da essa, una mera violazione del dovere di correttezza, non rilevante ai sensi dell'art. 323 c.p. anche se in contrasto di interessi con l'attività istituzionale (Cass. VI, n. 14721/2022).

La condotta abusiva deve essere diretta a procurare, intenzionalmente, a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale oppure a procurare ad altri un danno ingiusto.

La violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità si ha quando il comportamento del soggetto attivo contrasta con norme di legge che regolano l'esercizio del potere pubblico. In sostanza, l'abuso d'ufficio si configura soltanto in relazione all'attività dei pubblici agenti che, nel compiere l'atto, non usufruiscano di margini di discrezionalità, con la conseguenza che la condotta abusiva – connotata dall'insussistenza di tale ultimo elemento e commessa in violazione di specifiche regole di condotta che disciplinano la funzione o il servizio, si risolve nel realizzare esclusivamente un interesse antitetico con quello per il quale il potere è stato conferito (Cass. S.U., n. 155/2011).

Occorre ribadire che la violazione di legge, nei sensi in precedenza indicati, può essere integrata anche dall'inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della P.A. (Cass. VI, n. 27816/2015) attesa la sua portata precettiva laddove l'art. 97 Cost. richiede ai pubblici poteri di osservare il principio della par condicio civium.

Questo principio è stato ribadito (non senza contrasti) dalla giurisprudenza di legittimità la quale ha affermato che la modifica introdotta con l’art. 23 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv., con modif., nella legge 11 settembre 2020, n. 120, che ha ristretto l'ambito applicativo dell'art. 323 c.p., non ha determinato l'«abolitio criminis» delle condotte realizzate mediante violazione dell'art. 97 Cost., nella parte in cui è vietata l'attuazione di intenti discriminatori o ritorsivi, quale connotato dell'imparzialità nell'esercizio delle pubbliche funzioni, trattandosi di principio costituzionale di portata immediatamente precettiva, che non necessita di alcun adattamento o specificazione (Cass. I, n. 2080/2022).

Peraltro, rispetto al requisito della violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste da norme di legge, non è necessario che l'agente violi, nel compimento di un'attività, in tutto o in parte, vincolata, tutte le regole che, nel caso specifico, disciplinano puntualmente  le modalità di esercizio del potere, essendo sufficiente che il soggetto attivo violi anche una sola di esse, purché in relazione all'esecuzione di atti per il cui espletamento non residuino “margini di discrezionalità”, svolgendo quest'ultimo elemento, nell'economia della fattispecie incriminatrice, il ruolo di elemento negativo del fatto incidente sulla tipicità della norma penale. Per la realizzazione del fatto tipico è perciò necessaria, in uno agli altri requisiti richiesti per l'integrazione della fattispecie incriminatrice, l'esistenza di un elemento positivo del fatto (ossia la violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge) e l'assenza di un elemento negativo del fatto stesso (cioè che, in ordine al compimento dell'atto, non residuino, per l'agente, margini di discrezionalità).

Tuttavia va considerato che la nuova disposizione non ha sottratto all'area della punibilità dell'abuso d'ufficio l'attività discrezionale, tout court,  bensì ha voluto rendere soltanto insindacabile il merito amministrativo, con la conseguenza che la violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge può concretizzarsi tutte le volte in cui l'agente, esercitata la facoltà di scelta, debba poi improntare il proprio comportamento al rigoroso rispetto di regole predeterminate dalla legge.

Infatti, volendo valorizzare soprattutto la littera legis, la disposizione in parola si riferisce non a tutta l'attività discrezionale del pubblico agente ma alla concorrente presenza di eventuali margini di discrezionalità nella condotta (espressamente prevista dalla legge o da atti aventi forza di legge) che deve essere tenuta nel caso specifico.

Una diversa interpretazione esporrebbe il novellato art. 323 c.p. a rilievi di costituzionalità per violazione degli artt. 3,54 e 97 Cost. e, in quanto norma  penale di favore nella parte in cui tipicizza un elemento negativo del fatto di reato, sarebbe suscettibile di essere sindacata dalla Corte costituzionale.

Ciò posto, sul rilievo che le norme costituzionali di cui agli articoli 54 e 97 della Costituzione  dettano regole di immediata portata precettiva ed esprimono il divieto per i pubblici agenti di comportamenti connotati da ingiustificate preferenze e favoritismi, resta valido, a condizioni esatte, il principio in forza del quale integra il reato di abuso di ufficio il demansionamento di un dipendente comunale attuato con intento discriminatorio o ritorsivo, atteso che tale condotta determina l'inosservanza dei doveri costituzionali di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost., nonché la violazione del dovere di adempiere con disciplina ed onore all'esercizio di funzioni pubbliche previsto dall'art. 54 Cost. (Cass. VI, n. 22871/2019).

E' stato precisato che, per effetto della modifica normativa dell'art. 323 c.p., dovuta al d.l. n. 76/2020, convertito nella l. n. 120/2020, l'abuso di ufficio è configurabile non solo nel caso in cui la violazione di una specifica regola di condotta sia connessa all'esercizio di un potere già in origine previsto dalla legge come del tutto vincolato, ma anche nei casi in cui l'inosservanza della regola di condotta sia collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell'adozione dell'atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l'abuso di ufficio (Cass. VI, n. 8057/2021).

Recentemente, con specifico riferimento al rilascio di un permesso di costruire emesso in violazione del piano regolatore comunale e degli altri strumenti urbanistici, la giurisprudenza di legittimità ha interpretato la nozione di “violazione di legge” che, alla luce della novella exart. 16 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella legge 11 settembre 2020, n. 120, rende illecita la condotta punibile.

Sul punto, è stato chiarito, riprendendo un indirizzo inaugurato da Cass. III, n. 28834/2020, che il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi – ai sensi dell'art. 12, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 – alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente. Pertanto, dall'espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici, discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 323 c.p., tanto sul rilievo che i piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità dell'indirizzo ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica (art. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001) (…), normativa a cui deve farsi riferimento, per ritenere concretata la ‘violazione di legge', quale dato strutturale della fattispecie delittuosa ex art. 323 c.p. anche a seguito della modifica normativa, osservando che la normativa in questione integra anche l'ulteriore requisito richiesto dalla novella del 2020, in quanto si tratta di norme specifiche e per le quali non residuano margini di discrezionalità: l'art. 12 cit. detta i requisiti di legittimità del permesso a costruire e il successivo art 13 cit. detta la disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare nel rilascio del permesso di costruire.

Ne consegue che, In tema di abuso di ufficio, il rilascio del titolo abilitativo edilizio avvenuto senza il rispetto del piano regolatore generale o degli altri strumenti urbanistici integra la violazione di specifiche regole di condotta previste dalla legge, così come richiesto dalla nuova formulazione dell'art. 323 cod. pen. ad opera dell'art. 16 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella legge 11 settembre 2020, n. 120, atteso che l'art.12, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 prescrive espressamente che il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi agli strumenti urbanistici ed il successivo art. 13 detta la specifica disciplina urbanistica che il direttore del settore è tenuto ad osservare (Cass. VI, n. 31873/2020).

Il precedente indirizzo è stato ulteriormente aggiornato dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che la violazione di norme contenute in regolamenti può assumere rilevanza penale soltanto se queste contribuiscono a meglio specificare sul piano tecnico regole di condotta già definite dalla norma primaria. Nel fissare tale principio, è stato perciò ritenuto che non può essere sanzionato per abuso d'ufficio il responsabile unico del procedimento che in un subappalto non abbia rilevato il conflitto d'interessi tra le società coinvolte per effetto di una compartecipazione, tanto sul rilievo che l'articolo 10 del Dlgs 163/2006, che inquadra i compiti del Responsabile unico, non prevede un obbligo di verifica sull'assetto societario della ditta subappaltatrice; né può rilevare la circostanza di cui all'articolo 10, comma 1, lettera r) , del decreto del Presidente della Repubblica n. 207/2010, secondo la quale il responsabile unico del procedimento deve vigilare sulla concessione di lavori pubblici (Cass. VI, n. 1606/2021).

È stato ritenuto che costituisce violazione di legge, tale da configurare uno dei requisiti richiesti per l'integrazione del fatto tipico ai sensi dell'art. 323, l'acquisizione di tabulati relativi a comunicazioni telefoniche  intercorse su utenze le quali, alla luce degli atti di indagine esistenti al momento del provvedimento, risultano riferibili ad un parlamentare, trattandosi di attività compiuta in contrasto con la prescrizione dettata dall'art. 4 l. n. 140/2003, in quanto non preceduto dalla necessaria autorizzazione rilasciata dalla Camera di appartenenza di quest'ultimo (Cass. VI, n. 49538/2016).

Quando il reato di abuso d'ufficio è realizzato mediante la violazione di leggi, l'accusa deve specificare nella contestazione le norme che sono state inosservate o comunque deve fornire chiari elementi per la loro individuazione, perché il principio della necessaria specificità e determinatezza dell'imputazione richiede che l'accusato sia messo nelle condizioni di ricevere le indicazioni necessarie in tal senso, derivando da una tale omissione la lesione del diritto di difesa e una compromissione del diritto al contraddittorio (Cass. III, n. 38704/2016).

Anche le questioni di diritto intertemporale si presentano problematiche, pur dovendosi ritenere, quantunque al cospetto di una  sostanziale continuità di tipo di illecito tra norma penale previgente e norma in vigore, ipotizzabile una parziale abolitio criminis quanto alle pregresse condotte in cui l'abuso sia stato esclusivamente configurato e ritenuto sussistente sull'unico presupposto della violazione di regolamento o a quelle nelle quali sia stato accertato che l'agente avesse, nel compimento dell'atto, margini di discrezionalità.

Questo approdo è stato convalidato dalla giurisprudenza di legittimità la quale ha stabilito che la modifica del delitto di abuso d'ufficio, intervenuta con l'art. 23 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, che ha sostituito le parole «di norme di legge o di regolamento» con quelle «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità», ha ristretto l'ambito di operatività dell'art. 323 cod. pen. determinando una parziale abolitio criminis in relazione alle condotte commesse prima dell'entrata in vigore della riforma mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità (Cass. VI, n. 442/2021).

Sul punto, pur essendo la questione controversa in seno alla giurisprudenza di legittimità (v., ut supra, Cass. I, n. 2080/2022) è stato anche precisato che la modifica introdotta con l'art. 23 d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv., con modif., dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, ha ristretto l’ambito applicativo dell’art. 323 c.p., con conseguente “abolitio criminis” in relazione alle condotte antecedenti all’entrata in vigore della riforma, realizzate mediante violazione di norme generali e astratte dalle quali non fossero ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lasciassero residuare margini di discrezionalità. E’ stato pertanto escluso che integri il reato la violazione di generici obblighi comportamentali sanciti, nei confronti dei pubblici impiegati, dall’art. 13 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, e comunque la inosservanza di norme di principio quale l'art. 97 Cost. (Cass. VI, n. 23794/2022).

Altra pronuncia ha ribadito quest’ultimo principio, affermando che non integra il reato di cui all’art. 323 c.p. la sola violazione dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97, comma 3, Cost. (Cass. VI, n. 28402/2022).

L'inosservanza di un obbligo di astensione si ha a) quando esiste una specifica disciplina dell'astensione in relazione al procedimento per il quale l'agente svolge le funzioni o il servizio, cioè in tutti quei casi in cui una norma giuridica imponga l'obbligo dell'astensione e l'agente lo violi, oppure b) quando l'esercizio del potere pubblico è contaminato dagli interessi privati dell'agente, versando quest'ultimo in una situazione di conflitto di interessi determinato dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto e scaturendo siffatto obbligo direttamente dal dettato dell'art. 323 c.p. (Cass. VI, n. 14457/2013; Romano, 308).

La condotta punibile può essere realizzata anche nell'ambito del rapporto di pubblico impiego perché, anche dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, non è mutata la natura pubblicistica della funzione svolta e dei poteri esercitati dai dirigenti, con particolare riguardo al potere disciplinare, con la conseguenza che la disciplina legale di tale potere nel pubblico impiego è delineata da plurime fonti normative (segnatamente, dall'art.  2106 c.c., dall'art. 7  d.P.R. n. 300/1970 (st. lav.) e dagli artt. da 54 a 55-octies d.lgs. n. 165/2001, come modificati con il d.lgs. n. 150/2009). Ne deriva che  è suscettibile di integrare la violazione di legge rilevante ai fini dell'art. 323 l'inosservanza delle disposizioni fissate in materia di procedimento disciplinare dalla legge, allorché il potere disciplinare sia esercitato non in funzione dell'interesse pubblico, ma per motivi pretestuosi e sorretti da un intento ritorsivo (Cass. VI, n. 6665/2016).

È stato ritenuto che l'abuso d'ufficio può essere integrato anche in relazione ad un atto interno al procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico ufficiale (Cass. III, n. 16449/2016).

L'abuso d'ufficio è un reato: 

a ) a forma vincolata: la rilevanza della condotta è determinata dalla violazione di norme di legge oppure dalla violazione del dovere di astensione (Cass. VI, n. 6561/1998);

b ) che può essere integrato da condotte attive, od anche omissive, nel caso in cui la norma giuridica (legge) violata abbia a contenuto un obbligo di fare che l'agente non osserva (Cass. VI, n. 41697/2010). È stato ritenuto che anche condotte meramente omissive ex art. 40, comma 2, c.p., possano integrare il reato in esame, nel caso in cui l'agente sia gravato dall'obbligo di impedire che si verifichi l'evento di danno (Cass. V, n. 37088/2013).

c ) di danno, la cui consumazione richiede l'effettiva produzione di un ingiusto vantaggio necessariamente patrimoniale per sé o per altri o che si arrechi ad altri un danno ingiusto, patrimoniale o anche non patrimoniale (Cass. VI, n. 729/2004).

Evento

L'abuso d'ufficio è caratterizzato da un doppio evento alternativo consistente nel procurare intenzionalmente a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero nell'arrecare ad altri un danno ingiusto (Cass. VI, n. 28117/2015; Cass. III, n. 30265/2014).

In senso conforme, in dottrina, Fiandaca-Musco, PS I, 243.

Il vantaggio oltre ad essere ingiusto deve necessariamente essere di natura patrimoniale e sussiste non solo quando la condotta procuri al soggetto favorito beni materiali o altro, ma anche quando la stessa arrechi un accrescimento della situazione giuridica soggettiva a favore di colui nel cui interesse l'atto è stato posto in essere, riferendosi il vantaggio al complesso dei rapporti giuridici a carattere patrimoniale  (Cass. III, n. 4140/2018).

Il danno deve essere ingiusto e non rileva la natura patrimoniale o meno di esso (Cass. VI, n. 11549/1998), potendo l'aggressione ingiusta ledere anche solo alla sfera della personalità o altro diritto soggettivo.

Per l'integrazione del reato è necessario che sussista un'autonoma e “doppia ingiustizia”, nel senso che ingiusta deve essere la condotta, in quanto connotata da violazione di legge  oppure dalla violazione dell'obbligo di astensione, ed ingiusto deve essere il vantaggio patrimoniale procurato, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia, o il danno arrecato. Conseguentemente, occorre una duplice distinta valutazione, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio o del danno dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata esistenza dell'illegittimità della sola condotta (Cass. VI, n. 13426/2016).

Ne deriva che il reato non è configurabile qualora l'accrescimento "contra ius" della sfera patrimoniale di un privato non derivi dalla deliberata strumentalizzazione della funzione da parte del pubblico agente che, abusando dei poteri per finalità di carattere privatistico, abbia violato specifici parametri normativi al fine di favorire o danneggiare qualcuno (Cass. VI, n. 17676/2016).

Il danno ingiusto può essere integrato anche nella violazione del diritto all'oblio perché, in tema di abuso di ufficio, la nozione di danno ingiusto, cui si riferisce l'art. 323, non può intendersi limitata solo a situazioni soggettive di carattere patrimoniale e nemmeno a diritti soggettivi perfetti, ma riguarda anche l'aggressione ingiusta alla sfera della personalità per come tutelata dalle norme costituzionali (Cass. VI, n. 39452/2016).

Su questa scia – in una fattispecie in cui il direttore generale di un'azienda ospedaliera aveva conferito l’incarico di responsabile del procedimento per l'esecuzione di lavori ingegneristici ad un soggetto esterno, anziché al tecnico di ruolo interno all'azienda stessa, il quale vantava un'aspettativa concreta a ricevere tale incarico, in ragione del ristrettissimo numero dei legittimi aspiranti e della circostanza che, in un momento successivo, quella funzione sarebbe stata assegnata proprio a lui - è stato ritenuto che la nozione di danno ingiusto non ricomprende le sole situazioni giuridiche attive a contenuto patrimoniale ed i corrispondenti diritti soggettivi, ma è riferita anche agli interessi legittimi, in particolare quelli di tipo pretensivo, suscettibili di essere lesi dal diniego o dalla ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo, sempre che, sulla base di un giudizio prognostico, il danneggiato avesse concrete opportunità di conseguire il provvedimento a sé favorevole, così da poter lamentare una perdita di "chances(Cass. VI, n. 44598/2019).

E’ stato ribadito che l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale procurato o del danno arrecato è necessaria anche nel caso di violazione dell’obbligo di astensione (Cass. VI, n. 12075/2020).

Rapporto di causalità

Tra la condotta dell'agente e gli eventi previsti in via alternativa dall'art. 323, deve ricorrere un idoneo nesso di causalità nel senso che la condotta deve procurare, in rapporto di stretta causalità, l'evento costituito dal vantaggio patrimoniale ingiusto o dal danno ingiusto per il privato (Cass. VI, n. 3381/2002).

Elemento psicologico

 

Il dolo

Il dolo del delitto di abuso d'ufficio è generico (Cass. V, n. 11847/1998) e consiste nella rappresentazione da parte dell'agente dello svolgimento attuale della funzione o del servizio e nella volontà di violare specifiche regole di condotta, attinenti alla funzione o al servizio, espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità oppure di non osservare un obbligo di astensione; siccome l'art. 323 esige che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio abbia intenzionalmente procurato il vantaggio o il danno, l'elemento soggettivo assume la forma del dolo intenzionale, cosicché il dolo è generico con riferimento alla condotta ed è intenzionale in relazione all'evento (Cass. VI, n. 34116/2011; Romano, 317). Non è sufficiente né il dolo eventuale né il dolo diretto (Cass. VI, n. 21091/2004).

Ponendosi, infatti, l'ingiustizia del danno (o del vantaggio patrimoniale) come l'effetto sostanziale della violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, in tanto si può affermare la sussistenza dell'intenzionalità del danno ingiusto (o del vantaggio patrimoniale ingiusto), in quanto l'agente abbia commesso il fatto nella consapevolezza della contrarietà all'ordinamento giuridico del risultato cui è finalizzata la sua condotta, con la conseguente inidoneità del dolo eventuale ad integrare l'elemento soggettivo del reato di abuso d'ufficio (Cass. VI, n. 49538/2016).

Violate le specifiche regole di condotta che disciplinano l’attività del soggetto agente, il dolo intenzionale non è escluso dal perseguimento di una finalità pubblicistica quando quest'ultima non costituisca il fine primario dell'agente stesso e rappresenti solo una mera occasione per perseguire la precisa finalità di procurare, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri (Cass. III, n. 10810/2014; Romano, 318).

Quando invece l’agente abbia esclusivamente perseguito la finalità di realizzare un interesse pubblico ovvero quando, pur nella consapevolezza di favorire un interesse privato, sia stato mosso esclusivamente dall'obiettivo di perseguire un interesse pubblico, è stato ritenuto che non ricorre il dolo intenzionale del delitto di abuso d’ufficio, con conseguente degradazione del dolo di procurare a terzi un vantaggio da dolo intenzionale a mero dolo diretto o eventuale e con esclusione, quindi, di ogni finalità di favoritismo privato (Cass. II, n. 10224/2019) .

La prova del dolo

La prova del dolo del delitto di abuso d'ufficio può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto (Cass. III, n. 33043/2016), la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento ed il tenore dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento stesso ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (Cass. VI, n. 21192/2013), l'evidenza, reiterazione e gravità delle violazioni, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge (Cass. III, n. 35577/2016), dovendo la prova del dolo essere quindi ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento non iure osservato dall'agente (Cass. II, n. 23019/2015) e potendosi dare rilievo, a tal fine, a singoli comportamenti antecedenti, contestuali o anche successivi all'atto o alla condotta che designa l'abuso (Cass. VI, n. 10008/1996).

Sulla base di tali principi, è stato precisato che, nel reato di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale che qualifica la fattispecie non richiede necessariamente l’accertamento dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire, proprio perché può essere desunta anche da altri elementi quali, ad esempio, la macroscopica illegittimità dell'atto (Cass. VI, n. 31594/2017).

E’ stato pertanto ribadito che la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all'articolo 323, prescinde dall’accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell’atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento "non iure" dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (Cass. III, n. 57914/2017).

Consumazione e tentativo

 

Consumazione

Il delitto di abuso d'ufficio, per la sua natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui avviene il conseguimento per sé o per altri dell'ingiusto vantaggio patrimoniale o nel momento e nel luogo in cui si produce il danno ingiusto ad altri (Cass. VI, n. 28117/2015).

Ne consegue che Il momento consumativo del reato di abuso d'ufficio coincide con l'emanazione dell'atto illegittimo, perché in tale momento si compie la condotta del pubblico ufficiale e si verifica l'ingiusto vantaggio patrimoniale per il soggetto beneficiato. Da tale data inizia a decorrere, pertanto, il termine di prescrizione (Cass. VI, n. 44104/2018).

Tentativo

Il tentativo è configurabile (Cass. VI, n. 26617/2009) sia nella forma dell'azione incompiuta, nel caso di attività che si articolano nel tempo, quando all'idoneità degli atti già realizzati si aggiunga la loro direzione non equivoca alla consumazione del delitto; sia nella forma del delitto mancato, nel caso in cui la condotta, quantunque idonea e diretta a procurare il vantaggio o ad arrecare il danno, non l'abbia cagionato per cause indipendenti dalla volontà dell'agente.

Possono pertanto trovare applicazione, in conformità alle regole generali, la desistenza volontaria o il recesso attivo (Romano, 317).

Forme di manifestazione

 

Circostanze

La rilevante gravità del vantaggio patrimoniale procurato o del danno arrecato costituisce una circostanza aggravante prevista dal secondo comma dell'art. 323 c.p. Si tratta di una circostanza oggettiva e ad effetto comune in quanto comporta l'aumento fino a un terzo della pena che dovrebbe essere inflitta per il reato commesso (art. 64, comma 1, c.p.) e l'aggravante partecipa, secondo le regole generali, al giudizio di bilanciamento con le altre circostanze attenuanti eventualmente configurabili (art. 69). Essa è speciale rispetto a quella comune, di analogo contenuto, contemplata dall'articolo 61 n. 7 c.p., per cui deve escludersi che possano tra loro concorrere (Cass. VI, n. 33933/2005). L'attenuante speciale del fatto di particolare tenuità è invece prevista con autonoma configurazione dall'art. 323-bis c.p. Cfr. sub art. 323-bis.

Concorso di persone

In applicazione delle regole generali in tema di concorso dell'extraneus nel reato proprio, è configurabile il concorso del privato nel delitto di abuso d'ufficio, a condizione che la condotta del privato abbia rivestito un ruolo causalmente rilevante nella realizzazione del reato, risolvendosi in un'effettiva attività di determinazione, istigazione o agevolazione alla commissione dell'abuso d'ufficio (Cass. VI, n. 36125/2014) ovvero, in assenza di un contributo causalmente efficiente, è necessaria la dimostrazione che l'atto amministrativo sia il risultato della collusione tra il privato e pubblico funzionario, occorrendo la prova dell'esistenza di un accordo criminoso, la quale non può essere desunta dalla mera coincidenza tra la richiesta del privato e il provvedimento posto in essere dal pubblico agente (Cass. VI, n. 37880/2014).

Affinché sia configurabile la responsabilità dell'extraneus per concorso nel reato proprio commesso da chi abbia la qualificazione giuridica soggettiva richiesta dalla norma incriminatrice, occorre inoltre che sia accertata la punibilità in astratto e cioè la responsabilità per il reato di abuso d'ufficio dell'esecutore materiale del reato, ossia dell'intraneo, non rilevando poi la mancanza della sua punibilità in concreto per la eventuale presenza di cause personali di esclusione della pena (Cass. VI, n. 40303/2014). Nel caso dell'adozione di un atto collegiale, la prova della compartecipazione criminosa, può essere dedotta da uno o più indicatori sintomatici come la macroscopica violazione di legge, la comunanza di interessi tra i soggetti coinvolti, la competenza di ciascuno di essi rispetto all'oggetto della deliberazione, la motivazione dell'atto, la manifestazione o meno di un dissenso e il rapporto con i destinatari del provvedimento (Cass. III, n. 10810/2014).

Rapporti con altri reati

L'abuso d'ufficio è un reato a sussidiarietà ristretta e ciò si desume dalla portata della clausola di riserva espressa « salvo che il fatto non costituisca più grave reato » (Cass. II, n. 1417/2012). Pertanto se il fatto (ossia la condotta abusiva) integra tanto l'abuso d'ufficio quanto un reato più severamente punito, si applicherà solo quest'ultimo e l'abuso di ufficio cede, rimanendo assorbito; nell'ipotesi inversa, salvi i casi in cui non debbano trovare applicazione i principi in materia di concorso apparente di norme, quando la condotta abusiva integra sia la fattispecie ex art. 323 c.p. e sia un altro reato meno gravemente punito o di pari gravità, si avrà concorso formale di reati, con conseguente inoperatività della clausola di riserva (che si attiva solo se il reato in concorso formale con l'abuso d'ufficio è più grave). Ciò tuttavia non impedisce che esplichi la propria operatività il principio di specialità (art. 15 c.p.) che potrà comportare l'applicazione soltanto dell'art. 323 o, in alternativa, di altro e distinto reato, quando la descrizione del modello legale della diversa fattispecie incriminatrice consista in uno specifico abuso dei poteri propri della funzione o del servizio che cagioni un vantaggio o un danno ingiusto.

Infine, quando la condotta che costituisce l'abuso d'ufficio è preceduta o è seguita da altra diversa condotta, che integra gli estremi di un altro reato (di maggiore, minore o pari gravità rispetto all'abuso d'ufficio), sussisterà di regola il concorso materiale di reati, in continuazione tra loro, se unificati dal medesimo disegno criminoso, stante la diversità del fatto integrante i reati in concorso (Romano, 323).

 

Abuso d'ufficio e falso ideologico

Controverso è il rapporto tra il reato in esame e quello di falsità ideologica (art. 479 c.p.), risolto dalla giurisprudenza sia in termini di assorbimento che in termini di concorso materiale. Secondo il primo orientamento la condotta del pubblico ufficiale che si esaurisce in una falsificazione integra solo il reato di falso ideologico in atto pubblico e non anche quella di abuso d'ufficio (Cass. VI, n. 42577/2009), a nulla rilevando, in contrario, la diversità dei beni giuridici protetti dalle due norme incriminatrici. Secondo il diverso indirizzo sussiste il concorso materiale e non l'assorbimento tra il reato di falso ideologico in atto pubblico e quello di abuso d'ufficio, in quanto offendono beni giuridici diversi (Cass. II, n. 5546/2013).

Un filone giurisprudenziale opportunamente distingue tra l'abuso commesso con la stessa condotta che integra anche il reato di falso in atto pubblico e l'abuso commesso con altra condotta, contestuale ma distinta rispetto a quella integrante gli estremi del reato di falso, ritenendo configurabile, nella prima ipotesi, un concorso apparente di norme e, in considerazione del carattere residuale e sussidiario del reato di abuso d'ufficio, concludendo che quest'ultimo reato rimane assorbito nel delitto di cui all'art. 479 c.p., a nulla rilevando la diversa oggettività giuridica criminosa, al contrario, nella seconda ipotesi, concludendo che si è in presenza di un concorso materiale di reati (Cass. V, n. 27778/2004).

Recentemente è stato ribadito che sussiste concorso materiale, e non assorbimento, tra il reato di falso in atto pubblico e quello di abuso d'ufficio nel caso in cui la condotta di abuso non si esaurisce nella falsificazione, e la falsità in atti è strumentale alla realizzazione del reato di cui all'art. 323, di cui costituisce una parte della più ampia condotta (Cass. VI, n. 3515/2019).

Abuso d'ufficio e omissione in atti d'ufficio

Nel caso in cui il reato di abuso d'ufficio sia realizzato mediante omissione o rifiuto trova applicazione l'art. 323 c.p., in quanto reato più grave di quello previsto dall'art. 328 c.p., tutte le volte in cui l'abuso sia stato commesso al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio ingiusto patrimoniale, o comunque per arrecare ad altri un danno ingiusto (Cass. VI, n. 18360/2003).

Abuso d'ufficio e rivelazione di segreti d'ufficio

La possibilità di un concorso formale fra il delitto di abuso d'ufficio e quello di rivelazione e/o utilizzazione abusiva di segreti di ufficio di cui all'art. 326  è negata sul rilievo che i reati presuppongono entrambi l'abuso delle funzioni inerenti ai compiti istituzionali o al servizio cosicché, in caso di unicità della condotta, non si può addebitare all'autore due volte la stessa violazione (Cass. VI, n. 7960/1997).

Abuso d'ufficio e reato di costruzione abusiva

È ammessa l'astratta configurabilità del concorso formale tra i reati di abuso d'ufficio e il reato di (concorso in) costruzione abusiva correlato al rilascio di permesso di costruire illegittimo (Cass. VI, n. 1609/2000).

Abuso d'ufficio e reati di violenza privata e lesioni, aggravati ex art. 61 n. 9 c.p

La giurisprudenza, in considerazione del carattere residuale del reato di abuso d'ufficio, ha ritenuto di escludere, in applicazione della regola della specialità dettata dall'art. 15, il concorso formale del reato ex art. 323 c.p. con quelli, più gravi, di violenza privata e lesioni, aggravati entrambi ex art. 61 n. 9 (Cass. VI, n. 49536/2003). Tale stabile indirizzo è stato recentemente contraddetto da altro orientamento secondo il quale tra il delitto di abuso d'ufficio e quello di lesioni aggravato ex art. 61 n. 9, si configura il concorso formale di reati e non l'assorbimento o la consunzione del primo nel secondo, in quanto offendono beni giuridici diversi (Cass. VI, n. 4584/2014).

Abuso di ufficio e peculato

E' stato ritenuto che in tema di peculato, l'appropriazione si realizza con l'inversione del titolo del possesso nel senso che, estromettendosi  totalmente la res dal patrimonio dell'avente diritto, il pubblico agente si comporta, oggettivamente e soggettivamente, uti dominus nei confronti della cosa posseduta in ragione dell'ufficio (Cass., VI, n. 22800/2016). Pertanto, mentre è configurabile l'abuso d'ufficio allorquando si sia in presenza di una distrazione a profitto proprio che, tuttavia, si concretizzi in un uso indebito del bene che non ne comporti la perdita e la conseguente lesione patrimoniale a danno dell'ente cui il pubblico agente appartiene, integra invece il reato di peculato la condotta distrattiva del denaro o di altri beni che realizzi la sottrazione degli stessi alla destinazione pubblica e l'utilizzo per il soddisfacimento di interessi privatistici dell'agente (Cass. VI, n. 19484/2018).

In un caso nel quale, in merito all'utilizzo del fondo per "spese di rappresentanza", il Presidente di una Regione non aveva distinto le erogazioni disposte per finalità istituzionali, ma riconducibili ad altri capitoli di spesa, da quelle aventi finalità meramente private e ricollegabili alla campagna elettorale, è stato chiarito che l’utilizzo di denaro pubblico per finalità diverse da quelle previste integra il reato di abuso d'ufficio qualora l'atto di destinazione avvenga in violazione delle regole contabili, sebbene sia funzionale alla realizzazione, oltre che di indebiti interessi privati, anche di interessi pubblici obiettivamente esistenti e per i quali sia ammissibile un ordinativo di pagamento o l’adozione di un impegno di spesa da parte dell'ente; mentre, integra il più grave delitto di peculato l’atto di disposizione del denaro compiuto - in difetto di qualunque motivazione o documentazione, ovvero in presenza di una motivazione meramente "di copertura" formale - per finalità esclusivamente private ed estranee a quelle istituzionali dell'ente (Cass. VI, n. 41768/2017).

Concorso di reati

 

Non possono formalmente concorrere fra loro il reato di abuso d'ufficio e quello di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio giacché, quando il vantaggio economico del pubblico ufficiale sia da questi conseguito in dipendenza di un'erogazione altrui e di un proprio comportamento, attivo od omissivo, contrario ai doveri d'ufficio, trova applicazione, per il principio di specialità, la più grave delle due figure criminose in questione, e cioè quella della corruzione, caratterizzata, rispetto all'altra, dalla presenza del soggetto erogatore di un'utilità collegata da nesso teleologico al suindicato comportamento del pubblico ufficiale (Cass. VI, n.4459/2016).

Casistica

 

La prova della collusione tra pubblico ufficiale e privato

Ai fini della configurabilità del concorso del privato nel delitto di abuso d'ufficio, l'esistenza della collusione tra pubblico agente e privati favoriti è stato desunto a) dal contesto e dai rapporti di parentela intercorrenti tra gli stessi: nella specie,i privati illecitamente favoriti erano rispettivamente nipote e cognato del pubblico ufficiale; b) dall'evidenza del vantaggio procurato: nella specie, l'assunzione alle dipendenze dell'ente pubblico era avvenuta con contratto a tempo determinato reiteratamente prorogato; c) dall'abnormità degli atti e comportamenti illegalmente posti in essere dall'intraneus: nella specie, non era stato richiesto il certificato di godimento dei diritti politici degli assunti, i quali erano stati utilmente collocati nella graduatoria concorsuale pure in assenza dei titoli richiesti (Cass. VI, n. 33760/2015).

In un caso nel quale l’intesa collusiva è stata dedotta dal fatto che il privato aveva presentato plurime denunce con le quali sollecitava il Comune all'annullamento in autotutela del permesso di costruire rilasciato ad un terzo ed il responsabile dell'ufficio tecnico comunale aveva adottato il richiesto provvedimento, nonostante fosse in palese conflitto di interessi, avendo operato quale consulente tecnico del privato denunciante per le medesime vicende, è stato espresso il principio secondo il quale, in tema di abuso di ufficio determinativo di un danno ingiusto nei confronti di terzi, per configurare il concorso dell'"extraneus" nel reato deve essere provata l'intesa intercorsa col pubblico funzionario o la sussistenza di pressioni o sollecitazioni dirette ad influenzarlo, desumibili dal contesto fattuale, dai rapporti personali tra le parti o da altri elementi oggettivi, non essendo a tal fine sufficiente la sola domanda del privato volta ad ottenere un atto illegittimo (Cass. VI, n. 15837/2019 ).

Abuso d'ufficio mediante omissione

In relazione alla condotta del sindaco e di alcuni funzionari comunali che avevano deliberatamente omesso di dare esecuzione all'ordinanza di demolizione di un immobile al fine di procurare un indebito vantaggio ai proprietari, è stato ritenuto configurabile il reato di abuso d'ufficio attraverso condotta omissiva (Cass. VI, n. 10009/2010).

Ingiustizia del danno

Sul rilievo che, in tema di abuso di ufficio, realizza l'evento del danno ingiusto ogni comportamento che sia espressione della volontà prevaricatrice del pubblico funzionario, l'ingiustizia del danno è stata ritenuta in un caso nel quale un comandante della Polizia Municipale, in violazione dell'art. 55, comma 1, c.p.p., aveva sottoposto indebitamente ad indagine il segretario del comune, e fatto intendere ai dipendenti dell'ente che fosse in corso un procedimento penale nei confronti dello stesso, incidendo così negativamente sulla immagine della persona offesa all'interno dell'ufficio (Cass. V, n. 32023/2014). 

Sul presupposto che il danno ingiusto rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio è anche il danno che attiene alla sfera dei diritti o anche solo degli interessi non patrimoniali di un soggetto , la giurisprudenza di legittimità h a affermato che il danno ingiusto , quale elemento costitutivo del reato di abuso di ufficio, può consistere anche nella lesione  delle prerogative parlamentari, compiuta mediante l'adozione di un  provvedimento di acquisizione  di tabulati di comunicazioni relativi ad utenze riferibili a deputati o senatori, senza l'autorizzazione della Camera di appartenenza, ovvero mediante l ' elaborazione di tali dati  ottenuti in violazione delle guarentigie riconosciute al membro del Parlamento, ed illegittimamente acquisiti nel corso di un procedimento penale da parte del magistrato o di un suo ausiliario (Cass. VI, n. 49538/2016).

Violazione di legge

E’ stato ritenuto configurabile il reato di abuso d'ufficio in relazione ad una delibera di giunta comunale, avente natura di atto endoprocedimentale, con la quale illegittimamente si autorizzava il conferimento di un incarico esterno per lo svolgimento di servizi dell'ente, indicandosi che la selezione avvenisse sulla base di requisiti professionali predeterminati in modo da garantirne il conferimento al soggetto che si intendeva favorire, cosicché il requisito della violazione di legge è stato ravvisato nel caso dell'adozione di un atto formalmente qualificato come di indirizzo politico, ma in concreto avente un contenuto dettagliato e specifico, direttamente eseguibile da parte dei funzionari amministrativi. (Cass, VI, n. 1742/2018).

Il delitto di abuso d'ufficio, invece, non è stato ritenuto integrato nel caso di violazione del divieto di commissione di opere in subappalto, sul rilievo che la condotta, posta in essere da parte di un'impresa aggiudicataria di appalto pubblico, di assunzione di lavoratori a seguito di aggiudicazione, non mira a trasferire i rischi della realizzazione delle opere su soggetti privi dei requisiti previsti per legge, bensì tende ad acquisire nuova forza lavoro per la realizzazione delle opere, senza che sussista alcun obbligo di effettuare tali assunzioni in epoca precedente all'aggiudicazione (Cass. II, n. 27556/2019).

Diritto penitenziario

Il reato di abuso d'ufficio, tenuto conto della misura della pena edittale massima, consente, nella maggior parte dei casi, al pubblico ministero di emettere, ai sensi dell'art. 656, comma 5, c.p.p. e salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, il decreto di sospensione dell'ordine di esecuzione per le pene detentive, anche se costituenti residuo di maggiore pena, non superiori a tre anni ovvero quattro anni nei casi di detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354. Notificato il decreto al condannato e al difensore nominato per la fase dell'esecuzione o, in difetto, al difensore che lo ha assistito nella fase del giudizio, può essere presentata entro trenta giorni istanza, corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessarie, volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione di cui agli artt. 47 (affidamento in prova al servizio sociale), se la pena è contenuta nei limiti di tre anni di reclusione, 47-ter (detenzione domiciliare), se invece la pena è contenuta nei limiti di quattro anni di reclusione e 50, comma 1, della l.  n. 354/1975, e successive modificazioni, (ammissione alla semilibertà) per le pene non superiori a sei mesi di arresto o di reclusione, se il condannato non sia stato affidato in prova al servizio sociale.

Profili processuali

 

Gli istituti

L'abuso d'ufficio è reato procedibile d'ufficio e di competenza del tribunale in composizione collegiale.

Per il reato di abuso d'ufficio:

a) non è possibile disporre intercettazioni; salvo che ricorrano aggravanti ad effetto speciale le quali si computano, quoad poenam, per individuare i reati che, ai sensi dell’art. 4 c.p.p., consentono l’intercettazione, situazione che ricorre, ad esempio, in presenza dell’aggravante preveduta per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo. Questa possibilità, per il delitto di abuso d'ufficio, doveva ritenersi sussistente anche prima dell’inserimento, ad opera del decreto-legge 30 dicembre 2019, n. 161, convertito nella legge 28 febbraio 2020, n. 7, della lettera f-quinquies) al primo comma dell'articolo 266 c.p.p., (a norma dell'art. 2, comma 8, d.l. n. 161, cit., conv. con modif. in l. 28 febbraio 2020, n. 7, come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 2, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, conv., con modif., in l. 25 giugno 2020, n. 70,  le disposizioni del citato articolo si applicano « ai procedimenti penali iscritti successivamente al 31 agosto 2020, ad eccezione delle disposizioni di cui al comma 6 che sono di immediata applicazione») sul rilievo che, essendo ammessa l'intercettazione in relazione ai delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni determinata a norma dell'articolo 4 c.p.p., la natura di aggravante ad effetto speciale dell'articolo 416-bis 1 c.p. consentiva le intercettazioni per il reato ex art. 323 c.p, In ogni caso, ora, le intercettazioni, in presenza della suddetta aggravante, sono consentite, sulla base della lettera f-quinquies) di cui al primo comma dell'articolo 266 c.p.p., indipendentemente dal limite di pena previsto per il delitto cui acceda la circostanza aggravante qualificata di cui all'articolo 416-bis 1 c.p.

Va piuttosto segnalato che, a seguito della legge 9 gennaio 2019 n. 3 di contrasto al fenomeno della corruzione, come novellata dalla su richiamata riforma ex d.l. 161 del 2019, sono consentite, ai sensi del comma 2-bis dell’art. 266 c.p.p.,  le intercettazioni di comunicazioni tra presenti mediante inserimento di captatore  informatico su dispositivo elettronico portatile sia nei procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del c.p.pù. ma anche in quelli relativi ai delitti di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio (qualificazione giuridica soggettiva aggiunta, appunto, dalla riforma ex  D.L. n. 161 del 2019) contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell'articolo 4 c.p.p, e, quindi, anche in presenza di qualsiasi altra aggravante ad effetto speciale, seppure non rientrante nei casi  catalogati nelle disposizioni ex articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del c.p.p. Peraltro, come si desume a contrario dal primo comma dell’articolo 267 c.p.p., l’inserimento del captatore informatico sul dispositivo portatile è ammesso, per le intercettazioni di comunicazioni tra presenti per il reato di abuso d’ufficio aggravato da una circostanza ad effetto speciale, anche senza la previa determinazione da parte del giudice, in sede di autorizzazione, dei luoghi e del tempo in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono (articolo 267, comma 1, terzo periodo, del codice di procedura penale), fermo restando che, in tali casi, devono essere precisate le ragioni che ne giustificano l’utilizzo qualora l’intercettazione venga eseguita nei luoghi indicati dall’articolo 614 del c.p., pur non essendo necessario che in detti luoghi sia in corso di svolgimento l’attività criminosa;

Per ulteriori approfondimenti cfr. sub art. 266 ss. c.p.p.

b) è consentito l'arresto facoltativo in flagranza e non è consentito né l'arresto obbligatorio in flagranza, né il fermo;

c) non è consentita l'applicazione della custodia in carcere mentre è consentita l'applicazione delle altre misure cautelari personali.

I diritti processuali riconosciuti alla persona offesa dagli artt. 408 ss. c.p.p

La questione circa l'esatta identificazione nel delitto di abuso d'ufficio del soggetto passivo del reato (v. supra) ha notevoli implicazioni in relazione ai diritti che la legge processuale conferisce alla persona offesa dal reato in materia di procedimento di archiviazione della notitia crimins.

A questo proposito le posizioni riscontrabili nella giurisprudenza di legittimità possono così riassumersi:

a) se il reato di abuso di ufficio è finalizzato a procurare un ingiusto vantaggio, si ritiene — sulla base della natura monoffensiva dell'incriminazione, la quale pertanto tutela soltanto l'interesse al buon andamento, alla imparzialità ed alla trasparenza del comportamento dei pubblici ufficiali — che il privato eventualmente danneggiato, non può essere considerato persona offesa dal reato e non è quindi titolare dei diritti processuali di cui agli artt. 408 c.p.p.: non ha diritto di ricevere l'avviso da parte del pubblico ministero della richiesta di archiviazione avanzata al G.i.p.; 409 c.p.p.: conseguentemente, qualora il G.i.p. non accolga la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, non ha diritto di ricevere l'avviso di fissazione dell'udienza camerale; 410 c.p.p.: non è legittimato a presentare opposizione contro la richiesta di archiviazione del pubblico ministero (Cass. VI, n. 21989/2013);

b) se il delitto di abuso di ufficio è finalizzato invece ad arrecare ad altri un danno ingiusto, avendo natura di reato plurioffensivo in quanto lesivo sia del buon andamento della P.A. che dei diritti del singolo, il privato danneggiato deve considerarsi persona offesa ed è quindi titolare dei diritti ad essa attribuiti dagli artt. 408,409 e 410 c.p.p.;

c) per l'orientamento che invece ritiene che l'interesse tutelato dal delitto di abuso d'ufficio va individuato esclusivamente nel regolare funzionamento della pubblica amministrazione, unico soggetto passivo del reato è lo Stato, con la conseguenza che il privato cittadino, vuoi che sia stato danneggiato indirettamente per effetto di un vantaggio ingiusto ad altri procurato oppure vuoi che abbia subito direttamente un danno ingiusto per effetto della condotta abusiva realizzata dal pubblico funzionario prevaricatore, può essere considerato mero danneggiato e non persona offesa dal reato, con la conseguenza che non è titolare dei diritti previsti dagli artt. 408,409 e 410 c.p.p. (Cass. VI, n. 2319/1996).

È dunque possibile affermare che la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che nell'abuso di ufficio finalizzato a procurare un vantaggio patrimoniale il privato non è persona offesa dal reato, mentre, nell'abuso in danno, è nettamente prevalente l'orientamento, che si sta consolidando, secondo il quale, attesa la natura plurioffensiva del delitto in esame, il privato è persona offesa dal reato.

Bibliografia

E. Contieri, voce Abuso innominato di ufficio, in Enc. dir., I, Milano, 1958; Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte speciale, I, Bologna, 2006; C.F. Grosso, L'abuso di ufficio, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1991; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, Milano, 2013; Segreto-De Luca, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1999.

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