Codice Penale art. 610 - Violenza privata 1 .Violenza privata1. [I]. Chiunque, con violenza [581 2] o minaccia [612], costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni 2. [II]. La pena è aumentata [64] se concorrono le condizioni prevedute dall'articolo 339. [III]. Il delitto è punibile a querela della persona offesa. Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità, ovvero se ricorre la circostanza di cui al secondo comma.3
competenza: Trib. monocratico arresto: facoltativo fermo: non consentito custodia cautelare in carcere: non consentita altre misure cautelari personali: consentite procedibilità: a querela di parte; d'ufficio (se il fatto e' commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità, ovvero se ricorre la circostanza di cui al secondo comma) [1] V. l'art.5, comma 2, d.l. 15 settembre 2023, n. 123, conv., con modif., in l. 13 novembre 2023, n.159, il quale dispone: «Fino a quando non e' proposta querela o non e' presentata denuncia per taluno dei reati di cui agli articoli 581, 582, 610, 612 e 635 del codice penale, commessi da minorenni di eta' superiore agli anni quattordici nei confronti di altro minorenne, e' applicabile la procedura di ammonimento di cui all'articolo 8, commi 1 e 2, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38.». [2] Per l'aumento delle pene, qualora il fatto sia commesso da persona sottoposta a misura di prevenzione, v. art. 71, d.lg. 6 settembre 2011, n. 159, che ha sostituito l'art. 71 l. 31 maggio 1965, n. 575. Per ulteriori ipotesi di aumento di pena, v. art. 36 l. 5 febbraio 1992, n. 104 e art. 1, l. 25 marzo 1985, n. 107. [3] Comma aggiunto dall'art. 2, comma 1, lett. e), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150. Per l'entrata in vigore delle modifiche disposte dal citato d.lgs. n. 150/2022, vedi art. 99-bis, come aggiunto dall'art. 6, comma 1, d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., in l. 30 dicembre 2022, n. 199. Ai sensi, inoltre, dell’art. 85 d.ls. n. 150, cit., come da ultimo modificato dall’art. 5-bis, d.l. n. 162, cit., in sede di conversione « 1. Per i reati perseguibili a querela della persona offesa in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato.- 2. Fermo restando il termine di cui al comma 1, le misure cautelari personali in corso di esecuzione perdono efficacia se, entro venti giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, l'autorità giudiziaria che procede non acquisisce la querela. A questi fini, l'autorità giudiziaria effettua ogni utile ricerca della persona offesa, anche avvalendosi della polizia giudiziaria. Durante la pendenza del termine indicato al primo periodo i termini previsti dall'articolo 303 del codice di procedura penale sono sospesi». InquadramentoLa sezione III del capo III del titolo XII (artt. 610-613) disciplina i delitti contro la libertà morale. Il bene della libertà morale della persona è oggetto anche di protezione costituzionale nell'art. 13 Cost. che sotto la libertà personale tutela in maniera diretta ed autonomo non solo la libertà fisica della persona, ma anche quella morale in quanto presupposto delle altre libertà esterne di movimento, di religione, economiche eccetera (per la riconducibilità della tutela del bene della libertà morale all'art. 13 Cost., cfr. in dottrina Mantovani, PS, I, 317). Nella prospettiva costituzionale rappresenta dunque un bene- valore assoluto ed anticipato rispetto alle altre forme di libertà, inevitabilmente pregiudicate dall'aggressione a tale valore primario e fondamentale della persona. La libertà morale viene tradizionalmente intesa come libertà di un soggetto di autodeterminarsi secondo il proprio convincimento senza subire forme illegittime di costrizione o di limitazione. La coercizione della libertà morale può avvenire tanto nella fase formativa della volontà (c.d. vis compulsiva) quanto nella fase attuativa della scelta deliberata. Ne consegue che la relativa tutela segue due distinte direttrici: la prima si sostanza nella tutela della libertà morale in quanto tale come valore autonomo proprio della persona e nella cosiddetta inviolabilità psichica (artt. 612, 612-bis, 613); la seconda invece si sostanzia nella tutela della libertà morale in quanto presupposto essenziale della realizzazione di un comportamento della vittima artt. 610-611). Ed invero nella fattispecie della minaccia e dello stato di incapacità procurato mediante minaccia, l'aggressione al bene tutelato prescinde da risultati percepibili sul piano fenomenico, mentre nella fattispecie di violenza privata e di violenza o minaccia per costringere a commettere un reato l'aggressione è diretta al raggiungimento di uno scopo effettivo o potenziale. Sotto il profilo sistematico-funzionale, infine, la violenza privata svolge una duplice funzione. Essa si atteggia quale figura criminis autonoma principale posta a presidio della libertà morale, collocata dal legislatore proprio in apertura del capo III del libro XII; si contraddistingue inoltre per il suo carattere sussidiario atteso che trova applicazione ogni qualvolta il fatto non integri gli estremi di altra fattispecie speciale e ciò anche al fine di evitare che restino prive di tutela altre forme di aggressione alla libertà di autodeterminazione (cfr. Mantovani, PS, I, 320; Antolisei, 141). Allorquando la violenza o la minaccia siano elementi costitutivi circostanze aggravanti di altre ipotesi di reato il reato di violenza privata non può trovare applicazione perché resta in quello assorbito, secondo il principio generale di specialità di cui all'art. 15. In sintesi la previsione normativa intende proteggere l'intero processo di creazione ed esecuzione della libertà morale del soggetto nei confronti di condotte violente dirette a condizionarne il momento costitutivo ed esecutivo. La giurisprudenza costante osserva che il delitto di violenza privata tende a garantire non la libertà fisica o di movimento bensì la libertà psichica dell'individuo e perciò si realizza quando l'agente con suo comportamento violento o intimidatorio eserciti una coartazione, diretta o indiretta, sulla libertà di volere o di agire del soggetto, così da costringerlo ad una certa azione, tolleranza od omissione. Il soggetto passivo del reatoUna autorevole dottrina (Manzini, 768) ha sostenuto che soggetti passivi del delitto di violenza privata possano essere soltanto coloro che sono muniti della capacità naturale (anche se non giuridica) di volere. Coloro che, viceversa, ne siano sprovvisti, potrebbero al più considerarsi oggetto (materiale) della figura delittuosa de qua; soggetti passivi potrebbero esserne, se ed in quanto esistenti, gli eventuali rappresentanti legali delle suddette persone (naturalisticamente) incapaci di volere. L'assunto si fonda sul seguente fondamento logico: posto che nella libertà del volere — e, più specificamente, in quella afferente alla estrinsecazione della stessa — deve ravvisarsi l'oggettività giuridica del delitto contemplato dall'art. 610, in capo a coloro che sono sprovvisti della capacità di volere non potrebbe riconoscersi la titolarità del bene giuridico a protezione del quale è posto il delitto di violenza privata. Secondo altri autori, tale impostazione si scontra con numerose obiezioni. Sul piano generale l'idea di ancorare l'esistenza del reato, inteso come lesione di un bene giuridico, alla percezione che di tale offesa abbia il soggetto titolare del bene coinvolto contrasta tanto con le acquisizioni cui è pervenuta la teoria del bene giuridico, quanto con le indicazioni emergenti dal nostro dettato costituzionale. Sotto il primo profilo, il concetto di bene giuridico, alla cui lesione deve assegnarsi un ruolo centrale nella definizione sostanziale del reato, si caratterizza per la dimensione esclusivamente oggettiva che gli è propria. Da questa sua consistenza oggettiva si deduce che la sua esistenza, così come la sua offesa nella quale si concreta il reato, non sono in alcun modo subordinate alla valutazione dei soggetti che ne sono titolari: la circostanza che questi ultimi siano o meno in grado di comprendere i contenuti di tali beni e, di conseguenza, la rilevanza della loro lesione, non influisce sull'esistenza né degli uni, né dell'altra. Di qui scaturisce anche la valenza di strumento di uguaglianza da attribuirsi al concetto di bene giuridico: questo viene tutelato allo stesso modo in ciascun membro della società, sia o meno questi in grado di afferrarne il significato e/o di fruirne. Già da quest'angolazione, quindi, la libertà morale si presenta come interesse degno di essere penalmente protetto, indipendentemente dalla contingente capacità di goderne del suo titolare. Per quanto poi attiene ai dati enucleabili dalla Costituzione, questi, a loro volta, non fanno che suffragare le stesse conclusioni; il principio di uguaglianza formale sancito dall'art. 3 Cost., in particolare, rende inammissibili, rispetto ad un interesse costituzionalmente garantito, diversificazioni di tutela penale che abbiano la propria ragion d'essere nella (sola) incapacità di apprezzarlo da parte di coloro che ne sono portatori. La particolare condizione di queste persone, anzi, lungi dal costituire un criterio razionale atto a giustificare differenziazioni di trattamento che si risolvano, per esse, in un vuoto di tutela penale, vale piuttosto a reclamarne una protezione più energica, proprio a causa dello stato di minorata difesa in cui versano. Diversamente, a chi, come ad esempio, l'infermo di mente, si trovi, a cagione del proprio stato, nell'incapacità di dissentire, potrebbe essere imposto con la forza di tenere qualsivoglia comportamento stabilito dai soggetti che, di volta in volta, su di lui esercitino (arbitrariamente) la propria signoria, senza che, a carico di questi ultimi, possa sorgere responsabilità penale alcuna, con l'unico limite dato dall'ipotesi in cui il contegno imposto all'incapace si sostanzi in un fatto costituente reato, nel qual caso, secondo l'art. 111, ne risponderà chi lo ha determinato. Il contrasto della tesi sopra enunciata con l'art. 3 Cost. e con il principio della «pari dignità sociale» ivi consacrato non discenderebbe soltanto — in negativo — dal mancato riconoscimento di una tutela penale a protezione della libertà di agire dei soggetti incapaci di dissentire, sì da farne altrettante longae manus a disposizione di quanti intendono costringerli a fare, tollerare od omettere ciò che più loro aggrada; ma anche — in positivo — dall'attribuzione ai soggetti muniti di capacità di un potere di supremazia assoluta, in danno di coloro che ne sono privi, che non trova giustificazione alcuna. A sconfessare l'asserita dipendenza della configurabilità del delitto di violenza privata dalla capacità di volere della persona coartata e, di conseguenza, dalla sua possibilità di percepire la menomazione subita, viene sottolineato anche il rilievo afferente al regime di procedibilità; il fatto che esso sia perseguibile d'ufficio, anziché a querela di parte, comproverebbe l'irrilevanza della volontà (e quindi, prima ancora, della comprensione dell'offesa) del soggetto passivo rispetto alle ragioni del punire. Per opinione comune soggetto passivo della condotta può essere anche una persona diversa dal soggetto passivo del reato potendo la vis cadere su soggetti terzi, a quest'ultimo legati. Infatti non può dirsi che l'efficacia coercitiva della minaccia indiretta o mediata, di cui abbia avuto notizia il soggetto passivo, sia diversa da quella diretta, essendo la coazione anche in tal caso certamente idonea a raggiungere lo scopo che l'agente si era prefisso. MaterialitàLa condotta consiste nel costringere altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, mediante l'utilizzo della: a) violenza personale fisica (propria o impropria) b) violenza personale psichica (minaccia) attiva o omissiva. Violenza personale fisicaSecondo la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza prevalente la violenza non si esaurisce nelle sole condotte consistenti nell'impiego di energia fisica (vis corporis corpori data) nei confronti di una persona (cosiddetta violenza propria), ma si identifica con qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione l'offeso il quale sia pertanto costretto a fare tollerare od omettere qualche cosa contro la propria volontà (cosiddetta violenza impropria) anche per mezzo dell'utilizzo di mezzi particolarmente insidiosi quali la narcosi, l'ipnosi, i lacrimogeni, eccetera che comunque pongono la vittima in uno stato di incapacità di volere ed agire. La tesi richiamata consente di includere nella fattispecie della violenza privata anche le condotte che si estrinsecano in un'aggressione a terze persone legate alla vittima da particolari vincoli di parentela o solidarietà, cosicché la volontà di quest'ultima rimane coartata, ovvero quei casi in cui non vi è alcun contatto fisico tra agente e vittima. Casistica La giurisprudenza assolutamente costante ha ritenuto idonea ad integrare il reato di violenza la condotta di colui che parcheggi la propria autovettura in modo tale da bloccare il passaggio impedendo alla parte lesa di procedere, considerato che ai fini della configurabilità del delitto in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione (Cass. n. 21779/2006; Cass. n. 40983/2005; Cass. n. 8425/2014). Ancora Cass. n. 33253/2015 secondo cui integra il delitto di violenza privata la condotta di chi alla guida del proprio veicolo, compie deliberatamente manovre tali da interferire significativamente nella guida di altro utente della strada, costringendolo ad una condotta diversa da quella programmata (nella specie, l'imputato, con il proprio veicolo, aveva superato quello della persona offesa, per poi sbarrarle la strada ed impedirle di andare nella direzione desiderata). Secondo Cass. n. 46786/2014 integra il reato di cui all'art. 610 la condotta di colui che, azionando a distanza il meccanismo di blocco di un cancello elettrico, impedisce alla persona offesa di uscire con la propria autovettura dalla zona garage del condominio, costringendola a scendere dal veicolo e a staccare la corrente elettrica per neutralizzare la chiusura a distanza del cancello al fine di varcare l'accesso carraio dello stabile. In tal senso anche Cass. V, n. 53978/2017; Cass. V, n. 40291/2017, relativa ad un minore sottoposto ad un'attività di osservazione psicologica durante l'orario scolastico; Cass. V, n. 4284/2016, con riferimento alla condotta del marito che abbia impedito alla moglie di accedere ad una delle stanze di un'abitazione, chiudendone a chiave la serratura; Cass. V, n. 5358/2018 che ha affermato che anche la condotta di chi ostruisca volontariamente la sede stradale per impedire ad altri di manovrare nella stessa realizza l'elemento materiale del reato in questione. A sostegno dell'interpretazione estensiva vengono richiamati, quali dati normativi l'art. 613 che qualifica come violenta la condotta diretta ad ipnotizzare la vittima o a somministrargli di sostanze stupefacenti e l'art. 628 c.p. il quale prevede come circostanza aggravante la violenza consistente nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire. In senso critico all'impostazione tradizionale e maggioritaria si orienta quella dottrina (Pulitanò, 351; De Simone, 881) che osserva che da un lato una concezione così estesa di violenza non permetterebbe l'affermarsi nel diritto penale di una concezione unitaria della violenza, valida sia per i reati nei quali essa rappresenta il fine dell'attività criminosa (esempio omicidio) che per quelli in cui essa rappresenta solo il mezzo della condotta (violenza privata), mentre dall'altro trasformerebbe surrettiziamente il delitto di violenza privata, la cui condotta è stata tipizzata nelle modalità penalmente rilevanti, in un reato a forma libera. In particolare per violenza deve intendersi un mezzo anomalo, socialmente non adeguato, di risoluzione dei conflitti intersoggettivi, e ciò rispetto alla dialettica sociale corrente in un dato contesto): condotta violenta, in particolare, sarebbe quella caratterizzata dalla «rottura unilaterali delle modalità normali (buone o meno buone) della dialettica dei rapporti intersoggettivi» e dunque una modalità di risoluzione dei conflitti intersoggettivi anormale, socialmente inadeguata rispetto al contesto nel quale viene posta in essere (Pulitanò, 375). Per una «nozione "articolata" e "bidimensionale"» di violenza, in cui la «presenza aggressiva fisica preserva il principio di determinatezza della fattispecie consentendo di selezionare le condotte violente», mentre «l'effetto costrittivo tutela il principio di sufficiente lesività dell'illecito ancorando la punibilità alla verificazione di fatti seriamente offensivi della libertà morale» si veda Mezzetti, secondo il quale «la violenza consiste nella causazione di uno stato di costrizione che si realizza anche fisicamente sulla vittima, o con mezzi sostitutivi che esprimono indirettamente un impiego di energia fisica o che denotano comunque comportamenti aggressivi, attraverso un attuale pregiudizio prodotto». Da ultimo, è degna di particolare segnalazione la tesi che giunge a delineare, de lege lata, e a promuovere, de iure condendo, la seguente definizione di violenza: «Agli effetti della legge penale, compie una condotta violenta: 1) chi cagiona la morte o un danno all'integrità fisica di una persona, o comunque esercita attivamente una forza fisica, direttamente o attraverso mezzi meccanici, sul corpo di una persona; 2) chi espone una persona ad un pericolo imminente di morte o di danno all'integrità fisica; 3) chi pone una persona in stato d'incapacità, anche parziale, d'intendere e di volere; 4) chi impedisce ad una persona di allontanarsi dal luogo in cui attualmente si trova; 5) chi danneggia, trasforma ovvero muta la destinazione naturale di una cosa; 6) chi altera, modifica o cancella in tutto o in parte un programma informatico, ovvero impedisce o turba il funzionamento di un sistema informatico o telematico» (cfr. Viganò, 284). I pregi di tale impostazione sono stati schematicamente individuati nei seguenti termini: 1) anzitutto, essa permette di enucleare un concetto unitario di violenza personale, valido tanto per la violenza-fine quanto per la violenza come mezzo di coercizione o mera modalità della condotta; 2) quindi, l'impostazione in esame recupera una funzione autonoma al mezzo specifico «violenza» rispetto all'effetto «costrizione»; 3) infine, un concetto di violenza così ricostruito è quello che più si avvicina al concetto pre-giuridico di violenza, che sembra realmente ruotare sull'idea dell'aggressione contro l'essere fisico della vittima. Sul tema dibattuta è stata la questione della legittimità del cosiddetto picchettaggio ostruzionistico ossia della realizzazione, da parte degli scioperanti, di barriere formate dai loro stessi corpi o da ostacoli materiali, idonei a impedire l'ingresso nei luoghi di lavoro dei c.d. «crumiri» (diversa questione è quella della valutazione giuridico-penalistica di picchetti o barriere che impediscano agli operai di uscire dallo stabilimento, casi per i quali l'orientamento dominante, anche in dottrina, è stato quello di affermare l'illiceità, o la rilevanza penale ex art. 605). La giurisprudenza non ha espresso dubbi nel considerare come violenta la condotta consistente nell'impedimento opposto — anche a mezzo della mera predisposizione di una barriera umana, e pur in assenza di momenti rilevante di aggressività — al diritto di esercitare l'attività lavorativa da parte di coloro che non intendessero aderire allo sciopero (Cass. n. 10518/1979; Cass. n. 1979/1983). Un tema affrontato in modo autonomo è poi quello della possibile copertura scriminante offerta ai comportamenti in esame dal diritto costituzionale di sciopero. La giurisprudenza di legittimità si è dimostrata compatta nel reputare il cd. picchettaggio ostruzionistico non coperto dalla garanzia di cui all'art. 40 Cost., e nel sottolineare come il diritto di sciopero copra solo l'attività di «mera propaganda e persuasione verso gli incerti o i dissidenti disposti ad essere informati sui motivi che inducono il lavoratore ad astenersi dal lavoro», compiute mediante «il lancio di manifesti, la ripetizione di slogans, la formazione di blocchi volanti propagandistici e dei cosiddetti picchetti di persuasione e altre consimili attività dirette», restando escluse dal diritto di sciopero tutte le condotte compiute «con modalità lesive di diversi interessi privati penalmente tutelati fino a giungere alla violenza privata» (Cass. n. 7595/1975; Cass. n. 3841/1978). Da ultimo Cass. V, n. 48369/2017, ha affermato che integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che, nell'ambito di manifestazioni di protesta per impedire l'esecuzione di un'opera pubblica, impedisce agli operai incaricati di svolgere i lavori previsti, frapponendosi all'accesso ai macchinari con comportamenti tali da bloccarne l'utilizzo da parte loro, considerato che, ai fini della configurabilità del reato in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione. Il quadro delle decisioni della giurisprudenza di merito sul punto si presenta, invece, più variegato. La violenza può consistere anche in una semplice omissione (violenza impropria) purché sussista un obbligo giuridico di attivarsi in capo dell'attivo: si pensi al caso di chi non somministri del cibo al soggetto che non è in grado di procurarlo, al fine di indurlo ad un certo comportamento. Violenza personale psichica (minaccia)Meno controversa è la nozione di minaccia che consiste nella prospettazione di un male futuro e ingiusto, la cui realizzazione dipende dalla volontà e dall'azione del reo, e che rileva, ai fini della configurabilità del delitto in esame, in quanto costituisca il mezzo per la coercizione della volontà del soggetto passivo. La minaccia deve essere per il soggetto minacciato un dilemma in ragione del quale lo stesso viene a trovarsi nella condizione di dover decidere se aderire all'imposizione dell'agente oppure sottostare all'inflizione del male prospettato. La minaccia è ritenuta pacificamente condotta a forma libera e può pertanto essere espressa, implicita, tacita, purché idonea comunque a coartare l'altrui volontà. Idoneità da accertarsi in concreto tenendo conto delle particolarità dell'ambiente e dei soggetti coinvolti. In giurisprudenza è stato ritenuto integrare il reato di violenza privata la condotta di un imprenditore che costringa alcuni lavoratori a sottoscrivere, al momento della loro assunzione, una lettera di dimissioni per motivi personali, priva di data, con la implicita minaccia di non procedere alla loro assunzione qualora non avessero firmato la lettera (Cass. n. 17444/2007) e la minaccia, ancorché non esplicita, che si concreti in un qualsiasi comportamento o atteggiamento idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto al fine di ottenere che, mediante la detta intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare o ad omettere qualcosa. (In applicazione di questo principio la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione del giudice di merito che aveva ravvisato la minaccia idonea ad integrare gli estremi costitutivi del delitto di cui all'art. 610 c.p. nell'invito a ritirare la querela, formulato al querelante, da soggetto notoriamente pregiudicato in presenza dei querelati) (Cass. n. 7214/2006). È stato ritenuto(Cass. V, n. 35003/2016) che il delitto di violenza privata può essere integrato anche dalla prospettazione di una condotta autolesionistica dell'agente, quando la stessa sia idonea a coartare l'altrui autodeterminazione (fattispecie nella quale l'imputato, dopo aver sparso della benzina sulle scale degli uffici comunali, aveva minacciato di bruciare tutto se non fosse stato ricevuto dal Prefetto per ottenere un posto di lavoro). E' stato ritenuto che non è necessario che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, potendo quest'ultima venirne a conoscenza anche attraverso altri, in un contesto dal quale possa desumersi la volontà dell'agente di produrre l'effetto intimidatorio. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che la minaccia di morte proferita dall'imputato dinanzi agli agenti penitenziari ai danni di un altro detenuto, non presente, abbia comunque prodotto in quest'ultimo, alla luce degli eventi successivi e delle misure di protezione adottate a sua tutela, uno stato di turbamento psichico idoneo a configurare il reato) (Cass. V, n. 38387/2017). E' stato ritenuto (Cass II, n. 20734/2020) sufficiente ad integrare la minaccia necessaria alla configurazione del reato anche il semplice atteggiamento personale dell'agente, oppure il compimento di atti che normalmente potrebbero sembrare indifferenti, quando, in considerazione delle speciali condizioni ambientali in cui essi ebbero luogo, o delle speciali condizioni personali delle parti (sia quella agente che quella passiva), quell'atteggiamento o quegli atti possano influire sulla psiche della p.o., coartandone la volontà. L'illegittimità della costrizioneSi è discusso, in dottrina, circa il rilievo da riconoscere al requisito dell'illegittimità della costrizione dell'altrui volere. Comunemente si afferma che il fatto di cui all'art. 610 deve presentare le caratteristiche dell'illegittimità solo qualora non ricorrano situazioni scriminanti ex artt. 50-54 (cfr. Antolisei, 148; Manzini, VIII, 779, secondo il quale, tuttavia, l'illegittimità sussisterebbe quando la violenza non è autorizzata da alcuna disposizione giuridica, al di là del concreto ricorrere di una causa di giustificazione). In dottrina, è stata proposta anche la distinzione tra illegittimità assoluta, che si avrebbe quando l'agente non ha alcuna facoltà giuridica di imporre alla vittima una determinata azione, tolleranza od omissione, e illegittimità relativa, che si realizzerebbe nel caso in cui l'agente, pur avendo diritto o altra facoltà giuridica al fare, tollerare od omettere da parte dell'offeso, non avrebbe nondimeno il diritto di impiegare la violenza per costringere il soggetto passivo a compiere dette azioni (cfr. Manzini, VIII, 780; in senso radicalmente critico con la distinzione in esame, oltre che con la stessa introduzione tout court del requisito dell'illegittimità dell'azione, cfr. Mantovani, PS, I, 324: «Priva di rilevanza è la distinzione tra «illegittimità assoluta» e «illegittimità relativa», parimenti sufficiente ad integrare il reato e che ricorrerebbe allorché l'agente, pur avendo un diritto all'altrui comportamento, si serva della vis per costringere il soggetto a tenere il comportamento medesimo»; sull'inopportunità, se non scorrettezza della distinzione in esame, che creerebbe indebite sovrapposizione tra il delitto in esame e l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, cfr. anche Mezzetti, 277). È stato affermato che accettare la tesi della necessaria illegittimità del fatto significherebbe eludere la stessa formulazione della legge, trasformando la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 610 in un reato a illiceità speciale, mentre è sufficiente che esso, come tutti gli altri reati, sia stato commesso in assenza di una delle situazioni giustificanti previste dagli artt. 50-54 (cfr. Mantovani, PS, I, 324: «il fatto deve essere, sì, illegittimo, ma nel ristretto senso di non iure, in quanto giuridicamente né imposto, né autorizzato»; cfr., anche, Mezzetti, 277, 278). Ne consegue che, con l'art. 610, sono tutelate anche le cosiddette «libertà di fatto», che quindi giustificate risulteranno le condotte volte a impedire l'esecuzione o la permanenza di un reato, nonché gli interventi finalizzati a impedire un suicidio, in attuazione di un dovere di soccorso ex artt. 51 e 593, inconferente essendo, in questo caso, il richiamo allo stato di necessità ex art. 54 (così Mantovani, PS, I, 324;contra Antolisei, 148). Secondo la giurisprudenza di legittimità ai fini della sussistenza o meno del reato di violenza privata, la coazione deve ritenersi giustificata non solo quando ricorra una delle cause di giustificazione previste dagli artt. 50-54, ma anche quando la violenza o la minaccia sia adoperata per impedire l'esecuzione o la permanenza di un reato; invece, la violenza o la minaccia sono punibili se con esse si voglia costringere altri ad adempiere ad un dovere giuridico o ad astenersi da una condotta genericamente illecita o immorale. Però, anche nella prima ipotesi, quando cioè la coazione sia usata per impedire la commissione di un reato, non può prescindersi da un criterio di proporzionalità tra il mezzo adoperato e il reato che si intendeva impedire. (nella specie, relativa a rigetto di ricorso, gli imputati, che armati di crick e spranghe di ferro avevano aggredito e ferito altri giovani di opposta fazione politica, avevano sostenuto che intendevano impedire la perpetrazione del reato di affissione di stampati al di fuori degli appositi spazi, contravvenzione peraltro depenalizzata) (Cass. n. 5423/1989). La condotta resta, per contro, antigiuridica allorché la violenza o la minaccia vengano usate per impedire la commissione di un atto semplicemente immorale (cfr. Cass. n. 9589/1977 secondo la quale “il reato di violenza privata viene meno se risulti che l'agente aveva il "diritto d'imporre con violenza o minaccia una determinata condotta positiva o negativa: cio che avviene nei casi d'impedimento della commissione di un reato o nelle situazioni previste dagli artt 51,52,54 e non quando si voglia semplicemente costringere taluno a compiere un dovere giuridico o ad eliminare un atto antigiuridico”). Si veda anche da ultimo Cass. V, n. 8310 /2016 che ha affermato che non integra gli estremi del reato di violenza privata la condotta preordinata a far desistere altri da un'azione illecita, in quanto la condotta che si assume impedita con violenza o minaccia, ad opera di un terzo, deve esprimere una lecita modalità di esplicazione della personalità (fattispecie in cui l'imputato, fermato in un supermercato in attesa della polizia, per avere rotto una bottiglia, aveva cercato di opporsi alla restrizione della propria libertà di movimento). Evento del delitto: il «fare, tollerare od omettere» del soggetto passivoIl reato in questione viene generalmente considerato come reato ad evento naturalistico, alla cui condotta deve eziologicamente ricollegarsi una specifica conseguenza: la violenza o la minaccia devono causare una costrizione (assoluta o relativa) del soggetto passivo a tenere una condotta, attiva od omissiva (il «fare, tollerare od omettere»), che egli altrimenti non avrebbe tenuto, e in mancanza di tale effettivo costringimento, il fatto potrà eventualmente essere punito a titolo di tentativo (cfr. Fiandaca-Musco, 207; secondo Mantovani, PS, I, 320, l'evento del reato «è duplice in quanto la condotta violenta deve essere «causa» dei due progressivi effetti: 1) dell'altrui stato di «coazione», che può consistere in una «coazione assoluta» o «relativa» (...); 2) del «fare», «tollerare» od «omettere» qualche cosa, quale effetto del suddetto stato di coazione, in quanto (...) nella violenza privata viene in considerazione non la violenza-fine, ma la «violenza-mezzo», finalizzata cioè a un comportamento della vittima»). Il fare assume un significato lato, comprensivo di qualsiasi comportamento attivo, e cioè sia del facere in senso stretto (es. effettuare o abbandonare un lavoro, uscire da un certo luogo o l'andarvi, iscriversi a un'associazione, rilasciare una falsa dichiarazione, etc.), sia del «dare», con l'avvertenza che la dazione avente ad oggetto un bene di valore patrimoniale potrà configurarsi la rapina o l'estorsione; il «tollerare», quindi, sta a indicare il pati, cioè il sopportare, il subire senza resistenza la situazione imposta dall'agente (il tollerare bene è stato definito come «una particolare forma di condotta passiva, la quale consiste nel lasciare che l'agente compia una certa azione, cioè nel non impedirla» (così Antolisei, 147): come nel caso della donna che viene costretta a tollerare abbracci e baci da parte dell'amante reietto); l'«omettere», infine, va pure inteso in senso lato, comprensivo di qualsiasi non facere, con l'importante avvertenza che non è necessario il non facere quod debetur (e cioè il non compiere l'atto giuridicamente doveroso), ma è sufficiente il non facere quod volitur (ad es., non partecipare a una manifestazione, non presentare da parte di un privato denuncia per un reato) (così, molto chiaramente, Mantovani, PS, I, 322); infine, il comportamento attivo, omissivo o passivo oggetto di costrizione deve essere determinato, come viene desunto dall'espressione «qualche cosa» utilizzata dal legislatore, sì che, in caso di indeterminatezza, potrà configurasi il diverso delitto di minaccia (cfr. Antolisei, 147). Anche per consolidata giurisprudenza di legittimità l'elemento oggettivo del delitto di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare od omettere una condotta determinata, poiché, in assenza di tale determinatezza, possono integrarsi i singoli reati di minaccia, molestia, ingiuria, percosse, ma non, per l'appunto, quello di violenza privata (ex multis Cass. n. 35237/2008). In altri termini il delitto di cui all'art. 610 non è configurabile qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino, essi stessi, l'evento naturalistico del reato, vale a dire il pati cui la persona offesa sarebbe stata costretta (Cass. n. 2480/2000). Sulla scia di tale interpretazione anche le Sezioni Unite hanno avuto modo di precisare come, nella fattispecie descritta nell'art. 610, la violenza è un connotato essenziale di una condotta che, a sua volta, deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa; deve dunque trattarsi di «qualcosa» di diverso dal «fatto» in cui si esprime la violenza (Cass. S.U., n. 2437/09) In applicazione di detti principi la S.C. (Cass. n. 1215/2015) ha censurato la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità — in ordine al reato di violenza privata — dell'imputato che aveva fisicamente aggredito la vittima tenendola “schiacciata” contro la portiera dell'auto). In tal senso Cass. V, n. 47575/2016 e Cass. V, n. 10132/2018 che ha affermato che non è configurabile il delitto di violenza privata allorquando gli atti di violenza non siano diretti a costringere la vittima ad un pati, ma siano essi stessi produttivi dell'effetto lesivo, senza alcuna fase intermedia di coartazione della libertà di determinazione della persona offesa. (Fattispecie in cui la Corte, salva la sussistenza di eventuali altri reati, ha escluso la configurabilità di quello di cui all'art. 610 nella condotta dell'imputato che, affiancando con l'auto la persona offesa in bicicletta, la faceva cadere con una spinta, così costringendola ad interrompere il suo regolare percorso stradale). Trattamento medico-chirurgico arbitrario e configurabilità della violenza privataLa peculiarità del trattamento medico-chirurgico arbitrario consiste nel fatto che il sanitario, ricevuto il consenso del paziente in ordine all'effettuazione di un determinato trattamento terapeutico, ne pone in essere poi un altro, diverso da quello che aveva formato oggetto del consenso prestato dal paziente stesso. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione investite del quesito «se abbia rilevanza penale la condotta del medico che sottoponga il paziente, in mancanza di consenso informato, a un trattamento chirurgico nel rispetto dei protocolli medici e con esito fausto»; «se, nel caso di risposta affermativa al primo quesito, sia configurabile il reato di lesioni o di violenza privata» (Cass. S.U., n. 2437/2009) hanno delineato con chiarezza la distinzione tra intervento chirurgico realizzato «contro» la volontà del paziente e intervento realizzato «in assenza» del suo consenso: ferma restando «la sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato in corpore vili contro la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dall'esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che quanto meno realizza «una illegittima coazione dell'altrui volere», l'ipotesi controversa riguarda invece il caso in cui, anche se «in assenza» di consenso espresso allo specifico trattamento praticato, il risultato dello stesso abbia prodotto un beneficio per la salute del paziente. Il percorso argomentativo della sentenza delle Sezioni Unite si è sviluppato quindi nella direzione della verifica della configurabilità, nel caso esaminato (mutamento del tipo di intervento operatorio, effettuato — in ipotesi — senza che tale variatio fosse stata in precedenza assentita dal paziente, malgrado il relativo esito fausto), del delitto ex art. 610, configurabilità affermata dai giudici di merito, che avevano così riqualificato l'originaria imputazione di lesioni personali volontarie aggravate. Al riguardo, richiamati gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in tema di elemento oggettivo del reato di violenza privata e di riconducibilità nella relativa fattispecie incriminatrice della violenza «propria» e della violenza «impropria», hanno evidenziato “come versandosi, nella specie, in una ipotesi di violenza personale «diretta», si debba ritenere che la nota caratterizzante tale forma di violenza vada ravvisata nella idea della aggressione «fisica», ossia nella lesione o immediata esposizione a pericolo dei beni più direttamente attinenti alla dimensione fisica della persona, quali la vita, l'integrità fisica o la libertà di movimento del soggetto passivo. Tale rilievo sembra rendere del tutto impraticabile l'ipotesi che siffatti requisiti possano ritenersi soddisfatti nella specifica ipotesi in esame: «la violenza, infatti, è un connotato essenziale di una condotta che, a sua volta, deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa; deve dunque trattarsi di ‘qualcosa' di diverso dal «fatto» in cui si esprime la violenza. Ma poiché, nella specie, la violenza sulla persona non potrebbe che consistere nella operazione; e poiché l'evento di coazione risiederebbe nel fatto di ‘tollerare' l'operazione stessa, se ne deve dedurre che la coincidenza tra violenza ed evento di ‘costrizione' a tollerare rende tecnicamente impossibile la configurabilità del delitto di cui all'art. 610». Inoltre, con riferimento all'ipotesi del paziente anestetizzato che abbia acconsentito ad altro intervento chirurgico e alla relativa anestesia, anche il requisito della «costrizione» presenta profili di problematicità, postulando esso il dissenso della vittima, che subisce la condotta dell'agente e per conseguenza di tale condotta è indotta a fare, tollerare od omettere qualche cosa, in contrasto con la propria volontà: «nei confronti del paziente anestetizzato pleno iure, perché nel quadro di un concordato intervento terapeutico, il chirurgo che si discosti da quell'intervento e ne pratichi un altro potrà dirsi commettere un fatto di abuso o di approfittamento di quella condizione di 'incapacitazione' del paziente, ma non certo di »costrizione« della sua volontà, proprio perché, nel frangente, difetta quel requisito di contrasto di volontà fra soggetto attivo e quello passivo che costituisce presupposto indefettibile, insito nel concetto stesso di coazione dell'essere umano, 'verso' (e, dunque, per realizzare consapevolmente) una determinata condotta attiva, passiva od omissiva». Veniva inoltre sottolineato che la non riconduciblità nel perimetro applicativo dell'art. 610, della condotta del chirurgo che «approfitti» della condizione di anestetizzato del paziente per mutare il tipo di intervento chirurgico concordato, si desume — oltre che de iure condendo dalla previsione di una specifica norma incriminatrice nella bozza di articolato elaborata dalla cd. Commissione Pagliaro — dalle precise scelte legislative operate in riferimento alla fattispecie, strutturalmente «omologa», dettata dall'art. 609-bis, nella quale il legislatore ha introdotto una espressa equiparazione normativa tra l'ipotesi di costringimento, con violenza o minaccia, a subire atti sessuali, e l'ipotesi del compimento dell'atto sessuale «abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa», eventualità, quest'ultima, che certamente si realizza anche nell'ipotesi in cui la vittima sia — come nel caso di paziente anestetizzato — in condizioni di totale incoscienza: la sentenza delle Sezioni Unite sottolinea che ciò sta ad indicare che «lo stesso legislatore, nel dettare la disciplina relativa ad altra ipotesi di violenza personale, ha dovuto dettare una apposita disposizione per equiparare condotte evidentemente fra loro non sovrapponibili, così da escludere che l'approfittamento della condizione di incapacità, possa, naturalisticamente e giuridicamente, equivalere ad un fatto di per sé integrante violenza». Consumazione e tentativoIl delitto di violenza privata ha natura di reato istantaneo che si consuma nel momento in cui l'altrui volontà sia rimasta di fatto costretta a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che sia necessario il protrarsi nel tempo dell'azione o dell'omissione o il permanere degli effetti. Il tentativo è configurabile, nella duplice forma del tentativo incompiuto, quando l'azione non si compie e di tentativo compiuto, quando alla condotta non fa seguito l'evento coercitivo. Elemento soggettivoIl dolo richiesto è generico, essendo sufficiente la coscienza e volontà di costringere taluno, mediante violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa. Indifferente è il fine dell'agente. In casi determinati, addirittura, l'esistenza di un fine particolare può determinare un mutamento del titolo di reato. In giurisprudenza, si è affermato che il fine di scherzo, in linea di principio, non esclude il dolo, potendo rilevare solo laddove, «inquadrato nella cornice delle circostanze concomitanti, valga a persuadere che l'agente ha agito con la convinzione dell'esistenza in atto di un consenso del soggetto passivo» (Cass. n. 2539/1985). Circostanze aggravantiIl comma 2 prevede l'applicabilità delle aggravanti speciali di cui all'art. 339, al cui commento si rinvia. Merita rammentare come le pene stabilite per i delitti previsti in questo articolo siano anche aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione, in base a quanto recentemente disposto dall'art. 71, comma 1, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. Ai sensi dell'art. 7, l. 31 maggio 1965, n. 575, siccome modificato dall'art. 18, l. 13 settembre 1982, n. 646, se il fatto è commesso da persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a misura di prevenzione, la pena è aumentata e ad essa è aggiunta una misura di sicurezza detentiva. Circostanze aggravanti speciali, infine, sono previste dall'art. 1, l. 25 marzo 1985, n. 107 (in materia di persone internazionalmente protette) e dall'art. 36, l. 5 febbraio 1992, n. 104 (in materia di tutela di persone handicappate). Rapporti con altri reatiIl delitto di violenza privata è ritenuto sussidiario rispetto ad altre ipotesi di reato che prevedono forme di coartazione della volontà con i mezzi della violenza o della minaccia, ma che rispetto alla fattispecie di cui all'art. 610 possiedono un quid pluris. In tali casi il reato rimane assorbito sulla base del principio di specialità. Ciò accade con riferimento ai reati di estorsione e rapina ogni volta che la coartazione sia diretta a procurare un ingiusto profitto con altrui danno. Stessa cosa dicasi nel caso di sequestro di persona quando la violenza usata per porre in essere la coazione determina la privazione della libertà di locomozione della vittima e la violenza si atteggia a mezzo esecutivo del reato. È stato ritenuto (Cass. fer., n. 39541/2016) che il prelievo forzoso degli ovociti dall'utero della donna non rientra nell'orizzonte dei delitti contro il patrimonio (come la rapina), ma costituisce un delitto contro la persona, da qualificarsi ai sensi dell'art. 610 nel concorso con le lesioni personali. In sentenza viene evidenziato che, come giustamente osservato dal Tribunale, le parti del corpo umano diventano "cose" solo dopo essere state separate (per es. il rene,una volta espiantato), ma non sono tali sino a quando fanno parte del corpo vivente. Né a conclusioni differenti si può pervenire con riferimento alla particolare natura degli ovociti prodotti nel corpo della donna e destinati ad essere espulsi o trasformati mediante la fecondazione. È discutibile se possano essere assimilati agli organi del corpo umano, ma non può essere revocato in dubbio che facciano parte del circuito biologico dell'essere umano. Pertanto, non possono essere considerati "cose", solo temporaneamente detenute dalla donna all'interno del proprio corpo. È stato invece ritenuto da Cass. V, n. 8639/2016 che integra il reato di estorsione, e non già quello di violenza privata, la condotta consistita nel costringere, mediante violenza o minaccia, un imprenditore ad effettuare un'assunzione non necessaria, sussistendo sia il requisito dell'ingiusto profitto, conseguito dalla persona assunta e connesso ad un'azione intimidatoria, sia quello del danno per la vittima, costretta a versare la relativa retribuzione. (In applicazione del principio, la S.C. ha annullato con rinvio la decisione d'appello che aveva omesso di motivare in relazione alla "non necessità" dell'assunzione e, di conseguenza, in ordine al suo aver arrecato danno patrimoniale alla persona offesa). L'assorbimento della violenza privata nel delitto di rapina si verifica anche qualora la violenza sia esercitata nei confronti di persona diversa dal detentore della cosa, a condizione che tra la violenza e l'impossessamento intercorra un nesso di strumentalità caratterizzato dal requisito dell'immediatezza, e il secondo costituisca la diretta conseguenza della prima. È sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco di tempo tale da non interrompere il nesso di contestualità dell'azione complessiva nel senso che dette attività si presentino come un'azione unitaria culminante nell'attività diretta al fine alternativo di impedire al derubato di reimpossessarsi delle cose sottrattegli o di assicurare al colpevole l'impunità (Cass. n. 3721/1991; Cass. n. 1771/1993; Cass. n. 2828/1999). Deve comunque precisarsi che l'assorbimento del reato di violenza privata in altre fattispecie criminose non è la regola, potendosi assistere, in certi casi, ad un concorso di reati. Così ad esempio non si assiste al fenomeno dell'assorbimento con riguardo al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione allorché la vittima sia costretto altresì ad una determinata azione non strumentale alla situazione di pati tipica del sequestro (esempio costringere la donna sequestrata a telefonare al marito sotto coazione di coltello puntato al collo. In tal senso in giurisprudenza Cass. n. 2780/1995). E' stato da ultimo ritenuto (Cass. II, n. 53267/2017) che il reato di violenza privata non può ritenersi assorbito da quello di estorsione qualora la minaccia proferita, sia pure contemporaneamente a quella estorsiva, tenda a costringere la parte lesa a non denunciare il torto patito e cioè a una ulteriore limitazione della sua libertà, tutelata appunto dal disposto dell'art. 610. Allo stesso modo il reato di violenza privata può concorrere materialmente con il reato di maltrattamenti in famiglia quando le violenze e le minacce del soggetto attivo siano adoperate, oltre che con la coscienza e volontà di sottoporre la vittima a sofferenze fisiche e morali in modo continuativo ed abituale, anche con l'intento di costringerlo ad attuare un comportamento che altrimenti non avrebbe volontariamente posto in essere (in giurisprudenza Cass. n. 8193/1999: nel caso di specie, il marito, oltre che sottoporre la moglie, continuativamente e abitualmente, a ingiurie, minacce e percosse, l'aveva anche costretta a sottoscrivere numerosi effetti cambiari; vedi anche Cass. n. 22769/2010). Anche la violenza privata e il danneggiamento non danno luogo a un'ipotesi di reato complesso (danneggiamento con violenza alla persona), bensì a concorso di reati autonomi (in giurisprudenza Cass. n. 13550/2015). La giurisprudenza ha riconosciuto, viceversa, l'assorbimento, nella violenza privata, del delitto di percosse (cfr. Cass. n. 28351/2004), circa i rapporti del delitto di violenza privata con le lesioni personali, la Cassazione, pur riconoscendo la possibilità di un concorso delle due fattispecie si è espressa molto chiaramente precisando che l'azione violenta diretta a ledere l'integrità fisica della vittima non comporta, in sé e per sé, la lesione della sua sfera psichica, annullandone la capacità di autodeterminazione, ed evidenziando come, diversamente opinando, l'inevitabile costrizione a subire l'azione violenta insita nella consumazione del reato di lesioni volontarie comporterebbe necessariamente e sempre la configurazione, oltre che del reato di cui all'art. 582, anche di quella del reato di violenza privata, pur se l'azione aggressiva non fosse rivolta contro la sfera della libertà psichica dell'aggredito (Cass. n. 1367/1987 ancora, Cass. n. 3464/1984 che ha ulteriormente precisato come il reato di violenza privata concorra con quello di lesioni personali volontarie solo se la violenza superi i limiti della costrizione necessaria a subire l'azione dell'aggressore, la quale si traduce inevitabilmente nell'impedimento dei liberi movimenti della vittima e nell'imposizione a tollerare gli atti lesivi durante la consumazione del delitto punito dall'art. 582). È configurabile il concorso tra il reato di violenza privata e quello di atti persecutori, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi, in quanto l'art. 610 protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà personale, ovvero la libertà individuale come libertà di autodeterminazione e di azione; mentre l'art. 612 bis è preordinato alla tutela della tranquillità psichica — ed in definitiva della persona nel suo insieme — che costituisce condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della predetta volontà (Cass. n. 2283/2015). In tal senso anche Cass. V, n. 4011/2016 che in motivazione ha precisato che l'"alterazione delle abitudini di vita" non può considerarsi una peculiare ipotesi di violenza privata, avendo la prima una ampiezza di molto maggiore rispetto al fare, omettere o tollerare qualcosa per effetto della coartazione esercitata sulla volontà della vittima). Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si differenzia da quello di cui all'art. 610, che contiene egualmente l'elemento della violenza o della minaccia alla persona, non nella materialità del fatto che può essere identica in entrambe le fattispecie, bensì nell'elemento intenzionale. Nel reato di ragion fattasi l'agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli competa giuridicamente, pur non richiedendosi che tale pretesa sia realmente fondata, ma bastando che di ciò egli abbia ragionevole opinione. Il reato di violenza privata, invece, che tutela la libertà morale, è titolo generico e sussidiario rispetto al reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. È stato però ritenuto il concorso tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di violenza privata qualora, nel medesimo contesto, l'agente ponga in essere distinte condotte minacciose volte, l'una, ad ottenere l'estinzione di un debito e l'altra il ritiro di una denuncia. La minaccia volta a costringere la persona offesa a ritirare la denuncia non costituisce una pretesa tutelabile in sede giurisdizionale, sicché configura un'ipotesi di violenza privata, che concorre con il reato di cui all'art. 393 (Cass. n. 31361/2011). In tal senso Cass. V, n. 49025/2017 che ha affermato che il reato di violenza privata concorre con quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ogniqualvolta manchi una connessione diretta tra la violenza o minaccia e l'esercizio delle proprie ragioni, o quando l'agente ponga in essere distinte condotte minacciose volte a finalità diverse. (Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto il reato di violenza privata assorbito in quello di "ragion fattasi", in quanto la condotta dell'agente, consistita nel trattenere le chiavi della vettura della persona offesa per impedirgli di allontanarsi, era direttamente ed esclusivamente finalizzata ad ottenere il pagamento di una somma di denaro dovutagli). Il reato di violenza sessuale concorre con il delitto di violenza privata, quando quest'ultimo, pur strumentale rispetto alla condotta criminosa del primo, rappresenta un quid pluris che eccede il compimento dell'attività sessuale coatta (Cass. n. 29901/2011 in fattispecie di violenza privata consistita nell'asportazione del telefono cellulare alla persona offesa al fine di impedirle di invocare aiuto). Il delitto di violenza privata non concorre con quello di violenza sessuale quando la violenza fisica o morale è del tutto strumentale rispetto al compimento degli atti sessuali e non rappresenta un quid pluris che eccede il compimento dell'attività sessuale coatta (Cass. n. 37367/2013: fattispecie in cui la condotta era consistita nel trattenere violentemente la vittima a bordo di una autovettura, somministrarle sostanza stupefacente ed immediatamente violentarla). E' stato ritenuto (Cass. fer., n. 39541/2016 ) che il prelievo forzoso degli ovociti dall'utero della donna non rientra nell'orizzonte dei delitti contro il patrimonio (come la rapina), ma costituisce un delitto contro la persona, da qualificarsi ai sensi dell'art. 610 nel concorso con le lesioni personali. In sentenza viene evidenziato che , come giustamente osservato dal Tribunale, le parti del corpo umano diventano "cose" solo dopo essere state separate (per es. il rene,una volta espiantato), ma non sono tali sino a quando fanno parte del corpo vivente. Né a conclusioni differenti si può pervenire con riferimento alla particolare natura degli ovociti prodotti nel corpo della donna e destinati ad essere espulsi o trasformati mediante la fecondazione. E' discutibile se possano essere assimilati agli organi del corpo umano, ma non può essere revocato in dubbio che facciano parte del circuito biologico dell'essere umano. Pertanto, non possono essere considerati "cose", solo temporaneamente detenute dalla donna all'interno del proprio corpo. Profili processualiNon viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, la decisione di condanna per il reato di violenza privata (art. 610) a fronte della contestazione del delitto di intralcio alla giustizia (art. 377, comma 3), trattandosi di figure criminose che hanno in comune l'elemento della minaccia o della violenza, funzionali al conseguimento dello scopo avuto di mira dall'agente, vale a dire l'induzione della vittima a determinati comportamenti (Cass. V, n. 34939/2016). Viola il divieto della reformatio in peius il giudice di appello che, a seguito di sentenza di primo grado di condanna per il reato di violenza privata e di assoluzione da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose, contestato in concorso formale con il primo, riqualifica, in assenza di impugnazione da parte del pubblico ministero, l'originaria imputazione ex art. 610 in quella di cui all'art. 392 così effettuando un non consentito ribaltamento del giudizio liberatorio di primo grado (Cass. VI, n. 3911/2016). La Novella del 2022 (Decreto Legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 “c.d. Riforma Cartabia”) ha introdotto la procedibilità a querela per il delitto in argomento, facendo salva la procedibilità d'ufficio quando la persona offesa sia incapace per età o per infermità ovvero quando ricorra la circostanza aggravante di cui al secondo comma che richiama le condizioni previste dall'articolo 339 c.p. nell'ambito dei delitti contro la Pubblica Amministrazione. Come si legge nella relazione illustrativa, in tale ultima ipotesi, la dimensione pubblicistica dell'aggravante ha reso opportuno conservare il regime di procedibilità d'ufficio. Nella parte in cui comporta la procedibilità a querela di parte per fattispecie di reato in precedenza procedibili di ufficio, secondo quanto stabilito dalle disposizioni transitorie ad hoc di cui all'art. 85, comma 1, D. Lgs. n. 150 del 2022, e di quelle introdotte dalla l. n.199 del 2022 (sostituendo nel corpo del predetto art. 85 il comma 2, ed introducendovi, inoltre, i nuovi commi 2-bis e 2-ter), le predette modifiche, immediatamente operanti per i reati commessi a partire dal 30/12/2022, data di vigenza della novella, opereranno, per i reati commessi fino al 29/12/2022, divenuti procedibili a querela di parte in forza delle nuove disposizioni, nei termini di seguito indicati: A) nei casi in cui non pende il procedimento penale: - se il soggetto legittimato a proporre querela ha avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato” (ovvero sempre, trattandosi di un reato del quale non è possibile che non si sia avveduto), il termine per proporre querela (di mesi tre, ex art. 124 c.p., non toccato dall'intervento novellatore) decorre dal 30/12/2022, data di entrata in vigore della novella, e scade, pertanto, il 30/03/2023; B) nei casi in cui pende il procedimento penale: - avendo il soggetto legittimato a proporre querela necessariamente avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato”, il termine trimestrale per proporre querela decorre dal 30/12/2022, data di entrata in vigore della novella, e scade il 30/03/2023: diversamente rispetto a quanto previsto dall'originario comma 2 della disposizione, nessun onere di informare la p.o. di tale facoltà incombe sul giudice procedente, presumendosi, pertanto, che la p.o. debba avere conoscenza della novella. Ferma restando la predetta disciplina, si è anche stabilito che le misure cautelari personali in corso di esecuzione perdono efficacia se, entro venti giorni dalla data di entrata in vigore del D. Lgs. n. 150 del 2022, e quindi entro il 19/01/2022, l'autorità giudiziaria che procede (da individuare nel giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, ove penda ricorso per cassazione) non acquisisce la querela: a tal fine, l'a.g. procedente effettua ogni utile ricerca della p.o., anche avvalendosi della polizia giudiziaria. Durante la pendenza del predetto termine di venti giorni, i termini di cui all'art. 303 c.p.p. sono sospesi. Durante la pendenza del termine per proporre querela, si applica quanto disposto dall'art. 346 c.p.p. in tema di atti compiuti in mancanza di condizioni di procedibilità. L’ammonimento del QuestoreNell'ottica della prevenzione della recrudescenza della devianza giovanile, il Decreto- legge 15 settembre 2023, n. 123, conv., con modif., in legge 13 novembre 2023, n. 159 (cd. Decreto Caivano), entrato in vigore il 16 settembre 2023, ha introdotto una figura di ammonimento al fine di intercettare alcune condotte illecite realizzate fisicamente da minorenni nei confronti di altri minori, con particolare riguardo alle fattispecie di percosse, lesioni, violenza privata e danneggiamento. L'art 5 , rubricato "Disposizioni in materia di prevenzione della violenza giovanile", del Decreto-Caivano al comma 2 ha disposto che: “ fino a quando non è proposta querela o non è presentata denuncia per taluno dei reati di cui agli articoli 581,582,610,612 e 635 del codice penale, commessi da minorenni di età superiore agli anni quattordici nei confronti di altro minorenne, è applicabile la procedura di ammonimento di cui all'articolo 8, commi 1 e 2, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38” Ai fini dell'ammonimento di cui al comma 2, il questore convoca il minore, unitamente ad almeno un genitore o ad altra persona esercente la responsabilità genitoriale. Gli effetti dell'ammonimento di cui al comma 2 cessano comunque al compimento della maggiore età. BibliografiaDe Simone, Violenza (diritto penale), in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993; Manzini, Trattato di diritto penale italiano, VIII, Torino, 1985; Mantovani, Violenza privata, in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993; Mezzetti, Violenza privata e minaccia, in Digesto pen., XV, Torino, 1999, Pulitanò, Picchettaggio e categorie penalistiche: per una riconsiderazione del reato di violenza privata, in Riv. giur. lav. 1984; Viganò, La tutela penale della libertà individuale, Milano, 2002. |