Codice Penale art. 640 - Truffa.

Roberto Carrelli Palombi di Montrone

Truffa.

[I]. Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 51 euro a 1.032 euro [3812i, 3, 4 c.p.p.].

[II]. La pena è della reclusione da uno a cinque anni e della multa da 309 euro a 1.549 euro [3812i, 3, 4 c.p.p.]:

1) se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico1o dell'Unione europea 2o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare [1622 c.p.m.p.];

2) se il fatto è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l'erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell'Autorità [649]3.

[2-bis) se il fatto è commesso in presenza della circostanza di cui all'articolo 61, numero 5)]4.

2-ter) se il fatto e' commesso a distanza attraverso strumenti informatici o telematici idonei a ostacolare la propria o altrui identificazione5.

[III].Quando ricorre la circostanza di cui all'articolo 61, numero 5), la pena e' della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 700 a euro 3.0006.

[IV]. Il delitto è punibile a querela della persona offesa [120], salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal  secondo comma, a eccezione di  quella  di cui al numero 2-ter), e dal terzo comma7.

 

 

competenza: Trib. monocratico (udienza prelim. 3° comma)

arresto: facoltativo; obbligatorio (3° comma)

fermo: non consentito

custodia cautelare in carcere: v. art. 391, comma 5 c.p.p. (1o comma); consentita (2° e 3° comma)

altre misure cautelari personali: v. art. 391, comma 5 c.p.p. (1o comma); consentite (2° e 3° comma)

procedibilità: a querela di parte; d’ufficio (2° comma n. 1 e 2, 3° comma)

[1] In tema di responsabilità amministrativa degli enti v. art. 24 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

[2] L'art. 1, comma 1, lett. e), d.lgs. 14 luglio 2020, n. 75, in vigore dal 30 luglio 2020, ha inserito le parole «o dell'Unione europea» dopo le parole: «ente pubblico».

[3] L'art. 3 d.l. 3 marzo 2003, n. 32, recante «Disposizioni urgenti per contrastare gli illeciti nel settore sanitario» (G.U. 4 marzo 2003, n. 52), non convertito in legge (v. Comunicato in G.U. 5 maggio 2003, n. 102), aveva inserito dopo il secondo comma il seguente: «Se il fatto è commesso a danno del Servizio sanitario nazionale da professionisti sanitari dipendenti dal medesimo Servizio o con esso convenzionati, ovvero responsabili di strutture sanitarie accreditate per l'erogazione di prestazioni clinico-diagnostiche, la pena pecuniaria di cui al secondo comma è decuplicata. È sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato o delle cose che ne sono il prodotto o il profitto. Il provvedimento che definisce il giudizio deve essere comunicato al competente ordine o collegio professionale di appartenenza che, valutati gli atti, dispone la radiazione dalla professione del responsabile».

[4]  Numero aggiunto dall'art. 3, comma 28, della l. 15 luglio 2009, n. 94 e successivamente abrogato dall'art. 11, comma 2, lett. a) d.l. 11 aprile 2025, n. 48, in corso di conversione in legge.

[6]  Comma inserito dall'art. 11, comma 2, lett. b) d.l. 11 aprile 2025, n. 48, in corso di conversione in legge.

[7] Comma modificato dall'art. 2, comma 1, lett. o), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha soppresso le parole: «o la circostanza aggravante prevista dall'articolo 61, primo comma, numero 7».  Per l'entrata in vigore delle modifiche disposte dal citato d.lgs. n. 150/2022, vedi art. 99-bis, come aggiunto dall'art. 6, comma 1, d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv., con modif., in l. 30 dicembre 2022, n. 199. Il presente comma era stato aggiunto dall'art. 98 l. 24 novembre 1981, n. 689  e successivamente modificato dall'art. 8, comma 1, d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36, che aveva sostituito le parole «la circostanza aggravante prevista dall'articolo 61, primo comma, numero 7» alle parole «un'altra circostanza aggravante». Successivamente modificato dall'art. 16, comma 1, lett. t) , numero 2) l. 28 giugno 2024, n. 80  che ha sostituito  le  parole:  «secondo comma, a eccezione di  quella  di cui al numero 2-ter)» alle parole «capoverso  precedente» . Da ultimo, il comma è stato modificato dall'art. 11, comma 2, lett. c) d.l. 11 aprile 2025, n. 48, in corso di conversione in legge  che  ha aggiunto, in fine, le seguenti parole: «, e dal terzo comma».

Inquadramento

L'art. 640 c.p. configura un delitto volto a proteggere il patrimonio rispetto ad azioni commesse con frode che possono risultare lesive dello stesso; è stata anche evidenziata la natura plurioffensiva della truffa, nel senso che l'intangibilità del patrimonio è salvaguardata dall'ordinamento anche in funzione della libertà di consenso di poterne disporne da parte del soggetto passivo che subisce la condotta.

Si è ritenuto anche che la truffa, più che tutelare solo il patrimonio e la libertà del consenso individuale, è volta a proteggere, in chiave pubblicistica, la buona fede del pubblico, quale elemento dell'ordinamento giuridico generale (Manzini, Trattato, 584).

A tale qualificazione del delitto di truffa sembra avere aderito certa datata giurisprudenza laddove si è affermato che la ragione della punibilità della truffa nei negozi illeciti, nei quali al momento della conclusione del contratto anche la vittima si proponga uno scopo contrario al diritto, è da ricercare non già nell'interesse patrimoniale dei singoli, che trovano sufficiente tutela nella disciplina dei contratti stabilita dal codice civile, bensì nell'interesse pubblico che non sia intaccata la liberta del consenso, dovendo la buona fede presiedere alla Costituzione, al regolamento o allo scioglimento dei rapporti giuridici aventi carattere patrimoniale (Cass. VI, n. 2453/1978). Detta interpretazione deve però confrontarsi con la scelta del legislatore di introdurre, con la l. n. 689/1981, anche per il delitto di truffa, che nel codice Rocco era perseguibile d'ufficio, la procedibilità a querela di parte.

L’art. 1 comma 1 lett. e) del d. lgs. 14 luglio 2020, n. 75, rubricato “Attuazione della direttiva (UE) 2017/1371, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione Europea mediante il diritto penale” ha modificato l’art. 640 inserendo al secondo comma n. 1, dopo le parole «ente pubblico» quelle «o dell’Unione Europea»; inoltre l’art. 7 dello stesso decreto ha ha stabilito che «in ogni norma penale vigente recante la disciplina  dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea il riferimento alle parole Comunità europee dovrà intendersi come riferimento alle parole Unione europea».

Soggetti

Soggetto attivo

La truffa è un reato comune che può essere commesso da chiunque ponga in essere la condotta descritta nella fattispecie incriminatrice.

Meritano particolare attenzione, in proposito, le ipotesi di coincidenza tra il soggetto attivo ed il titolare del potere di disposizione, potendo mancare, in una tale fattispecie, il requisito dell'induzione in errore, quale risultato della condotta fraudolenta. In tale direzione la Cassazione, tempo addietro, aveva affermato che l'amministratore unico di una società per azioni, che ne sia anche unico azionista, non può rendersi responsabile del reato di truffa in danno della società stessa, in quanto, pur potendo egli disporre solo delle azioni, non ha la titolarità del patrimonio sociale, che spetta solo alla società, quale soggetto dotato di personalità giuridica propria e distinta da quella del socio; si era ritenuto, quindi, mancante la possibilità dell'induzione in errore degli organi sociali, data la identificazione di questi nella persona dell'agente (Cass. II, n. 13241/1976). Fattispecie analoghe sono state in seguito riesaminate dalla Cassazione, pervenendosi a conclusioni parzialmente diversa da quella prima prospettata: in tal senso si è affermato che integra il delitto di truffa, fuori dall'ipotesi dell'amministratore unico di una società per azioni che ne sia anche unico azionista, il compimento da parte dell'amministratore di una S.p.A., in accordo col soggetto estraneo alla società, di un atto di disposizione patrimoniale in danno della società, seguito dall'induzione in errore degli organi societari di controllo (consiglio di amministrazione, collegio sindacale, collegio dei revisori e assemblea dei soci), impediti dagli artifici e raggiri nel loro intervento, che altrimenti potrebbe sostanziarsi nella revoca dell'amministratore e dell'atto di disposizione patrimoniale (Cass. II, n. 1539/2005). Nel caso concreto si era trattato di un amministratore delegato di una società di leasing finanziario, che, in complicità con il soggetto contraente, aveva erogato somme di denaro per l'acquisto di beni da concedere in leasing, e poi aveva indotto in errore gli organi societari con gli artifici e raggiri consistiti nel simulare l'esistenza dei beni oggetto del contratto di leasing, causando alla società il danno patrimoniale dell'erogazione di una somma di denaro per l'acquisto di beni appunto inesistenti. Il principio è stato successivamente ribadito dalla stessa sezione della Corte di Cassazione (Cass. II, n. 18778/2014).

Soggetto passivo

Il soggetto passivo del delitto di truffa è colui che subisce il danno patrimoniale conseguente all'attività fraudolenta posta in essere dall'agente.

A questo riguardo deve evidenziarsi la possibile non identità fra il soggetto passivo dell'inganno e la persona che subisce il danno derivante dal reato; in tale direzione si è ritenuto che ai fini della configurazione del delitto di truffa, l'induzione in errore non deve essere necessariamente esercitata nei confronti del soggetto danneggiato, ben potendo configurarsi la truffa anche quando il soggetto raggirato ed indotto in errore sia diverso da quello nei cui confronti si trae l'ingiusto profitto (Cass. V, n. 33/1971). È stata ritenuta configurabile la truffa anche in danno di una società appartenente allo stesso gruppo al quale appartiene la società i cui organi l'abbiano posta in essere (Cass. V, n. 3949/1991). Tali principi sono stati ribaditi nel senso che ai fini della configurabilità del delitto di truffa, non è necessaria l'identità fra la persona indotta in errore e la persona, che ha subito il danno patrimoniale, purché, anche in assenza di contatti diretti fra il truffatore e il truffato, sussista un nesso di causalità tra l'induzione in errore, il profitto ed il danno. Nel caso di specie si è ritenuto configurabile il delitto di truffa in danno di un ente pubblico con riferimento all'abusiva stipula di contratti di telefonia da parte di due dipendenti di un tribunale amministrativo regionale in relazione ai quali le compagnie telefoniche, che avevano invano richiesto all'ente il pagamento delle relative prestazioni, avevano erogato delle provvigioni ai promoter che agivano in concorso con i due dipendenti pubblici (Cass. II, n. 2281/2015).

Deve però precisarsi che la persona offesa, titolare del diritto di querela, è il detentore del bene giuridico leso o messo in pericolo, cioè colui che subisce le conseguenze patrimoniali dell’azione delittuosa correlata al conseguimento dell’ingiusto profitto da parte dell’agente; a ciò consegue che nel caso in cui il soggetto danneggiato non coincida con quello indotto in errore, la querela sporta da quest’ultimo è priva di ogni effetto (Cass. II, n. 27061/2023). In linea con quest’ultima decisione si è ritenuto che gli utenti di forniture elettriche, indotti, tramite artifizi e raggiri, a sottoscrivere un contratto non voluto, avendo subito un danno patrimoniale, dovessero essere qualificati come persone offese legittimate a proporre la querela (Cass. II, n. 25405/2024).   

Si è affermato che il responsabile della filiale di banca debba considerarsi persona offesa e dunque titolare in proprio di un autonomo diritto di querela, in quanto responsabile, in quel frangente, delle attività dell'istituto bancario e delle eventuali conseguenze pregiudizievoli per l'interesse dell'ente da lui rappresentato (Cass. II, n. 39069/2018); si è ritenuto, quindi, sussistere la legittimazione a presentare querela per il delitto di truffa del direttore della filiale di banca presso cui è stato aperto un conto corrente al solo fine di incassare titoli contraffatti, in quanto responsabile delle attività dell'istituto di credito e delle eventuali conseguenze pregiudizievoli per l'interesse di quest'ultimo (Cass. II, n. 24495/2023).

Si è precisato che in caso di truffa ai danni di ente pubblico, essendo richiesta l'induzione in errore, è necessario che siano tratti in inganno i pubblici funzionari che operano per l'ente, non potendo la persona giuridica in quanto tale essere soggetto passivo di artifici e raggiri; ne consegue che nell'ipotesi in cui i responsabili degli artifici e raggiri siano i rappresentanti degli organi sociali dell'ente, è configurabile esclusivamente il reato di frode in pubbliche forniture che non richiede una condotta implicante i suddetti requisiti (Cass. II, n. 35638/2017). Sullo stesso tema recentemente la Cassazione ha avuto modo di specificare che nelle suddette ipotesi di non identità fra la vittima del raggiro ed il danneggiato dal reato, ai fini della configurabilità del reato, è necessario che sussista fra i due soggetti un rapporto negoziale in forza del quale si determini la trasmissione del danno dal primo al secondo soggetto; così nel caso di specie è stato ravvisato il reato nella condotta di un soggetto che aveva raggirato i locatari di alcuni immobili per farsi consegnare le somme dagli stessi dovute al proprietario (Cass. II, n. 8653/2023).  

Elemento materiale

Gli artifizi e raggiri

Il delitto di truffa viene classificato come un reato a forma vincolata, in quanto per la sua configurazione l'inganno in cui è tratta la persona offesa deve essere conseguenza degli artifizi o raggiri posti in essere dal soggetto agente.

L'artifizio viene definito come un'alterazione della realtà esteriore che si realizza o simulando l'inesistente o dissimulando l'esistente; il raggiro è, invece, una menzogna che influisce direttamente sulla psiche del soggetto passivo, corredata da ragionamenti e discorsi idonei a farla apparire come una realtà (Manzini, Trattato, 684).

In giurisprudenza prevale un'interpretazione ampia del concetto di artifizi e raggiri volta a ritenere provata l'esistenza degli stessi ogni qualvolta sia dimostrata l'induzione in errore della vittima; in tal senso si è affermato che il mezzo fraudolento quale elemento caratteristico del reato di truffa si concreta in un qualunque comportamento che, determinando altri in errore, consenta la realizzazione di un ingiusto profitto, e cagioni correlativamente un danno; a ciò consegue che la rilevanza giuridica di tale comportamento debba essere ricercata nella sua idoneità a generare la percezione di una falsa apparenza esteriore, dalla quale derivi l'inganno (Cass. II, n. 7092/1981). Così ad esempio il raggiro non deve necessariamente consistere in una particolare subdola messa in scena, bastando qualsiasi simulazione o dissimulazione posta in essere per indurre in errore (Cass. V, n. 3460/1983).

Con specifico riferimento alla menzogna, si è affermato che anch'essa, con il concorso degli altri presupposti, può dar luogo al delitto di truffa quando abbia per effetto di trarre in errore il soggetto passivo in quanto per l'esistenza di tale reato è sufficiente accertare che l'errore in cui è caduta la persona offesa, con proprio danno, sia stato determinato dalla attività delittuosa dell'agente (Cass. VI, n. 8787/1981). Il principio è stato ribadito nel senso che integra l'elemento costitutivo del reato di truffa anche la sola menzogna, costituendo una tipica forma di raggiro (Cass. F., n. 42719/2010). In tal senso, ad esempio, è stato ritenuto ravvisabile il delitto di truffa nell'ipotesi di infedeli dichiarazioni di una delle parti, relativamente alla possibilità di adempiere puntualmente l'obbligazione, fatte all'altra parte contraente nel corso della procedura per la formazione del contratto (Cass. VI, n. 3495/1985). Nella stessa direzione la Cassazione ha affermato che la mendace dichiarazione di una delle parti di essere in grado di adempiere l'obbligazione, fatta all'altra parte durante l'«iter» formativo del contratto, pure in assenza di qualsiasi messa in scena, in quanto destinata a creare un falso convincimento, operando sulla psiche del soggetto ingannato, integra l'elemento del raggiro il quale, se posto in essere con dolo, realizza la figura criminosa della truffa contrattuale (Cass. II, n. 4011/1993).

La Cassazione ha ritenuto configurabile il delitto di truffa anche nel caso in cui la menzogna riguardi i propri sentimenti amorosi verso la persona offesa, ritenendo che essa possa costituire un artifizio o un raggiro rilevante al fine dell’integrazione del delitto di truffa; ciò in quanto era stato accertato che la condotta dell’imputato era consistita, non solo nel simulare sentimenti d’amore, ma nel coordinare la menzogna circa i propri sentimenti con ulteriori e specifici elementi idonei ad avvolgere la psiche del soggetto passivo in modo da assumere l’aspetto della verità ed a trarre in errore; in sostanza la Cassazione riconosce che la truffa non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo (Cass. II, n. 25165/2019).

Generalmente si ritiene che anche il silenzio serbato dall'agente in ordine a fatti che ha l'obbligo giuridico di rendere noti può costituire un artifizio o un raggiro idoneo ad integrare il delitto di truffa, in quanto idoneo a trarre in inganno la vittima in ordine alla loro effettiva sussistenza. In tale direzione, in tema di truffa contrattuale, la Cassazione ha costantemente affermato che integra gli estremi della truffa contrattuale la condotta di chi ponga in essere artifizi o raggiri consistenti nel tacere o nel dissimulare fatti o circostanze tali che, ove conosciuti, avrebbero indotto l'altro contraente ad astenersi dal concludere il contratto (Cass. II, n. 28703/2013). Nel caso di specie, appunto, si è ritenuto configurabile l'elemento materiale della truffa nel silenzio serbato dal costruttore in ordine ad alcuni difetti strutturali del bene immobile compravenduto ed alle difformità dello stesso rispetto alla originaria concessione edilizia ed al progetto approvato. Nello stesso senso si è affermato che in tema di truffa contrattuale, anche il silenzio, maliziosamente serbato su circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, integra l'elemento del raggiro, idoneo ad influire sulla volontà negoziale del soggetto passivo (Cass. II, n. 28791/2015). Si trattava, appunto, della condotta del costruttore di un immobile, il quale, nella fase delle trattative per la vendita dello stesso, ed anche successivamente alla stipula del preliminare, aveva omesso di riferire all'altro contraente che il bene era gravato da ipoteca, facendosi versare cospicui acconti.

Il principio è stato recentemente ribadito affermandosi che gli artifizi o i raggiri possono consistere anche nel semplice silenzio maliziosamente serbato, su circostanze fondamentali ai fini della conclusione di un contratto, da chi abbia l'obbligo, anche in forza di una norma extra penale, di farle conoscere in quanto il comportamento dell'agente in tal caso non può ritenersi meramente passivo, ma artificiosamente preordinato a perpetrare l'inganno e a non consentire alla persona offesa di autodeterminarsi liberamente (Cass. II, n. 23079/2018).

In tema di truffa, integra il requisito degli artifici e raggiri il silenzio circa il fatto della sopravvenuta sospensione della potestà genitoriale, tenuto nei confronti dell'I.N.P.S. erogatore della prestazione pensionistica, dalla madre di due minori autorizzata, proprio in ragione dell'esercizio della potestà genitoriale, alla riscossione in loro favore della pensione di reversibilità del padre (Cass. II, n. 22692/2008).

In astratto la truffa non sarebbe configurabile quando l'agente si limiti ad approfittare dell'errore in cui versa la persona già in partenza, senza fare uso di artifizi o raggiri idonei ad ingenerare o a mantenere l'errore in cui è caduta la vittima; deve, però, al riguardo, precisarsi che quando la condotta dell'agente si esplica in un contegno capace di ingenerare errore per omessa rivelazione di circostanze che si ha l'obbligo di riferire o per simulato atteggiamento suggerito dal pravo proposito di secondare l'errore altrui e di sfruttarne le conseguenze, non v'ha dubbio che non si profitta soltanto passivamente di tale errore, ma lo si crea meditatamente con preordinato inganno (Cass. V, n. 987/1968). Cosi anche un atto avente l'apparenza formale di un contratto può costituire artificio o raggiro idoneo a concretare il reato di truffa quando sia stato preordinato o attuato da un contraente al solo scopo di sorprendere la buonafede dell'altro; ed è irrilevante che l'iniziativa per la conclusione del negozio sia stata della parte offesa se questa è stata indotta in errore (Cass. II, n. 10230/1982). Ed inoltre si è precisato che il reato di truffa non postula fra i suoi elementi costitutivi la formazione di un atto ma una qualsiasi condotta fraudolenta idonea ad indurre in errore; a ciò consegue che, non solo l'atto meramente irregolare o irricevibile, ma anche quello nullo o giuridicamente inesistente, possono costituire mezzo idoneo alla induzione in errore, poiché essi vengono in considerazione non come atti ma come meri fatti (Cass. V, n. 16098/1978).

Generalmente in giurisprudenza si prescinde dall'idoneità astratta degli artifizi e raggiri ad ingannare o a sorprendere l'altrui buona fede, essendo l'idoneità dimostrata dall'effetto raggiunto (Cass. II, n. 10833/1990). Quindi secondo la giurisprudenza l'idoneità dell'azione truffaldina va giudicata ex post; se l'induzione in errore si è verificata ed il profitto è stato conseguito, sussiste la truffa anche se il raggiro o l'artificio siano stati rudimentali o facilmente identificabili (Cass. II, n. 383/1982). Si è in proposito precisato che la legge vieta l'artifizio come finalizzato all'errore e solo nell'ipotesi che esso sia di una grossolanità ed abnormità tali da essere immediatamente constatato e constatabile, con la normale diligenza, è dato di rilevarne la inidoneità alla produzione dell'errore e quindi del profitto e del danno; pertanto ad escludere l'artifizio e l'errore in tema di truffa non è sufficiente richiamare la disfunzione amministrativa, il disguido, i ritardi, la scarsa diligenza degli organi o del personale preposto e cioè la carenza della normale attenzione e del tempestivo controllo, che avrebbero immediatamente scoperto l'artifizio ed evitato l'errore (Cass. II, n. 2315/1986). Più recentemente si è ribadito che ai fini della configurabilità del reato di truffa, il giudizio sulla idoneità della condotta a trarre in inganno la vittima deve essere effettuato "ex post" ed in concreto, con la conseguenza che la non particolare raffinatezza degli artifizi utilizzati, ovvero la stato di vulnerabilità della vittima, non escludono l'offensività della condotta. Si è al riguardo precisato che l'inquadramento delle condotte manipolative, anche grossolane, nel reato di truffa trova il solo limite della incapacità della vittima, condizione patologica che impone il diverso inquadramento della condotta nella fattispecie di circonvenzione di persona incapace (Cass. II, n. 30952/2016).

Alla tematica dell'idoneità degli artifizi o raggiri ad ingannare la persona offesa è poi strettamente collegata quella relativa alla diligenza o negligenza della stessa, pure considerata ininfluente ai fini dell'integrazione della truffa; così, in applicazione di tale principio, si è ritenuto che la consegna ad una banca, per la riscossione, di un assegno di conto corrente intestato a favore di un soggetto omonimo del presentatore, inducendo il cassiere in errore sul legittimo possesso del titolo, realizza il delitto di truffa nei confronti dello istituto di credito, il quale è parte offesa e danneggiata dal reato stesso. Infatti, pagando per errore a persona diversa da quella indicata nell'assegno, la banca assume l'obbligo del risarcimento nei confronti del vero creditore; ciò in quanto l'idoneità del raggiro non può essere esclusa dalla negligenza, sia pure grave, del funzionario bancario perché, in tema di truffa, simile idoneità assume rilevanza solo nell'ipotesi di tentativo mentre nel caso in cui il reato sia stato consumato essa è in re ipsa (Cass. II, n. 9756/1985). Ed ancora nella stessa direzione si è detto che ai fini della sussistenza del delitto di truffa, non ha rilievo la mancanza di diligenza, di controllo e di verifica da parte della persona offesa, dal momento che tale circostanza non esclude l'idoneità del mezzo in quanto si risolve in una mera deficienza di attenzione e perché il più delle volte è determinata dalla fiducia che, con artifici e raggiri, sa suscitare il truffatore nella parte lesa (Cass. II, n. 4011/1993). Più specificamente la Cassazione ha avuto occasione di affermare che la particolare condizione di un soggetto, quale determinata da una sua fragilità di fondo o da situazioni contingenti, non esclude la configurabilità in suo danno del reato di truffa, anzi ne rende più agevole l'esecuzione. Nel caso di specie alle persone offese era stata promessa la soluzione o guarigione dei loro mali fisici o psichici, o del loro disagio esistenziale, ovvero un «miglioramento della mente» con una attività di «stimolazione del cervello», il tutto attraverso una «terapia», e non con l'adesione ad un credo religioso, terapia peraltro pagata e in situazioni in cui si profilavano condotte costantemente fraudolente con la conseguente induzione in errore di soggetti facilmente raggirabili e danno economico degli stessi con correlativo profitto ingiusto quanto meno della organizzazione, o Chiesa di Scientology, alla quale, a detta dei principali imputati, venivano versati proventi incassati dal Centro Dianetics (Cass. II, n. 9520/1992). Ed anche più recentemente si è detto che in tema di truffa, la particolare condizione di un soggetto determinata da una fragilità di fondo ovvero da una situazione contingente, quale quella connessa ad una grave malattia, non esclude la configurabilità in suo danno del reato, potendo, anzi renderne più agevole l'esecuzione (Cass. II, n. 46118/2015). Il principio è stato costantemente ribadito nel senso che, ai fini della sussistenza del delitto di truffa, non ha rilievo la mancanza di diligenza da parte della persona offesa, dal momento che tale circostanza non esclude l'idoneità del mezzo, risolvendosi in una mera deficienza di attenzione spesso determinata dalla fiducia ottenuta con artifici e raggiri (Cass. II, n. 42941/2014).

Con riferimento all'emissione di un assegno a vuoto si è ritenuto che, l'emissione di un assegno postale privo di copertura può integrare il reato di truffa se sia accompagnata da un comportamento dell'agente idoneo ad indurre in inganno chi riceve il titolo, vincendone le resistenze mediante assicurazioni sulle proprie intenzioni di pagare, atte ad ingenerare fiducia nella propria solvibilità (Cass. II, n. 20966/2012). Nello stesso senso si è detto che, in tema di truffa contrattuale, il pagamento di merci effettuato mediante assegni di conto corrente privi di copertura — non costituente, di norma, raggiro idoneo a trarre in inganno il soggetto passivo — concorre ad integrare l'elemento materiale del reato, qualora sia accompagnato da un malizioso comportamento dell'agente nonché da fatti e circostanze idonei a determinare nella vittima un ragionevole affidamento sul regolare pagamento dei titoli (Cass. II, n. 10850/2014). Ed anche con riguardo all'assegno postdatato, si è affermato che integra il delitto di truffa la consegna in pagamento, all'esito di una transazione commerciale, di un assegno di conto corrente bancario postdatato, qualora vengano contestualmente fornite al prenditore rassicurazioni circa la disponibilità futura della necessaria provvista finanziaria (Cass. II, n. 33441/2015). Certamente, invece, un assegno falsificato, costituisce raggiro sufficiente ed idoneo di per se stesso ai fini della configurazione del reato di truffa allorché la consegna sia fatta in modo da ingenerare fiducia nella vittima, si da far sorgere in essa il convincimento della solvibilità dell'agente (Cass. II, n. 2944/1980).

Con riferimento, invece, alla falsa denuncia di smarrimento di un carnet di assegni, la Cassazione ha ritenuto che, ai fini della sussistenza del reato di truffa, costituisce artifizio o raggiro il rilascio di assegni di conto corrente tratti su un conto per cui viene poi falsamente presentata denuncia di smarrimento del carnet, atteso che il tal modo viene ad essere reso inefficace proprio quel titolo raffigurato invece come valido al momento del rilascio (Cass. II, n. 6936/1997); nel caso concreto è stato ravvisato il reato di truffa in quanto agli artifici iniziali, rappresentati da maliziose e insidiose modalità di approccio nello stabilire un rapporto negoziale, quali la vantata serietà e consistenza economica della ditta fornitrice ed il buon esito di una prima fornitura, erano seguiti altri espedienti, consistenti nella dazione di assegni, rimasti impagati, esigibili solo dopo la consegna di tutta la merce, tra cui in particolare quelli oggetto di falsa denuncia. Il principio è stato recentemente ribadito nel senso che, ai fini della sussistenza del reato di truffa, costituisce artifizio o raggiro il rilascio di assegni di conto corrente tratti su un conto per cui viene poi falsamente presentata denuncia di smarrimento del carnet, rendendosi in tal modo inefficace proprio il titolo raffigurato invece come valido al momento del rilascio (Cass. II, n. 943/2013).

Il solo fatto di consegnare delle cambiali false costituisce raggiro idoneo alla perpetrazione del delitto di truffa, quando l'accettazione dei titoli da parte del prenditore sia l'unica ragione del di lui esborso a favore del girante, e quindi dell'ingiusto profitto e del conseguente danno del prenditore (Cass. V, n. 489/1970).

Integra il reato di truffa la percezione delle prestazioni di cassa integrazione guadagni da parte del lavoratore che ricavi contestualmente altro reddito di nuova attività lavorativa (Cass. II, n. 11597/1989).

Il datore di lavoro, che corrisponde in meno i contributi dovuti in ragione delle retribuzioni falsamente registrate nei libri paga (profitto), commette truffa, avendo gli istituti assicurativi l'obbligo di corrispondere ai lavoratori assicurati le prestazioni di legge, anche se il datore di lavoro non ha adempiuto alle prestazioni stabilite (Cass. II, n. 10117/1980).

Commette il delitto di truffa in danno dello stato l'insegnante che, ottenendo, mediante il raggiro della esibizione di false certificazioni mediche, periodi di assenza scolastica, presti in detto periodo attività lavorativa per conto di un privato e percepisca gli stipendi, anche quale dipendente della pubblica amministrazione (Cass. II, n. 4353/1981).

Si è ritenuto che, in tema di truffa, l'espediente di presentare per il rimborso note di spese non dovute, inframmezzate ad altre regolari, approfittando del rapporto di lavoro che induce a presumere la correttezza tra le parti, ben può rientrare nel concetto di artifizio, di cui all'art. 640, idoneo ad ingannare. Tale idoneità non è esclusa dall'esistenza di preventivi controlli, ben potendo, per l'elevato numero delle note presentate, sfuggire l'irregolarità di alcune. L'artificio è più evidente nei casi in cui gli scontrini presentati per il rimborso siano stati procurati in modo irregolare e non rappresentino una spesa effettiva (Cass. II, n. 1658/1992).

È configurabile il delitto di truffa anche in caso di inosservanza, da parte dell'assicurato, dell'obbligo di dare avviso all'assicuratore del sinistro verificatosi, in quanto tale omissione — a meno che non sia dolosa — non comporta automaticamente la perdita della garanzia assicurativa, ma al più la riduzione, in ragione del pregiudizio sofferto dall'assicuratore, ai sensi dell'art. 1915 cpv. c.c., del diritto all'indennità (Cass. I, n. 6241/1990).

L'induzione in errore

Come si è visto, ai fini dell'integrazione dell'elemento materiale del delitto di truffa, gli artifizi e raggiri devono determinare un'induzione in errore della persona offesa; in proposito l'errore viene definito come una falsa o distorta rappresentazione di circostanze di fatto capaci di incidere sul processo di formazione della volontà (Fiandaca-Musco, PS II, 1997, 140). 

In questa direzione si è ritenuto che non integra il reato di truffa la condotta di chi consegni alcuni assegni postdatati in pagamento di lavorazioni su alcuni gioielli e, successivamente, presenti denuncia di furto dei titoli, dal momento che la condotta fraudolenta, consistita nella denuncia di furto, non può essere posta in essere dopo il conseguimento del profitto, realizzatosi con la fruizione del servizio di lavorazione dei gioielli (Cass. VI, n. 12604/2012). L'errore, quindi, ai fini dell'integrazione della truffa, deve essere contestualmente causa dell'atto di disposizione patrimoniale della vittima ed effetto degli artifizi e raggiri. In applicazione di tale principio si è ritenuto non integrato il reato di truffa nella condotta dell'avvocato che si faccia dare un'anticipazione sugli onorari al momento dell'assunzione di un incarico giudiziale e che poi non dia inizio al contenzioso, ponendo in essere raggiri per tacitare la richiesta di informazioni sull'andamento della controversia e quindi per evitare la restituzione di quanto indebitamente percepito, dal momento che la condotta fraudolenta, ai fini dell'integrazione della fattispecie, non può essere successiva alla ricezione dell'ingiusto profitto (Cass. II, n. 17106/2011).

Integra, invece, la truffa contrattuale la condotta del professionista che, tramite artifizi e raggiri, nasconde una propria inadempienza al cliente, il quale, ignorando tale circostanza, rinnova il mandato al professionista, continuando a retribuirlo e consentendogli così di percepire un ingiusto profitto (Cass. II, n. 49472/2014).

Si è affermato poi che l'idoneità del raggiro o dell'artificio, dimostrata dall'effetto raggiunto, non può escludersi se pure sia provato che il soggetto indotto in errore abbia avuto il sospetto del raggiro o dell'artificio stesso (Cass. V, n. 3494/1978). Ma successivamente la stessa Cassazione ha ritenuto di dovere escludere il reato di truffa quando, essendo l'artifizio noto alla vittima, e dovendosi quindi escludere che questa possa dirsi raggirata, l'evento dannosi si verifica ugualmente per l'incuria della parte lesa (Cass. II, n. 9935/1981).

Recentemente la Cassazione ha rilevato che l’induzione in errore deve essere ricollegata alla valenza causale degli artifizi e raggiri e non invece alla situazione di fatto che aveva determinato la condotta posta in essere; in sostanza, si è detto, il movente che aveva portato l’imputato a porre in essere la condotta ingannatoria in danno della persona offesa resta fuori dalla fattispecie tipica prevista dalla norma incriminatrice e può rilevare solo ai fini della prova del reato ed, eventualmente, della determinazione della pena (Cass. II, n. 22/2018).

Essenziale è poi evidenziare che il delitto di truffa è configurabile anche quando il soggetto passivo del raggiro è diverso dal soggetto passivo del danno ed in difetto di contatti diretti tra il truffatore e il truffato, sempre che sussista un nesso di causalità tra i raggiri o artifizi posti in essere per indurre in errore il terzo, il profitto tratto dal truffatore ed il danno patrimoniale patito dal truffato (Cass. II, n. 43143/2013).

Si è ritenuto integrato il delitto di truffa contrattuale nell'acquisto di un immobile, di proprietà di un ente pubblico già concesso in locazione al privato acquirente, alla cui vendita l'ente pubblico si è determinato in forza dell'attestazione del privato, contraria al vero, dell'esistenza delle condizioni richieste dall'ente stesso per la cessione dell'immobile, pur quando il corrispettivo di vendita sia stato regolarmente pagato (Cass. II, n. 15094/2007).

La Cassazione ha ritenuto che configura il delitto di truffa aggravata ai sensi degli artt. 640 n. 1 e 61 nn. 9 e 11 c.p. il fatto del pubblico funzionario che abbandona il posto clandestinamente, celandolo a chi avrebbe dovuto esserne al corrente, per compiere un'attività incompatibile, nell'orario impegnato, con le incombenze sue proprie, inducendo in tal modo la pubblica amministrazione a ritenere erroneamente che le mansioni proprie del suo dipendente fossero da questi regolarmente espletate e che, quindi, avesse titolo alla retribuzione (Cass. II, n. 1121/1989). Nel caso concreto si trattava di prestazione d'opera da parte di medico dipendente da un'amministrazione comunale a favore di un laboratorio diagnostico privato in orari nei quali risultava in servizio presso il suo ufficio al comune.

L'atto di disposizione patrimoniale

La dottrina identifica nell'atto di disposizione patrimoniale da parte della vittima il secondo evento del reato, che rappresenta conseguenza dell'errore (primo evento) e causa dell'ingiusto profitto con altrui danno (terzo evento). La disposizione patrimoniale può avere ad oggetto qualsiasi elemento del patrimonio, cioè beni mobili, immobili o diritti di qualsiasi natura (Fiandaca-Musco, PS II 1997, 142).

In proposito sono recentemente intervenute le Sezioni Unite, affermando che ai fini della configurabilità del delitto di truffa, l'atto di disposizione patrimoniale, quale elemento costitutivo implicito della fattispecie incriminatrice, consiste in un atto volontario, causativo di un ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato dall'errore indotto da una condotta artificiosa. Ne consegue che lo stesso non deve necessariamente qualificarsi in termini di atto negoziale, ovvero di atto giuridico in senso stretto, ma può essere integrato anche da un permesso o assenso, dalla mera tolleranza o da una traditio, da un atto materiale o da un fatto omissivo, dovendosi ritenere sufficiente la sua idoneità a produrre un danno (Cass. S.U., n. 155/2011).

Viene, a questo riguardo, in rilievo la tematica relativa alla cosiddetta truffa processuale. In proposito la Cassazione, tempo addietro, ebbe ad affermare che la truffa processuale (che consiste nel fatto di chi, in un giudizio civile, con artifici o raggiri, inducendo in errore il giudice, ottenga, o cerchi di ottenere, una decisione favorevole, e quindi un ingiusto profitto in danno della controparte) non integra gli estremi del delitto di truffa. Si è ritenuto al riguardo che se è vero che il delitto di truffa è ravvisabile anche quando il soggetto raggirato e persona diversa dal danneggiato, occorre tuttavia, ai fini della esistenza del delitto, un atto di disposizione patrimoniale da parte del soggetto che viene ingannato; e tale atto non sussiste nella ipotesi della truffa processuale, perché il giudice non esercita un potere di disposizione riguardo al patrimonio delle parti, ma un potere giurisdizionale eminentemente pubblicistico (Cass. II, n. 6757/1976). Il principio è stato ribadito in modo costante nel senso che, in tema di truffa, pur non esigendosi l'identità tra la persona indotta in errore e quella che subisce conseguenze patrimoniali negative per effetto dell'induzione in errore, va esclusa la configurabilità del reato nel caso in cui il soggetto indotto in errore sia un giudice che, sulla base di una testimonianza falsa, abbia adottato un provvedimento giudiziale contenente una disposizione patrimoniale favorevole all'imputato: detto provvedimento non è, infatti, equiparabile ad un libero atto di gestione di interessi altrui, costituendo (non espressione di libertà negoziale, bensì) esplicazione del potere giurisdizionale, di natura pubblicistica, finalizzato all'attuazione delle norme giuridiche ed alla risoluzione dei conflitti di interessi tra le parti (Cass. II, n. 29929/2007). E nella stessa direzione, ancora, si è affermato che non integra il reato di truffa l'induzione in errore di un giudice che, sulla base di una delibera falsificata, abbia adottato un provvedimento contenente una disposizione patrimoniale favorevole all'imputato, perché detto provvedimento non è equiparabile ad un libero atto di gestione di interessi altrui, costituendo esplicazione del potere giurisdizionale, di natura pubblicistica (Cass. II, n. 498/2011). Va segnalata sul punto un'isolata decisione della Cassazione di segno contrario, in base alla quale, poiché la struttura del delitto di truffa non postula l'identità tra la persona offesa dal reato e quella indotta in errore, il reato sussiste pur in assenza di tale identità, sempre che gli effetti dell'inganno e della condotta dell'ingannato si riversino sul patrimonio del danneggiato; quindi, non può escludersi, in via di ipotesi, la configurabilità della truffa nel caso in cui sia il giudice il soggetto ingannato dall'attività fraudolenta precostituita da una parte, avendo egli il potere di incidere pregiudizievolmente con un suo provvedimento sul patrimonio della parte contraria; ed invero i reati specifici riguardanti la frode nel giudizio di cui all'art. 374 non esauriscono le ipotesi criminose possibili nel caso di condotte fraudolente, che ben possono rientrare nella più ampia previsione dell'art. 640 (Cass. II, n. 6335/1998).

Nell'ipotesi in cui l'atto di disposizione patrimoniale assume la forma del contratto si parla di truffa contrattuale che si verifica quando gli artifizi e raggiri intervengono nella fase di formazione del negozio ed inducono il soggetto passivo a prestare il consenso, che altrimenti non avrebbe prestato. In questa direzione si è affermato che nell'ipotesi in cui un sedicente venditore alieni come propria una cosa non sua, non è applicabile la disciplina civilistica della vendita di cosa altrui con effetti obbligatori, la quale presuppone che l'altruità del bene sia resa nota dal venditore all'altro contraente; viceversa nel caso ora prospettato, se il falso venditore carpisce la buona fede dell'acquirente, si ritiene che venga posto in essere un contratto fraudolento, rientrante, sotto il profilo penalistico, nella truffa contrattuale (Cass. II, n. 5877/1985). Con riferimento ad analoga fattispecie concreta il principio è stato ribadito nel senso che integra il delitto di truffa contrattuale la condotta del venditore che omette di rendere nota all'acquirente l'altruità del bene oggetto del contratto (Cass. II, n. 31927/2013). Ed in precedenza si era affermato che quando un contraente, nell'indurre l'altro alla stipulazione del contratto sia stato sollecitato esclusivamente dall'intento di perseguire un ingiusto profitto con altrui danno, di guisa che il contratto si presenti come il mezzo adottato dall'agente per la concreta realizzazione del profitto, la successiva inadempienza non costituisce un mero illecito civile, bensì la fase conclusiva dell'azione criminosa; né la configurabilità del reato è esclusa dal fatto che l'iniziativa sia stata del soggetto passivo, quando risulti che il contratto non sarebbe stato concluso senza i raggiri posti in essere dall'altro contraente (Cass. II, n. 1220/1983).

Ed il reato sarà configurabile non soltanto nella fase di conclusione del contratto, ma anche in quella della esecuzione allorché una delle parti, nel contesto di un rapporto lecito, induca in errore l'altra parte con artifizi e raggiri, conseguendo un ingiusto profitto con altrui danno (Cass. II, n. 9223/1988). Inoltre la conclusione di un negozio giuridico può integrare gli estremi della truffa anche se il comportamento contrattuale sia corretto, quando la condotta dell'autore del reato sia preordinata al fine di procurarsi un ingiusto profitto e la rappresentata correttezza sia strumentalizzata allo scopo di sorprendere la buona fede dell'altro contraente sotto la parvenza di una regolare attività negoziale (Cass. II, n. 5660/1982). Ed è irrilevante che l'iniziativa per la conclusione del negozio sia stata della parte offesa se questa è stata indotta in errore, essendo sufficiente che l'atto, avente l'apparenza formale di un contratto, sia stato preordinato o attuato da un contraente al solo scopo di sorprendere la buona fede dell'altro (Cass. II, n. 10230/1982). Ancora ogni volta che il soddisfacimento di una pretesa creditoria, non ancora esigibile per non essere stata ancora adempiuta la controprestazione cui e subordinata la esigibilità, si realizza mediante l'artificio di far apparire adempiuta la controprestazione(anche se e nell'intenzione dell'agente di adempierla), rimane configurata la truffa, dato che si verifica un ingiusto arricchimento per l'agente con depauperamento del soggetto che si determina all'adempimento non dovuto: ne l'utilità successiva che quest'ultimo eventualmente conseguirà toglie il carattere delittuoso al fatto, che è precedente rispetto all'adempimento successivo da parte dell'agente. Inoltre la consapevolezza nell'agente dell'inesistenza della situazione che egli presenta falsamente come esistente esclude l'errore sulla legittimità del profitto (Cass. VI, n. 7679/1972).

Viceversa il reato non sarà configurabile ove la condotta truffaldina si collochi nella fase esecutiva del contratto a meno che, proprio in conseguenza della suddetta condotta, la vittima si determini ad un’attività dispositiva ulteriore rispetto a quella inizialmente concordata (Cass. II, n. 26190/2023). In proposito la Cassazione già in precedente aveva affermato che nei contratti ad esecuzione istantanea, stipulati senza alcun artificio o raggiro, l'attività decettiva commessa successivamente alla stipula e durante l'esecuzione contrattuale è penalmente irrilevante, a meno che non determini, da parte della vittima, un'ulteriore attività giuridica che non sarebbe stata compiuta senza quella condotta decettiva (Cass. II n. 29853/2016).

L'atto di disposizione patrimoniale potrà anche essere di carattere omissivo; così, ad esempio, si è ritenuto che commette il delitto di truffa il debitore che, inducendo in errore l'ufficiale giudiziario che procede al pignoramento col raggiro di fargli credere che il bene da pignorare non appartenga a lui, ma ad un terzo, ottenga che il bene stesso non sia pignorato (Cass. II, n. 9332/1978).

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che l'esposizione all'esterno del veicolo dell'attestato di versamento in conto corrente postale della tassa per veicoli a motore (cosiddetto disco-contrassegno) contraffatto integra il reato di truffa nelle due ipotesi alternative, o del delitto consumato o del delitto tentato, secondo che l'azione si sia o meno compiuta o l'evento si sia meno verificato, ferma restando la concorrente violazione degli artt. 482 e 478 comma 3 e, ove sia stata contraffatta pure la ricevuta del detto versamento, la violazione degli artt. 482 e 476 (Cass. S.U., n. 9418/1986). Più specificamente è stato riconosciuto configurabile il delitto di truffa aggravata nel fatto di chi non adempie l'obbligo del pagamento della tassa di circolazione, o lo adempie in misura insufficiente, avvalendosi, per fare apparire di essere in regola nel pagamento, dell'espediente di falsificare l'attestato di versamento e la ricevuta del versamento stesso; si è affermato, al riguardo, che l'artifizio ed il raggiro sono costituiti dalla formazione ed esibizione dei suddetti atti falsificati, in quanto idonei ad indurre in errore gli agenti preposti al traffico, mentre l'ingiusto profitto, proprio del reato di truffa, consiste nella circolazione abusiva del veicolo e nel perdurante mancato adempimento di tutte le conseguenti obbligazioni patrimoniali cui è correlato il danno che lo Stato patisce. Si è affermato anche che il delitto di truffa, così configurato, concorre con quello di falso e si presenta nella forma del tentativo quando l'illecito venga accertato prima che il veicolo sia posto in circolazione e nella forma della consumazione quando l'accertamento dell'illecito avvenga mentre il veicolo è già in circolazione, giacché in tale ultimo caso si è ormai realizzato l'evento del reato, vale a dire l'ingiusto profitto e il danno correlativo (Cass. II, n. 17365/1988).

La dottrina ha criticato tale impostazione ritenendo che nel caso di specie manchi un qualsiasi atto di disposizione patrimoniale, cui sarebbe indotta la vittima in conseguenza dell'azione truffaldina, essendo configurabile il reato di falso e l'illecito amministrativo previsto per il mancato pagamento della tassa di circolazione (Ingroia).

La Cassazione ha affermato che nel contratto di locazione finanziaria (o leasing ) commette il reato di truffa l'utilizzatore-locatario che, in concorso con il venditore, indica al concedente un valore del bene da acquistare notevolmente superiore a quello di mercato, allo scopo di procurarsi un ingiusto profitto consistente nell'acquisizione di un finanziamento pari all'eccedenza del prezzo pagato dal concedente, il quale, nell'ipotesi di anticipata risoluzione del contratto per il mancato pagamento dei ratei di canone da parte dell'utilizzatore, ha un recupero pari esclusivamente al minor importo del prezzo di realizzo del bene medesimo (Cass. II, n. 289/1996). Nel caso di specie è stata annullata la sentenza di merito che aveva ritenuto insussistente il delitto di truffa in un'ipotesi in cui l'utilizzatore-locatario aveva stipulato un contratto di leasing per la fornitura di un macchinario di cui aveva indicato — con la complicità del venditore — un prezzo d'acquisto superiore al triplo di quello di mercato, ottenendo così il profitto di un finanziamento privo di qualsiasi garanzia per la quota eccedente il prezzo e cagionando un danno patrimoniale al locatore il quale, a seguito della risoluzione del contratto per inadempimento, aveva potuto soddisfarsi solo sul valore di realizzo del bene restituito.

Il danno

Il danno costituisce un ulteriore evento del reato; al riguardo la Cassazione ha affermato che la truffa, quale delitto di danno, presuppone che l'agente miri a realizzare un ingiusto profitto, cagionando correlativamente al soggetto passivo la perdita di un diritto soggettivo o la lesione di esso — detti elementi vanno individuati, facendo astrazione dell'esistenza o meno di una proporzionalità od equivalenza economica delle reciproche prestazioni; nell'occasione la Cassazione ha precisato che il danno penale da un lato non va identificato con quello civile risarcibile e dall'altro non costituisce una conseguenza del reato, ma è insito nel reato medesimo: ogni qual volta che viene colpito o menomato il bene giuridico tutelato, ipso facto viene leso anche l'interesse del soggetto al godimento ed alla conservazione di quel bene (Cass. VI, n. 274/1982). In seguito, però, la giurisprudenza si è assestata verso una concezione economica del danno, nel senso che lo stesso deve avere un contenuto patrimoniale, dovendo, cioè, concretarsi in un detrimento del patrimonio (Cass. V, n. 16304/1989). Al riguardo recentemente si è detto che in materia di truffa, il danno deve concretarsi in un detrimento del patrimonio del soggetto passivo, e, se non può essere configurato dalla violazione di una mera aspettativa fondata su una astratta situazione giuridica ipotizzata dalla legge, è integrato quando l'aspettativa sia divenuta concreta e dia luogo al sorgere di un interesse munito di tutela giuridica, avente contenuto patrimoniale; nel caso di specie la sussistenza del danno è stata riconosciuta in presenza di artifizi e raggiri finalizzati a determinare una situazione di inadempimento addebitabile alla persona offesa, così da consentire all'agente di opporre a questa un'eccezione di decadenza per paralizzare l'esercizio di un diritto di opzione attribuito da un contratto (Cass. II, n. 34722/2014). Si è però precisato che in tema di truffa, il danno patrimoniale non è necessariamente costituito dalla perdita economica di un bene da parte del soggetto passivo, ma può consistere anche nel mancato acquisto di un'utilità economica che quest'ultimo si riprometteva di conseguire, dovuto alle false prospettazioni dell'agente dal quale sia stato tratto in errore; nel caso di specie si trattava di una condotta degli imputati che, fornendo false informazioni mirate a proprio vantaggio, avevano indotto una società a rinunciare all'acquisto di un bene, conducendo parallelamente la trattativa per l'acquisto personale del medesimo attraverso schermi societari (Cass. II, n. 48630/2015).

La giurisprudenza ritiene che il danno penalmente rilevante, ai fini dell'integrazione del delitto di truffa, sia anche quello potenziale derivante dall'assunzione di un'obbligazione, non occorrendo un pregiudizio effettivo. In tal senso si è ritenuto che in tema di truffa anche l'indebito ottenimento con generalità false dell'apertura di un conto corrente bancario può costituire ingiusto profitto, con correlativo danno della banca, atteso che la disponibilità di un conto corrente bancario crea nel correntista la possibilità di emettere assegni oltre che di fruire di tutti gli altri servizi bancari connessi all'esistenza del rapporto in questione; vantaggi, questi, a fronte dei quali si pone lo svantaggio, per la banca, di aver instaurato il detto rapporto con soggetto che, per il fatto stesso di aver fatto ricorso ad artifici e raggiri, (nella specie costituiti essenzialmente dall'essersi l'imputato presentato sotto falso nome), non poteva fornire la benché minima garanzia di affidabilità (Cass. II, n. 10474/1997) ed il principio è stato più recentemente ripetuto con riferimento a fattispecie analoga (Cass. II, n. 44379/2010). Nella stessa direzione si era ritenuto configurabile il delitto di truffa (cosiddetta contrattuale) nell'ipotesi in cui si ottenga un finanziamento da un istituto di credito mediante pegno costituito da quadri falsi, anche se il mutuo venga regolarmente estinto. Il danno infatti non è costituito dalla perdita economica subita dal soggetto passivo, ma anche dalla semplice assunzione, altrimenti ingiustificata, di obbligazioni (Cass. I, n. 8958/1987). Il principio è stato poi precisato nel senso che nell'ipotesi di truffa contrattuale il danno può consistere nell'assunzione di obbligazioni che non avrebbe avuto giustificazione nell'effettiva realtà dei fatti se questa non fosse stata dissimulata dalle false prospettazioni del soggetto agente (Cass. V, n. 22003/2013). Cosi in passato si era ritenuto sussistente il delitto di truffa nell'ipotesi in cui un legale ottenga dal suo cliente il rilascio di un mandato ad litem mediante raggiri e cioè facendogli credere, contrariamente al vero, essere imminente l'asportazione dei beni ad opera degli ufficiali giudiziari; nell'occasione la Corte ha affermato il profitto per l'avvocato è connesso con il danno, patito dal cliente medesimo, ed è rappresentato dalla obbligazione, da quest'ultimo assunta, per le spese e le prestazioni professionali (Cass. II, n. 970/1981).

Vanno segnalate anche delle isolate affermazioni di segno contrario in base alle quali per l'integrazione del delitto di truffa occorre un danno effettivo; segnatamente si è detto che il danno e il profitto nei reati contro il patrimonio non possono ritenersi realizzati nel momento in cui si costituisce il rapporto obbligatorio, ma solo quando il detto rapporto produce i suoi effetti concreti e la mera possibilità si risolve in effettivo danno e profitto; nella fattispecie concreta la Corte di Cassazione ha ritenuto che la truffa, commessa acquistando beni in corrispettivo dei quali venivano rilasciate tratte autorizzate, si sia consumata nel momento in cui non erano stati onorati gli impegni alle relative scadenze (Cass. II, n. 9738/1988). Sotto un diverso profilo la Cassazione, dopo avere affermato che il reato di truffa si perfeziona con la produzione di un danno patrimoniale ha escluso l'integrazione del reato in una fattispecie relativa al conseguimento da parte dell'imputato di un'indebita posizione assicurativa ottenuta mediante false dichiarazioni e mediante l'omessa denunzia della cessazione di un'attività commerciale; la Cassazione ha, al riguardo, affermato che l'agente, pur conseguendo un ingiusto profitto — consistente nel beneficio, non patrimoniale, della certezza del futuro soddisfacimento di un bisogno di natura sanitaria o previdenziale — non ha ancora cagionato alcun pregiudizio al patrimonio dell'istituto, che, anzi, con il versamento dei contributi, ne risulta incrementato. Difatti, ha ritenuto la Corte che soltanto quando l'interessato tenti di realizzare uno di quei bisogni presentando domanda per ottenere prestazioni erogate dall'istituto, si verifica un concreto attentato al suo patrimonio ed è, quindi, possibile configurare l'ipotesi, tentata o consumata, del reato di truffa aggravata (Cass. II, n. 6608/1982).

Il danno considerato come elemento costitutivo della incriminazione contenuta nell'art 640 c.p. è quello cagionato immediatamente per effetto della condotta fraudolenta dell'agente, senza che perciò abbia rilevanza la possibilità di risarcirlo, poiché il risarcimento e un rimedio giuridico per eliminare il danno non per considerarlo inesistente e può eventualmente costituire il fondamento dell'attenuante prevista dall'art 62 n. 6 c.p. (Cass. I, n. 2514/1971).

Con specifico riferimento ad una fattispecie di truffa contrattuale, che è quella commessa mediante o in occasione dell'apparente conclusione di un contratto sinallagmatico, la Cassazione ha ritenuto che il danno patrimoniale ricorra anche nel caso in cui non vi sia stato squilibrio fra i valori delle controprestazioni, dovendosi ravvisare gli elementi dell'ingiusto profitto e del danno altrui nel vantaggio e rispettivamente nel pregiudizio derivante alle parti dalla conclusione del contratto di vendita che, senza gli artifici o i raggiri, non sarebbe mai stato concluso. Nel caso di specie l'imputato aveva acquistato della merce consegnando in pagamento un assegno bancario di cui aveva alterato l'importo maggiorandolo; poiché la banca trattaria aveva provveduto al pagamento dell'assegno, l'imputato aveva sostenuto che nessun danno era derivato al venditore, per cui difettava uno degli elementi del delitto di truffa. La Cassazione nell'enunciare il principio di cui in massima ha osservato che il pagamento dell'assegno non ha fatto venir meno il pregiudizio del venditore, il quale se non fosse stato indotto in errore sulla validità dell'assegno, non avrebbe mai concluso il contratto (Cass. V, n. 1747/1977). Il principio è stato recentemente ribadito affermandosi che sussiste il reato di truffa «contrattuale» anche nell'ipotesi in cui venga pagato un giusto corrispettivo a fronte della prestazione truffaldinamente conseguita, posto che l'illecito si realizza per il solo fatto che la parte sia addivenuta alla stipulazione del contratto, che altrimenti non avrebbe stipulato, in ragione degli artifici e dei raggiri posti in essere dall'agente. Si trattava di una fattispecie relativa alla promessa di vendita di un immobile che gli imputati assicuravano essere regolare, omettendo di riferire al contraente che una parte rilevante dello stesso era, invece, abusiva (Cass. II, n. 5801/2013).

Con riguardo alla truffa finalizzata all'assunzione ad un pubblico impiego, le Sezioni Unite hanno affermato che il delitto, che viene a consumazione al momento della costituzione del rapporto di pubblico impiego, sussiste sempre che sia individuabile e dimostrata l'esistenza di un danno immediato ed effettivo, di contenuto economico patrimoniale, che l'amministrazione abbia subito dall'atto ed in funzione della costituzione del rapporto medesimo; quindi, con riferimento al caso specifico, la Cassazione ha precisato che, ai fini della sussistenza del reato, si deve fare riferimento esclusivamente a spese, esborsi ed oneri effettivamente sostenuti dall'amministrazione nella procedura di costituzione del rapporto di impiego, mentre esulano dal concetto di danno rilevante le conseguenze meramente virtuali del reato — come le spese da sostenere per riparare l'errore e rettificare la graduatoria o per indire le nuove procedure di assunzione —, quelle di natura non immediatamente patrimoniale — come l'assunzione di persona sprovvista dei necessari requisiti professionali e l'alterazione della graduatoria del concorso —, ovvero quelle estranee all'ambito di tutela proprio della norma incriminatrice, quale il pregiudizio per gli altri concorrenti (Cass. S.U., n. 1/1998).

Recentemente la Cassazione ha ribadito un indirizzo da tempo consolidato in tema di apprezzabilita' del danno quale evento punibile del delitto di truffa aggravata posto in essere in seguito ad assenza ingiustificata dal posto di lavoro. In particolare, in linea con una precedente decisione (Cass. II, n. 52007/2016), si e' avuto occasione di affermare che la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o sui fogli di presenza costituisce una condotta fraudolenta idonea oggettivamente ad indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza sul luogo di lavoro ed è quindi suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante la timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili (Cass. II, n. 14975/2018).  

E con specifico riferimento a tale ultimo aspetto della apprezzabilità da un punto di vista economico del danno, si è precisato che la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata anche a prescindere dal danno economico corrispondente alla retribuzione erogata per una prestazione lavorativa inferiore a quella dovuta, incidendo sull'organizzazione dell'ente, mediante la arbitraria modifica degli orari prestabiliti di presenza in ufficio, e compromettendo gravemente il rapporto fiduciario che deve legare l'ente al suo dipendente (Cass. II, n. 3262/2019). Secondo la decisione ora citata di tali aspetti del danno il giudice deve tener conto anche al fine di valutare la sussistenza dell'attenuante di cui all'art. 62, comma primo, n. 4 c.p.

 Il principio e’ stato ancora riaffermato (Cass. II, n. 22972/2018,) precisandosi altresì che è esclusa la possibilità di operare, ai fini della rilevanza penale della condotta, una compensazione fra gli emolumenti indebitamente percepiti risultando falsamente presente sul luogo di lavoro ed il lavoro straordinario non pagato.

Il profitto

La dottrina ha spiegato come la truffa rappresenti un reato di profitto evento che non richiede, a differenza dei reati di profitto fine, come il furto, l'effettiva realizzazione del profitto oltre che del danno (Fiandaca-Musco, PS II 1997, 148).

Al riguardo la Cassazione ha, costantemente, affermato che nel reato di truffa, il profitto dell'agente, che non assuma un attuale profilo di patrimonialità, ben può consistere in altra situazione di vantaggio, eventualmente propedeutica al conseguimento di un vantaggio economico, e il danno patrimoniale del soggetto passivo non deve essenzialmente apprezzarsi in termini di diretto collegamento con l'altrui profitto (Cass. VI, n. 8443/1998). Ed in precedenza si era ancora più esplicitamente riconosciuto che nel reato di truffa il profitto ingiusto può essere realizzato dall'agente per il soddisfacimento di un bisogno di qualsiasi genere, non necessariamente di carattere economico (Cass. II, n. 7041/1985).

Inoltre il profitto potrà anche essere solo potenziale e non effettivo; in tale direzione si è ritenuto che in tema di truffa, l'ottenimento con generalità false dell'apertura di un conto corrente bancario può costituire ingiusto profitto con correlativo danno della banca costituito dalla sostanziale assenza della benché minima garanzia di affidabilità del correntista, atteso che la disponibilità di un conto corrente bancario dà la possibilità di emettere assegni oltre che di fruire di tutti gli altri servizi connessi all'esistenza del rapporto in questione (Cass. II, n. 44379/2010). Ancora il profitto, costituente uno degli eventi consumativi del reato, deve ravvisarsi tanto nel caso di effettivo accrescimento di ricchezza economica a favore dell'agente quanto nel caso di mancata diminuzione del suo patrimonio per effetto del godimento di beni, quindi anche senza un aumento esteriore di ricchezza, analogamente al possibile atteggiarsi della deminutio patrimoni in senso economico, subita dal soggetto passivo, come danno emergente o come lucro cessante. Il carattere dell'ingiustizia è attribuito al profitto dal fatto di essere stato conseguito sine jure, sì che l'arricchimento in cui esso si risolve risulta realizzato «sine causa», per l'assenza di un titolo giuridico che lo giustifichi (Cass. VI, n. 470/1991).

Quanto al requisito dell'ingiustizia del profitto, la dottrina ha precisato che esso non può essere inteso come sinonimo di illeceità e come contrasto con una norma giuridica, in quanto ciò comporterebbe un'eccessiva restrizione dell'area di operatività della truffa (Fiandaca-Musco, PS II 1997, 149); piuttosto l'ingiustizia va intesa  come mancanza nell'agente di un valido titolo di legittimazione, cioè come l'acquisizione di una ricchezza senza giusta causa (Antolisei, 302).

Al riguardo la Cassazione ebbe a precisare che non è la destinazione concreta che il soggetto attivo della truffa si propone di dare a ciò che ha ricavato dalla sua azione fraudolenta che caratterizza il profitto ai fini della configurabilità del delitto di truffa; ciò in quanto l'ingiustizia del profitto deve essere valutata in relazione ad un momento che precede l'impiego concreto della cosa ottenuta con inganno, e cioè nel momento in cui il soggetto attivo consegue la disponibilità della cosa altrui ed in relazione a questo momento costituisce ingiusto profitto tutto ciò che all'agente non è dovuto e che lo stesso non può ritenere come a lui dovuto (Cass. VI, n. 2024/1969).

La Cassazione ha recentemente affermato, in linea con la precedente giurisprudenza (Cass. II, n. 52007/2016), che, ai fini della configurabilità del reato di truffa, sussiste l'ingiustizia del profitto nell'ipotesi in cui il lavoratore, attestando, contrariamente al vero, la propria presenza continuativa in servizio, assicuri un orario ridotto e tuttavia percepisca per intero il compenso stabilito forfettariamente per la giornata lavorativa completa, in quanto l'assenza per alcune ore incide comunque sul sinallagma retributivo, provocando un danno economico al datore di lavoro (Cass. II, n. 14975/2018).

La Cassazione ha recentemente stabilito che nei reati in contratto - ove il negozio è valido, ma l'esecuzione è caratterizzata da artifici e raggiri al fine di conseguire una prestazione altrimenti non dovuta - il profitto confiscabile si determina facendo riferimento all'intero importo del corrispettivo versato sussistendo, in tal caso, un'ipotesi di "aliud pro alio" che non consente di calcolare il valore del bene o del servizio differentemente consegnato o assicurato (Cass. II, n. 33092/2018).

Elemento psicologico

La truffa costituisce un delitto doloso ed il dolo assume la forma del dolo generico consistente nella coscienza e volontà di indurre, con artifizi e raggiri, taluno in errore, e determinarlo al compimento di un atto di disposizione patrimoniale cui consegua per lo stesso un danno patrimoniale con conseguente profitto ingiusto per il soggetto agente. Si precisa al riguardo che la previsione del fine di profitto non consente di qualificare la truffa come delitto a dolo specifico, in quanto il profitto rappresenta non una mera finalità dell'azione lesiva, ma l'evento del reato (Fiandaca-Musco, PS II 1997, 151).

La Cassazione ha affermato che, atteso il modo variegato in cui può atteggiarsi in concreto il reato di truffa, anche la stipula di un contratto preliminare di vendita può rappresentare raggiro idoneo ove si accompagni ad un precostituito proposito di non adempiere, sufficiente ad integrare, sul piano del dolo, l'elemento intenzionale del reato, ed allorché il patrimonio del soggetto passivo ne sia rimasto in conseguenza depauperato (Cass. II, n. 12052/1997).

La giurisprudenza, con riguardo all'elemento soggettivo del reato di truffa, ha chiarito che il dolo nel reato di truffa si concreta nella volontarietà del fatto, nella consapevolezza di usare artifici e raggiri e nella intenzione di indurre taluno in errore per procurare a se o ad altri un ingiusto profitto. Il dolo deve essere precedente o concomitante all'azione criminosa (Cass. II, n. 4554/1979). E con specifico riferimento al tema della truffa contrattuale si è detto che l'elemento che imprime al fatto dell'inadempienza il carattere di reato è costituito dal dolo iniziale, che, influendo sulla volontà negoziale di uno dei due contraenti — determinandolo alla stipulazione del contratto in virtù di artifici e raggiri e, quindi, falsandone il processo volitivo — rivela nel contratto la sua intima natura di finalità ingannatoria (Cass. II, n. 5801/2013).

Non potrà avere rilevanza, invece, ai fini dell'integrazione dell'elemento soggettivo del reato, un dolo successivo. Difatti perché possa realizzarsi il delitto di truffa occorre che i singoli elementi costitutivi del reato siano collegati fra loro, tanto sotto l'aspetto oggettivo, quanto nella rappresentazione e volontà dell'agente da un nesso di causa ed effetto. In applicazione di tale principio è stata esclusa la truffa negoziale nel comportamento di una delle parti, che si era impegnata a vendere un negozio e che successivamente non aveva voluto stipulare l'atto definitivo, vendendo, invece, il bene ad una società, sotto il profilo che la costituzione della società era avvenuta molto tempo dopo la firma del preliminare di vendita e non poteva considerarsi maliziosamente preordinata al fine di realizzare il delitto (Cass. II, n. 12722/1978).

Si ritiene generalmente che l'elemento soggettivo del reato possa assumere anche la forma del dolo eventuale; in tal senso si è affermato che l'elemento soggettivo del delitto di truffa è costituito dal dolo generico, diretto o indiretto, avente ad oggetto gli elementi costitutivi del reato (quali l'inganno, il profitto, il danno), anche se preveduti dall'agente come conseguenze possibili, anziché certe della propria condotta, e tuttavia accettati nel loro verificarsi, con conseguente assunzione del relativo rischio, il che rende priva di rilevanza la specifica finalità del comportamento o il motivo che ha spinto l'agente a realizzare l'inganno (Cass. II, n. 24645/2012).

Il fine che l'agente si propone di conseguire mediante il profitto del reato è del tutto irrilevante ai fini della consumazione del reato di truffa (Cass. II, n. 3863/1973).

Consumazione

Il delitto di truffa, secondo la dottrina si consuma nel momento in cui si verifica l'ultimo degli eventi che scaturiscono dalla condotta ingannatrice posta in essere dal soggetto agente, cioè il danno o il profitto, ovvero quando si verificano entrambi gli eventi, laddove gli stessi siano simultanei (Fiandaca-Musco, PS II 1997, 151).

Proprio a questo riguardo la Cassazione ha ritenuto che, in tema di truffa, la realizzazione del profitto e quella del danno debbono essere contestuali, trattandosi di dati tra loro collegati in modo da costituire due aspetti della stessa realtà. Inoltre si è precisato che, perché possano dirsi verificati gli elementi in questione è necessario che il conseguimento del bene economico, o di quanto comunque idoneo ad una valutazione patrimoniale, al pari della relativa perdita da parte del soggetto passivo, siano definitivi; ciò comporta che quando alla condotta fraudolenta non consegua siffatta realizzazione, gli atti compiuti sono idonei ad integrare soltanto la figura del tentativo (Cass. VI, n. 6000/1998). Ma con riguardo al decorso del termine di prescrizione ed in tema di truffa contrattuale, si è detto che, quando il momento perfezionativo del reato intervenga sia già in corso l'esecuzione del contratto e la situazione antigiuridica si protragga nel tempo a causa del perdurare della condotta omissiva dell'agente, vertendosi in tema di reato permanente, la consumazione cessa solo quando sopravviene l'impossibilità di compiere ulteriormente l'attività antigiuridica e solo da tale data comincerà a decorrere il termine di prescrizione (Cass. VI, n. 5579/1998). Il principio ora riportato è stato affermato in relazione ad una fattispecie di omessa comunicazione da parte di un assegnatario di un alloggio Iacp della cessazione delle condizioni legittimanti la permanenza della titolarità del rapporto di assegnazione. Così anche nell'ipotesi di truffa ai danni dello Stato commessa da soggetto che, producendo un falso certificato di laurea, abbia conseguito l'abilitazione all'insegnamento e successivamente l'immissione in ruolo conseguentemente percependo, in costanza del rapporto, la regolare retribuzione, il reato perdura fino a quando non vengono interrotte le riscossioni o per volontà del soggetto attivo o per iniziativa di quello passivo ed il momento consumativo coincide quindi con la cessazione dell'attività illecita; la Cassazione ha, al riguardo, precisato che si tratta, non di reato continuato, o permanente, ovvero ad effetti permanenti, bensì di reato a «consumazione prolungata», in cui l'azione dà luogo ad un evento che continua a prodursi nel tempo con la realizzazione degli illeciti profitti man mano maturati con altrui danno (Cass. II, n. 6360/1994). Il principio è stato costantemente ribadito dalla Corte di Cassazione nel senso che il delitto di truffa, nella forma cosiddetta contrattuale, si consuma non al momento in cui il soggetto passivo, per effetto degli artifici o raggiri, assume l'obbligazione della dazione di un bene economico, ma al momento in cui si realizza il conseguimento del bene da parte dell'agente con la conseguente perdita dello stesso da parte della persona offesa (Cass. II, n. 49932/2012). Nella stessa direzione si è precisato che il delitto di truffa cosiddetta contrattuale a consumazione prolungata si realizza alla scadenza di ogni contratto sottoscritto e, cioè, ogni volta in cui si determinano la perdita economica ed il profitto ingiusto, mentre la condotta dell'agente perdura, ugualmente, fino alla scadenza di ogni singolo contratto (Cass. II, n. 49932/2012). Si è, quindi, ritenuto che la truffa è reato istantaneo e di danno, che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell'autore abbia fatto seguito la deminutio patrimonii del soggetto passivo: ne consegue che, nell'ipotesi di c.d. truffa contrattuale, il reato si consuma non già quando il soggetto passivo assume, per effetto di artifici o raggiri, l'obbligazione della datio di un bene economico, ma nel momento in cui si realizza l'effettivo conseguimento del bene da parte dell'agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato (Cass. II, n. 18859/2012). Applicando tale principio si è affermato che il delitto di truffa, consistito nell'induzione in errore di soci di minoranza di una S.p.A alla vendita a prezzo vile delle azioni deve considerarsi consumato nel momento della vendita medesima, dovendosi considerare «post factum» non punibile la successiva distribuzione di utili, accantonati nel bilancio societario come riserva (Cass. II, n. 20025/2011). Ed ancora si è ritenuto integrato il reato di truffa contrattuale nella condotta del funzionario di banca il quale, minimizzando i rischi e non rivelando con completezza tutti gli elementi dell'operazione finanziaria proposta al cliente, nella specie si trattava della vendita di prodotti finanziari atipici, cosiddetti «swaps», consapevolmente tragga vantaggio per conto dell'istituto di credito, ai fini della vendita medesima, dall'inesperienza e dalla ignoranza in materia del compratore. In una tale fattispecie la Cassazione ha precisato che il reato è a consumazione prolungata, cioè si realizza ogni volta in cui si determina — alla scadenza di ogni contratto sottoscritto dall'investitore — la sua perdita economica con il profitto ingiusto per la banca, mentre la condotta dell'agente perdura, ugualmente, fino alla scadenza di ogni singolo contratto (Cass. II, n. 43347/2009).

In una fattispecie concreta nella quale il reato è stato realizzato a mezzo di artifizi consistiti nell'inviare ad una società, per la quale l'imputato operava in qualità di agente di commercio, falsi ordini da parte di clienti provvedendo poi a ritirare personalmente la merce, omettendone il pagamento, si è affermato che la consumazione del reato coincide con la consegna della merce oggetto dei falsi ordini di acquisto; con ciò ritenendosi irrilevante, ai fini della consumazione del reato, il successivo invio da parte dell'imputato alla società di assegni di conto corrente risultati privi di provvista (Cass. II, n. 13717/2023).

La truffa contrattuale può configurarsi anche nella fase di esecuzione del contratto, potendo la condotta illecita dispiegarsi durante tutto il lasso temporale di efficacia del contratto; ciò risulta particolarmente significativo nei contratti cosiddetti di lungo termine, nei quali vi è una fisiologica sfasatura fra il momento di conclusione dell'accordo e l'esaurimento dei suoi effetti; in queste particolari fattispecie la Cassazione ha ritenuto che alla dilatazione della fase esecutiva del contratto corrisponde lo spostamento del momento consumativo della truffa al compimento dell'ultimo atto dannoso, riconoscendosi così rilevanza a tutte le condotte fraudolente che lo precedono e che scaturiscono dalla stessa causa (Cass. II, n. 5046/2021).

La Cassazione ha recentemente stabilito che, nell'ipotesi del contratto preliminare di vendita, quand'anche il promissario acquirente abbia versato l'intero prezzo pattuito, il reato si consuma solo nel momento in cui si sia prodotto l'effettivo pregiudizio per il raggirato e, cioè, quando questi abbia perso definitivamente il bene non potendo più esercitare su di esso alcuna azione giudiziale (Cass. II, n. 23080/2018).

Con specifico riferimento a fattispecie nelle quali la truffa ha ad oggetto l'assunzione di obbligazioni periodiche, si è affermato che il reato si consuma non nel momento in cui il soggetto passivo assume per effetto degli artifici e raggiri l'obbligazione, bensì quando l'agente consegue la disponibilità concreta del bene con l'effettivo altrui danno consistente nella perdita del bene stesso da parte del soggetto passivo. A ciò consegue che quando l'obbligazione assunta dal soggetto passivo viene adempiuta in momenti successivi, a scadenze periodiche, non è configurabile un unico delitto di truffa avente ad oggetto l'obbligazione complessiva, bensì una pluralità di eventi dannosi e, quindi, un delitto continuato, rispetto al quale le singole riscossioni costituiscono altrettanti atti esecutivi di un medesimo disegno criminoso; atti nei quali l'iniziale proposito fraudolento si riproduce attraverso il silenzio sulla illiceità della situazione (Cass. II, n. 7239/1992). Il principio è stato poi bene chiarito dalle Sezioni Unite nel senso che, poiché la truffa è reato istantaneo e di danno, che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell'autore abbia fatto seguito la deminutio patrimonii del soggetto passivo, nell'ipotesi di truffa contrattuale il reato si consuma non già quando il soggetto passivo assume, per effetto di artifici o raggiri, l'obbligazione della datio di un bene economico, ma nel momento in cui si realizza l'effettivo conseguimento del bene da parte dell'agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato. Ne consegue che, qualora l'oggetto materiale del reato sia costituito da titoli di credito, il momento della sua consumazione è quello dell'acquisizione da parte dell'autore del reato, della relativa valuta, attraverso la loro riscossione o utilizzazione, poiché solo per mezzo di queste si concreta il vantaggio patrimoniale dell'agente e nel contempo diviene definitiva la potenziale lesione del patrimonio della parte offesa (Cass. S.U., n. 18/2000).

Sempre in tema di truffa avente ad oggetto assegni bancari di conto corrente, la Cassazione ha ritenuto che si consuma nel luogo in cui ha sede la banca trattaria, o filiale di essa presso cui è acceso il conto, in quanto è in tale luogo che avviene l'effettiva perdita patrimoniale del traente leso mediante l'imputazione a debito nel conto corrente della provvista del titolo (Cass. II, n. 45836/2009). Quanto invece avente ad oggetto assegni circolari, il reato si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica abbiano fatto seguito la deminutio patrimonii del soggetto passivo e la locupletatio dell'agente, e cioè quando si sia verificata l'acquisizione da parte dell'autore del reato della relativa valuta, attraverso la loro riscossione o utilizzazione, essendo irrilevante, ai fini del vantaggio patrimoniale dell'agente, il momento della consegna dei titoli da parte del deceptus (Cass. II, n. 5428/2010).

Con specifico riferimento all'individuazione della natura del reato di truffa commesso dal "falso" operatore finanziario, e cioè dall'intermediario che senza autorizzazione percepisca denaro da privati ai fini dell'investimento in operazioni di trading mobiliare, la Cassazione ha precisato che deve distinguersi la tipologia dei contratti stipulati dalle parti; ove le stesse abbiano concluso contratti di mandato singoli ed in forza dei quali a fronte di un versamento di somme di denaro l'autore del reato effettua l'investimento, si è in presenza di truffa di natura istantanea consumata al momento della diminuzione patrimoniale e dell'ingiustificato arricchimento; ove invece a fronte di un accordo iniziale si preveda che il cliente tratto in inganno effettui periodici versamenti di somme scaglionate nel tempo (c.d. piani di accumulo) potrà ritenersi l'ipotesi della truffa a consumazione prolungata (Cass. II, n. 189/2020).

Quanto alla truffa il cui profitto è conseguito mediante accredito su carta di pagamento ricaricabile (nella specie «postepay»), si è ritenuto che il tempo e il luogo di consumazione del reato siano quelli in cui la persona offesa ha proceduto al versamento del denaro sulla carta, poiché tale operazione ha realizzato contestualmente sia l'effettivo conseguimento del bene da parte dell'agente, che ottiene l'immediata disponibilità della somma versata, e non un mero diritto di credito, sia la definitiva perdita dello stesso bene da parte della vittima (Cass. I, n. 25230/2015).

Nell'ipotesi, invece, di truffa contrattuale realizzata attraverso la vendita di beni ed il conseguente pagamento "on line", il reato si consuma nel luogo ove l'agente consegue l'ingiusto profitto e non già in quello in cui viene data la disposizione per il pagamento da parte della persona offesa (Cass. II, n. 7749/2014). A questo riguardo si è recentemente precisato che in tema di truffa "on line", il luogo da considerare ai fini dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 5 c.p., è quello in cui si trova l'autore del fatto nel momento in cui attiva lo strumento informatico e non il luogo virtuale della rete (Cass. II, n. 40045/2018).

  Anche il reato di truffa in danno degli enti previdenziali per ricezione di indebite prestazioni di emolumenti e previdenze maturate periodicamente è normalmente un reato a consumazione prolungata, poiché l'agente, sin dall'inizio, ha la volontà di realizzare un evento destinato a protrarsi nel tempo; tuttavia, in caso di svolgimento da parte di un medico di attività professionale privata senza informare e senza farsi autorizzare dall'ente di appartenenza, in violazione della normativa in tema di c.d. intra moenia, la condotta ingannatoria riveste carattere meramente omissivo, e si ripete in occasione di ogni percezione dello stipendio ovvero di illecito utilizzo di personale o di risorse dell'Ente (Cass. II, n. 47247/2015).

Nel delitto di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche il momento consumativo del delitto coincide con quello della cessazione dei pagamenti, che segna anche la fine dell'aggravamento del danno, in ragione della natura di reato a consumazione prolungata (Cass. II, n. 26256/2007).

Con riferimento a fattispecie di frode comunitaria, le Sezioni Unite ha precisato che la circostanza che secondo la normativa Cee-Aima il diritto al premio spettante agli utilizzatori acquirenti di tabacco direttamente dai produttori, per l'attività di trasformazione del prodotto greggio destinata all'esportazione, maturi quando il tabacco esce dal magazzino del trasformatore munito di tutta la documentazione degli organi di controllo Aima non esclude che il delitto di truffa (o quello ex art. 2 l. n. 898/1986) si consuma solo quando il premio viene effettivamente corrisposto, potendosi, prima di tale momento, parlare soltanto di tentativo (Cass. S.U., n. 2780/1996). Il principio è stato affermato con riferimento a una fattispecie di falso ex art. 490 c.p. strumentale alla truffa, in cui la difesa, al fine di sostenere la corrispondenza al vero delle attestazioni del controllore Aima, aveva dedotto che, poiché la normativa Cee-Aima stabilisce che il premio matura in un momento precedente i controlli doganali, e precisamente quando il tabacco esce dal magazzino con tutta la documentazione di riscontro redatta e vidimata dagli organi di controllo dell'Aima, i controlli doganali avverrebbero post delictum, e cioè dopo la consumazione del delitto di truffa.

Nella truffa in danno di ente pubblico realizzata mediante iscrizione in appositi elenchi ottenuta fraudolentemente con conseguente erogazione di somme di danaro corrisposte in più riprese, il reato si consuma non già con l'iscrizione predetta, ma con la riscossione della prima erogazione di danaro (Cass. I, n. 703/1989).

Nel caso di cambiale carpita con inganno, il delitto di truffa si perfeziona con il pagamento della stessa e non con la semplice consegna del titolo, presupponendo il delitto l'effettivo conseguimento materiale del bene economico e la sua correlativa perdita in modo definitivo, rispettivamente da parte dell'agente e dell'offeso (Cass. II, n. 40582/2014); nel caso concreto il momento consumativo del reato è stato individuato nella scadenza dell'ultima cambiale non onorata.

Nel delitto di truffa commesso a mezzo dei cosiddetti vaglia cambiari veloci, il luogo di consumazione del reato deve essere individuato in quello in cui viene compiuta l'operazione di disposizione patrimoniale, in quanto è in tale luogo che si verifica la deminutio patrimonii del soggetto passivo, in ragione delle particolari modalità di negoziazione dei cosiddetti vaglia cambiari veloci. Infatti, la perdita di possesso del denaro da parte del mittente e la conseguente immissione in possesso da parte  del destinatario avvengono nel momento in cui il primo, compilato il modulo, comunica al secondo la parola chiave necessaria per ottenere il pagamento presso qualsiasi ufficio postale. Pertanto, una volta che è stata disposta l'operazione ed è trascorso il brevissimo tempo in cui è consentito al mittente di revocarla, il destinatario ha contestualmente acquisito in modo certo il relativo diritto, attenendo, dunque, il successivo luogo di monetizzazione dell'importo ad una mera modalità esecutiva dell'illecito truffaldino (Cass. II, n. 14317/2018). 

Se il profitto è conseguito mediante il versamento di somme a soggetto incaricato dal destinatario di ricevere la prestazione in nome proprio, ma per conto del destinatario medesimo (cd. "adiectus solutionis causa"), il reato si consuma nel tempo e nel luogo in cui detto soggetto riscuote il pagamento (Cass. I, n. 31596/2018).

Si è ritenuto integrato  il delitto di truffa aggravata, in forma consumata e non tentata, nella condotta di colui che, attraverso artifici e raggiri, ottenga il rilascio di Titoli di Efficienza Energetica (TEE) o "certificati bianchi", che attestano il conseguimento di risparmi negli usi finali di energia attraverso interventi e progetti di incremento dell'efficienza energetica e incorporano il diritto a ottenere un contributo pubblico, in quanto, per la natura di titoli dal valore economico definito nelle sessioni di scambio sul mercato e immediatamente negoziabili dal possessore, senza attenderne la monetizzazione, il reato si consuma al momento della loro emissione, che realizza il profitto ed il conseguente evento di danno (Cass.II, n. 11136/2020).

Tentativo

Ai fini della sussistenza del delitto tentato, occorre che, sulla base di una valutazione ex ante, gli atti compiuti, anche se meramente preparatori o solo parziali, siano idonei ed univoci, ossia diretti in modo non equivoco a causare l'evento lesivo ovvero a realizzare la fattispecie prevista dalla norma incriminatrice, rivelando così l'intenzione dell'agente di commettere lo specifico delitto. L'idoneità degli atti non è peraltro sinonimo della loro sufficienza causale, bensì esprime l'esigenza che l'atto abbia l'oggettiva attitudine ad inserirsi, quale condizione necessaria, nella sequenza causale ed operativa che conduce alla consumazione del delitto.

Ne consegue che, nell'ipotesi di tentata truffa ai danni della pubblica amministrazione, è irrilevante la circostanza che gli artifici e raggiri siano posti in essere all'interno di una fase procedimentale non conclusa, ad esempio perché ancora mancante degli atti di controllo necessari a completare lo specifico procedimento, mentre è sufficiente che l'azione, dotata dei caratteri propri dell'artificio o raggiro — ossia astrattamente capace di indurre in errore la pubblica amministrazione — sia oggettivamente idonea ad attivare l'iter procedimentale volto a conseguire il vantaggio patrimoniale indebito (Cass. II, n. 40343/2003). Nel caso di specie è stata ritenuta un idoneo tentativo di truffa la semplice presentazione dei fogli di viaggio e delle ricevute delle spese per i pasti da parte del personale dipendente della Polizia di Stato, volta ad ottenere il rimborso delle spese di trasferta, alla quale non aveva fatto seguito la relazione favorevole del capo pattuglia. Nella stessa direzione si è detto che l'idoneità degli artifici e raggiri in danno di una P.A. non è esclusa dal fatto che siano compiuti all'interno di una fase procedimentale che non si sia ancora conclusa e che implichi il successivo intervento di atti di controllo, perché l'idoneità postula che i comportamenti truffaldini siano astrattamente capaci di trarre in inganno e oggettivamente adeguati all'attivazione del procedimento in vista di un ingiusto vantaggio (Cass. II, n. 20975/2008). Nel caso di specie è stato ravvisato il tentativo di truffa nella condotta di un soggetto che aveva preso parte ad una gara, indetta da un'amministrazione comunale per l'affidamento di un incarico di progettazione, producendo falsi titoli professionali.

Quindi anche un atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione ex ante e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto (Cass. II, n. 41649/2010). In applicazione di tale principio è stata negata l'idoneità ad integrare gli estremi del tentativo punibile di truffa ai danni dello Stato della mera richiesta avanzata da funzionari del Ministero del Lavoro in missione ad un albergatore di rilasciare loro ricevute fiscali indicanti costi superiori a quelli sostenuti per l'alloggio e i pasti consumati.

Si è ritenuto che non integra il delitto di tentata truffa la condotta costituita dalla produzione di falsa documentazione a sostegno di un ricorso al prefetto avverso l'ordinanza-ingiunzione di pagamento di una sanzione amministrativa per violazione delle norme sulla circolazione stradale, perché l'eventuale decisione favorevole non dà luogo ad un atto di disposizione patrimoniale (Cass. II, n. 17472/2009). Nella stessa direzione si è, recentemente, espressa la Cassazione, affermando che non integra il delitto di truffa la condotta di chi allega false dichiarazioni di invalidi al ricorso al Prefetto avverso verbali di accertamento per violazioni al Codice della Strada, nel quale prospetta falsamente di aver trasportato persone titolari di contrassegno per disabili, in quanto l'eventuale decisione favorevole non dà luogo ad un atto di disposizione patrimoniale (Cass. II, n. 9951/2015). A tale indirizzo giurisprudenziale si è contrapposta altra decisione della Cassazione che ha ritenuto integrato il delitto di tentata truffa nella condotta di un maresciallo dei Carabinieri che — per conseguire l'ingiusto profitto corrispondente alla mancata esazione della sanzione amministrativa per una contravvenzione stradale, conseguente ad un'infrazione da lui commessa — rappresenti falsamente di esser stato autorizzato, nell'occasione, all'uso della vettura per il compimento di attività istituzionali (Cass. V, n. 43634/2015).

E con riferimento all'idoneità degli artifizi e raggiri, la Cassazione ha affermato che la stessa non è esclusa dal fatto che per svelarli sia stato necessario il successivo intervento di atti di controllo, atteso che l'idoneità postula che i comportamenti truffaldini siano astrattamente capaci, con valutazione ex ante, di causare l'evento (Cass. II, n. 40624/2012): cosi nella fattispecie relativa all'avvenuta falsificazione di un biglietto «gratta e vinci» con successiva presentazione dello stesso all'Autorità competente ad erogare il premio, è stata esclusa la grossolanità del falso, ritenendola incompatibile con le sofisticate verifiche indispensabili ad accertare i fatti).

Integra il delitto di tentata truffa la condotta posta in essere dal soggetto che abbia formulato sotto falso nome una proposta contrattuale di acquisto di un bene, accompagnandola con una conferma scritta dell'ordinativo trasmessa via fax al titolare di un esercizio commerciale, il quale l'abbia definitivamente respinta solo dopo essere stato informato dalle forze di polizia dell'esistenza di una condotta truffaldina ordita ai suoi danni (Cass. II, n. 41405/2010). Così nella stessa direzione si è detto che sussiste il tentativo quando la condotta tipica univocamente diretta alla realizzazione dell'evento sia ostacolata da un fatto esterno, che si verifica, come nella specie in tema di truffa, quando vi sia l'allertamento delle forze di polizia da parte della persona offesa a seguire le trattative e ad intervenire per impedire che il delitto si perfezioni o che la realizzazione del profitto si consolidi con l'acquisizione o la possibilità d'uso autonomo del bene oggetto dell'atto di disposizione patrimoniale (Cass. fer., n. 32522/2010).

Si è ritenuto ancora che, in tema di truffa, integra recesso attivo, e non desistenza, l'adoperarsi fattivamente dell'autore degli artifici e raggiri affinché il destinatario degli stessi non cada in errore (Cass. II n. 2772/2009); nel caso di specie relativo al reato commesso da un dipendente ai danni dell'ente pubblico attraverso la falsa attestazione dell'orario lavorativo sul foglio presenze, la Corte ha ritenuto che la successiva correzione inoltrata dal soggetto all'ente medesimo circa la durata effettiva dell'attività prestata integrasse recesso attivo e non desistenza, posto che l'azione doveva considerarsi ormai posta in essere.

La Cassazione ha, costantemente, affermato che la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che questi ultimi siano economicamente apprezzabili (Cass. V, n. 8426/2013). Nel caso concreto la Corte ha affermato che anche una indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile per l'amministrazione pubblica.

La simulazione dell'esistenza di un rapporto di lavoro integra il delitto di tentata truffa, in quanto costituisce atto idoneo diretto in modo non equivoco ad indurre in errore, con l'artificio delle false dichiarazioni, gli enti previdenziali ed assistenziali allo scopo di procurarsi l'ingiusto profitto delle prestazioni da questi erogate. Ed invero la falsa rappresentazione della costituzione di un rapporto di lavoro dipendente — presupposto indispensabile per il godimento delle prestazioni della previdenza ed assistenza sociale — effettuata mediante comunicazione all'ufficio competente, presenta all'evidenza l'attitudine a far conseguire dette prestazioni e quindi a determinare l'evento del reato di truffa, sicché deve considerarsi integrato il requisito dell'idoneità degli atti; e poiché, non potendo essere fine a sé stessa, la simulazione non può avere altro scopo che quello fraudolento, secondo quanto impone di ritenere la comune esperienza, risulta integrato anche il requisito dell'univocità degli atti, che sono tali quando, considerati in sé medesimi, per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura ed essenza rivelino, secondo l'id quod plerunque accidit, l'intenzione dell'agente (Cass. II, n. 495/1998). Nel caso concreto è stata annullata dalla Corte di Cassazione una sentenza di merito nella quale si era escluso, in mancanza di domande da parte dell'interessato dirette ad ottenere una qualche prestazione previdenziale, la sussistenza del tentativo ritenendo la falsa prospettazione della costituzione di un rapporto di lavoro atto meramente preparatorio.

Concorso di persone

In una fattispecie concreta di concorso nel reato di truffa in materia di compravendita di un immobile che, contrariamente al vero, era stato dichiarato libero da ipoteche, la Cassazione ha affermato che in tema di causalità, l'obbligo giuridico rilevante a norma dell'art. 40 può nascere da qualsiasi ramo del diritto e, quindi, anche dal diritto privato. Ed appunto l'art. 1759 c.c. postula un obbligo giuridico per il mediatore il quale, se è libero di iniziare o meno la sua attività, deve però osservare determinate regole tra cui quella della comunicazione alle parti in occasione della stipula del contratto di tutte quelle notizie che attengono «alla valutazione e alla sicurezza dell'affare» e che devono essere rese note al fine di consentire alle parti stesse di determinarsi con la necessaria consapevolezza. Il silenzio maliziosamente tenuto dal mediatore, che assuma efficienza causale nel processo di formazione della volontà della parte, indotta all'acquisto o comunque rassicurata dalla sua convenienza grazie a tale comportamento omissivo, integra la condotta di consapevole partecipazione al delitto di truffa (Cass. II, n. 5541/1989).

L'impiegato dell'ispettorato provinciale per la agricoltura che attesti falsamente che un soggetto ha la qualità di affittuario, cioè di imprenditore agricolo, mentre costui in realtà è bracciante e colono, concorre, a titolo privato, nel tentativo di truffa posto in essere da quest'ultimo, al fine di conseguire, in base alla l. 27 dicembre 1977, n. 984, un contributo riservato agli imprenditori (Cass. II, n. 3645/1989).

Si è ritenuto che, in caso di concorso di persone nel reato, il semplice abbandono o l'interruzione dell'azione criminosa da parte di uno dei compartecipi non è sufficiente a integrare la desistenza, ma è necessario un quid pluris che consiste nell'annullamento del contributo dato alla realizzazione collettiva, in modo che esso non possa essere più efficace per la prosecuzione del reato, con eliminazione delle conseguenze fino a quel momento prodotte. Così in un caso di truffa in cui la vittima era stata indotta da parte di più concorrenti a versare, in tempi diversi, somme di denaro carpite con inganno e nella quale un concorrente, pur non partecipando più materialmente alla ricezione di dette somme, non aveva svelato alla vittima il meccanismo truffaldino, permettendo che molte altre dazioni avvenissero a mano dei correi è stata da parte del suddetto concorrente l'ipotesi della stessa desistenza (Cass. VI, n. 6619/1999).

Continuazione

La Cassazione ha affermato che quando l'obbligazione assunta dal soggetto passivo viene adempiuta in momenti successivi, a scadenze periodiche, non è configurabile un unico delitto di truffa avente ad oggetto l'obbligazione complessiva, bensì una pluralità di eventi dannosi e, quindi, un delitto continuato, rispetto al quale le singole riscossioni costituiscono altrettanti atti esecutivi di un medesimo disegno criminoso; atti nei quali l'iniziale proposito fraudolento si riproduce attraverso il silenzio sulla illiceità della situazione. Ciò, in quanto Il reato di truffa si consuma non nel momento in cui il soggetto passivo (nel caso di specie: un ente pubblico) assume per effetto degli artifici e raggiri l'obbligazione, bensì quando l'agente consegue la disponibilità concreta del bene con l'effettivo altrui danno consistente nella perdita del bene stesso da parte del soggetto passivo (Cass. V, n. 7239/1992).

Il d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, dispone che per ottenere gli assegni familiari gli aventi diritto sono tenuti a presentare al datore di lavoro un documento dal quale risulti la situazione della loro famiglia, ed a denunciare successivamente ogni variazione del proprio stato di famiglia ed ogni circostanza che possa influire sul diritto agli assegni, assegni che sono corrisposti a cura del datore di lavoro alla fine di ogni periodo per il pagamento della retribuzione. La corresponsione degli assegni ai dipendenti che vengono retribuiti con stipendio mensile, avviene quindi ogni mese in base al calcolo effettuato tenendo conto della documentazione inizialmente presentata e delle denunce di variazioni e qualora la documentazione sia insincera e costituisca un raggiro volto a trarre in inganno il datore di lavoro sulla sussistenza o sulla misura del diritto agli assegni familiari, si realizza una fattispecie caratterizzata da ciò che il datore di lavoro, indotto inizialmente in errore, effettua in tempi successivi piu prestazioni tra loro distinte, ciascuna delle quali si risolve in un danno per chi la effettua ed in un profitto obiettivamente illecito per chi la riceve. E poiché il momento consumativo del delitto di truffa coincide con quello in cui si realizza l'evento, vale a dire il conseguimento del profitto con danno altrui, si hanno altrettanti delitti di truffa quante sono le prestazioni anche se, sussistendo nell'agente unicità di intento criminoso, le diverse truffe vengono a costituire un unico reato continuato (Cass. V, n. 476/1971).

Circostanze aggravanti

Fatto commesso ai danni dello Stato o di altro ente pubblico

La Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 640 comma 2 n. 1, in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui prevede un regime sanzionatorio più grave per l'ipotesi in cui il reato venga commesso in pregiudizio di persone giuridiche pubbliche. Si è ritenuto che la diversità di trattamento tra colui che commette truffa in danno di un privato e chi pone in essere il delitto nei confronti dello Stato (o di altro ente pubblico) trova giustificazione sia nella minore difesa che quest'ultimo offre a causa della sua complessità e dell'eterogeneità delle sue strutture burocratiche, sia perché viene leso un patrimonio appartenente alla pubblica amministrazione (Cass. VI, n. 1239/1984). E già in precedenza si era affermato che la maggior tutela conferita dal legislatore allo Stato ed agli altri enti pubblici con la più grave sanzione prevista in caso di truffa in loro danno dall'art. 640 comma 2 n. 1 trova la sua giustificazione nei fini da questi perseguiti, che sono fini pubblicistici, che trascendono i meri interessi privati (Cass. VI, n. 9014/1982). Successivamente anche la Corte Costituzionale, nel ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 640 comma 2 in riferimento all'art. 3 Cost., ha avuto occasione di affermare che la natura privatistica che caratterizza l'attività del credito non può ritenersi in sé idonea ad escludere la qualità pubblica dell'ente che la esercita, ove tale qualità risalti, come nella specie, ai fini di una più penetrante tutela che l'ordinamento appresta quando gli interessi generali di cui l'ente è portatore sono offesi dal reato. La disparità di trattamento sanzionatorio tra l'operatore bancario che risponde di truffa ai danni dell'istituto di credito privato (art. 640, comma 1) e quello che ha commesso la stessa condotta ai danni dell'ente creditizio pubblico, sanzionata più severamente a norma dell'art. 640, comma 2, trova quindi giustificazione nella diversa qualità non dei soggetti attivi, ma delle parti offese dal delitto di truffa (Corte cost., ord. n. 135/1993).

Infatti, anche nella ipotesi in cui il reato sia commesso da un «estraneo» all'azienda, identico permane il trattamento sanzionatorio.

Trattasi di una circostanza aggravante ad effetto speciale del delitto di truffa e non di un'ipotesi autonoma di reato (Cass. II, n. 587/1970). La giurisprudenza ha costantemente ritenuto che sussiste la circostanza aggravante di cui al comma 2 n. 1) dell'art. 640 ogni qual volta il danno della truffa ricada su un ente pubblico. È pertanto irrilevante che gli artifizi ed i raggiri abbiano tratto in inganno un soggetto non legato all'ente predetto da un rapporto organico. Si è ritenuto, quindi, configurabile il reato de quo nel comportamento di colui che, mediante ricette, falsificate abbia indotto in errore i farmacisti ottenendo la erogazione di medicinali non dovuti, il cui costo, nell'attuale regime di «assistenza diretta» grava direttamente sull'istituto mutualistico (Cass. II, n. 3636/1989). E nello stesso senso si è detto che, in tema di truffa, sussiste l'aggravante dell'aver commesso il fatto in danno dello Stato o di altro ente pubblico, di cui all'art. 640 cpv. n. 1, anche se il danno sia ricaduto, in concreto, su di una compagnia di assicurazioni, qualora il raggiro sia stato posto in essere direttamente nei confronti dell'ente pubblico, con la conseguenza che questo sia stato indotto in errore ed abbia subito un danno con l'esborso di un acconto corrisposto per un fatto illecito e senza trovare riscontro nella realizzazione di precise finalità pubbliche, cui fosse collegata la somma erogata (Cass. II, n. 1050/1992).

In tema di truffa aggravata ai danni dello Stato, si è affermato che costituisce atto di disposizione idoneo ad integrare il reato, la mancata esazione del credito tributario determinata dagli artifici e raggiri posti in essere dall'agente. Nel caso concreto si trattava di una fattispecie relativa all'immatricolazione in Italia di veicoli importati dall'estero, effettuata mediante la presentazione di documenti materialmente falsi comprovanti l'avvenuto pagamento dell'imposta, ovvero di dichiarazioni ideologicamente false attestanti il fatto che l'Iva non era dovuta, in quanto già precedentemente versata (Cass. II, n. 39895/2015). Recentemente si è stabilito che nel caso in cui la condotta consista in ripetute assenze ingiustificate dell'impiegato pubblico dal luogo di lavoro, occorre che queste determinino un danno economicamente apprezzabile, sicché è onere del giudice di merito considerare a tal fine anche l'eventuale ricorrenza di decurtazioni stipendiali conseguenti proprio alla mancata realizzazione della prestazione (Cass. II, n. 14975/2018).

Si è precisato che, ai fini dell'applicazione della circostanza aggravante di cui all'art. 640, comma 2, n. 1, anche gli enti a formale struttura privatistica devono qualificarsi come «pubblici», in presenza dei seguenti requisiti: a) la personalità giuridica; b) l'istituzione dell'ente per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale; c) il finanziamento della attività in modo maggioritario da parte dello Stato, degli enti pubblici territoriali o di altri organismi di diritto pubblico, oppure la sottoposizione della gestione al controllo di questi ultimi o la designazione da parte dello Stato, degli enti pubblici territoriali o di altri organismi di diritto pubblico, di più della metà dei membri dell'organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza (Cass. II, n. 28085/2015). In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto la natura di ente pubblico di una azienda esercente il servizio di trasporto urbano, ritenuta in rapporto di dipendenza dal relativo comune. In passato però si era ritenuto che il delitto di truffa in danno delle Ferrovie dello Stato è punibile a querela, non potendosi configurare, in ragione della natura privatistica (società per azioni) del soggetto passivo, l'aggravante di cui all'art. 640 cpv. n. 1 (Cass. II, n. 5028/1999). Ed analogamente si era affermato che, con la trasformazione dell'ente pubblico economico «Poste Italiane» in società per azioni, non è più configurabile l'aggravante inerente alla natura pubblica della persona offesa dal reato di truffa, in quanto la natura eventualmente pubblica del servizio prestato assume rilievo esclusivamente ai fini della qualifica dei soggetti agenti, secondo la concezione funzionale oggettiva accolta dagli artt. 357 e 358 (Cass. II, n. 8797/2003). Ma proprio con riferimento a Poste Italiane recentemente la Cassazione ha affermato che, ai fini dell'applicazione della circostanza aggravante di cui all'art. 640, comma 2, n. 1, devono ritenersi rientranti nella categoria degli enti pubblici tutti gli enti, anche a formale struttura privatistica, aventi personalità giuridica, che svolgano funzioni strumentali al perseguimento di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, posti in situazioni di stretta dipendenza nei confronti dello Stato, degli enti pubblici territoriali o di altri organismi di diritto pubblico. Nel caso di specie, appunto, è stata riconosciuta la qualifica di ente pubblico a «Poste Italiane s.p.a.», osservandosi tra l'altro che i servizi finanziari e commerciali forniti dalla società — quali la gestione del risparmio, delle carte prepagate, ecc. — risultano meramente complementari rispetto alla originaria finalità pubblica, tuttora perseguita in via prevalente, relativa all'espletamento del servizio di spedizione e di recapito della corrispondenza (Cass. II, n. 38614/2014). Recentemente la Cassazione, nel ribadire i requisiti sopra riportati che impongono di considerare come pubblici anche enti a formale struttura privatistica, ha riconosciuto la natura di ente pubblico all’Unirelab in ragione delle funzioni svolte attinenti al controllo pubblico dei concorsi e delle manifestazioni ippiche attraverso attività di analisi antidoping (Cass. II, n. 2984/2020).

Il delitto, nella forma aggravata, è stato ritenuto configurabile anche quando il soggetto passivo del raggiro è diverso dal soggetto passivo del danno (nella specie lo Stato) ed in difetto di contatti diretti tra il truffatore e il truffato, sempre che sussista un nesso di causalità tra i raggiri o artifizi posti in essere per indurre in errore il terzo, il profitto tratto dal truffatore ed il danno patrimoniale patito dal truffato (Cass. II, n. 39958/2018) ; nel caso di specie si trattava di una persona che, esibendo documenti falsi, si era presentato presso un ufficio postale per riscuotere un rimborso IVA spettante ad altri.  

Si è ritenuto che ricorre l'aggravante di cui all'art. 640, comma 2, n. 1, qualora il fatto sia commesso in danno della Agenzia delle Entrate, i cui atti relativi alla gestione dei tributi erariali, a differenza delle agenzie non fiscali, rientrano tra quelli tipici dell'ordinamento statale, con conseguente configurazione pubblicistica dell'ente.

Quanto alle banche ed agli istituti di credito o risparmio, la Cassazione, a suo tempo, ebbe a stabile che, ai fini della configurazione della truffa in danno di un ente pubblico, prevista dall'art. 640, comma 2, con particolare riferimento all'istituto di credito, non assume valore dirimente la qualificazione dell'azienda creditizia come ente pubblico, in conseguenza di specifico riconoscimento formale in sede di classificazione giuridica stabilita dalla legge; occorre, invece, stabilire in concreto se l'ente adempie una funzione pubblicistica nella raccolta e nella gestione del risparmio, con riguardo alla oggettività del fatto delittuoso che integra la truffa. Ciò in quanto in alcuni settori, per ragioni preminenti di ordine politico-economico, il legislatore riconosce all'impresa bancaria, che svolge — quale ente pubblico — una attività di carattere speciale, una funzione di tutela di interessi generali che meritano di essere privilegiati ed incrementati con determinate iniziative (Cass. II, n. 2841/1991).

In tema di truffa in danno dell'Enel, per effetto della trasformazione di questo da ente pubblico in società per azioni ad opera dell'art. 15 d.l. 11 luglio 1992, n. 333, conv. in l. 8 agosto 1992, n. 359, non è più configurabile l'aggravante inerente alla natura pubblica della persona offesa dal reato, con la conseguenza che non può procedersi d'ufficio ma a querela di parte (Cass. V, n. 38701/2005).

La Cassazione ha affermato che, ai fini del reato di truffa aggravata ai sensi dell'art. 640 cpv. 1, è insufficiente un qualsiasi mendace comportamento o alterazione della realtà da parte dell'agente, mentre è necessario la sussistenza di un quid pluris e cioè di una ulteriore attività, di un particolare accorgimento o di una speciale astuzia, idonei ad eludere le comuni e normali possibilità di controllo da parte dell'ente pubblico. Ne consegue che non commette il reato de quo colui il quale, iscrivendosi a due cooperative artigiane, contravvenendo così a quanto consentito dall'art. 8 del d.m. 12 maggio 1959, chieda ed ottenga due successivi mutui agevolati con relativo ingiusto profitto per sé e per le cooperative in danno dell'ente regione cui si è rivolto, essendo insufficiente a tal fine sotto il profilo oggettivo la duplice iscrizione (peraltro non contemporanea ma successiva) né sotto quello soggettivo la mendace dichiarazione dell'imputato di essere in possesso dei requisiti richiesti di cui all'art. 8 del citato decreto ministeriale (Cass. II, n. 9331/1989).

Integra gli estremi del reato di truffa aggravata ai danni di un ente pubblico la clonazione del numero di utenza telefonica dell'ente territoriale comunale, essendo quest'ultimo l'unico titolare dell'interesse patrimoniale protetto dalla norma direttamente leso dagli artifizi e raggiri posti in essere nella commissione del reato (Cass. II, n. 11839/2004). Nel caso di specie la Cassazione ha escluso che la società concessionaria del servizio telefonico potesse essere qualificata come persona offesa dal reato, riconoscendo alla stessa, in presenza delle condizioni di legge, la qualità di persona danneggiata dal reato; è stata pertanto ritenuta irrilevante, ai fini della procedibilità d'ufficio, l'intervenuta privatizzazione della società concessionaria del servizio.

Nell'art. 640 cpv. n. 1 è prevista come ulteriore ipotesi di truffa aggravata, l'ipotesi del pretesto per fare esonerare taluno dal servizio militare; la fattispecie che, in passato era stata scarsamente applicata, deve oggi considerarsi del tutto superata per effetto dell'abolizione della leva obbligatoria.

Circa i rapporti fra il delitto di cui all’art. 640 co. 2 n. 1 c.p. e la contravvenzione prevista dall’art. 38-bis d.Lgs. n. 81/2015, introdotto con la legge n. 96 del 2018 in tema di somministrazione fraudolenta di lavoro, la Cassazione ha avuto modo di affermare in seguente principio di diritto: "l'art. 38 bis del D.Lgs. 81 del 2015 ha come obiettivo esclusivamente quello di tutelare il lavoratore, lasciando fuori dal suo ambito di applicazione quei comportamenti finalizzati alla elusione della contribuzione, che restano soggetti alla disciplina dell'art. 640 comma 2 n.1 c.p.."; ciò in quanto, afferma la Cassazione, la finalità della fittizia interposizione transnazionale è proprio quella di procurarsi un ingiusto profitto (con corrispondente danno per gli enti previdenziali) consistente nel risparmio contributivo, del tutto differente da quella (eventuale) del mancato rispetto della normativa posta a tutela dei lavoratori (Cass. II, n. 9758/2020).

Fatto commesso ingenerando il timore di un pericolo immaginario ed altre aggravanti ad effetto speciale

Le due ipotesi di aggravanti previste nell'art. 640 cpv. n. 2 c.p. presentano dei problemi di interpretazione in rapporto ai delitti di estorsione e di concussione; ciò in quanto l'attività ingannatoria posta in essere dal soggetto agente determina una forma di costrizione della volontà della vittima, sia pure in conseguenza di un pericolo immaginario o della falsa convinzione di dovere eseguire un ordine dell'autorità. In proposito la Cassazione ha affermato che integra il delitto di truffa la condotta di colui che prospetti un male come possibile ed eventuale, in ogni caso non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che la persona offesa non è coartata, ma si determina alla prestazione, costituente l'ingiusto profitto dell'agente, perché tratta in errore dall'esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura l'estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, poiché in tal caso la persona offesa è posta nella ineluttabile alternativa di far conseguire all'agente il preteso profitto o di subire il male minacciato (Cass. II, n. 21537/2008). Il principio è stato recentemente ribadito nel senso che il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, va ravvisato essenzialmente nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e della sua incidenza nella sfera soggettiva della vittima: ricorre la prima ipotesi delittuosa se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che la persona offesa non è coartata, ma si determina alla prestazione, costituente l'ingiusto profitto dell'agente, perché tratta in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura, invece, l'estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, poiché in tal caso la persona offesa è posta nella ineluttabile alternativa di far conseguire all'agente il preteso profitto o di subire il male minacciato (Cass. II, n. 46084/2015). Nel caso di specie è stata ritenuta la sussistenza di una condotta estorsiva in capo all'agente che aveva prospettato alla vittima un pericolo per la sua stessa incolumità, proveniente da soggetti definiti gravemente temibili qualora non gli avesse consegnato una somma per rientrare in possesso della autovettura da quelli sottratta. Si è ritenuta, invece, integrata un'ipotesi di truffa aggravata ai sensi dell'art. 640 cpv. n. 2 c.p. l'induzione alla sottoscrizione di abbonamento ad una rivista specializzata in materia tributaria, ottenuta ingenerando il timore, per quanto immaginario, di un accertamento fiscale in caso di rifiuto (Cass. II, n. 3694/1989).

La Cassazione (Cass. II, n. 18861/2024) ha avuto modo di precisare che ai fini del riconoscimento dell’aggravante in argomento ciò che rileva è l’idoneità del prospettato pericolo immaginario a trarre in inganno la persona offesa su determinate circostanze fattuali, tali da indurlo a compiere atti dispositivi in favore dell’autore della truffa; si è anche, in proposito, precisato che la norma non distingue in alcun modo a chi debba riferirsi la prospettazione del pericolo immaginario, avendo la Corte già in più occasioni affermato che il pericolo immaginario potesse riferirsi anche ai familiari della vittima della truffa (Cass. II, n. 49519/2019).

Le considerazioni fin qui svolte valgono anche per l'altra ipotesi di circostanza aggravante prevista nell'art. 640 cpv. n. 2 c.p. consistente nell'avere ingenerato nella vittima l'erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell'autorità.

L'art. 3 comma 28 l. 15 luglio 2009 n. 94 ha introdotto nel capoverso dell'art. 640 c.p. il numero 2-bis), prevedendo, come ulteriore ipotesi di circostanza aggravante ad effetto speciale, quella del fatto commesso in presenza della circostanza di cui all'art. 61 n. 5 c.p., cioè l'avere profittato di circostanze di tempo, di luogo, di persona, anche in riferimento all'età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa.

La valutazione della sussistenza della circostanza aggravante della minorata difesa per approfittamento delle condizioni del soggetto passivo va operata dal giudice valorizzando situazioni che, nel singolo caso, abbiano ridotto o comunque ostacolato la capacità di difesa della parte lesa, agevolando in concreto la commissione del reato. Nel caso di specie si trattava di truffe commesse ai danni di giovani disoccupati e la Cassazione ha ritenuto non sufficiente il riferimento, operato dai giudici di merito, alla generale crisi economica ed occupazionale che investe il settore giovanile, ed alla generica aspirazione di un posto di lavoro (Cass. II, n. 28795/2016).

L’art. 16 comma 1 lett. t) ha introdotto, al comma 2 dell’art. 640, il n. 2-ter), prevedendo, come ulteriore ipotesi di circostanza aggravante ad effetto speciale, quella del fatto commesso a distanza attraverso strumenti informatici o telematici idonei ad ostacolare la propria o altrui identificazione.

Circostanze aggravanti comuni

È configurabile la circostanza aggravante del nesso teleologico in relazione al reato di falso commesso per eseguire una truffa, derivando maggiore gravità e allarme sociale dalla finalizzazione del falso alla perpetrazione di un ulteriore e nuovo reato (Cass. V, n. 35104/2013).

Si è ritenuto sussistere la circostanza aggravante dell'abuso di prestazione d'opera nel fraudolento utilizzo, da parte del lavoratore, del proprio cartellino elettronico di ingresso al fine di alterare i dati relativi alla presenza in ufficio (Cass. II, n. 22972/2018).

È stata ritenuta la sussistenza dell'aggravante della minorata difesa in relazione ad una serie di truffe connesse all'abusivo esercizio delle professioni di psicologo, psicoterapeuta e medico psichiatra poste in essere dall'imputato in danno dei pazienti; difatti in  tali ipotesi le circostanze di persona, di cui all'art. 61 n. 5 c.p., di cui l'agente ha approfittato, sono consistite in uno stato di debolezza fisica o psichica in cui si trovi la vittima per qualsiasi motivo; esse erano risultate conosciute dall'agente e tali da ostacolare, in relazione alla situazione fattuale concretamente esistente, la reazione della pubblica autorità e delle persone offese, agevolando la commissione del reato (Cass. II, n. 13933/2015).

In tema di truffa “on line” è' stata ritenuta configurabile l'aggravante della minorata difesa, con riferimento all'approfittamento delle condizioni di luogo, solo quando l'autore abbia tratto, consapevolmente e in concreto, specifici vantaggi dall'utilizzazione dello strumento della rete; in particolare nel caso di specie era stata ritenuta corretta l'esclusione dell'aggravante in relazione alla vendita di un'autovettura, attraverso un portale dedicato, ad un cittadino olandese che, corrisposto il prezzo senza prima visionarla, non ne aveva conseguito la consegna, rilevando come le modalità telematiche della vendita non avevano avvantaggiato l'imputato, atteso che lo stesso aveva fornito la propria reale identità ed il bene era esistente e visionabile in un salone, pur appositamente allestito per la perpetrazione delle truffe (Cass. II, n. 28070/2021); ed anche più recentemente la Corte ha ribadito lo stesso principio evidenziando come, in punto di fatto, dalla decisione di merito emergeva che le modalità di effettuazione di una vendita on line non avevano consentito all'agente di schermare la propria identità, escludendo quindi che il reato fosse stato posto in essere in condizioni tali da ostacolare la pubblica o privata difesa (Cass. II, n. 7819/2022); la decisione da ultimo citata si pone in linea con un indirizzo costante della Corte in base alla quale, ai fini dell'integrazione dell'aggravante di cui all'art. 61, comma 1, n. 5 c.p., occorre che qualsiasi tipo di circostanza fattuale valorizzabile (ti tempo, di luogo, di persona, anche in riferimento all'età) agevoli la commissione del reato, rendendo la pubblica o privata difesa, ancorchè non impossibile, concretamente ostacolata (Cass. II, n. 6608/2013; Cass. VI, n. 18485/2020).

In tema di circostanze aggravanti comuni, ai fini della contestazione dell'ipotesi di cui all'art. 61 n. 7 c.p. (l'aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità) non è sufficiente la mera indicazione, nel capo di imputazione, dell'importo della somma sottratta alla persona offesa, essendo invece necessario, per la corretta formulazione dell'addebito, che sia esplicitata la rilevante gravità del danno, onde consentire l'esercizio del connesso diritto di difesa (Cass. II, n. 43920/2015). Con specifico riferimento alla truffa contrattuale, si è precisato che l'ingiusto profitto, con correlativo danno del soggetto passivo, consiste essenzialmente nel fatto costituito dalla stipulazione del contratto, indipendentemente dallo squilibrio oggettivo delle rispettive prestazioni; a ciò consegue che la sussistenza o meno della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità deve essere valutata con esclusivo riguardo al valore economico del contratto in sé, al momento della sua stipulazione, e non con riguardo all'entità del danno risarcibile, che può differire rispetto al valore, in ragione dell'incidenza di svariati fattori concomitanti od anche successivi rispetto alla stipula (Cass. fer. n. 51760/2013).

In caso di reato continuato, valendo, in mancanza di tassative esclusioni, il principio della unitarietà, la valutazione in ordine alla sussistenza o meno dell'aggravante del danno di rilevante gravità deve essere operata con riferimento non al danno cagionato da ogni singola violazione, ma a quello complessivo causato dalla somma delle violazioni. Così nell'ipotesi di molteplici truffe commesse nei confronti della stessa persona offesa, la Cassazione ha precisato che il danno complessivamente cagionato restava confinato nel patrimonio di un'unica vittima, e non poteva essere, quindi, "scomposto" in ragione dei singoli episodi truffaldini (Cass. II, n. 45504/2015).

Circostanze attenuanti

Ai fini della ravvisabilità della sussistenza della circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità in caso di truffa per indebita percezione di un'indennità non dovuta, il danno medesimo va valutato nell'ammontare complessivo della indennità indebitamente corrisposta e non in relazione alle singole giornate cui l'indennità si riferisce (Cass. II, n. 7679/1989). E con specifico riferimento alla truffa in danno dell'Inps, si è detto che il delitto realizzato attraverso la ricezione di indebite prestazioni maturate periodicamente deve ritenersi a consumazione prolungata e caratterizzato da unicità di Azione e da un evento che continua a prodursi nel tempo — pertanto, ai fini della concessione della circostanza attenuante della speciale tenuità del danno, di cui all'art. 62 n. 4 c.p., si deve aver riguardo al complessivo ammontare delle indennità indebitamente percepite e non a quello delle singole prestazioni (Cass. II, n. 12319/1989).

La circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 5 c.p. richiede che il fatto doloso dell'offeso sia in rapporto di causalità non soltanto materiale ma anche psicologico con l'evento del reato. Non è sufficiente, quindi, per l'applicazione dell'attenuante, che il predetto fatto sia stato occasione o pretesto della condotta dell'agente, ovvero che sia stato diretto non alla produzione dello evento del reato, ma ad altra finalità antigiuridica (Cass. II, n. 1781/1983). Nel caso di specie è stato ritenuto non applicabile l'attenuante in questione in una ipotesi di truffa sul rilievo che il fatto doloso della parte offesa, consapevole di acquistare lingotti d'oro di delittuosa provenienza e non vile metallo effettivamente vendutole, non era certamente diretto al conseguimento dell'evento del reato di cui all'art. 640 c.p. in suo danno, ma di quello di ricettazione.

Rapporti con altri reati

L'elemento differenziale tra il furto aggravato dal mezzo fraudolento e la truffa consiste nel fatto che nel furto l'oggetto del reato viene sottratto al detentore eludendone la vigilanza contro la sua volontà, mentre nella truffa il possesso viene conseguito con atto di disposizione dello stesso soggetto passivo il cui consenso è viziato da artifici e raggiri posti in essere dall'agente. Ricorre pertanto il reato di furto aggravato ex art. 625 n. 2 c.p. nel comportamento di chi si impossessa di merce ponendola sul carrello e portandola fuori da un supermercato passando per il varco delle informazioni ed esibendo al personale scontrino relativo ad acquisti effettuati il giorno precedente, trattandosi di condotta idonea a far venire meno la vigilanza del personale addetto al supermercato in ordine all'impossessamento in corso e non già ad ottenere, con l'inganno, la consegna della merce da parte del medesimo personale (Cass. V, n. 3478/1998). 

Integra il reato di furto aggravato dall'uso di mezzo fraudolento, e non quello di truffa, la condotta di chi dapprima ottenga in maniera fraudolenta il consenso del titolare della tessera bancomat e del relativo codice per effettuare un prelievo di denaro per conto di costui e, successivamente, si impossessi del contante contro la volontà della vittima (Cass. V, n. 36138/2018).

La questione relativa alla qualificazione giuridica della fattispecie di sottrazione di energia elettrica mediante manomissione del contatore è stata risolta dalle sezioni unite della Corte di Cassazione nel senso che ove la sottrazione sia stata attuata mediante la manomissione del contatore che alteri il sistema di misurazione dei consumi, è integrato il reato di furto e non quello di truffa; detta misurazione, infatti, ha la funzione di individuare l'entità dell'energia trasferita all'utente e quindi di specificare il consenso dell'ente erogatore in termini corrispondenti, sicché la condotta dell'agente prescinde dall'induzione in errore del somministrante ed è immediatamente diretta all'impossessamento della cosa per superare la contraria volontà del proprietario (Cass.  S.U., n. 10495/1996).

La Cassazione ha ritenuto possibile la riqualificazione come truffa dell'insolvenza fraudolenta, precisando che i due delitti si distinguono, in quanto nella truffa la frode è attuata mediante la simulazione di circostanze e di condizioni non vere, artificiosamente create per indurre altri in errore, mentre nell'insolvenza fraudolenta la frode è attuata con la dissimulazione del reale stato di insolvenza dell'agente. Nel caso di specie inoltre che se la nuova definizione giuridica, a differenza di quella originaria, non consente l'applicazione di una causa estintiva del reato, il giudice deve escludere tale applicazione e la conseguente estinzione del reato; ciò in quanto il divieto di reformatio in peius riguarda unicamente la pena sotto il profilo sia della specie, sia della quantità della sua complessiva determinazione (Cass. II, n. 4640/2021).

Il criterio differenziale tra il delitto di rapina mediante minaccia e quello di truffa aggravata dall'ingenerato timore di un pericolo immaginario consiste nel diverso modo in cui viene prospettato il danno; in particolare, si ha truffa aggravata quando il danno viene prospettato come possibile ed eventuale e mai proveniente direttamente o indirettamente dall'agente, di modo che la persona offesa non è coartata nella sua volontà, ma si determina all'azione od omissione versando in stato di errore; viceversa ricorre il delitto di rapina mediante minaccia quando il danno viene prospettato come certo e sicuro, ad opera del reo o di altri ad esso collegati, di modo che l'offeso è posto nella alternativa ineluttabile di subire lo spossessamento voluto o di incorrere nel danno minacciato (Cass. II, n. 51732/2013).

Circa i rapporti tra il reato di truffa e quello di estorsione la Cassazione ha ritenuto che il criterio distintivo, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, debba essere, essenzialmente, individuato nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e della sua incidenza nella sfera soggettiva della vittima: in tal senso si è ritenuto che ricorre la prima ipotesi delittuosa se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che la persona offesa non è coartata, ma si determina alla prestazione, costituente l'ingiusto profitto dell'agente, perché tratta in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura, invece, l'estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, poiché in tal caso la persona offesa è posta nella ineluttabile alternativa di far conseguire all'agente il preteso profitto o di subire il male minacciato. In applicazione di tali principi è stata ritenuta la sussistenza di una condotta estorsiva in capo all'agente che aveva prospettato alla vittima un pericolo per la sua stessa incolumità, proveniente da soggetti definiti gravemente temibili qualora non gli avesse consegnato una somma per rientrare in possesso della autovettura da quelli sottratta (Cass. II, n. 46084/2015).

Con specifico riferimento alla minaccia di proporre azioni giudiziarie, la Cassazione ha ritenuto che è integrato il reato di estorsione e non quello di truffa, laddove la minaccia suddetta sia stata posta in essere al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute, qualora l'agente ne sia consapevole, in quanto il male ingiusto, ai fini dell'integrazione del delitto di estorsione, deve essere ravvisato nella pretestuosità della richiesta (Cass. II, n.48733/2012; Cass. sez. II, n. 19680/2022).

La Cassazione ha affermato che si realizza il delitto di truffa e non quello di insolvenza fraudolenta nel caso in cui la parte lesa sia stata tratta in errore mediante la creazione di una situazione artificiosa da parte dell'imputato, il quale non si sia limitato semplicemente a nascondere il proprio stato d'insolvenza, ma abbia rappresentato, in un ampio arco di tempo, circostanze inesistenti e sia ricorso ad artifizi per farsi credere solvibile (Cass. II, n. 22/2018). 

La Cassazione ha affermato che non sussistono gli estremi del reato di truffa, bensì quelli del reato di cui all'art. 646, nel rilascio da parte di un promotore finanziario di falsi rendiconti relativi a fondi di investimento da lui gestiti, così da sottrarre ai rispettivi intestatari parte delle somme confluite sui fondi, in quanto il possesso del denaro è già stato conseguito dall'agente al momento della realizzazione degli artifici e raggiri (Cass. II, n. 39114/2003). Nello stesso senso si è detto che la sottrazione di somme di pertinenza di un'associazione da un libretto di deposito bancario ad opera del suo presidente che occulti poi gli ammanchi mediante false annotazioni di versamenti per pari importi non integra il reato di truffa, bensì quello di appropriazione indebita, in quanto gli artifici e raggiri sono posti in essere dall'agente dopo l'appropriazione del danaro e al solo fine di mascherarla (Cass. II, n. 3924/2003).

Si è affermato che in materia di frode fiscale, in tema di imposte di successione, non è configurabile il delitto di truffa per la mancanza di due requisiti: a) la induzione in errore (eventuali artifici e raggiri nei confronti dello Stato non potrebbero considerarsi idonei giuridicamente a cagionare danno); b) l'atto dispositivo (lo stato, vittima della truffa, non si spoglierebbe di un proprio diritto, ne perderebbe correlativamente parte del suo patrimonio). La frode fiscale lede una legittima aspettativa dello Stato in conseguenza del mancato adempimento della prestazione d'imposta; (nel caso di specie, e stata ravvisata la frode fiscale e non la truffa nella artificiosa annotazione nei libri sociali di trasferimenti di titoli azionari come avvenuti prima della morte del titolare di una impresa, al fine di sottrarli alla imposta di successione) (Cass. II, n. 3362/1979).

La Cassazione ha ritenuto che l'elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell'art. 61 n. 9, va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene (Cass. VI, n. 41599/2013). Nel caso di specie la Corte ha ritenuto integrato il delitto di truffa aggravata nei confronti di un'impiegata di un ufficio postale che aveva conseguito il possesso di polizze vita, cedole, libretti di risparmi ed altri titoli facendosi rilasciare deleghe e firmare ricevute dagli utenti. Nella stessa direzione si è detto che la fattispecie di peculato si differenzia da quella di truffa, aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 9 c.p., perché l'appropriazione ha quale presupposto di fatto il possesso o comunque la disponibilità del bene in capo al soggetto agente per ragioni del suo ufficio o servizio, il quale, quindi, per appropriarsi del bene, non è costretto ad acquisirne fraudolentemente il possesso (Cass. VI, n. 5494/2013). In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto corretta la qualificazione in termini di peculato data dalla sentenza impugnata alla condotta di alcuni dipendenti di una Provincia che, con riferimento a denaro già versato dai privati su un conto dell'amministrazione, a titolo di anticipazione delle spese di regolarizzazione dei contratti di appalto, nelle determinazioni dirigenziali e nei conseguenti mandati di pagamento, avevano indicato importi di spesa, per l'acquisto dei valori bollati da apporre sugli atti, maggiori di quelli effettivi, appropriandosi poi delle somme in eccedenza. All'udienza del 24 settembre 2020 le Sezioni unite hanno precisato che l'omesso versamento del prelievo unico erariale dovuto sull'importo delle giocate, al netto delle vincite erogate, da parte del gestore degli apparecchi da gioco con vincita in denaro o del concessionario per l'attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito costituisce peculato e non truffa aggravata ai danni dello Stato.

Ed ancora la Cassazione ha ritenuto configurabile il delitto di truffa, aggravato ai sensi dell'art. 61 n. 9, e non quello di peculato quando l'atto che in concreto produce l'effetto di appropriazione si inserisce in una procedura articolata, nella quale più soggetti sono chiamati ad intervenire e l'agente infedele, per ottenere vil trasferimento della cosa nella sua materiale e personale disponibilità, deve ricorrere ad una condotta decettiva che gli procuri il compimento di atti di disposizione aventi natura costitutiva la cui adozione compete a terzi (Cass. VI, n. 31243/2014). Nel caso di specie oggetto della ora indicata decisione la Cassazione ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva ravvisato il delitto di truffa aggravata nella condotta del dipendente della tesoreria di un ente locale il quale aveva predisposto mandati di pagamento informatici falsificando il codice Iban dell'effettivo creditore a vantaggio proprio o di suoi concorrenti; ciò nonostante che per il perfezionamento dell'atto era necessario il successivo visto del responsabile della spesa, oltrechè il controllo della Corte dei Conti.  Con una recentissima decisione la stessa sesta sezione penale della Corte di Cassazione si è consapevolmente posta in contrasto con il fin qui riportato indirizzo giurisprudenziale (Cass. VI, n. 10762/2018). Si è, infatti, affermato che risponde di peculato mediante induzione, ex artt. 48 – 314, e non di truffa aggravata, il pubblico ufficiale, preposto all'organo competente all'istruttoria della pratica ed alla predisposizione del provvedimento finale, che, inducendo in errore il consiglio d'amministrazione di un ente sulla legittimità della delibera di spesa, ne ottiene l'approvazione con conseguente erogazione a taluni dipendenti di compensi di importo superiore a quello dovuto. In motivazione la Corte ha precisato che, quando il decipiens, in ragione dell'ufficio o servizio pubblico di cui è incaricato, è anche titolare della disponibilità giuridica sulla cosa mobile, la combinazione fra la previsione di cui all'art. 48 e quella di cui all'art. 314 consente di ritenere il delitto di peculato a carico di chi, simultaneamente, non solo inganna gli altri pubblici ufficiali dotati di competenza concorrente, ma anche, e specificamente, abusa di questa sua già esistente disponibilità sul bene conferitagli dall'ordinamento; ma successivamente la stessa sesta sezione sembra essere tornata sui propri passi affermando che integra il reato di truffa ai danni dello Stato, aggravato dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, e non quello di peculato, la condotta del pubblico agente che, non avendo la disponibilità materiale o giuridica del denaro, ne ottenga l'indebita erogazione esclusivamente per effetto degli artifici o raggiri posti in essere ai danni del soggetto cui compete l'adozione dell'atto dispositivo; si trattava di un caso concreto nel quale è stata qualificata quale truffa aggravata la condotta del pubblico dipendente che, essendo esclusivamente incaricato di predisporre le buste paga, induceva in errore il funzionario deputato al servizio di tesoreria, indicando fraudolentemente due distinti conti correnti ed in tal modo conseguendo l'erogazione di un doppio accredito stipendiale (Cass. VI, 13559/2019).

Circa i rapporti tra il delitto di truffa ed i reati di frode fiscale, la Sezioni Unite hanno precisato che è configurabile un rapporto di specialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di frode fiscale (artt. 2 e 8, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74) ed il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, comma 2, n. 1), in quanto qualsiasi condotta fraudolenta diretta alla evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all'interno del quadro delineato dalla normativa speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all'evasione fiscale, quale l'ottenimento di pubbliche erogazioni. La Corte, richiamando il cosiddetto principio di assimilazione sancito dall'art. 325 del T.F.U.E., ha precisato che le predette fattispecie penali tributarie, repressive anche delle condotte di frode fiscale in materia di I.V.A., esauriscono la pretesa punitiva dello Stato e dell'Unione Europea perché idonee a tutelare anche la componente comunitaria, atteso che la lesione degli interessi finanziari dell'U.E. si manifesta come lesiva, in via diretta ed indiretta, dei medesimi interessi (Cass.  S.U., n. 1235/2010).

Quanto alla falsa attestazione delle condizioni di reddito per l'ammissione al gratuito patrocinio, si è ritenuto che una tale condotta integra il solo delitto di cui all'art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, e non anche quello di truffa aggravata in esso assorbito ex art. 15 (Cass. II, n. 8660/2011).

Si ritiene configurabile il concorso materiale tra il reato di truffa aggravata e quello di false attestazioni o certificazioni previsto dall'art. 55-quinquies d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165; nel caso concreto si trattava dell'indebito utilizzo dei badges attestanti la presenza in ufficio da parte di dipendenti comunali (Cass. III, n. 47043/2015).

La Cassazione ebbe modo di affermare che, nel ricevere la denuncia di furto presentata da persona assicurata i carabinieri agiscono come mandatari taciti degli istituti assicurativi i quali, nelle polizze, subordinano il risarcimento del danno e la misura dell'indennizzo al rilascio del certificato di avvenuta denuncia del furto e di infruttuosa ricerca dei suoi autori. Siccome dunque gli istituti assicurativi conferiscono e riconoscono ai carabinieri un potere di accertamento e di certificazione che li vincola a indennizzare l'assicurato, la falsa denuncia di furto realizza una situazione per la quale all'induzione in errore del soggetto passivo del raggiro (Carabinieri) consegue automaticamente un pericolo di danno per il soggetto passivo della tentata aggressione patrimoniale (compagnia assicurativa). Pertanto la denuncia ai carabinieri di un furto in tutto o in parte immaginario allo scopo di frodare l'Assicurazione costituisce atto iniziale del tentativo di truffa ai danni della compagnia assicuratrice, nei cui confronti il denunciante fa apparire come reale la situazione da cui scaturisce l'obbligo dell'indennizzo. Una simile denuncia quindi, anche prima che sia avanzata la programmata richiesta dell'indennità assicurativa, è punibile come tentativo di truffa ai sensi degli artt. 56 e 640 (Cass. VI, n. 8418/1975).

Si è ritenuto che integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter, e non quelli di truffa o di appropriazione indebita o di indebita compensazione ex art. 10-quater d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, la condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, maternità o assegni familiari, quale anticipazione effettuata per conto dell'I.N.P.S., ottiene dall'ente pubblico il conguaglio degli importi fittiziamente indicati con quelli da lui dovuti al medesimo istituto a titolo di contributi previdenziali e assistenziali (Cass. II, n. 48663/2014). Integra, invece, il delitto di truffa, e non il meno grave reato di omissione o falsità in registrazione o denuncia obbligatoria (art. 37 l. 24 novembre 1981, n. 689), la condotta del datore di lavoro che, per mezzo dell'artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore, induce in errore l'istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto e non già una semplice evasione contributiva (Cass. II, n. 42937/2012). Nell'occasione la Corte ha precisato che il meno grave reato di cui all'art. 37 l. n. 689/1981, cit., si differenzia dalla truffa sia per l'assenza di artifici e raggiri sia per la finalizzazione del dolo specifico, diretto ad omettere il versamento in un tutto o in parte di contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatoria.

Si è ritenuto non integrato il tentativo di truffa nel comportamento dell'agente che abbia chiesto al comune una licenza edilizia in base ad estratto di mappe catastali falsificate, poiché in tale caso manca la possibilità giuridica del realizzarsi del danno, che e insita nei reati contro il patrimonio. Nell'occasione la Cassazione ha affermato che il danno e suscettibile di valutazione economica solo in un secondo momento, e cioè nel caso di lesione degli interessi del comune a rispettare l'equilibrio sociologico ed ecologico, e l'osservanza della disciplina urbanistica (Cass. II, n. 4287/1981). Invece, nella diversa ipotesi di edificazione conseguente al rilascio di una concessione edilizia illegittima, in quanto frutto dell'artificio consistito nella falsa rappresentazione dei luoghi contenuta nel progetto e negli elaborati tecnici presentati agli uffici competenti dal soggetto richiedente, è configurabile il reato di truffa ai danni dell'amministrazione comunale quando possa evidenziarsi, in concreto, un pregiudizio economico dell'ente pubblico territoriale rappresentabile, ad esempio, dal dispendio di mezzi necessari per il ripristino dello stato dei luoghi o dall'apprestamento di opere di urbanizzazione eventualmente resesi necessarie dal permanere della costruzione nonostante l'illegalità originaria (Cass. II, n. 2529/1997). Il principio è stato costantemente ribadito, affermandosi che integra il reato di truffa ai danni dell'Amministrazione comunale l'induzione dei relativi uffici al rilascio di una concessione edilizia mediante la falsa rappresentazione dei luoghi, contenuta nel progetto e negli elaborati tecnici presentati dal soggetto richiedente, sempre che possa individuarsi un pregiudizio economico dell'Amministrazione per effetto della condotta dell'agente, pregiudizio economico che non può, però, essere rappresentato dalle spese sopportate per la rimozione del manufatto abusivo, in quanto esse vanno poste a carico dell'autore della violazione, anche nel caso in siano anticipate dall'ente (Cass. II, n. 20806/2011).

Il reato di sostituzione di persona può concorrere formalmente con quello di truffa, stante la diversità dei beni giuridici protetti, consistenti rispettivamente nella fede pubblica e nella tutela del patrimonio (Cass. VI, n. 9470/2009).

I delitti di truffa e di spendita di moneta falsa concorrono fra loro formalmente, senza alcun assorbimento dell'uno nell'altro. Le norme di cui agli artt. 455 e 640 regolano infatti materie diverse, tutelano beni giuridici diversi e prevedono reati diversi, con elementi e strutture diversi (Cass. V, n. 5268/1985).

La fattispecie della truffa contrattuale si distingue da quella della frode in commercio perché l'una si concretizza quando l'inganno perpetrato nei confronti della parte offesa sia stato determinante per la conclusione del contratto, mentre l'altra si perfeziona nel caso di consegna di una cosa diversa da quella dichiarata o pattuita, ma sul presupposto di un vincolo contrattuale costituito liberamente senza il concorso di raggiri o artifici (Cass. III, n. 40271/2015). Nel caso concreto la Cassazione ha annullato una sentenza di condanna per il reato ex art. 515, avendo la ravvisato il diverso reato ex art. 640 nella consegna di autovettura, in cambio di denaro, previa induzione ad acquistarla mediante inganno sulle caratteristiche del motore della stessa.

Il delitto di bancarotta fraudolenta può concorrere con quello di truffa, sia perché l'obiettività giuridica delle distinte ipotesi delittuose è diversa, sia perché l'iter criminis della seconda si esaurisce con l'acquisizione di beni mediante mezzi fraudolenti, mentre il fatto dell'imprenditore truffaldino, che sottragga successivamente alla garanzia patrimoniale le entità economiche illecitamente acquisite al suo patrimonio, costituisce un'azione distinta ed autonoma, punita a titolo di bancarotta fraudolenta, se viene dichiarato il fallimento (Cass. V, n. 39610/2010).

Il reato di malversazione in danno dello Stato (art. 316-bis) può concorrere con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis), in quanto il primo tutela la P.A. da atti contrari agli interessi della collettività, anche di natura non patrimoniale, mentre il secondo tutela il patrimonio da atti di frode, aggravata nel caso di conseguimento di erogazioni pubbliche (Cass. II, n. 29512/2015).

La Cassazione ha ritenuto sussistere un'ipotesi di concorso apparente di norme fra il reato di presentazione di una domanda di ammissione al passivo di un credito fraudolentemente simulato, previsto dall'art. 232, comma 1, legge fallimentare e quello di truffa; nel caso di specie si trattava della simulazione di un credito ammesso al passivo, liquidato dagli organi dell'amministrazione straordinaria, realizzata mediante una serie di fittizie cessioni originate da un avente causa irreperibile o deceduto (Cass. V, n. 25836/2020).

È ammissibile il concorso formale fra il reato di truffa ai danni dello Stato (art. 640, comma 2, n. 1) e il reato di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente (art. 353-bis c.p.), i cui elementi costitutivi coincidono solo parzialmente con quelli della truffa, sicché non necessariamente la consumazione dell'uno comporta automaticamente quello dell'altro (Cass. V, n. 496/2014).

La Cassazione ha ritenuto ammissibile il concorso formale fra il reato di spendita di monete false di cui all'art. 455 c.p. e quello di truffa, essendo diversi i beni giuridici tutelati dalle due norme incriminatrici, la pubblica fede, che può essere messa in pericolo da condotte idonee a pregiudicare la fiducia generalizzata sull'autenticità dei mezzi di scambio di cui si serve l'economia, nel caso dell'art. 455 c.p. ed invece, la tutela dell'integrità del patrimonio della persona offesa, nell'ipotesi prevista dall'art. 640 c.p. ed essendo diversa, altresì, la struttura dei due reati, laddove nella truffa si richiede come evento il conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale (Cass. II, 50697/2019).  Ed in passato già era stata esclusa, con riguardo alle due fattispecie in argomento, sia l'ipotesi del reato complesso, non essendo la truffa elemento costitutivo del reato previsto dall'art. 455 c.p., sia l'ipotesi del concorso apparente di norme, non essendo applicabile né il principio di specialità, né quello di consunzione (Cass. V, 373/1979). In sostanza ha affermato la Cassazione che la consegna di una moneta falsa ad un terzo in occasione di una transazione commerciale comporta chiaramente un danno patrimoniale a chi la riceve in buona fede con correlativo ingiusto profitto da parte di colui che la consegna, realizzandosi, oltre che l'offesa alla fede pubblica, la lesione patrimoniale che, in quanto determinata da un raggiro, integra il reato di truffa. 

Il reato di truffa non è assorbito da quello di indebita utilizzazione, a fine di profitto proprio o altrui, da parte di non è titolare, di carte di credito o analoghi strumenti di pagamento, contemplata dall'art. 12 d.l. 13 maggio 1991 n. 143 convertito con modificazioni nella l. 5 luglio 1991, n. 197 [oggi abrogato e sostituito con totale continuità normativa dall'art. 55 comma 9 d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231], ogni qualvolta la condotta incriminata non si esaurisca nel mero utilizzo di essi, ma sia connotata da un quid pluris concretantesi in artifizi e raggiri (Cass.  S.U., n. 5/2000).

Il delitto di false attestazioni o certificazioni ex art. 55-quinquies d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che si consuma con la mera realizzazione, da parte dei pubblici dipendenti, di un comportamento fraudolento consistente nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, può concorrere con la truffa aggravata ex art. 640, comma 2, n. 1, quando la condotta determina un danno patrimoniale per l'amministrazione, in conformità alla clausola di riserva di cui al comma 1 del predetto art. 55-quinquies c.p., che mantiene "fermo quanto previsto dal codice penale" (Cass. III, n. 45696/2015).

Recentemente la Cassazione ha avuto modo di ribadire l'orientamento già consolidato in ordine alla ritenuta ammissibilità del concorso del delitto di truffa con quello di abusivismo nell'esercizio dell'attività di intermediazione finanziaria previsto dall 'art. 166 d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Cass. II, n.189/2020), stante la sostanziale diversità fra le due fattispecie; segnatamente si è affermato che  l'abusivismo è reato di pericolo, inteso a tutelare l'interesse degli investitori a trattare soltanto con soggetti affidabili nonché l'interesse del mercato mobiliare, nel suo complesso e nei suoi singoli operatori, ad escludere la concorrenza di intermediari non abilitati; la truffa, invece, è reato di danno, che, per la sua esistenza, richiede l'effettiva lesione del patrimonio del cliente, per effetto di una condotta consistente nell'uso di artifizi o raggiri e di una preordinata volontà di gestire il risparmio altrui in modo infedele (Cass. V, n. 22419/2003; Cass. II, n. 42085/2010).

Casistica

Dichiarazioni veritiere concernenti il metodo di produzione dei farmaci accompagnate da dichiarazioni mendaci

Si è ritenuto integrato il reato di truffa nella condotta di chi, nell'indurre le persone offese, in precarie condizioni di salute, a sottoporsi a costose terapie «sperimentali», pur rappresentando in modo veritiero la metodologia applicata nella produzione dei farmaci, abbia fornito insistenti rassicurazioni circa l'utilità della terapia in realtà illegale perché disconosciuta dalle autorità competenti nonché false informazioni circa la qualifica di medico e la competenza professionale del responsabile della società produttrice del farmaco; nel caso concreto si trattava della terapia medica sperimentale attuata con il c.d. «metodo stamina» (Cass. II, n. 46118/2015).

Sanzioni amministrative: opposizione al Prefetto fondata su falsa documentazione

Si è ritenuto che non integra il delitto di truffa la condotta di chi allega false dichiarazioni di invalidi al ricorso al Prefetto avverso verbali di accertamento per violazioni al Codice della Strada, nel quale prospetta falsamente di aver trasportato persone titolari di contrassegno per disabili, in quanto l'eventuale decisione favorevole non dà luogo ad un atto di disposizione patrimoniale (Cass. II, n. 9951/2015).

Decreto ingiuntivo ottenuto con mezzi ingannevoli nei confronti del giudice

La condotta di chi, inducendo in errore il giudice in un processo civile o amministrativo mediante artifici o raggiri, ottenga una decisione favorevole non integra il reato di truffa, per difetto dell'elemento costitutivo dell'atto di disposizione patrimoniale, anche quando è riferita all'emissione di un decreto ingiuntivo, poiché quest'ultima attività costituisce esercizio della funzione giurisdizionale (Cass. II, n. 52730/2014).

Ottenimento di una dilazione nel pagamento di un debito

Si è ritenuto non integrato il delitto di truffa, per mancanza di artifici o raggiri, la condotta del debitore che adempia consegnando, con la contestuale promessa di risarcire eventuali danni in caso di insolvibilità del traente, per girata al creditore, al quale è legato da un rapporto fiduciario, assegni che si rivelano poi privi di provvista finanziaria (Cass. II, n. 38549/2005).

Erroneo pagamento di un bonifico postale in favore di persona diversa dal legittimato

Integra il reato di truffa semplice, e non aggravata ai sensi del capoverso n.1 dell'art. 640, la condotta di colui che induca in errore l'impiegato dell'ufficio postale sulle proprie generalità, procurandosi un ingiusto profitto consistito nella riscossione di un bonifico ad altri intestato, atteso che la persona offesa del delitto in questione non è Poste Italiane S.p.A., ma il solo destinatario del bonifico (Cass. II, n. 46113/2015).

Mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità esecutive del contratto e ulteriori condotte artificiose

Si è ritenuto che, in tema di truffa contrattuale, il mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione del contratto, rispetto a quelle inizialmente concordate con l'altra parte, unito a condotte artificiose idonee a generare un danno con correlativo ingiusto profitto, integra l'elemento degli artifici e raggiri richiesti per la sussistenza del reato di cui all'art. 640 c.p. Nel caso concreto è stata ritenuta la sussistenza del reato di truffa nella condotta del ricorrente che, dopo essersi accreditato sul sito «ebay.it» ed aver messo in vendita un bene, aveva riscosso il prezzo richiesto senza consegnare il bene all'acquirente, provvedendo — dopo la transazione — a far cancellare il proprio «account» dal predetto sito, in modo da ostacolare le operazioni dirette alla sua identificazione (Cass. VI, n. 10136/2015).

Falsificazione materiale del contrassegno assicurativo

Non sussiste il reato di truffa aggravata in danno dello Stato, sotto il profilo dell'inadempimento dell'obbligo fiscale correlato, in caso di falsificazione materiale del contrassegno assicurativo esposto sul parabrezza dell'autoveicolo, per assenza del requisito del danno patrimoniale per l'Amministrazione tributaria (Cass. II, n. 23941/2009).

Creazione di fittizia disponibilità bancaria a favore di terzi per consentire l'incasso di assegni bancari

Integra gli estremi del reato di truffa la condotta del dipendente di un istituto di credito che crei una fittizia disponibilità bancaria a favore di un terzo, ed emetta assegni che poi sono pagati dall'istituto sull'erroneo presupposto dell'esistenza della provvista (Cass. V, n. 13536/2011).

Reato di false attestazioni nella dichiarazione per il rimpatrio di capitali detenuti all'estero

La previsione del reato di false attestazioni nella dichiarazione finalizzata al rimpatrio del denaro e delle attività detenute, alla data indicata dalla legge, fuori dal territorio dello Stato, non esclude l'applicazione della norma incriminatrice della truffa aggravata in danno dello Stato, anche nella forma del tentativo, se la condotta si arricchisce in concreto di artifici diretti ad ottenere i vantaggi fiscali previsti dalla legge mediante l'induzione in errore dell'amministrazione finanziaria circa il momento temporale in cui dette somme sono effettivamente rientrate in Italia (Cass. II, n. 34986/2013). Si trattava di una fattispecie in cui l'agente, non riuscendo a riportare il denaro in Italia nel termine fissato dalla legge, al fine di far risultare il rispetto della scadenza, aveva fatto chiedere al padre un prestito per un importo pari a quello da far rientrare, e, tramite una banca estera, aveva fatto pervenire tale somma sul suo conto, riservandosi di utilizzare le disponibilità detenute fuori Italia per estinguere il debito del genitore.

Esecuzione da parte di un medico in pensione di prestazioni professionali in luogo di altro medico convenzionato

Non ricorrono gli estremi del reato di truffa nel caso in cui, a seguito del trasferimento dei pazienti già assistiti da medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale, per effetto del pensionamento dello stesso, nella lista di cui alla Convenzione per i medici di famiglia di altro professionista ancora in attività, quest'ultimo si sia fatto sostituire nell'espletamento dell'assistenza medica dal medico in quiescenza, consentendogli, altresì, di utilizzare, per le prescrizioni, il proprio ricettario e percependo dalla ASL i relativi compensi. In motivazione è stata evidenziata l'insussistenza del danno patrimoniale per la ASL per avere comunque i pazienti, nella specie, ricevuto l'assistenza medica prevista da soggetto qualificato e dotato di competenza specifica (Cass. II, n. 44677/2015).

Utilizzo di permessi retribuiti per assistenza familiare portatore di handicap per un viaggio di piacere

La Cassazione ha recentemente ritenuto integrato il delitto di truffa nella condotta del lavoratore dipendente che durante il periodo in cui usufruisce di permessi retribuiti per assistere un familiare affetto da handicap si reca all’estero per un viaggio di piacere, senza prestare alcuna assistenza. Nell’occasione la Cassazione ha avuto modo di chiarire che colui che usufruisce dei permessi in questione, pur non essendo obbligato a prestare assistenza alla persona handicappata nelle ore in cui avrebbe dovuto svolgere attività lavorativa, no può, tuttavia, utilizzare quei giorni come se fossero giorni feriali (Cass. II, n. 54712/2016).

 

Apparecchi per giocate con vincite in denaro. Utilizzo di una scheda clone

Integra il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, e non quello di peculato o di frode informatica, la condotta dell'amministratore della società gerente apparecchi per le vincite in denaro che, senza alterare il sistema telematico di collegamento di tali apparecchi con l'Azienda Autonoma dei Monopoli di Stato, occulta la reale entità delle giocate effettuate, inserendo una scheda "clone" per la loro contabilizzazione, ed omette di versare all'amministrazione finanziaria le somme dovute a titolo di prelievo unico erariale (PREU), nella misura del 12% degli importi delle giocate (Cass. II, n. 21318/2018).

L’omesso pagamento della tassa di circolazione può integrare la truffa nella fattispecie di reato a consumazione prolungata

La Cassazione ha ritenuto integrato il delitto di truffa in una condotta consistita nella simulata vendita di un'autovettura alla quale era conseguita da parte dei competenti uffici la falsa attestazione sui documenti di circolazione della proprietà del veicolo in favore di una terza persona, rivelatasi poi inesistente, condotta in conseguenza della quale un differente obbligato risultava tenuto al versamento del bollo auto; si trattava, infatti, di una condotta che generava effetti persistenti, in quanto diretti alla sottrazione periodica dal pagamento annuale della tassa di circolazione, cosi procurando effetti dannosi di carattere persistente in danno dell'ente territoriale che vedeva inadempiuto l'obbligo di versamento annuale della tassa (Cass. II, n. 36278/2022).   

Profili processuali

La procedibilità

Per il reato di truffa, prima della Riforma Cartabia, si procedeva, di massima, ai sensi dell'art. 640, comma terzo, c.p., a querela della p.o.

Si procedeva d'ufficio ove ricorresse una delle seguenti circostanze aggravanti:

- aggravanti previste dall'art. 640, comma secondo, c.p. (tra le quali rientra anche quelle di cui all'art. 61, comma primo, n. 5, c.p.);

- aggravante prevista dall'art. 61, comma primo, n. 7, c.p.

Ai sensi dell'art. 649-bis c.p., si procedeva, inoltre, di ufficio anche se:

- ricorressero circostanze aggravanti ad effetto speciale (inclusa la recidiva nei casi di cui all'art. 99, commi secondo e seguenti: cfr. Cass. S.U., n. 3585/2021);

- la persona offesa fosse incapace per età o per infermità;

- il danno arrecato alla persona offesa fosse di rilevante gravità (con duplicazione sostanziale del riferimento ai casi di cui all'art. 61, comma primo, n. 7, c.p.).

Si procedeva sempre d'ufficio per la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all'art. 640-bis c.p.

Diversamente, la c.d. “Riforma Cartabia” [art. 2, comma 1, lett. o) e lett. q), D. lgs. n. 150 del 2022, in vigore, come stabilito dal d.l. n. 162 del 2022, convertito in l. n. 199 del 2022, dal 30 dicembre 2022], modificando gli artt. 640, comma terzo, e 649-bis c.p., prevede che si proceda a querela di parte anche:

- per le truffe aggravate ai sensi dell'art. 61, comma primo, n. 7, c.p.;

- per le truffe aggravate dalla recidiva nei casi di cui all'art. 99, commi secondo e seguenti.

Continua a procedersi sempre d'ufficio per la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all'art. 640-bis c.p.

Secondo quanto stabilito dalle disposizioni transitorie ad hoc di cui all'art. 85, comma 1, D. Lgs. n. 150 del 2022, e di quelle introdotte dalla l. n. 199 del 2022 (sostituendo nel corpo del predetto art. 85 il comma 2, ed introducendovi, inoltre, i nuovi commi 2-bis e 2-ter), le predette modifiche, immediatamente operanti per i reati commessi a partire dal 30/12/2022, data di vigenza della novella, opereranno, per i reati commessi fino al 29/12/2022, divenuti procedibili a querela di parte in forza delle nuove disposizioni, nei termini di seguito indicati:

A) nei casi in cui non pende il procedimento penale:

- se il soggetto legittimato a proporre querela ha avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato”, il termine per proporre querela (di mesi tre, ex art. 124 c.p., non toccato dall'intervento novellatore) decorre dal 30/12/2022, data di entrata in vigore della novella, e scade, pertanto, il 30/03/2023;

- in forza della predetta disposizione, letta a contrario, se il soggetto legittimato a proporre querela non ha avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato”, il medesimo termine per proporre querela decorre, secondo la disciplina ordinaria, in parte qua non modificata, dal momento in cui ne abbia avuto conoscenza;

B) nei casi in cui pende il procedimento penale:

- avendo il soggetto legittimato a proporre querela necessariamente avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato”, il termine trimestrale per proporre querela decorre dal 30/12/2022, data di entrata in vigore della novella, e scade il 30/03/2023: diversamente rispetto a quanto previsto dall'originario comma 2 della disposizione, nessun onere di informare la p.o. di tale facoltà incombe sul giudice procedente, presumendosi, pertanto, che la p.o. debba avere conoscenza della novella.

Le disposizioni transitorie riguardanti il caso in cui, per reati divenuti per effetto della novella, procedibili a querela di parte, siano in corso di applicazione misure cautelari personali non operano per il reato di truffa.

Invero, per determinare la pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari personali, ai sensi dell'art. 278 c.p.p., si tiene conto delle sole circostanza aggravanti ad effetto speciale, ma non anche della recidiva.

Ciò comporta che soltanto alla truffa aggravata ex art. 640, comma 2, c.p., punita con pena edittale massima pari ad anni cinque di reclusione [e non anche alla truffa aggravata ex art. 61, comma primo, n. 7, c.p. (cui gli artt. 640 e 649-bis c.p. non riconoscono quoad poenam alcun “effetto speciale”, restando, pertanto, il reato punito – a fini cautelari - con pena edittale massima pari ad anni tre di reclusione), ovvero dalla recidiva nei casi di cui ai commi secondo e seguenti], sono applicabili misure cautelari coercitive (artt. 281/286-bis c.p.p.), poiché l'art. 280, comma 1, c.p.p. consente l'applicazione delle predette misure ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni; alla truffa aggravata ex art. 640, comma secondo, c.p. è applicabile anche la misura della custodia cautelare in carcere, poiché l'art. 280, comma 2, c.p.p. consente l'applicazione della predetta misura coercitiva ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.

Anche durante la pendenza del termine per proporre querela, si applica quanto disposto dall'art. 346 c.p.p. in tema di atti compiuti in mancanza di condizioni di procedibilità.    

La Cassazione ha affermato che la mancanza di querela non impedisce l'estradizione verso l'estero per il reato di truffa in base alla Convenzione europea di estradizione, che non prevede, tra le condizioni richieste perché vi si faccia luogo, il controllo sui presupposti per la procedibilità del reato secondo la legislazione delle parti contraenti (Cass. VI, n. 7975/2020).

Bibliografia

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