Codice Penale art. 622 - Rivelazione di segreto professionale.

Giovanna Verga

Rivelazione di segreto professionale.

[I]. Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto [200 c.p.p.], lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da 30 euro a 516 euro [326] (1).

[II]. La pena è aggravata se il fatto è commesso da amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari (2), sindaci o liquidatori o se è commesso da chi svolge la revisione contabile della società (3).

[III]. Il delitto è punibile a querela della persona offesa [120].

(1) Per un'ipotesi di aumento della pena, v. art. 36 l. 5 febbraio 1992, n. 104.

(2) Le parole «dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari,», sono state inserite dall'art. 15 3 c) l. 28 dicembre 2005, n. 262.

(3) Comma inserito dall'art. 2 d.lg. 11 aprile 2002, n. 61.

competenza: Trib. monocratico

arresto: non consentito

fermo: non consentito

custodia cautelare in carcere: non consentita

altre misure cautelari personali: non consentite

procedibilità: a querela di parte

Inquadramento

L'art. 622 è posto a tutela del segreto professionale inteso quale interesse alla libertà e sicurezza dei rapporti intimi professionali, determinati dalla necessità o dalla quasi necessità dell'individuo di godere delle prestazioni di determinate categorie di soggetti, qualificate per la cura di differenti e rilevanti interessi, anche comunicando fatti o aspetti della propria vita non noti (Crespi, La tutela penale del segreto, Palermo, 1953, 99; Mantovani, PS, I, 621; Manzini, VIII, 1010; Mutti, 125).

Chi si rivolge a determinati professionisti (avvocati, medici, notai) perché, il più delle volte, costretto suo malgrado, instaura con essi un rapporto di fiducia in considerazione del quale è portato a rivelare situazioni e notizie concernenti la propria sfera privata che non desidera portare a conoscenza di altri. Il professionista dal canto suo non può abusare della fiducia in lui riposta, rivelando notizie apprese in conseguenza di questo rapporto.

Bene giuridico protetto è dunque l'interesse, sia pubblico che privato, a che il professionista mantenga la segretezza su fatti di cui sia venuto a conoscenza per ragione e nell'ambito della funzione svolta o del ruolo ricoperto. Si tratta di un elemento essenziale per l'esplicazione della libertà individuale, in particolare per la tutela di interessi quali la salute, la difesa processuale, la libertà religiosa, che sarebbero altrimenti compromessa dal timore di un'indebita rivelazione.

Soggetto attivo

L'incriminazione indica in «chiunque» l'autore del reato, tuttavia dal suo contenuto si evince che soltanto il depositario di un segreto professionale può essere l'autore della violazione, cosicché si tratta di un reato c.d. proprio.

Il legislatore non specifica quali siano le categorie professionali obbligati al segreto ed il riferimento a concetti generici come stato, ufficio, professione o arte consente di ricondurre entro l'ambito di operatività della norma in esame un numero indefinito di attività esercitate in forma professionale, abbiano esse finalità lucrative o meno.

Sono state messe in rilievo una serie di caratteristiche comuni ad attività che rientrano nel concetto lato di professione rilevante ai sensi dell'art. 622.

È necessario che l'attività sia svolta in maniera continuativa, anche se non in via esclusiva.

Non rilevano i rapporti confidenziali di mera simpatia, fondati su una libera causa, in cui la conservazione della riservatezza costituisce un mero obbligo morale, potendo integrare una violazione civile (art. 2043 c.c.) o, eventualmente, penale laddove sia leso un altro bene della persona (ad es. l'onore) (Mantovani, PS, I, 1, 621).

Sono escluse dalla nozione le prestazioni e i servizi meramente eccezionali (Antolisei, 262; Cocco, La tutela, 285; Manzini, passim; Mazzacuva, Delitti, 389; Mutti, 126), perché, se da un lato sarebbe eccessivo estendere la sanzione penale anche agli autori di servizi o prestazioni occasionali, d'altra parte chi ad essi si affida sa di non potersi attendere quella fedeltà particolare di chi svolge una attività professionale (Mantovani, PS, I, 623).

Si discute, invece, sull'inquadramento delle attività esercitate abusivamente o in via di mero fatto: per la conclusione affermativa è stata ritenuta decisiva — trattandosi di soluzione che non supera il dato dogmatico, giacché è comune in diritto penale il riconoscimento delle qualifiche di fatto — sia la meritevolezza di tutela anche di chi si sia rivolto a chi appariva un professionista abilitato, sia la irrilevanza con riguardo alla sussistenza del rapporto fiduciario (violato ab origine) della reale qualifica del professionista abusivo (Cocco, Inviolabilità, 429; dubitativamente Mantovani, PS, I, 624; Seminara, 630; contra Fiandaca, Musco, PS, II, 1, 270;Antolisei, 262; Crespi, 103; Gargiulo, 845; Lago, 6070).

Non hanno, invece, tutela i rapporti relativi ad attività illecite, immorali o, comunque, proibite dall'ordinamento (prostitute, maghi, etc.), poiché in tal caso le prestazioni non sono necessarie e non può determinarsi una legittima aspettativa alla fedeltà (Mutti, 126; Mantovani, PS, I, 624).

Nel binomio professione o arte si ricomprende ogni attività lavorativa o di prestazione di servizi svolta in favore di chi ne faccia richiesta o ne abbia necessità, svolta anche in via non esclusiva ma con carattere di continuità, per lo più remunerata (Fiandaca, Musco, PS, II, 1, 270). L'affiancamento dei due termini porta a ricomprendere qualsiasi attività di carattere intellettuale o manuale, dalle professioni liberali alle prestazioni d'opera del lavoratore subordinato (Manzini, VIII, 1018). In particolare, per svolgimento della professione s'intende lo svolgimento di attività e compiti non manuali nell'interesse altrui, senza attribuzione di rilevanza alla qualificazione pubblicistica o privatistica (Cocco, 284; Crespi, 103). Non è necessario che le professioni abbiano un riconoscimento legale e siano disciplinate normativamente (Lago, 6071). Sono ricompresi in questa categoria gli avvocati e i patrocinatori legali, i giornalisti, i commercialisti, i medici, le levatrici e i farmacisti, gli istitutori, i domestici, gli artigiani, i mediatori, ecc. (Manzini, VIII, 1018; Mantovani, PS, I, 623; Fiandaca, Musco, PS, II, 1, 270; Lago, 6071).

Con ufficio si indica qualsiasi esercizio, permanente o temporaneo, di attività pubbliche (purché il segreto abbia natura privata), in particolare il notariato (in tal senso in part. Petrone, 1115; Vigna, Dubolino, 1087; contra Manzini, VIII, 1018; cfr. par. 7 in fine), o private, svolte a titolo oneroso o gratuito, che comportino la titolarità di diritti e doveri e si esprimano nell'assunzione di funzioni di carattere non manuale, ancorché non professionali in senso stretto (Antolisei, 262; Cocco, 284; Crespi, 108; Manzini, VIII, 1017; Vigna, Dubolino, 1086; Fiandaca, Musco, PS, II, 1, 270; Lago, 6071). Si ricomprendono nella nozione di ufficio il tutore e il curatore di minori, infermi di mente o inabilitati, il consulente tecnico di parte, l'impiegato privato (Mazzacuva, 390; Mantovani, PS, I, 622;Fiandaca, Musco, PS, II, 1, 270; Lago, 6071). In particolare, in tale ambito si cita il caso dell'impiegato di una società di costruzioni che riveli ad una impresa concorrente i termini della offerta presentata ad una gara d'appalto a cui ambedue partecipano (Fiandaca, Musco, PS, II, 1, 268).

La nozione di stato, infine, pare assumere il ruolo di clausola di chiusura (Alessandri, 193) che il richiamo tradizionale allo status sacerdotale aiuta a comprendere, si tratta di quella peculiare condizione giuridica o situazione sociale di appartenenza ad entità organizzative, intese in senso ampio, che comporta l'esercizio continuativo di una determinata attività — pur non professionale in senso stretto — a favore dei richiedenti, ad esempio: i sacerdoti della religione cattolica e i ministri di culto di una qualsiasi confessione religiosa, anche per ciò che sia stato a loro confidato, o sia stato da loro appreso, al di fuori della confessione, purché in ragione dello stato sacerdotale o ministeriale (Mantovani, PS, I, 622; Manzini, VIII, 1016; Mutti, 126; Fiandaca, Musco, PS, II, 1, 270). Fino a ricomprendere nell'area della segretezza, tra l'altro, tutti i rapporti di contatto qualificato con il professionista, quali il coniugio, la convivenza, la successione (Antolisei, PS, I, 262; Cocco, 284; Crespi, 105; Mantovani, PS, I, 622; Manzini, VIII, 1016), la collaborazione: come nei casi della pratica forense e della pratica di farmacista (Mantovani, PS, I, 622; Manzini, VIII, 1017; Petrone, 974; PS, II, 1, 270), la colleganza di studio, i rapporti di lavoro (Mantovani, PS, I, 622; Manzini, VIII, 1017; Petrone, 974; Antolisei,PS, I, 262; Mutti, 126) e di dipendenza (segretari, commessi, infermieri e simili) (Mantovani, PS, I, 622; Manzini, VIII, 1016; Mazzacuva, Delitti, 390).

Il segreto tutelato

Il segreto deve riguardare la sfera intima, privata della persona, fisica o giuridica, vale a dire, indicativamente: sfera affettivo-sessuale, salute, onore, famiglia, convinzioni politiche e fede religiosa, condizioni patrimoniali e finanziarie, relazioni commerciali, attività professionale, ecc. (Mantovani, PS, I, 621;Manzini, VIII, 1022; Mazzacuva, Delitti, 390; Mutti, 127); non è necessario tuttavia che si tratti di bisogni primari o insopprimibili.

Non ha alcun rilievo la natura illecita (o moralmente riprovevole) della notizia oggetto di segreto, essendo anzi connaturato alla natura e al legittimo svolgimento di certe professioni o status l'apprendimento di fatti illeciti che debbono rimanere segreti; lecito deve essere, invece, il motivo della confidenza, che deve essere, dunque, funzionale alla prestazione professionale (ad es.: difesa processuale) (Mantovani, PS, I, 621; Mutti, 128).

Proprio perché la ratio incriminatrice dell'art. 622, consiste nella tutela della libertà e della sicurezza del singolo, nel senso che il professionista che, in ragione del suo «status», viene a conoscenza dei segreti del cliente, è tenuto ad assicurarne la riservatezza, è stata ritenuta applicabile nel caso di comunicazione da parte di un commercialista alla Guardia di Finanza e all'Agenzia delle entrate di irregolarità formali nelle scritture contabili, commesse da una sua cliente, consistenti nella tardiva variazione dei dati in esse contenute (Cass. II, n. 17674/2009).

Si discute se il segreto possa riguardare anche notizie attinenti terze persone, diverse da quella che si rivolge al professionista e che le abbiano a quest'ultima confidate col vincolo del segreto perché utili allo svolgimento della attività professionale (in senso affermativo: Manzini, VIII, 1022; Mutti, 129; Mantovani, PS, I, 621; contra, Crespi, 121; Vigna, Dubolino, 1089). Chi sostiene la soluzione affermativa individua comunque nel cliente del professionista il soggetto passivo del reato, nonché titolare della facoltà di querela (Mutti, 129).

La notizia non deve essere, comunque, notoria (Cocco, 425; Manzini, VIII, 1021), ma non rileva la conoscenza di essa in un ambito limitato di persone quando la condotta dell'agente abbia avuto l'effetto di diffonderla in un ambito più vasto o, comunque, tra un numero di persone potenzialmente indeterminato.

Non si considera segreta la notizia avuta senza obbligo, espresso o tacito, di non palesarla, ovvero la notizia che possa essere appresa ordinariamente anche da altri

In dottrina si sottolinea che il segreto in questione, pur di difficile definizione, deve essere comunque ricompreso tra le ipotesi di segreto in senso oggettivo e sostanziale, vale a dire, tra quelle ipotesi in cui la rivelazione delle notizie segrete potrebbe arrecare nocumento attuale o potenziale (Cocco, 424; Patrono, 557; Petrone, 1143; Mantovani, PS, I, 1, 621), dipendente dalla natura della notizia e, dunque, dalla sua relazione con la sfera intima del soggetto costretto a ricorrere al professionista, pertanto l'esplicita manifestazione di volontà non è indispensabile alla sussistenza dell'obbligo al segreto, giacché esso deriva innanzitutto dalla natura della notizia (Mazzacuva, 391; Mutti, 127).

Ne consegue anche l'irrilevanza di pretese al segreto non fondate su un interesse legittimo e significativo, ma di natura futile, di mera vanità o per vizio (Mutti, 127).

La notizia non deve necessariamente essere preesistente al rapporto professionale, ben potendo emergere proprio in occasione e conseguenza di esso: ad esempio come risultato di una diagnosi medica, e può essere ignorata dallo stesso soggetto nel cui interesse deve essere mantenuta segreta (Mazzacuva, 390; Mutti, 127).

Non escludono l'obbligo al segreto nei confronti di tutti i terzi gli obblighi di comunicazione alla Autorità giudiziaria o alla Pubblica sicurezza o alla Amministrazione di appartenenza, propri dei mediatori professionali, agenti di borsa, agenti di affari, albergatori, assicuratori, banche, ecc. (Mazzacuva, Delitti, 389; Mutti, 126).

Il segreto commerciale

La norma tutela anche il c.d. segreto commerciale — secondo quanto espressamente contemplato nella stessa Relazione ministeriale sul Progetto di codice penale, in Lav. prep., II, Roma, 1929, 433) — che ricomprende l'organizzazione, i rapporti e i movimenti generali di affari dell'impresa, le pratiche commerciali o aventi comunque carattere negoziale, ad esempio: la situazione economico-finanziaria dell'azienda, la qualità della materia prima lavorata, i prezzi di vendita, il contenuto dei libri di commercio e dei bilanci, i contratti in corso, l'organizzazione della pubblicità (Cocco, La tutela, 281).

In giurisprudenza si riconosce tradizionalmente che anche nel campo del commercio possono esservi notizie non destinate ad entrare nel dominio pubblico, come una determinata organizzazione dell'azienda, un determinato regolamento tra i soci, ecc. (Cass. II, 4 luglio 1934). Tra i casi giurisprudenziali di violazione del segreto commerciale si segnalano la condotta del dipendente di una ditta editoriale che rivela i prodotti originali (bozzetti figurativi originali) segreti, appartenenti all'azienda in cui lavora (Cass. II, 11 gennaio 1972) e quella dell'impiegato che trasmette notizie segrete relative alla partecipazione ad una gara di appalto della società da cui dipende ad altra società che poi si aggiudica i lavori, specificamente contribuendo alla formulazione da parte di quest'ultima di condizioni più vantaggiose di quelle offerte dalla società da cui dipende (Cass. I, 12 aprile 1985). In passato la giurisprudenza ha escluso il reato nel caso di un viaggiatore di commercio licenziato che aveva rivelato ad un cliente i fornitori delle stoffe vendute dalla ditta da cui egli dipendeva (Cass.. II, 4 luglio 1934).

È stato ritenuto che risponde del delitto di rivelazione di segreti professionali di cui all'art. 622, e non del reato di furto, il dipendente di una Spa che, poco prima di dare le dimissioni da tale società, si faccia trasmettere da un collega sul proprio computer aziendale una serie di dati e offerte commerciali inerenti clienti e acceda al server centrale della propria società prendendo cognizione dei dati commerciali ivi custoditi, spostandoli su un proprio indirizzo privato, per poi utilizzarli a favore di una società concorrente (Cass., Sez. IV, n. 44840/2010).

Si ritengono comunemente escluse dalla tutela della fattispecie in esame, invece, le c.d. informazioni commerciali, ad esempio le informazioni bancarie, la cui liceità viene direttamente fatta risalire al riconoscimento costituzionale dell'attività commerciale (art. 41 Cost.), in particolare in quanto tale riconoscimento renderebbe lecita ogni informativa utile ad evitare l'assoggettamento della attività commerciale a rischi contrari alla natura e finalità del commercio (Mantovani, 27, 30), e sono considerate pertanto scriminate ai sensi dell'art. 51 o comunque assistite dalla giusta causa della rivelazione (Mutti, 128). Si ritiene pacifica la legittimità di tali informative quando lo stesso interessato indichi la fonte delle referenze, trattandosi di interessi disponibili da parte del titolare e sussistendo, dunque, la scriminante dell'art. 50 (Mutti, 128). L'informativa commerciale deve, comunque, mantenersi nei limiti dei fatti relativi al credito commerciale del cliente e deve riguardare notizie raccolte autonomamente, con esclusione di quanto appreso direttamente dallo stesso cliente in via confidenziale (Mutti, 128).

Il segreto bancario

Tradizionalmente oggetto di vivaci discussioni è il segreto bancario, inteso quale dovere di segretezza per l'operatore bancario in merito agli affari concernenti i singoli clienti, ancorché occasionali — da tenersi distinto dal segreto della banca, che riguarda il complesso delle attività dell'istituto bancario (Mantovani, PS, I, 1, 628) — di cui è pacificamente ammessa l'esistenza ma ne è discussa la fonte e la tutela penale.

È in primo luogo discusso il fondamento di tale obbligo, individuato di volta in volta nel generico diritto alla riservatezza del cliente (Bernardi, 769); nella previsione dell'art. 622 (Crespi, 163); nella legge bancaria (Nuvolone, 180); nella consuetudine (Pedrazzi, 243).

La Cassazione (Cass. I, n. 2147/1974) individua la fonte del segreto bancario negli usi integrativi dei contratti stipulati con la clientela (art. 1374 c.c.), vincolanti come fonte del diritto ai sensi dell'art. 1, n. 4, preleggi.

Controversa è la stessa rilevanza penale della violazione del segreto bancario, in quanto si tratta di segreto in presenza del quale il codice di rito non riconosce la facoltà di astenersi dal generale obbligo di rendere testimonianza e che, pertanto, non potrebbe essere qualificato professionale ai sensi dell'art. 622 (Mazzacuva, 320; Di Amato, Il segreto bancario, Napoli, 1979; Paltrinieri, 726).

È stato però affermato che il fatto che il funzionario degli istituti di credito non appare fra i soggetti legittimati ad opporre il segreto professionale vuol dire semplicemente che il legislatore ha ritenuto il segreto bancario soccombente di fronte alle esigenze della giustizia penale (Bernardi, 758; Monaco, 2055; Petrone, 272), che costituiscono una giusta causa di rivelazione consistente nell'adempimento di un dovere (Mutti, 132).

La norma in esame pare, pertanto, offrire tutela anche al segreto bancario (Antolisei, 263; Pedrazzi, 249; Crespi, 167; Romano, 405; Fiorella, 16).

Nella giurisprudenza di merito in tal senso il Tribunale di Orvieto 2.12.1994, con riguardo al caso in cui il funzionario di banca renda nota a terzi l'esposizione debitoria del cliente, il quale afferma inoltre che di tale comportamento risponde civilmente, ai sensi dell'art. 2049 c.c., anche l'istituto di credito.

Appare superato il riferimento all'art. 326, fondato sulla qualifica pubblicistica attribuita in passato ai funzionari degli istituti di credito ed, in particolare, degli istituti di diritto pubblico (Conti, 173; Grosso, 195), anche in considerazione della legge bancaria del 1993, di attuazione delle direttive Cee, che all'art. 10 stabilisce espressamente che l'esercizio del credito ha carattere di impresa.

Deve aggiungersi che la Corte Costituzionale e le Sezioni Unite della Cassazione qualificano l'ordinaria attività di raccolta del risparmio e di esercizio del credito, svolta dagli istituti bancari, pubblici e privati, come un'attività di natura tipicamente privatistica (Corte cost. n. 309/1988; Cass. S.U., 28 febbraio 1989; Cass. S.U., 23 maggio 1987; contra, Cass. S.U., 10 ottobre 1981, che qualifica tutte le attività di banca, indipendentemente dalla natura dell'ente, un pubblico servizio), mentre le qualifiche pubblicistiche di cui agli artt. 357 e 358 sono riconosciute unicamente agli operatori bancari che esercitano particolari attività, ad es.: crediti agevolati, compiti di natura fiscale o valutaria, costituzione o estinzione di un ente creditizio pubblico, amministrazione degli utili di un ente creditizio pubblico, estranee alla normale gestione economica e disciplinate dal diritto pubblico (Cass. S.U., 23 maggio 1987), riguardo a cui può in effetti residuare l'operatività dell'art. 326.

Si considerano coperte dal segreto bancario, sia le notizie che la banca apprende direttamente dal cliente, sia quelle che sono apprese da altra fonte sfruttando gli elementi forniti dal cliente, deve trattarsi tuttavia di notizie specifiche e non generiche sulla situazione economica e finanziaria di un cliente (Lago, 6073).

Sono numerose le ipotesi in cui esplicitamente o implicitamente la legge non riconosce rilevanza al segreto bancario, ad esempio nel caso di prevalente interesse della giustizia penale (cfr. artt. 200 e 255 c.p.p., art. 1, l. 19 marzo 1990, n. 55 sulle misure antimafia, e l. 30 dicembre 1991, n. 413 sulle misure antiriciclaggio) ed in materia fiscale: la l. 30 dicembre 1991, n. 413 e poi il d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 riconoscono all'amministrazione statale il potere di chiedere senza limitazioni alle banche, per fini fiscali, copia dei conti bancari del contribuente. Fino ai recenti decreti salva Italia.

Tutto ciò non esime però la banca da osservare il segreto nei confronti dei terzi

Il segreto giornalistico

L'opinione dominante in dottrina ritiene che il segreto conosciuto dal giornalista nell'esercizio della sua attività, e sancito dall'art. 2, l. 3 febbraio 1963, n. 69 (ordinamento della professione di giornalista), costituisca una tipica ipotesi di segreto professionale (Lonardo, 367; Manzini, VIII, 1019; Monaco, 2056; Vigna, Dubolino, 1089; nello stesso senso in giurisprudenza Cass. 16 ottobre 1981).

La stessa disciplina processual-penalistica (art. 200, comma 3, c.p.p.) riconosce oramai al giornalista professionista — seppure in termini più ristretti, rispetto agli altri professionisti, vale a dire limitatamente ai nomi delle fonti riservate — la facoltà di opporre il segreto in sede di esame testimoniale al giudice penale, purché questi non ritenga indispensabile la notizia ai fini della prova del reato per cui si procede e la sua veridicità non sia altrimenti accertabile (Biagioni, 477; Zaccaria, 125).

Sono esclusi dall'ambito dell'art. 200, comma 3, c.p.p. sia i giornalisti pubblicisti sia i praticanti giornalisti, limitazione che potrebbe essere censurata per illegittimità costituzionale giacché la diversità di trattamento non sembra giustificata da una sostanziale eterogeneità (Biagioni, 477).

In particolare, il segreto professionale del giornalista copre la fonte «fiduciaria» delle notizie, vale a dire chi fornisce la notizia con l'impegno di mantenere l'anonimato, come previsto dall'art. 2, comma 3, l. 3 febbraio 1963, n. 69, ed, inoltre, tutte le notizie rivelate confidenzialmente, non per essere pubblicate, ma solo per convincere il professionista della attendibilità della fonte o per una migliore comprensione della vicenda (Mutti, 133; Petrone, 1145; Pietroni, 497).

Le notizie tutelate sono unicamente quelle che il giornalista ha appreso «per ragione» (e non soltanto in occasione) della propria professione, purché non rivestano un interesse pubblico sociale, giacché in tal caso la loro divulgazione rientrerebbe nell'ambito della libertà costituzionale di manifestazione dei pensiero (Manzini, VIII, 1019; Mantovani, PS, I, 624). Si evidenzia, peraltro, la necessità di valutare caso per caso la sussistenza del requisito della segretezza, in quanto sussisterebbe la presunzione che chi affida notizie ad un giornalista in tale qualità ne desidera la divulgazione (Vigna, Dubolino, 1089).

Il segreto dell'avvocato — che concerne tutto ciò che è appreso per ragione dell'attività (art. 9 codice deontologico approvato dal Consiglio Nazionale Forense il 17 aprile 1997) — rientra pacificamente nell'ambito della norma in esame ed in sua presenza è riconosciuta la facoltà ex art. 200 c.p.p. di astenersi dal testimoniare (Battaglia, 700).

La sentenza della Corte Costituzionale (Corte cost. n. 87/1997) afferma la sussistenza dell'obbligo al segreto e della facoltà di astenersi dal testimoniare anche per gli iscritti al registro dei praticanti a seguito di delibera del consiglio dell'ordine degli avvocati.

Peraltro, va rilevato che il segreto non può essere ritenuto a priori ma va eccepito da chi, chiamato a deporre, rientra nelle indicazioni e nelle condizioni di cui all'art. 200 c.p.p. (Cass. VI, n. 9866/2009).

Il segreto di medici, chirurghi, farmacisti, ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria (ampiamente in tema da ult. Portigliatti, Barbos, 135; inoltre Berti, 137; Delitala, 161). L'art. 4, l. 18 febbraio 1989, n. 56, sull'ordinamento della professione di psicologo, sancisce espressamente l'obbligo di segretezza anche per tali professionisti.

Alcune leggi speciali prevedono specifici obblighi al segreto: in particolare l'art. 21, l. 22 maggio 1978, n. 194, sulla tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza, impone il segreto professionale a coloro i quali siano venuti a conoscenza, per ragioni di professione o di ufficio, dell'identità di chi ha fatto ricorso alle procedure e agli interventi previsti da detta legge; l'art. 120, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, testo unico sugli stupefacenti, esclude in capo ai dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze l'obbligo di deporre su quanto hanno appreso per ragione della loro professione; la stessa norma si applica a coloro che operano presso enti, centri, associazioni o gruppi che hanno stipulato apposite convenzioni con le unità sanitarie locali. Va, peraltro, evidenziato che non si applica la norma in esame, bensì l'art. 326, quando queste figure professionali rivestano cariche pubblicistiche ex artt. 357 e 358 ed il segreto rivelato riguardi un atto o un fatto della P.A. (Lago, 6079).

Perplessità sulla ricomprensione nella norma in esame del segreto dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei periti commerciali sono sorte in passato, benché la legge professionale ponesse a carico di queste categorie l'obbligo al mantenimento del segreto professionale (art. 5, d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067 e art. 4, d.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1068), in quanto l'art. 351 c.p.p. 1930 non riconosceva a tali professionisti il diritto di astenersi dal testimoniare in ragione del proprio segreto professionale. Si è già rilevata l'infondatezza di tale argomento con riguardo al segreto bancario, comunque esso è superato dal riconoscimento operato dall'art. 1, l. 5. dicembre 1987, n. 507, e ribadito dall'art. 200, lett. d, c.p.p. vigente, che esclude dall'obbligo di testimonianza tutti coloro ai quali la legge professionale garantisce il diritto di astenersi dal deporre in virtIl dottore commercialista ed il segreto professionale, in F, 1985, 527; Monaco, 2055).

La giurisprudenza ribadisce la violazione del segreto professionale da parte del commercialista che denuncia penalmente il proprio cliente per fatti appresi nello svolgimento del suo mandato (Cass. II, n. 17674/2009; Cass. III, n. 3404/2001; App. Perugia 26 luglio 1999).

La norma in esame concerne anche la tutela del segreto nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, limitatamente alla violazione dei segreto che il soggetto ha conosciuto per ragione del suo ufficio, cioè nell'esercizio delle sue mansioni o a causa di esse (Ichino, 206; Monaco, 2055). Il lavoratore subordinato è, comunque, tenuto al più ampio dovere di riservatezza e lealtà aziendale posto dall'art. 2105 c.c. con riferimento a qualunque notizia attinente all'organizzazione e ai metodi della produzione appresa in ragione dell'inserimento nell'azienda e non solo quelle conosciute per ragione del suo ufficio (Mantovani, PS, I, 622).

In giurisprudenza si è ritenuto che commette il reato di cui all'art. 622, l'impiegato di una società, che trasmetta — nel caso di una gara di appalto — notizie segrete riguardanti la sua azienda a vantaggio della società poi rimasta aggiudicataria dei lavori, formulando o contribuendo a formulare per quest'ultima condizioni più vantaggiose offerte dalla ditta da cui dipende, agendo con la consapevolezza che la presentazione della nuova offerta, resa possibile dalla conoscenza di quanto la società datrice di lavoro, poteva a quest'ultima recare un danno che effettivamente si realizzò. (Cass. II, n. 7861/1985).

Il segreto notarile secondo la dottrina tradizionale è tutelato in via esclusiva dall'art. 326, essendo i notai investiti di un ufficio pubblico (Manzini, VIII, 1017), ma la dottrina più recente afferma l'applicazione della norma in esame con riguardo alla attività tipicamente libero-professionale propria del notaio, al di fuori dell'esercizio di pubbliche funzioni (Petrone, Segreti, 974, nt. 12; Vigna, Dubolino, 1087). L'obbligo del notaio di conservare il segreto professionale incontra limiti ed, in particolare, soccombe di fronte all'obbligo di denunciare la commissione di reati previsto in talune ipotesi. In ogni caso non sono coperti da segreto gli atti ricevuti o autenticati dal notaio, quando egli sia tenuto a darne visione o a rilasciarne copia integrale, estratti e certificati a chiunque ne faccia richiesta.

Materialità

La norma in esame sanziona alternativamente le condotte di rivelazione senza giusta causa e di impiego a proprio o altrui profitto del segreto professionale. Non è necessario che la condotta avvenga durante il rapporto professionale: l'interesse alla conservazione del segreto può sussistere anche dopo la sua cessazione e, perfino, permanere oltre la stessa vita del cliente (o interessato) (cfr. art. 9 codice deontologico medico italiano 1995), giacché se con la morte si estingue la facoltà di querela, gli eredi o i prossimi congiunti del defunto possono essere direttamente lesi dalla condotta e querelarsi jure proprio (da ult. Mazzacuva, Delitti, 392; Mutti, 129).

Sulla condotta di rivelazione si rinvia, in generale, a quanto osservato in tema di art. 616. È integrata, sia dal comportamento attivo di chi fa conoscere un segreto ad altri, sia — ai sensi dell'art. 40, cpv. — dal comportamento omissivo di chi si limiti a consentire che un terzo apprenda il segreto, violando l'obbligo giuridico di custodirlo (Lago, 6076; Mazzacuva, Delitti, 392; Mutti, 129); può essere anche parziale purché riguardi una parte della notizia avente autonoma rilevanza giuridica e può essere rivolta anche ad un unico soggetto non autorizzato (Mazzacuva, Delitti, 392).

La rivelazione a terzi partecipi al rapporto professionale, come ad esempio i colleghi a cui si chieda un parere, anch'essi tenuti al segreto, non è invece illecita (Mutti, 129; Pedrazzi, 249).

Per le nozioni di impiego e di profitto, in generale, si rinvia al commento dell'art. 621. Si tratta di ogni forma di utilizzazione diretta del segreto finalizzata a procurare un vantaggio o beneficio anche non patrimoniale all'autore o a un terzo.

Secondo il tenore letterale della previsione in esame la condotta di rivelazione è tipica soltanto se avviene in assenza di “giusta causa” ma vi è chi estende tale elemento anche all'ipotesi di impiego (D'Agostino, 14). In particolare si discute se la formula legislativa debba considerarsi un semplice richiamo alle scriminanti tipiche, oppure attribuisca rilevanza a situazioni atipiche ulteriori, socialmente apprezzabili, che rendono legittima la rivelazione. Si è autorevolmente precisato (Pedrazzi, 250) che si tratta di un parametro elastico, più etico-sociale che giuridico-positivo, che in linea generale può essere utile per la salvaguardia di interessi preminenti alla stregua di valori dominanti nella coscienza sociale. Viene in gioco il criterio della proporzione tra beni che va integrato con quello del danno, nel senso che non ricorre la giusta causa quando la possibilità del danno riguardi solo il bene in conflitto tutelato con il segreto, deve dunque sussistere equilibrio tra danno cagionato e danno evitato e la rivelazione deve essere necessaria per salvaguardare l'interesse collidente con quello tutelato dal segreto (Cocco, 426). Un esempio della maggiore ampiezza della giusta causa rispetto alle cause di giustificazione può essere il riferimento agli usi bancari per limitare l'ampiezza del segreto bancario (Pedrazzi, 250), si fa anche l'esempio del medico che rivela, a tutela dell'integrità psico-fisica dei terzi, lo stato fisico di un proprio paziente (Gargiulo, 853; Mantovani, PS, I, 626).

Sulla nozione di giusta causa si veda anche sub art. 616.

La Corte Costituzionale (sentenza 13 gennaio 2004, n. 5) ha affermato che formule quali «senza giustificato motivo», «senza giusta causa», «senza necessità», «arbitrariamente» e formule ad essa equivalenti od omologhe sono destinate in linea di massima a fungere da «valvola di sicurezza» del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti — in assenza di cause di giustificazione vere e proprie — allorché l'osservanza del precetto appaia concretamente «inesigibile» in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare gli interessi confliggenti, con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori. Nella giurisprudenza di merito (Trib. Napoli 15 gennaio 2003) si afferma che affinché sussista la giusta causa della rivelazione di segreti professionali è necessario sussista un interesse positivamente valutato sul piano etico-sociale, proporzionato a quello posto in pericolo dalla rivelazione, e che la rivelazione costituisca l'unico mezzo per evitare il pregiudizio dell'interesse riconoscibile in capo all'autore della stessa.

Ciò premesso non v'è dubbio che integrino una giusta causa o una causa di giustificazione le norme giuridiche che impongono al professionista la rivelazione del segreto (Vigna, Dubolino, 1089): ad esempio l'obbligo di denuncia o referto (artt. 361 e 365), salve le ipotesi di cui all'art. 365, comma 2, e l'obbligo di rendere testimonianza, con esclusione delle ipotesi di cui all' art. 200 c.p.p. In questo ultimo caso le richieste della autorità giudiziaria non costituiscono giusta causa di rivelazione del segreto perché ad esse si può resistere proprio con l'opposizione del segreto (Crespi, 149; contra Manzini, VIII, 1030), principio recepito anche dall'art. 58 del nuovo codice deontologico forense, che impone all'avvocato di astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell'esercizio della propria attività professionale e relative al mandato ricevuto (cfr. Lago, 6077). Quando, peraltro, la testimonianza sia finalizzata alla tutela del cliente l'illecito in esame non è integrato per l'assenza del pericolo di nocumento (Mutti, 134; Vismara, 237) o, quanto meno, del relativo dolo. Vi è, infine, chi — con posizione poco sensibile alle esigenze della tutela della libertà personale, a vantaggio degli interessi della giustizia — ritiene integrato il reato solo quando il professionista, nel rendere testimonianza, abbia aggiunto particolari non richiesti dal giudice (Vigna, Dubolino, 1089).

La Corte Costituzionale 8 aprile 1997, n. 87 ha osservato che la facoltà di astenersi degli avvocati (e degli iscritti nel registro dei praticanti) non costituisce un'eccezione al principio generale dell'obbligo di rendere testimonianza, ma è, invece, espressione del principio di tutela del segreto professionale, tra i due principi il legislatore opera un bilanciamento dalle cui finalità può trarsi la misura dell'ampiezza della facoltà di astensione.

Le norme che impongono la rivelazione del segreto perché abbiano un effetto giustificante in sede penale debbono essere anch'esse sanzionate penalmente, mentre non rilevano le imposizioni di natura civile e amministrativa (cfr. Mutti, 130). In assenza di una soluzione legislativa del conflitto, è necessario un bilanciamento caso per caso, in cui il criterio decisivo — secondo la dottrina — è la misura della sanzione astrattamente prevista (Petrone, Violazione, 1146).

Giustifica anche lo stato di necessità (art. 54), in cui si trova, ad esempio, il professionista che riveli il segreto per difendere il proprio buon nome professionale contro un'offesa ingiusta (Manzini, VIII, 1032).

In giurisprudenza si esclude, invece, in capo al commercialista che denuncia penalmente il proprio cliente per fatti appresi nello svolgimento del mandato professionale, la sussistenza della giusta causa della rivelazione. È stato infatti affermato (Cass. Sez. II, n. 17674/2009; Cass. Sez. III n. 3404/2001) che il commercialista che denuncia penalmente il cliente per fatti appresi nello svolgimento del suo mandato, commette violazione del segreto professionale, assumendo una inammissibile veste di delatore. In tale fattispecie al commercialista non è applicabile l'esimente di cui all'art. 622 per l'esistenza di una giusta causa di rivelazione del segreto consistente nella necessità vera o presunta di non incorrere nel pericolo di essere considerato correo del cliente, stante la diversità di ratio della norma disciplinare e di quella penale, diretta all'inviolabilità dei segreti la seconda ed alla tutela della professione la prima, sia per la possibilità per il professionista di sottrarsi al paventato danno con la rinuncia al mandato in caso di commissione di reati da parte del cliente. Nè può ravvisarsi una giusta causa di rivelazione del segreto nell'esigenza di assicurare la scoperta e la punizione dei reati in assenza di una norma che obblighi il depositario del segreto a palesarlo (come nel caso della denuncia obbligatoria prevista dall'art. 364 per i delitti contro la personalità dello Stato puniti con l'ergastolo).

Giustificano gli accordi contrattuali che attribuiscano al professionista il diritto di rivelare a terze persone ciò di cui sia venuto a conoscenza nell'esercizio della professione (ad es. in materia di assicurazioni) (Crespi, 135).

Controversa è la sussistenza della giusta causa nel caso di rivelazione del segreto professionale finalizzata a ottenere il pagamento degli onorari: contro l'opinione negativa tout court (Manzini, VIII, 1031) si riconosce la giusta causa quando la pretesa di pagamento degli onorari sia fondata ed il pagamento non possa altrimenti ottenersi (Crespi, 138; Vigna, Dubolino, 1089).

Il nocumento

Dalla rivelazione e dall'impiego del segreto deve derivare la possibilità di un nocumento, integrato da qualsiasi pregiudizio di carattere patrimoniale o non patrimoniale (Mutti, 129; Pedrazzi, 250; Petrone, Segreti, 958), riguardante il soggetto beneficiario della prestazione professionale o terze persone (Mantovani, PS, I, 269; contra, Vigna, Dubolino, 1091). Non occorre, dunque, la verificazione di un danno effettivo (Antolisei, PS, I, 264; Mutti, 129; Vigna, Dubolino, 1091).

Si discute in dottrina se tale elemento costituisca una condizione obiettiva di punibilità (Amato, 367; Manzini, VIII, 1025; Marini, 435; Vigna, Dubolino, 1091), oppure un elemento costitutivo del reato (Mantovani, PS, I, 269; Fiandaca, Musco, PS, II, 1, 271)

Ai fini del reato di rivelazione di segreto professionale, la nozione del «nocumento» che dal fatto possa derivare, va intesa non soltanto nell'aspetto soggettivo (cioè, nel senso che possa derivare danno o pericolo di danno ad un soggetto), ma altresì nell'aspetto oggettivo, nel senso cioè che il danno o pericolo di danno sia ingiusto, ossia contrario al diritto. Ciò emerge, peraltro, dalla coordinazione degli estremi richiesti dalla stessa revisione legislativa, giacché, essendo punibile la rivelazione solo quando sia fatta «senza giusta causa», a quest'ultima va doverosamente posto in relazione il «nocumento», nel senso che questo non è ingiusto quando vi è giusta causa della rivelazione e, viceversa, sussiste tale giusta causa ogni volta che il nocumento sia giusto.

In particolare il nocumento si considera giusto quando la rivelazione dei segreto impedisce di conseguire un'indennità di assicurazione non dovuta, o causa la possibilità della sottoposizione ad un procedimento penale per un'attività illecita, perché si ritiene che l'obbligo al segreto professionale non possa giungere fino al punto di sancire il dovere di occultare un reato: caso del medico che, incaricato di una consulenza da una compagnia di assicurazione, riferisce dell'esistenza di una malattia della persona assicurata di cui egli conosceva l'esistenza a causa di un precedente rapporto professionale con la medesima persona (Cass. II, 15 dicembre 1961).

Posto che la possibilità di nocumento implica un giudizio di relazione tra la condotta e l'evento, si discute su quale sia il momento del giudizio l'opinione comune è nel senso che debba trattarsi di una valutazione ex post (in dottrina Vigna Dubolino, 1091)

Elemento soggettivo

Per la condotta di rivelazione è sufficiente il dolo generico, di cui sono oggetto anche l'assenza di una giusta causa di rivelazione e la possibilità di produrre un nocumento (Mantovani, PS, I, 630; Pedrazzi, 250; Fiandaca, Musco, PS, II, 1, 271; contra, Manzini, VIII, 1025, il quale considera il nocumento una condizione obiettiva di punibilità).

Pertanto escludono il dolo l'errore sulla sussistenza di una giusta causa di rivelazione, così come il convincimento di rivelare fatti falsi (Mantovani, PS, I, 630); mentre il convincimento errato di rivelare fatti veri in realtà falsi dà luogo a un reato putativo (Mantovani, PS, I, 630; contra Crespi, 128).

Non ha rilievo, invece, l'errore che cade sull'obbligo di conservare il segreto, trattandosi di un errore sul divieto come tale irrilevante (Manzini, VIII, 1035), sempre che non se ne dimostri l'inevitabilità.

La condotta di impiego richiede il dolo specifico di profitto (Cocco, Inviolabilità, 432).

Va da sé che non rilevano condotte colpose, come nel caso di inadeguata custodia del segreto (Pedrazzi, 250).

Consumazione e tentativo

La consumazione del reato coincide con l'evento di pericolo del pregiudizio (Cocco, Inviolabilità, 432). Il tentativo è escluso da chi reputa la possibilità di nocumento una condizione obiettiva di punibilità (Manzini, VIII, 1033).

Concorso di persone

Nel reato possono concorrere gli estranei che non rivestono la qualifica professionale (Pedrazzi, 248). La condotta di chi si limita a ricevere la rivelazione o ad essere beneficiario dell'impiego abusivo integra un'ipotesi di concorso necessario non punibile, integrano invece un concorso punibile, le condotte attive od omissive di istigazione e di determinazione causalmente rilevante (ad es. si paga il professionista perché riveli il segreto) (Cocco, 428).

La circostanza aggravante

L'art. 2, D.Lgs. 11 aprile.2002, n. 61, in conformità a quanto disposto dalla legge delega, ha introdotto nella previsione in esame uno specifico comma (che diviene il secondo) che prevede la particolare ipotesi (aggravata) della rivelazione di segreto professionale posta in essere da soggetti qualificati nell'ambito della gestione di una società (amministratori, sindaci, direttori generali e liquidatori) o da soggetti che svolgono la revisione contabile della società. L'intervento legislativo corrisponde all'abrogazione dell'art. 2622 c.c. e dell'art. 176 t.u.f. L'art. 15, comma 3, lett. a, l. 28 dicembre 2005, n. 262 ha integrato l'elencazione dei soggetti a cui si applica l'aggravante con l'indicazione dei dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari.

Rapporti con altri reati

La violazione del segreto professionale concorre con la diffamazione quando dalla rivelazione del segreto derivi un nocumento consistente nella lesione all'altrui reputazione (Mangano, 117).

Il reato in esame concorre con quello di favoreggiamento personale (art. 378) nel caso in cui la rivelazione del segreto sia compiuta al fine di aiutare taluno ad eludere le investigazioni dell'autorità a suo carico, poiché i due reati hanno un diverso oggetto giuridico (Cass. VI, 19 aprile 1996).

La rivelazione di segreti d'ufficio (art. 326) è una fattispecie speciale rispetto a quella in esame, in primo luogo per la natura del segreto oggetto di tutela: nell'art. 326 il segreto riguarda notizie di ufficio, cioè relative ad un atto o ad un fatto della P.A. in senso lato nei diversi aspetti della funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa stricto iure, mentre nell'ipotesi in esame il segreto è riferito a notizie apprese per ragioni di ufficio relative a situazioni soggettive di privati, di cui il depositario, per il suo status professionale in senso lato (ufficio, professione, o arte), deve assicurare la riservatezza (Cass. VI, 19 aprile 1996). Inoltre, il reato in esame si differenzia dall'art. 326 per l'oggetto della tutela: la libertà del singolo invece che la P.A.; la qualificazione giuridica: reato di pericolo concreto invece che di pericolo astratto, e la condizione di procedibilità della querela di parte.

In dottrina si esemplifica con il caso del medico ospedaliero o convenzionato, che risponde ex art. 622 per quanto riguarda i segreti appresi nell'esercizio di detta attività, mentre risponde ex art. 326 quando svolge funzioni di medico fiscale, perito o consulente d'ufficio, medico certificante l'idoneità alla guida, ecc. (Mantovani,PS, I, 630).

Si discute sul rapporto tra la norma in esame e la fattispecie prevista dall'art. 167 d.lgs 30 giugno 2003 n. 196 (codice della privacy): secondo taluni si tratterebbe di una norma speciale rispetto alla norma del codice penale.

Profili processuali

Il delitto è procedibile a querela della persona offesa, che è il cliente (persona fisica o giuridica) del professionista (Manzini, VIII, 1010; Mutti, 129) e non, invece, il terzo a cui si riferisce eventualmente il segreto professionale violato (Mantovani, PS, I, 627).

La condanna importa l'interdizione temporanea dalla professione o arte (art. 31), tale pena accessoria non si applica però ai ministri di culto, in quanto l'art. 31 concerne esclusivamente professioni, arti, industrie e mestieri e non, dunque, gli stati (Lago, 6079).

L'Autorità giudiziaria competente è il Tribunale monocratico

L'Arresto: non è consentito

Il fermo di indiziato di delitto non è consentito

Le misure Cautelari personali non sono consentite (artt. 280, 287 c.p.p.)

Bibliografia

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