Codice Penale art. 517 - Vendita di prodotti industriali con segni mendaci.Vendita di prodotti industriali con segni mendaci. [I]. Chiunque detiene per la vendita,1pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri [2563-2574 c.c.], atti a indurre in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a ventimila euro [518] 2.
competenza: Trib. monocratico arresto: non consentito fermo: non consentito custodia cautelare in carcere: non consentita altre misure cautelari personali: v. art. 2902 c.p.p. procedibilità: d'ufficio [1] Le parole «detiene per la vendita,» sono state inserite dopo la parola: «Chiunque» dall'art. 52, comma 1, l. 27 dicembre 2023, n. 206. [2] Importo così elevato dall'art. 1 10 d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modif., in l. 14 maggio 2005, n. 80. L'art. 15, comma 1, della l. 23 luglio 2009, n. 99, ha sostituito le parole "fino a un anno o", con le parole "fino a due anni e". InquadramentoTale delitto consiste nel fatto di chi detiene per la vendita, vende o mette in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri che inducono in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto. La fattispecie di “detenzione per la vendita” è stata recentemente introdotta dall'art. 52, comma 1 della L. n. 206/2023 (“Disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy”) in vigore dall'11 gennaio 2024. La l. n. 99/2009 ha inasprito il trattamento sanzionatorio raddoppiando la pena detentiva e congiungendo la pena pecuniaria. Bene giuridico protettoIl bene tutelato non è l'interesse dei consumatori o quello degli altri produttori, ma è l'interesse generale concernente l'ordine economico, sicché il mettere in vendita o porre altrimenti in circolazione prodotti con segni mendaci costituisce già una lesione effettiva e non meramente potenziale della lealtà degli scambi commerciali (in giurisprudenza Cass. III, n. 2003/2008). La norma tutela la buona fede e la correttezza commerciale sotto il profilo della necessità di garantire la libertà di scelta del consumatore, che può essere compromessa da atti ingannatori sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto. Soggetto attivo e soggetto passivoLa norma ha portata generale in quanto il soggetto attivo può essere chiunque si rende colpevole dei fatti descritti a prescindere che sia o meno un commerciante. Si tratta, pertanto, di un reato comune. Soggetto passivo del reato è il consumatore finale ma, poiché il delitto è posto a tutela dell'ordine economico, si configura anche nel caso in cui la merce avente le caratteristiche enunciate dalla norma sia messa a disposizione di soggetti intermedi tra produttore e consumatore finale, posto che non v'è ragione di ritenere che gli stessi non siano compresi nel novero dei soggetti tutelati (Cass. III, n. 43559/2023). Elemento oggettivoCondotta La condotta di detto reato è costituita dal detenere per la vendita, dal porre in vendita o dal mettere in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali. La condotta di detenzione per la vendita si configura quando la detenzione della merce avviene con modalità tali da rivelare concretamente la volontà dell'agente di porre in commercio la merce e quando, tenuto conto delle condizioni in cui si trova la cosa, dell'attività esplicata dall'agente o dell'atteggiamento da questi tenuto in relazione ad essa, risulti certa l'intenzione di quest'ultimo di inserirla nel circuito commerciale. La condotta di messa in vendita o di messa in circolazione si verifica quando il prodotto esce dalla sfera di custodia del fabbricante per un qualsiasi scopo che non escluda la possibilità di circolazione (Cass. III, n. 14644/2005). Per messa in vendita si intende l'offerta di una determinata sostanza a titolo oneroso. Per messa in circolazione deve intendersi qualsiasi attività con cui si miri a fare uscire a qualsiasi titolo la res dalla sfera giuridica e di custodia del mero detentore, così da includere pure le operazioni di immagazzinamento finalizzato alla distribuzione o alla circolazione della merce destinata alla messa in vendita, con esclusione solo della mera detenzione in locali diversi da quelli di vendita o del deposito prima dell'uscita della merce dalla disponibilità del detentore (Cass. III, n. 7639/1998). Costituisce, a tal fine, messa in circolazione anche la traditio del grossista al dettagliante che si configura come atto diffusivo della merce (Cass. III, n. 1735/1999 e Cass. n. 6162/2021) e la mera presentazione alla dogana di prodotti industriali che recano segni atti ad indurre in inganno il compratore sulla loro origine (Cass. III, n. 1513/2019). Presupposti I segni mendaci possono essere tipici (marchio, nomi etc) oppure atipici (immagini, forme, colori, etc). La vendita di prodotti industriali con segni mendaci è integrata dalla messa in circolazione di opere dell'ingegno o prodotti industriali, presentati con nomi o marchi (ancorché non registrati) o segni distintivi che imitano (senza necessità di contraffazione o di alterazione) quelli preadottati da altro imprenditore, con possibilità di creare confusione sulla provenienza dei beni (Cass. III, n. 1735/1999). Ai fini della configurabilità del reato è sufficiente la mera imitazione del marchio, non necessariamente registrato o riconosciuto, purché idonea a trarre in inganno l'acquirente sull'origine, qualità o provenienza del prodotto da un determinato produttore (Cass. V, n. 9389/2013). Pertanto, l'assenza di contraffazione del marchio, per la diversità di quello utilizzato, non esclude di per sé la configurabilità del reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci (Cass. V, n. 23104/2012). Poiché l'art 517 richiede soltanto che i nomi, i marchi o i segni distintivi usati siano atti a indurre in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità del prodotto o dell'opera, deve ritenersi che per la sussistenza del reato non occorre che la possibilità di confusione tra i marchi o segni distintivi si verifichi in sede di un esame attento e diretto dei medesimi, essendo sufficiente che il pericolo di tale confusione si determini anche solo attraverso un esame frettoloso e superficiale del prodotto messo in vendita, quale è quello compiuto dal consumatore di media diligenza e di non particolare esperienza. Il reato di cui all'art. 517 è integrato dalla somiglianza del segno distintivo tale da creare confusione nel consumatore mediamente diligente sulla provenienza del prodotto, non essendo necessaria né la registrazione o il riconoscimento del marchio, né la sua effettiva contraffazione né, infine, la concreta induzione in errore dell'acquirente sul bene acquistato (Cass. III, n. 28905/2013). Elemento soggettivoPer la configurabilità del delitto di cui all'art 517 è sufficiente la coscienza e volontà della condotta a tal fine posta in essere dall'agente, essendo tale reato punito a titolo di dolo generico e non di dolo specifico. L'elemento soggettivo del reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci richiede, trattandosi di dolo generico, la consapevolezza della natura mendace ed ingannevole del segno utilizzato (Cass. III, n. 46198/2011). Consumazione e tentativoConsumazione Il reato si consuma nel momento e nel luogo di messa in vendita o in circolazione dell'opera o del prodotto, tale condotta si verifica quando il prodotto esce dalla sfera di custodia del fabbricante per un qualsiasi scopo che non escluda la possibilità di circolazione (Cass. III, n. 14644/2005). La messa in circolazione comprende il contatto del prodotto con i consumatori anche a titolo gratuito. È sufficiente che la messa in vendita o in circolazione abbiano idoneità ingannatoria del compratore, non essendo richiesto che l'effetto ingannatorio sia conseguito. Secondo la prevalente dottrina si tratta di reato di pericolo, ma la tralatizia qualificazione del delitto di cui all'art. 517 come reato di pericolo (Cocco, 378) è stata messa in dubbio, osservando che, se sono reati di pericolo quelli che in cui la condotta materiale non lede, ma mette soltanto in pericolo il bene penalmente tutelato, e se il bene tutelato dall'art. 517 è l'interesse generale alla lealtà del commercio, si deve concludere che mettere in vendita (a titolo oneroso) o porre altrimenti in circolazione (anche a titolo gratuito) prodotti con segni ingannevoli costituisce già una lesione effettiva (e non meramente potenziale) della lealtà degli scambi commerciali, indipendentemente dalla circostanza ulteriore che qualche consumatore sia concretamente ingannato sull'origine, provenienza o qualità del prodotto o che qualche produttore sia concretamente pregiudicato dalla concorrenza sleale. La natura di reato di pericolo, insomma, è sostenibile solo in quanto si identifichi il bene tutelato con l'interesse dei consumatori o con quello degli altri produttori. Ma l'orientamento più recente e accreditato tende a identificare più correttamente l'oggetto giuridico del reato con l'interesse generale concernente l'ordine economico (cfr. Cass. III, n. 2003/2008). Tentativo Secondo un primo orientamento, è esclusa la configurazione del tentativo. Infatti, il delitto di vendita di prodotti industriali con segni mendaci si consuma con la messa in vendita o in circolazione di tali prodotti. Non è quindi penalmente rilevante la loro mera detenzione senza che gli stessi possano dirsi in vendita, non consentendo l'art.517, quanto alla messa in vendita, la figura del tentativo (Cass. III, n. 4066/1997). Secondo un orientamento più recente, invece, è configurabile il tentativo. La esclusione della configurabilità del reato di cui all'art. 517 come reato di pericolo consente di superare anche le obiezioni dogmatiche di coloro che ritengono che con riferimento a tale categoria di reati il tentativo non sia configurabile (Cass. V, n. 8605/1982); ma, anche nel caso in cui si ritenesse che il reato in esame debba qualificarsi come reato di pericolo, i più recenti orientamenti giurisprudenziali affermano che non è la particolare natura del reato (di pericolo) ad impedire, di per sé, l'applicazione della generale previsione estensiva di cui all'art. 56, quanto la struttura della singola fattispecie e la possibilità o meno di identificare in concreto una «progressione della esposizione a pericolo» dei beni giuridici protetti (Cass. I, n. 40699/2015). Pertanto, occorre considerare che in forza dell'art. 56 la regola generale è quella della punibilità di ogni delitto anche nella forma del tentativo; e che la regola può subire eccezioni solo per quei delitti la cui struttura è chiaramente incompatibile con la figura del tentativo. Le eccezioni alla regola generale sono ammissibili solo quando è strutturalmente impossibile ipotizzare atti idonei diretti in modo non equivoco a realizzare la condotta materiale del delitto. Inoltre, è configurabile il tentativo qualora l'attività di messa in circolazione dei prodotti contraffatti sia preceduta da una serie di atti finalisticamente orientati al conseguimento del risultato offensivo, e pervenuti ad uno stadio di evoluzione dell'"iter criminis" tale da fare ritenere probabile che detto risultato sia effettivamente raggiunto (Cass. III, n. 13646/2017). Alla luce di questo criterio, non esiste alcuna ragione logica o giuridica per escludere che si possano compiere atti idonei diretti in modo non equivoco a mettere in circolazione prodotti con segni ingannevoli, senza poi riuscire nell'intento di metterli effettivamente in circolazione a causa di circostanze contingenti (basti pensare al caso di un imprenditore che produca merci con segni ingannevoli senza poi metterle in circolazione a causa di un fortuito incendio delle merci prodotte) (Cass. III, n. 2003/2008); e ancora, è configurabile il tentativo nel reato allorché vengano presentati per lo sdoganamento prodotti industriali con segni mendaci in quanto può costituire atto idoneo, diretto in modo non equivoco, a mettere la merce in circolazione ovvero a porla in vendita (Cass. III, n. 11671/1999; Cass. III, n. 28372/2006; contra: Cass. III, n. 26754/2001); è ravvisabile il tentativo nel rinvenimento di un punzone metallico utilizzato per la produzione di merce con marchio ingannevole, in quanto il fatto stesso della disponibilità di un punzone può costituire attività idonea diretta in modo non equivoco a produrre e mettere in circolazione merce con tale marchio (Cass. III, n. 2003/2008); ed è ravvisabile anche nel caso di detenzione, in prossimità del punto di uscita dei clienti di un supermercato, di due borsoni contenenti profumi simili nel nome, nel colore della confezione esterna, nella forma e nel colore della boccetta e del tappo, ad un noto profumo in commercio (Cass. III, n. 13646/2017). Circostanze aggravantiSi applica la circostanza aggravante prevista dall'art. 517-bis che prevede un aumento di pena nel caso in cui l'oggetto materiale sia un alimento o una bevanda la cui denominazione di origine o geografica o le cui specificità sono protette da norme vigenti. Cause di non punibilitàIn relazione all'entità della pena, è possibile applicare la causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis, salvo la verifica in concreto degli altri parametri previsti dalla norma. Rapporto con altri reatiL'art. 517 concorre con i reati ex artt. 473, 474 e 515. Più precisamente, l'art. 473 (contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell'ingegno o di prodotti industriali) esige la contraffazione che consiste nella riproduzione integrale, in tutta la sua configurazione emblematica e denominativa, di un marchio o di un segno distintivo o la alterazione, che ricorre quando la riproduzione è parziale, ma tale da potersi confondere col marchio originario o col segno distintivo. La norma dell'art. 517 prescinde, invece, dalla falsità, rifacendosi alla mera, artificiosa equivocità dei contrassegni, marchi ed indicazioni illegittimamente usati, tali da ingenerare la possibilità di confusione con prodotti similari da parte dei consumatori comuni (Cass. V, n. 38068/2005). L'art. 474 (introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) punisce la riproduzione integrale, emblematica e letterale del segno distintivo o del marchio (contraffazione) ovvero la riproduzione parziale di essi, realizzata in modo tale da potersi confondere col marchio o col segno distintivo protetto (alterazione). Ai fini del delitto di cui all'art. 517, invece è sufficiente che i nomi, marchi o segni distintivi, portati dai prodotti posti in vendita, risultino semplicemente ingannevoli, per avere anche pochi tratti di somiglianza con quelli originali, della cui morfologia siano, comunque, solo imitativi e non compiutamente riproduttivi (Cass. V, n. 5427/1995). Più in generale può osservarsi che gli artt. 473 e 474 sono collocati nel titolo VII fra i delitti contro la fede pubblica, mentre l'art. 517 è collocato nel titolo VIII fra i delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio. L'inclusione dei primi due reati tra i delitti contro la fede pubblica si spiega solo perché ad essere tutelati sono marchi che attraverso la registrazione non solo attribuiscono al titolare l'uso esclusivo, ma anche ingenerano un pubblico affidamento su determinate qualità e caratteristiche dei prodotti contrassegnati dai marchi stessi, sicché chi contraffà o altera un marchio registrato offende la pubblica fede. Invece il delitto di cui all'art. 517 — che ha natura sussidiaria, perché ricorre solo quando "il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge — ha per oggetto la tutela dell'ordine economico, giacché richiede semplicemente una imitazione del marchio o del segno distintivo, non necessariamente registrato o riconosciuto, atta a trarre in inganno l'acquirente sulle caratteristiche essenziali del prodotto, sicché chi mette in circolazione prodotti con segni ingannevoli lede l'interesse generale alla lealtà degli scambi commerciali. Non sussiste concorso tra i reati previsti dagli artt. 474, comma 2 e 517 c.p. stante la clausola di riserva prevista dall'art. 517 c.p. che la rende norma sussidiaria rispetto all'ipotesi di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi, tranne nell'ipotesi residuale di condotte riguardanti le opere dell'ingegno ovvero, quanto ai prodotti industriali, con riguardo a condotte di mendacio diverse da quelle aventi ad oggetto l'originalità del marchio (Cass. III, n. 17187/2020). Integra il delitto di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi, di cui all'art. 474 e non il delitto di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, di cui all'art. 517 la condotta di acquisto per la rivendita al pubblico di beni con marchi o segni distintivi falsificati se vi è sostanziale identità del "logo" riprodotto rispetto a quello originale, in quanto il primo delitto si riferisce a prodotti recanti marchi - e, quindi, segni distintivi delle ditte produttrici - contraffatti, mentre il secondo, posto a tutela dell'ordine economico, punisce la messa in circolazione di prodotti dell'ingegno od opere industriali recanti marchi o segni distintivi atti ad ingannare il compratore su origine, provenienza o qualità della merce. (Cass. II, n. 27376/2017). È configurabile il concorso materiale tra il reato di frode nell'esercizio del commercio ex art. 515 e quello di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, in quanto gli stessi hanno una diversa obiettività giuridica costituita, per il primo, dalla consegna di aliud pro alio con conseguente violazione del leale esercizio dell'attività commerciale e, per il secondo, dalla sola vendita o messa in circolazione del prodotto, indipendentemente dalla consegna, con conseguente violazione dell'ordine economico che deve essere garantito contro gli inganni tesi al consumatore (Cass. III, n. 32388/2020). Per quanto riguarda il delitto di truffa, secondo un orientamento risalente, il reato previsto dall'art 517 può in ipotesi concorrere con quello di truffa exart. 640 e non sostituirsi al medesimo (Cass. II, n. 5859/1974). In materia alimentare, la normativa speciale di cui all'art. 13 l. n. 283/1962, che tutela, in via amministrativa, la qualità del prodotto, concorre, nel caso di commercio come prodotti D.O.P. di alimenti privi delle necessarie caratteristiche, con le disposizioni incriminatici di cui agli artt. 515 e 517, finalizzate, invece, a tutelare il leale esercizio del commercio e l'interesse del consumatore (Cass. III, n. 20125/2009). Made in ItalyL'art. 4, commi 49 e 49-bis, l. n. 350/2003, come novellati dal d.l. n. 135/2009, convertito con modificazioni dalla l. n. 166/2009, così dispongono: comma 49: “L'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell'art. 517. Costituisce falsa indicazione la stampigliatura «made in Italy» su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l'origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l'uso di segni, figure, o quant'altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l'uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis, ovvero l'uso di marchi di aziende italiane su prodotti o merci non originari dell'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine senza l'indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro Paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera. Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. La fallace indicazione delle merci può essere sanata sul piano amministrativo con l'asportazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant'altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana. La falsa indicazione sull'origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l'esatta indicazione dell'origine o l'asportazione della stampigliatura «made in Italy». Le false e le fallaci indicazioni di provenienza o di origine non possono comunque essere regolarizzate quando i prodotti o le merci siano stati già immessi in libera pratica”; comma 49-bis: “Costituisce fallace indicazione l'uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull'origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull'origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull'effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale. Il contravventore é punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000”. Le disposizioni introdotte negli ultimi anni a tutela del made in Italy pongono dei delicati problemi di individuazione delle condotte sanzionabili, che sono stati affrontati dalla più recente giurisprudenza (v. in particolare Cass. III, n. 52029/2014, dalla quale si traggono le successive osservazioni). Dal combinato disposto di tali commi discende, da un lato, l'intervenuta depenalizzazione dell'uso ingannevole del marchio da parte delle aziende italiane, laddove, diversamente, resta di rilevanza penale l'uso indebito dell'indicazione made in Italy, già punita come «falsa indicazione dell'origine» dall'art. 4, comma 49, l. n. 350/2003, e ora dal citato d.l. n. 135/2009, art. 16, comma 4, (che prevede l'aumento di un terzo delle pene previste dall'art. 517), per i prodotti non interamente disegnati, progettati, lavorati e confezionati in Italia, che risultino indebitamente contrassegnati con un'etichetta del tipo «100% made in Italy», «100% Italia», «tutto italiano» o «full made in Italy», etichette evidentemente idonee a presentare il prodotto come interamente realizzato in Italia, qualunque siano la lingua o i simboli impiegati. Al fine di distinguere le diverse condotte punibili e le sanzioni ad esse applicabili, si ritiene, in primo luogo, che debba essere riconosciuto carattere generale alla disposizione contenuta nella l. n. 350/2003, art. 4, comma 49, che sanziona l'importazione, l'esportazione e la commercializzazione dei prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine, nonché l'abuso dei marchi d'impresa al fine di indurre il consumatore a ritenere che la merce sia di origine italiana. Nei singoli casi, dunque, la condotta punibile può essere realizzata: a) mediante la stampigliatura «made in Italy» su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa Europea sull'origine che integra la fattispecie di «falsa indicazione» dell'origine ed è punibile ai sensi dell'art. 517 (Cass. III, n. 39093/2013); b) mediante l'utilizzo di un'etichetta del tipo «100% made in italy», «100% Italia», «tutto italiano» o «full made in Italy», per contrassegnare prodotti non interamente disegnati, progettati, lavorati e confezionati nel nostro Paese, costituendo la stessa un'ipotesi aggravata di «falsa indicazione» dell'origine, punibile, ai sensi del combinato disposto del d.l. n. 135/2009, art. 16, comma 4, e dell'art. 517, con le pene previste da quest'ultima disposizione, aumentate di un terzo, che rende questa previsione speciale rispetto alla precedente, di portata generale (Cass. III, n. 28220/2011); c) mediante «l'uso di segni, figure e quant'altro» che induca il consumatore a ritenere, anche in presenza dell'indicazione dell'origine o provenienza estera della merce, che il prodotto sia di origine italiana, trattandosi esemplificativamente dei casi in cui sul prodotto sono apposti segni e figure tali da oscurare, fisicamente e simbolicamente, l'etichetta relativa all'origine, rendendola di fatto poco visibile e non individuabile all'esito di un esame sommario del prodotto, realizzandosi in questo caso la fattispecie di «fallace indicazione», punibile ai sensi dell'art. 517 (Cass. III, n. 19746/2010); d) mediante l'uso ingannevole del marchio aziendale da parte dell'imprenditore titolare o licenziatario, in modo «da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull'origine», a meno che i prodotti importati o esportati non siano accompagnati da indicazioni «evidenti» sull'esatta origine geografica o sulla loro provenienza estera ovvero il titolare del marchio o il suo licenziatario si impegnino ad apporre tali indicazioni nella fase di commercializzazione. Si tratta in quest'ultimo caso, di un'ipotesi speciale di «fallace indicazione» dell'origine disciplinata nei suoi tratti generali dalla l. n. 350/2003, art. 4, comma 49, la quale è punita con una sanzione amministrativa, piuttosto che con una penale, in ragione del minor grado di offensività della condotta rispetto al bene giuridico tutelato, costituito, secondo la giurisprudenza, dalla correttezza commerciale nei rapporti tra imprenditori e nei confronti dei consumatori, ovvero dallo stesso ordine economico (Cass. III, n. 2648/2006). Lo stesso art. 4, comma 49-bis, configura la fattispecie di uso decettivo del marchio come sussidiaria, prevedendo un'apposita clausola di riserva volta a preservare la sua applicazione nei casi specifici da essa individuati. Per quanto concerne, in particolare, la fattispecie di falsa attestazione della fabbricazione dei prodotti in Italia, la condotta punibile esige che un'indicazione del tipo «prodotto 100% italiano» (o «full made in Italy»), venga apposta sui prodotti che non siano stati interamente progettati o realizzati nel nostro Paese. Non sembra integrare questa fattispecie, l'apposizione dell'indicazione «made in Italy» o di una bandiera italiana, sui prodotti che in Italia abbiano subito l'ultima «lavorazione sostanziale, economicamente giustificata», come prescritto dal Codice doganale comunitario (art. 24, Reg. Cee 2913/1992), il che però per i prodotti tessili, avviene solo quando il prodotto derivante dalla lavorazione può essere inquadrato in una voce della Tariffa doganale completamente diversa da quella dei prodotti lavorati (art. 37, Reg. Cee n. 2454/1993). Con riferimento poi alla fattispecie di uso fallace dell'indicazione «made in Italy», la condotta punibile potrà dirsi realizzata solo laddove l'indicazione di origine sia apposta su prodotti cui non può essere attribuita l'origine italiana non avendo subito alcuna trasformazione o lavorazione sostanziale nel nostro Paese, secondo quanto previsto dal Reg. Cee n. 2913/1992, ovvero gli stessi siano stati sottoposti esclusivamente alle operazioni elencate dall'art. 37 del Regolamento di applicazione. In particolare, l'art. 38 Reg. Cee n. 2454/1993 dispone che vanno considerate «sempre» insufficienti a conferire il carattere originario le seguenti lavorazioni o trasformazioni, vi sia o meno il cambiamento della voce tariffaria: le operazioni destinate ad assicurare la conservazione dei prodotti durante il trasporto e il magazzinaggio, le semplici operazioni di spolveratura, vagliatura, cernita, classificazione, lavatura, riduzione in pezzi, i cambiamenti d'imballaggio e la divisione di partite, l'insaccatura e l'inscatolamento, l'apposizione sui prodotti di marchi, etichette o altri segni distintivi, la riunione di parti di prodotto per costituire un unico pezzo. Passando quindi ad esaminare la fattispecie dettata dal nuovo comma 49-bis (introdotto nel testo della l. n. 350/2003, art. 4, dal comma 6, del richiamato d.l. n. 135/2009, art. 16), la disposizione sanziona in via amministrativa la condotta diretta a trarre in inganno i consumatori sull'origine o provenienza dei prodotti commercializzati, attraverso l'uso decettivo del proprio marchio, laddove l'apposizione dello stesso sui prodotti esteri sia idoneo ad ingenerare nel pubblico (e cioè nel consumatore medio dello specifico settore), nelle circostanze concrete, la convinzione che la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull'origine e, cioè, che nel nostro Paese abbia subito almeno una lavorazione sostanziale. La disposizione, in definitiva, sanziona dei comportamenti, ascrivibili allo stesso titolare o ai licenziatari dei marchi italiani o meno, fino a poco tempo fa del tutto leciti, ma ora considerati «ingannevoli» ed «illeciti» e, pertanto, punibili, soprattutto laddove si consideri che la condotta decettiva rileva anche come atto di concorrenza sleale, ai sensi di quanto previsto dall'art. 2598 c.c., n. 3, il quale vieta anche il mendacio concorrenziale. La complessità della disciplina, dovuta anche alla stratificazione legislativa in materia, ha necessitato anche dell'intervento del Ministero competente. In particolare, con la Circolare n. 124898/2009, il Ministero dello sviluppo economico, dopo una breve premessa sulle finalità della tutela apprestata dalla l. n. 350/2003, nuovo art. 4, comma 49-bis, (il quale, come già chiarito in precedenza, ha inteso irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria alla fallace indicazione dell'origine della merce, realizzata mediante l'uso del marchio dell'impresa, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana, ai sensi della normativa Europea sull'origine, uso già in precedenza qualificato come abusivo o illecito), ha precisato quali sono le condotte necessarie ad evitare la realizzazione dell'illecito. Secondo il Dicastero economico, la norma obbliga i soggetti interessati (dunque il titolare ed i licenziatari dei marchi), onde evitare di essere sanzionati, a procedere secondo due strade alternative: a) indicare sui prodotti, in maniera precisa ed evidente, o comunque tale da evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore, l'esatta origine o la provenienza estera, degli stessi; «l'appendice informativa» richiesta, oltre a dover essere applicata direttamente sul prodotto o sulla confezione, può essere costituita da un cartellino o da una targhetta applicata allo stesso dove si precisi «prodotto fabbricato in...», ovvero, poiché tale specifica indicazione non è più richiesta dalla legge (indicazione che era invece richiesta dalla l. n. 350/2003, art. 4, comma 49, come modificato dalla l. n. 99/2009, art. 17; sulla depenalizzazione di tale condotta, Cass. III, n. 19746/2010), «prodotto fabbricato in paesi extra UE», «prodotto di provenienza extra UE», «prodotto importato da paesi extra UE», «prodotto non fabbricato in Italia»; b) dichiarare in dogana, all'atto dell'importazione, le informazioni che gli stessi soggetti si impegnano a rendere in fase di commercializzazione sull'effettiva origine estera dei prodotti o delle merci. Tale attestazione, il cui modello è riportato in calce alla citata nota del Ministero dello sviluppo economico, va allegata alla dichiarazione doganale e ne diviene parte integrante. Il Ministero ha poi precisato che la scelta dell'una o dell'altra modalità informativa deve comunque portare ad una corretta informazione dei consumatori nella fase di acquisto del prodotto. Pertanto, le indicazioni sull'origine non italiana dei prodotti devono essere poste in prossimità di quelle relative alla qualità o alle caratteristiche degli stessi «in modo conforme alla prassi del settore e alle abitudini dei consumatori dei prodotti considerati (purché comunque in modo distinto dalle altre indicazioni), così da poter essere percepite chiaramente dal pubblico». Tali indicazioni, pertanto, non debbono essere necessariamente incorporate nel prodotto potendo essere inserite anche in elementi amovibili come hang-tags o similari, aggiunti dopo l'importazione, atteso che per il rispetto della norma primaria è sufficiente «che l'origine non italiana sia specificata al consumatore in sede di commercializzazione», ancorché sulla base di un preciso impegno assunto dal titolare del licenziatario del marchio all'atto dell'importazione. La nota del Dicastero economico ha poi chiarito che le nuove disposizioni non possono avere effetto retroattivo e che, pertanto, non sono applicabili ai prodotti che siano già stati immessi in commercio e si trovino nei negozi e, più in generale, ai prodotti che siano stati realizzati o contrassegnati col marchio dell'impresa prima dell'entrata in vigore delle nuove disposizioni, fissata al 10 novembre 2009. Questa circostanza, si aggiunge, potrà essere oggetto di autocertificazione. A parere del citato Dicastero, le nuove norme sull'indicazione dell'origine dei prodotti non si applicano, inoltre, ai prodotti sottoposti ai regimi doganali sospensivi e a quelli immessi in libera pratica, ma non destinati al mercato italiano, non rientrando nel campo di applicazione della normativa in commento, pur rimanendo impregiudicata l'applicazione delle norme doganali (v., a tal proposito, quanto stabilito dalla C.G.U.E. nella sentenza 9 novembre 2006, resa nella causa C-281/05 — Diesel s.p.a. —, secondo cui il regime repressivo del commercio delle merci contraffatte ed usurpative non attribuisce al titolare del marchio registrato di vietare l'attraversamento del territorio di uno Stato membro, ove il segno in questione è tutelato, di prodotti recanti detto marchio quando tali prodotti siano vincolati al regime di transito doganale esterno). Ricollegandosi alle istruzioni impartite dal Ministero dello sviluppo economico, l'Agenzia delle Dogane, con la nota n. 155971/2009, ha infine precisato che al fine di evitare di incorrere nell'illecito previsto dalla l. n. 350/2000, art. 4, nuovo comma 49-bis, all'atto della presentazione in dogana dei prodotti su cui sia opposto un marchio «decettivo» quanto all'origine dei prodotti stessi, questi ultimi devono essere muniti della necessaria «appendice informativa» o, in mancanza, dell'«attestazione» prevista dall'art. 4, comma 49-bis. In questi casi, dunque, secondo l'Agenzia, la fattispecie di uso fallace o fuorviante di marchi aziendali, avente rilevanza penale ai sensi dell'art. 4, comma, 49, ultima parte, primo periodo, può essere integrata solo attraverso una «condotta caratterizzata da ulteriori artifizi o raggiri (quid pluris)», rispetto alle normali pratiche di immissione in commercio dei prodotti da parte del titolare del marchio o dei suoi licenziatari. Ciò premesso, con riferimento alle norme in esame, la giurisprudenza ha formulato i seguenti principi: In tema di tutela penale dei prodotti dell'industria e del commercio, integra l'illecito amministrativo previsto dall'art. 4, comma 49-bis, l. n. 350/2003 — e non il reato di cui all'art. 517 — l'importazione dall'estero di prodotti recanti un'etichetta raffigurante un marchio (nella specie, «Gamma Italy») idoneo, in assenza di precise indicazioni sulla esatta provenienza o della dichiarazione di impegno a rendere tali informazioni in fase di commercializzazione, a trarre in inganno anche un consumatore esperto sull'effettiva origine del prodotto (Cass. III, n. 52029/2014). Integra il reato previsto dall'art. 4, comma 49, l. n. 350/2003 (tutela del « made in Italy ») in relazione all'art. 517, la importazione a fini di commercializzazione di calzature corredate dalla dicitura «Made in Italy» che siano state assemblate in via definitiva all'estero, in considerazione della potenzialità ingannatoria dell'indicazione del luogo di fabbricazione del prodotto. (Fattispecie nella quale l'assemblaggio dei prodotti mediante cucitura della tomaia alla suola, da considerarsi quale fase essenziale del processo di lavorazione, era avvenuta in Romania) (Cass. IV, n. 3789/2015). La "fallace indicazione" del marchio di provenienza o di origine impressi sui prodotti presentati in dogana per l'immissione in commercio integra: a) il reato previsto dall'art. 4, comma 49, l. n. 350/2003 qualora, attraverso indicazioni false e fuorvianti o l'uso con modalità decettive di segni e figure, il consumatore è indotto a ritenere che la merce sia di origine italiana; b) l'illecito amministrativo previsto dall'art. 4, comma 49-bis, della medesima legge qualora, a causa di indicazioni di provenienza insufficienti o imprecise, ma non ingannevoli, il consumatore è indotto in errore sulla effettiva origine dei prodotti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure il decreto di convalida, emesso in relazione al predetto reato, di un sequestro avente ad oggetto una partita di pasta le cui confezioni recavano, ben visibili, i caratteri relativi all'area geografica di provenienza "Napoli Italia" e alla ditta produttrice "Gragnano" mentre l'indicazione "made in Turkey", sotto la data di scadenza, era poco leggibile e apposta con inchiostro diverso, facilmente rimuovibile"). (Cass. IV, n. 25030/2017; si veda anche Cass. III, n. 21256/2014 ,fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che correttamente la decisione impugnata avesse affermato la responsabilità dell'imputato per il reato di cui all'art. 4, comma 49, l.n. 350/2003, per aver presentato alla dogana stendibiancheria di origine cinese recanti sulla confezione la bandiera nazionale ed indicazioni solo in lingua italiana tra cui la dicitura «prodotto di qualità testato a norma europea»). Integra il reato previsto dall'art. 517. la vendita di oggetti realizzati con materie prime italiane, ma completamente rifiniti all'estero e corredati dalla dicitura «Made in Italy» per la potenzialità ingannatoria dell'indicazione sul luogo di fabbricazione del prodotto. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il sequestro di portafogli confezionati in Romania con pelle italiana, e recanti stampigliatura «Genuine Leather — Made in Italy») (Cass. III, n. 39093/2013) Integra il reato previsto dall'art. 517, in relazione all'art. 4, comma 49, l. n. 350/2003, la commercializzazione di prodotti agroalimentari con marchio D.O.P. (denominazione di origine protetta) non corrispondente al vero o fallace, in quanto per i prodotti di natura alimentare, aventi una tipicità territoriale, l'origine cui si riferisce la norma sanzionatoria non è solo quella imprenditoriale ma, soprattutto, quella geografica. (Nella specie, si trattava di pomodori pelati commercializzati con etichetta «prodotto della regione Dop San Marzano Pomodori Pelati Italiani», ma in realtà coltivati e raccolti in Puglia) (Cass. III, n. 28740/2011). L'omessa indicazione del luogo di fabbricazione degli oggetti prodotti all'estero su cui siano apposti marchi di aziende italiane, prevista come delitto dall'art. 4, comma 49, l. n. 350/2003 come modificato dall'art. 17, comma 4, lett. a) l. n. 99/2009, non è più prevista dalla legge come reato ma configura l'illecito amministrativo di cui all'art. 4, comma 49-bis, l. n. 350/2003. (In motivazione la Corte — in una fattispecie relativa al sequestro di camicie prodotte in Serbia, prive di indicazioni sul luogo di produzione ma recanti la marca «Romeo Gigli» e la dicitura di «prodotto e distribuito» da società italiana — ha precisato che il giudice, ove il fatto non sia riconducibile alle residuali ipotesi di rilevanza penale ancora previste dal comma 49, deve procedere alla revoca del sequestro probatorio o preventivo a seguito dell'intervenuta depenalizzazione) (Cass. III, n. 19746/2010). Deve essere esclusa la configurabilità del reato di cui all'art. 4, comma 49, l. n. 350/2003 (tutela del «made in Italy») nel caso in cui i prodotti agroalimentari o vegetali, commercializzati come prodotti in Italia in quanto recanti la stampigliatura «made in Italy», abbiano subito in Italia un processo di lavorazione o di trasformazione «sostanziale», pur provenendo dall'estero in tutto od in parte la materia prima utilizzata per produrli. (Nella specie, si trattava di macedonia di frutta in cui una modesta percentuale del prodotto era di provenienza estera nonché di prugne allo sciroppo raccolte interamente all'estero; la Corte, nell'enunciare il predetto principio, ha precisato che, ai fini della citata disposizione di legge, se, normalmente, per i prodotti agroalimentari, per «paese di origine» deve intendersi quello in cui i prodotti sono stati raccolti ovvero quello dove la merce è stata interamente ed esclusivamente ottenuta dai prodotti ivi raccolti o dai loro derivati, nel caso in cui si tratti di prodotti non commercializzati così come prodotti ovvero non ottenuti interamente ed esclusivamente da prodotti raccolti in un determinato paese o dai loro derivati, il criterio per determinarne l'origine è quello fissato dall'art. 24 del codice doganale europeo, che lo individua in quello ove è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale) (Cass. III, n. 27250/2007). Integra il reato previsto dall'art. 517, in relazione all'art. 4, comma 49, della l. n. 350/2003, la messa in circolazione di una bevanda, da comporre ad opera del consumatore, evocativa del gusto di un vino "doc" italiano, nel caso in cui il mosto fornito dal venditore non provenga da vitigni italiani, diversamente da quanto desumibile dalla confezione (Fattispecie relativa alla messa in commercio di "wine kit", contenenti mosto, tappi ed etichette, recanti nella confezione le indicazioni di vini italiani a denominazione di origine protetta, la denominazione "vini italiani" e le effigi della bandiera italiana e del Colosseo) (Cass. III, n. 9357/2020). Responsabilità dell'ente: sanzioneIn relazione alla commissione del delitto ex art. 517, è prevista la responsabilità amministrativa da reato dell'ente; infatti, l'art. 25-bis.1 d.lgs. n. 231/2001, introdotto dall'art. 15. comma 7 l. n. 99/2009, così recita: «In relazione alla commissione dei delitti contro l'industria e il commercio previsti dal codice penale, si applica all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie: a) per i delitti di cui agli artt. 513, 515, 516, 517, 517-ter, 517-quater la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote.» CasisticaOggetti di design Il reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci è configurabile anche con riferimento a prodotti qualificabili come «oggetti di design». (La Corte ha precisato che sono «oggetti di design» quelli che si connotano per il profilo estetico particolare, per le singolari caratteristiche funzionali o di progettazione, o ancora per le particolari metodologie di lavorazione e produzione) (Cass. III, n. 6254/2011). Falsa dicitura L'imprenditore che apponga su un prodotto, oltre al proprio marchio o all'indicazione della località in cui ha la sede, anche una fallace o falsa dicitura con cui attesti che lo stesso è stato fabbricato in Italia o in un Paese diverso da quello di effettiva fabbricazione risponde, nel primo caso, del delitto di cui all'art. 4, comma 49, l. n. 350/2003 e, nel secondo, del delitto di cui all'art. 517 (Cass. III, n. 19746/2010). Merci in transito Il reato non è configurabile nel caso di merce in transito nel territorio nazionale, non destinata all'immissione in consumo o alla libera pratica in Italia. (Nella specie, l'impugnato sequestro riguardava merce recante la dicitura made in Spain o Echo en Espana, proveniente dalla Romania, trasportata su un camion di proprietà di una società rumena risultato diretto in Spagna, fermato in Italia per controlli doganali) (Cass. III, n. 8734/2010). Personaggi di fantasia La riproduzione di una figura o di un personaggio di fantasia di per sé costituente marchio o segno distintivo del prodotto (cosiddetto marchio figurativo) impone, ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 517, che detta raffigurazione sia idonea ad ingenerare in qualche modo confusione nei consumatori in ordine ad una determinata origine, provenienza o qualità della merce risultante dal marchio apposto e regolarmente registrato; diversamente, il fumus del predetto reato non è ipotizzabile ove la riproduzione abusiva delle immagini apposte sugli oggetti ha solo la funzione di richiamare l'interesse dei possibili acquirenti per venire incontro ai gusti della clientela. (Fattispecie in tema di sequestro preventivo di grembiuli recanti immagini riproducenti personaggi di fumetti o cartoni animati) (Cass. n. 27986/2008). Modelli ornamentali Possono essere oggetto di contraffazione, rilevante ad integrare il reato di cui all'art. 517 c.p., anche i modelli ornamentali disciplinati dall'art. 2593 c.c. costituiti dai colori di un marchio, indicativi della provenienza del prodotto da una determinata impresa, ma è necessario accertare che l'uso dei colori configuri un richiamo imitativo del marchio idoneo all'inganno del pubblico (Nella fattispecie, la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza che non ha accertato in concreto se il mero uso dei colori - e non del marchio - di squadre calcistiche fosse idoneo a imitare il modello ornamentale) (Cass. III, n. 54356/2018). Profili processualiLa vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine è un reato procedibile d'ufficio, e di competenza del Tribunale monocratico. Per tale reato: a) non è possibile disporre intercettazioni; b) non sono consentiti arresto in flagranza e fermo; c) non è consentita l'applicazione della custodia in carcere; d) tra le altre misure cautelari personali, è consentito solo il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali. Si applica la pena accessoria della pubblicazione della sentenza prevista dall'art. 518. BibliografiaBartulli, Inosservanza di norme di lavoro, in Nss. D.I. 1983; Berenini, Delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commer.io: Titolo VIII del libro II del Codice penale, Milano, 1937; Cocco, Trattato breve di diritto penale. Parte speciale, I reati contro i beni economici, Torino, 2015; Di Amato, Codice di diritto penale delle imprese e delle società, Milano; Guariniello, Codice della sicurezza degli alimenti, Milano, 2015. |