Codice Penale art. 403 - Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone (1).

Marco dell'Utri
Sergio Beltrani

Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone (1).

[I]. Chiunque pubblicamente [266 1] offende una confessione religiosa, mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000.

[II]. Si applica la multa da euro 2.000 a euro 6.000 a chi offende una confessione religiosa, mediante vilipendio di un ministro del culto.

(1) Articolo così sostituito dall'art. 7 l. 24 febbraio 2006, n. 85, con effetto a decorrere dal 28 marzo 2006. Il testo dell'articolo era il seguente: «Art. 403. (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone). - Chiunque pubblicamente offende la religione dello Stato, mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la reclusione fino a due anni. - Si applica la reclusione da uno a tre anni a chi offende la religione dello Stato, mediante vilipendio di un ministro del culto cattolico». Precedentemente, la Corte cost., con sentenza 29 aprile 2005, n. 168, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo nella parte in cui prevedeva, «per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall'art. 406 dello stesso codice».

competenza: Trib. monocratico

arresto: non consentito

fermo: non consentito

custodia cautelare in carcere: non consentita

altre misure cautelari personali: non consentite

procedibilità: d'ufficio

Inquadramento

Il delitto di offese ad una confessione religiosa mediante vilipendio di persone è inserito nel Libro II del Codice Penale, all'interno del Titolo IV (denominato ”Dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti“), precisamente nel Capo I (intitolato ”Dei delitti contro le confessioni religiose“). Tale figura tipica si sostanzia nella espressione – mediante qualsivoglia canale comunicativo, quindi verbale, scritto, o anche attraverso simboli e figure - di insulti rivolti verso un fedele o verso un ministro di culto; la norma postula che tali offese siano pubblicamente propalate e si rivelino obiettivamente dotate della attitudine ad arrecare offesa alla confessione religiosa che professano i destinatari della condotta stessa. Il vilipendio del fedele o del ministro di culto assume dunque rilevanza penale non in quanto tale e atomisticamente considerato, ma perché l'offesa indirizzata agli stessi costituisce lo strumento per offendere la confessione religiosa nel suo complesso; quest'ultima deve poi essere intesa quale ”bene di civiltà“ ( Fiandaca e Musco, 331), ossia insieme di valori, principi, sapere, erudizione, usanze, tradizioni e civiltà intorno al quale si coagulano gli appartenenti a ciascuna  confessione religiosa che si sia data una struttura costituita.

DD La dottrina si è espressa nel modo seguente: «Con sentenza del 29 aprile 2005, n. 168, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della precedente formulazione della disposizione in esame in riferimento agli artt. 3, comma 1 e 8 comma 1 Cost., nella parte in cui prevedeva la reclusione fio a due anni per chi offende la religione ”mediante vilipendio di chi la professa“ (comma 1) e la reclusione da uno a tre anni per chi commette il fatto mediante vilipendio di un ministro del culto cattolico (comma 2), anziché la pena stabilita dall'art. 406 codice penale. A seguito della riscrittura operata dall'art. 7, l. n. 85/2006, la disposizione incrimina il vilipendio di una confessione religiosa, prevedendo una sanzione solo pecuniaria, più consistente allorché l'offesa sia recata mediante vilipendio di un ministro di culto» (Garofoli, 595).

Soggetti

Soggetto attivo

Trattasi di un reato comune, come può evincersi dall’utilizzo della dizione ”chiunque“ per indicarne l’autore.

Soggetto passivo

La norma in esame individua come soggetti vilipesi i fedeli o il ministro del culto: il vilipendio degli stessi si spiega in considerazione del loro legame con la fede.

La dottrina ha precisato quanto segue: «Ai fini della configurabilità del reato in esame, non occorre che le espressioni offensive siano rivolte a fedeli ben determinati. Al contempo, però, come sostenuto da recente giurisprudenza di merito, non è da reputarsi sufficiente un’espressione offensiva rivolta alla generalità indifferenziata dei fedeli di un determinato credo o al credo religioso in quanto tale. Qualora infatti bastasse vilipendere un’indifferenziata generalità di fedeli, si rischierebbe di far rivivere il vecchio reato di vilipendio alla religione cattolica. Ne deriva la necessità di distinguere pertanto tra l’offesa rivolta ad una confessione religiosa quale ente collettivo (punibile, in quanto diretta a un ente esponenziale ben determinato) e l’offesa rivolta alla collettività indistinta di fedeli (punibile purché si possa verificare la diretta incidenza sui componenti stessi. Perché si configuri il reato, non basta una qualsivoglia offesa ad una persona credente: è indispensabile che sia offesa nella sua qualità di fedele: emerge pertanto una connessione funzionalistica con la confessione religiosa. Analogamente, l’offesa al ministro di culto si giustifica in considerazione della qualità che esso riveste. In altri termini, il ministro di culto è vilipeso in quanto tale» (Siracusano, 2007).

Bene giuridico

L’individuazione del bene giuridico tutelato dalla norma in commento ha alimentato discussioni e diatribe in dottrina e in giurisprudenza. Nel corso degli anni, si sono così susseguite differenti ricostruzioni. Va in primis rammentato come - alla stregua di una ricostruzione di stampo tradizionalistico e ormai profondamente antistorico - sia stato anche sostenuto che la norma in esame tuteli la religione in sé considerata. Altri Autori, valorizzando il fatto che la condotta vilipendiosa sia indirizzata al fedele o al credente, hanno invece reputato che il modello legale in esame tuteli proprio la personalità individuale dei credenti. Sulla scorta di siffatte argomentazioni, è stata ritenuta la natura plurioffensiva della norma in commento. Longo tempore, dunque, la Corte Costituzionale si è adoperata nel predisporre una lettura costituzionalmente orientata di tale figura delittuosa, che la calasse in modo coerente nell’odierno ordinamento giuridico; un ordinamento giuridico che ha ormai rinnegato il principio confessionalistico, per aderire in maniera incondizionata e totale al principio della laicità dello Stato.

Secondo alcuni Autori, dunque, il bene tutelato andrebbe individuato nella religione di per sé considerata: muovendo dall’eliminazione del delitto di vilipendio diretto, secondo questa ricostruzione sarebbe giocoforza ritenere che il bene della religione assurgerebbe ad oggetto autonomo di tutela penale. La dottrina maggioritaria ritiene però che il bene giuridico protetto debba essere individuato proprio nella confessione religiosa. Ciò sarebbe innanzitutto comprovato dalla procedibilità d’ufficio del delitto in esame. Il sentimento religioso preso in considerazione sarebbe quindi il ”sentimento religioso della pluralità di fedeli che si riconoscono in una determinata confessione religiosa“ (Dolcini-Marinucci, 4093). Sul punto, la dottrina ha sottolineato quanto segue: <<A seguito della novella del 2006, l’oggettività giuridica sembra essere diventata la libertà religiosa, quale tipica espressione della personalità umana tutelata dall’art. 2 Cost., anche se permangono delle perplessità ad accogliere una concezione della tutela così individualistica, che mal si concilia con la procedibilità d’ufficio e il requisito della pubblicità richiesto dal primo comma» (Caringella, De Palma, Farini, Trinci, 486).

Materialità

Condotta

Il vilipendio consiste nell’espressione di un’opinione di disprezzo, insulto, scherno o dileggio. La condotta materiale può estrinsecarsi in due distinte modalità dalla differente gravità e tra loro in posizione di alternatività. L’elemento discretivo si coglie nella qualità del soggetto vilipeso, distinguendosi a seconda che si tratti di un professante o di un ministro di culto. Va premesso, per orientamento largamente consolidato, come non sia necessario che la condotta offensiva colpisca persone determinate, ben potendosi lo stesso riferire ad una comunità indistinta di fedeli. Tra le forme di critica sociale, rientra peraltro la satira, quale messaggio di sapore umoristico. Perché ci sia vilipendio, non è necessario che le espressioni utilizzate denotino volgarità, grossolanità o turpitudine. Difatti, è sufficiente che l’atto si palesi come un giudizio irriguardoso e immotivato, volto a disconoscere l’essenza della confessione religiosa. Eppure, sebbene volgarità, grossolanità o turpitudine non siano caratteristiche ontologiche del vilipendio, è giocoforza ritenere che l’offesa volgare, grossolana o turpe non potrà essere scriminato ex art. 51, ossia in base al principio della libera manifestazione del pensiero.

Secondo la dottrina, «La condotta di vilipendio è integrata laddove si denigri, disprezzi o si tenga ostentatamente a vile… La nozione di vilipendio è tacciata di indeterminatezza da parte della dottrina, secondo la quale individuerebbe un elemento valutativo-normativo dai dubbi confini. In particolare, nella ricostruzione del concetto, sarebbe rimessa all’interprete l’aporistica alternativa tra l’adozione di un criterio cd. deontologico (che muova dal solo scopo della norma) e un altro cd. maggioritario (che consideri il generale comportamento sociale): se nel primo caso sarebbe obliterata la possibilità di interpretare l’ordinamento in chiave evolutiva, nel secondo la fattispecie abdicherebbe alla propria funzione di orientamento dei valori» (GAROFOLI, 595).

La Consulta ha chiarito come il concetto di vilipendio vada tenuto nettamente separato dal dibattito su temi religiosi, dalla critica, dal campo della divulgazione scientifica e dal pur ruvido scontro di tipo intellettuale; nemmeno è riconducibile a tale ambito concettuale la manifestazione di dissenso rispetto alle posizioni fideistiche e ai valori religiosi trascendenti, con la correlata propensione verso concezioni di tipo positivistico. Rappresenta invece condotta vilipendiosa – come tale estranea all’area di tutela assicurata dagli artt. 19 e 21 della Costituzione, la vana e gratuita contumelia, lo irrisione, l'insulto immotivato, la derisione; tutte condotte che contestualmente realizzano sia una offesa verso il credente, sia una lesione verso i principi e i valori etici e morali di cui si compone in fenomeno religioso nella sua oggettività (Corte cost., n. 188/1975).

Vilipendio del “professante”

La prima condotta incriminatrice descritta dal testo dell'art. 403 c.p. è il vilipendio del credente. Trattasi dell'ipotesi meno grave, punita con una meno rigorosa sanzione edittale.

La persona del professante deve essere vilipesa in quanto tale, cioè in considerazione della sua qualità di fedele. In altri termini, è indispensabile che si colga un nesso funzionale fra la qualità di professante e l'insulto. Il fedele è offeso dall'agente perché da quest'ultimo percepito alla stregua di simbolo ed estrinsecazione della confessione religiosa.

Per espressa previsione normativa, la condotta di cui al primo comma, differentemente da quanto previsto dal secondo comma, deve realizzarsi pubblicamente. Il contenuto dell'avverbio pubblicamente viene individuato in relazione all'art. 266, ultimo comma, ai sensi del quale il reato si considera avvenuto pubblicamente, quando il fatto è commesso col mezzo della stampa o con altro mezzo di propaganda, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone e in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta o per il numero degli intervenuti o per lo scopo od oggetto di essa, abbia il carattere di riunione non privata. Ovviamente, le più recenti interpretazioni del concetto di pubblicamente inducono a ritenere che il fatto debba reputarsi integrato anche quando avvenga con l'utilizzo di internet.

Vilipendio del ministro di culto

Il secondo comma delinea una fattispecie più grave, che si concretizza allorquando il soggetto vilipeso sia un ministro di culto.

La dottrina si è espressa come segue: ”..la maggiore gravità del vilipendio arrecato per il tramite del ministro si spiega con la più rilevante offesa che cagiona alla confessione religiosa colui che vilipende chi non solo la professa, ma la amministra e la rappresenta “ (FIANDACA, PS, pag. 455).

Ministro di culto

Il ministro di culto è colui che esercita funzioni di culto di una confessione religiosa. Il ministro di culto è individuato in base al diritto canonico, ovvero alla stregua dell’ordinamento confessionale della singola confessione religiosa. Non vi è però chi non rilevi come il fatto di legittimare i singoli ordinamenti confessionali, ad individuare in modo del tutto autonomo chi possa ritenersi ministro di culto non sia del tutto consigliabile, in considerazione del fatto che numerosi ordinamenti confessionali non sono neppure del tutto noti al diritto italiano.

Una siffatta eterointegrazione dovrebbe essere sorretta da un’interpretazione che ”dovrebbe essere integrata ed eventualmente corretta alla luce di criteri ulteriori, interni all’ordinamento statuale, quali la comune esperienza, la coscienza sociale, la tradizione giurisprudenziale e dottrinale, la ratio legis“ [CARINGELLA, 403].

Forma della condotta

Secondo la prevalente dottrina, il modello legale in esame è strutturato quale reato a forma libera.

Confessione religiosa

Una delle novità introdotte dalla riforma del 2006 si coglie proprio nell'utilizzo della locuzione ”confessioni religiose“. Il legislatore ha inserito siffatta dizione terminologica, mostrando così di recepire l'approccio che la giurisprudenza costituzionale ha avuto in relazione ai diritti in parola. Difatti, nelle sentenze nn. 329/1997, 508/2000 e 168/2005, la Corte Costituzionale aveva preferito alla locuzione culti ammessi proprio la formula confessioni religiose.

Desta perplessità il fatto che il capo in esame non offra una nozione precisa di confessione religiosa. Né siffatta nozione può essere ricavata da altri rami dell'ordinamento, in cui pur si fa riferimento al concetto di confessione religiosa (ad es. il Codice dei beni culturali o il d.lgs. n. 196/2003 in materia di tutela dei dati personali).

Nella mancata predisposizione di una nozione di confessione religiosa si coglie però un chiaro fine del legislatore: si vuole evitare di circoscrivere il concetto di religione all'interno di limiti angusti. Il tutto è pertanto connaturato all'indiscutibile polivalenza del concetto di religione. La mancata individuazione della portata della formula confessioni religiose conferisce flessibilità e ampiezza alla fattispecie.

Si muove poi da una considerazione basilare: non può ritenersi che le uniche confessioni religiose meritevoli della tutela assicurata dal capo in esame siano le religioni che abbiano concluso un'intesa con lo Stato italiano, approvata per legge. Indubbiamente, il fatto che una religione abbia stipulato un accordo con la Repubblica italiana è di per sé indicativo di come essa costituisca una confessione religiosa riconosciuta, ma non il solo criterio di riconoscimento (Corte cost. n. 195/1993). La giurisprudenza costituzionale ritiene pertanto come la natura di confessione religiosa possa essere tratta anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri “o comunque dalla comune considerazione”. L'espresso riferimento alla communis opinio delinea sostanzialmente un ulteriore elemento problematico. In altri termini ”anche semplici comunità di fedeli che non abbiano organizzazioni regolate da speciali statuti potrebbero rientrare nel novero di quelle confessioni religiose che operano in modo informale all'interno del territorio italiano sotto la copertura dell'art. 8, comma 1, Cost.“ (Corte cost. n. 195/1993). D'altronde, il riferimento alla comune considerazione, nella summenzionata sentenza, si spiega anche in ragione del fatto che la Corte costituzionale in quell'occasione ha avuto la premura di precisare come non basti la mera autoqualificazione.

D La qualificazione di un determinato gruppo confessionale come confessione religiosa tutelata dalla norma in commento non sarebbe rigidamente ancorata alle religioni storicamente riconosciute“, ma permetterebbe di contemplare qualunque comunità sociale stabile avente una propria e originale concezione del mondo, ”basata sull'esistenza di un Essere trascendente, in rapporto con gli uomini“ (Finocchiaro, 389).

La dottrina ha inoltre affermato quanto segue:  ”Può ritenersi che la nozione di confessione religiosa abbia confini assai ampi (e incerti), sicché da essa sembrerebbero rimanere escluse solamente: - le comunità sociali non religiose, ma di matrice mistico-filosofica ovvero perseguenti finalità pedagogiche, filantropiche e morali, politiche, sociali o simili – le comunità sociali accompagnate da una religiosità negativa, come i gruppi che dichiarino ad esempio di seguire una teosofia o una ecosofia, ovvero di essere agnostici; - i movimenti religiosi privi di qualsiasi elemento di visibilità all'esterno; infine, le concezioni relgiose individuali. [Dolcini - Marinucci, 4093].

Evento

Propendiamo per la tesi che considera la figura tipica in commento un reato di evento. Se pertanto la condotta è rappresentata dal vilipendio, l’evento è costituito dall’offesa alla confessione religiosa che abbia a derivare dalla condotta.

Pubblicità

Soltanto in relazione all’ipotesi incriminatrice sussunta nel primo comma della norma viene richiesta la forma «pubblica» dell’insulto; l’avverbio pubblicamente non compare infatti nel testo del capoverso. È ormai prevalente in dottrina la tesi secondo la quale la forma pubblica dell’offesa rappresenti elemento costitutivo del reato (come tale, oggetto di rappresentazione e volizione ad opera del soggetto agente), piuttosto che una mera condizione obiettiva di punibilità, quale dato esterno al fatto tipico, avulso dalla volizione dell’autore dello stesso e rilevante solo quale fattore condizionante la punibilità (Delpino e Pezzano, 199).

Elemento soggettivo

Il modello legale in commento postula il solo dolo generico, ”consistente nella coscienza e nella volontà di vilipendere, con la consapevolezza della qualità delle persone offese e della pubblicità del luogo“ (Caringella, 432). In altri termini, rientrano nell’oggetto del dolo il vilipendio del professante o del ministro di culto, il collegamento funzionale con la confessione religiosa e la lesione della confessione religiosa stessa. Non è condivisibile la tesi secondo la quale la condotta in esame sarebbe punibile a titolo di dolo specifico, che richiederebbe quindi l’emersione di un movente politico o sociale (o anche semplicemente la volontà di generare ilarità). Il movente rimane pertanto indifferente. Il delitto in esame non è punito a titolo di colpa.

Consumazione e tentativo

Consumazione

L’individuazione del momento consumativo deriva dal fatto che si consideri la fattispecie tipica alla stregua di un reato di evento (tesi per la quale, come sopra accennato, propendiamo decisamente), ovvero di mera condotta. In quest’ultimo caso, delitto in commento giunge a consumazione nel momento e nel luogo in cui abbia a verificarsi la condotta offensiva; laddove invece si aderisca alla tesi che ritiene trattarsi di reato di evento, esso si consumerà nel momento e nel luogo in cui la condotta vilipendiosa tipica venga percepita da almeno una persona diversa rispetto all’autore della stessa.

Tentativo

Non vi sono perplessità, in ordine alla configurabilità del tentativo. Questo resta integrato dal compimento di atti idonei, diretti in modo non equivoco a vilipendere un soggetto a causa della sua professione religiosa, ovvero un ministro di culto e – attraverso tali manifestazioni oltraggiose – ad arrecare offesa ad una confessione religiosa.

Casistica

  • La condotta che si concretizzi nel raffigurare il Sommo Pontefice, all'interno di un bersaglio da colpire con delle freccette, integra il delitto in commento, in quanto essa risulta atta ad arrecare offesa alla confessione religiosa cattolica, mediante vilipendio del Pontefice (Cass. III, n. 1952/2016).
  • Il Supremo Collegio ha perimetrato i confini della critica lecita, chiarendo come questa sia consentita – nel campo religioso – nel caso in cui, in forza  di dati o di rilievi precedentemente catalogati o espressi, essa si concretizzi nella manifestazione, conscia e sorretta da motivazione, di un apprezzamento differente e magari anche inconciliabile; un apprezzamento che rampolli da una indagine posta in essere - con serenità di metodo – ad opera di un soggetto che disponga delle indispensabili attitudini e di una idonea preparazione. La critica trasmigra al contrario nel campo del vilipendio, allorquando – mediante valutazioni generiche e prive di contenuto - riveli esclusivamente una posizione di disistima e spregio verso la religione cattolica, negando alla istituzione e alle componenti basilari della stessa (quali i dogmi, il rito, il simbolismo) le connotazioni di merito e di prestigio ad essa riconosciute dalla comunità, così risolvendosi nella vana contumelia e in un insulto fine a se stesso. Trattavasi nel caso di specie di un soggetto che aveva realizzato ed esposto nella pubblica piazza un trittico che raffigurava il Papa ed il suo segretario personale, che erano visivamente accostati ad un pene con testicoli; il tutto era corredato dalla didascalia "chi di voi non è culo scagli la prima pietra" (Cass. III, n. 41044/2015).
  • Il delitto in esame non postula, per la sua configurabilità, che le propalazioni offensive siano indirizzate a fedeli ben individuati, essendo bastevole che gli insulti siano genericamente riconducibili alla indifferenziata moltitudine di coloro che professano una data confessione religiosa. La norma appresta infatti tutela al sentimento religioso in quanto tale, reprimendo le pubbliche offese che siano rivolte verso questo e che siano poste in essere con il mezzo del vilipendio dei fedeli di una confessione religiosa o dei suoi ministri (Cass. III, n 10535/2008).

Profili processuali

Gli istituti

Il reato in commento è procedibile d'ufficio e di competenza del Tribunale monocratico.

Per tale reato:

a) non sono previsti l’arresto in flagranza e fermo;

b) non è possibile applicare né la custodia in carcere, né le altre misure cautelari personali.

Bibliografia

Albisetti, Tra diritto ecclesiastico e canonico, Milano, 2009; Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 1985; Gabrieli, Delitti contro il sentimento religioso e la pietà dei defunti, Milano, 1961; Marchei, Sentimento religioso e bene giuridico, Milano, 2006; Mormando, Trattato di diritto penale. Parte speciale. Vol. 5. Delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti, Padova, 2005; Piemontese, Offese alla religione e pluralismo religioso, in De Francesco-Piemontese- Venafro (a cura di), Religione e religioni: prospettive di tutela, tutela della libertà, Torino, 2007; Sereni, Sulla tutela penale della libertà religiosa, in Cass. pen. 2009, 4499 ss.; Siracusano, I delitti in materia di religione. Beni giuridici e limiti dell'intervento penale, Milano, 1983; Siracusano, Vilipendio religioso e satira: «nuove» incriminazioni e «nuove» soluzioni giurisprudenziali, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista telematica), 2007, 997; Visconti, La tutela penale della religione nell'età post-secolare e il ruolo della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2005, 1029 ss.

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