Codice Civile art. 230 ter - Diritti del convivente 1 2

Giuseppe Buffone
aggiornato da Annachiara Massafra

Diritti del convivente 12

[I]Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato.

 

[1] Articolo aggiunto dall'articolo 1, comma 46, l. 20 maggio 2016 n. 76.

[2] La Corte cost. 25 luglio 2024, n. 148, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto» e, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale del presente articolo.

Inquadramento

L'istituto dell’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis, è previsto esclusivamente in favore del coniuge. Giova ricordare che, prima della l. n. 76/2016, la rilevanza del fenomeno della convivenza stabile aveva indotto una parte della dottrina a prospettare la possibilità di applicare in via analogica la tutela offerta dall'art. 230-bis. Sennonché un nutrito ventaglio di pronunciamenti giurisprudenziali aveva affermato l'inestensibilità della disciplina legislativa al convivente, sulla base del rilievo che elemento saliente dell'impresa familiare e della sua disciplina non è l'apporto lavorativo, che è ravvisabile in qualunque rapporto di lavoro, né i legami affettivi, ma la famiglia in senso chiaro e tipico individuata nei più stretti congiunti.

Cosicché, nell'ambito della famiglia di fatto, nei casi in cui non fosse possibile ipotizzare la configurabilità di un contratto di lavoro subordinato ovvero di società (invero assai difficili da riscontrare nella pratica), il convivente che avesse svolto attività di lavoro nell'ambito di un'impresa di cui fosse titolare il partner poteva vedere tutelata la sua posizione unicamente attraverso il rimedio residuale dell'arricchimento senza causa (Sesta, Impresa familiare e convivente, in Guida dir., 2004, 3, 67)La l. n. 76/2016 pone riparo al problema istituendo una disposizione ad hoc: l’art. 230-ter c.c.

Regime giuridico

L'art. 230-ter, inserito dalla l. n. 76/2016, prevede, in favore del convivente di fatto, una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Questo diritto è però subordinato a due condizioni: 1) in primo luogo, il convivente di fatto deve prestare stabilmente la sua opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente; 2) in secondo luogo, tra i conviventi non deve esistere un rapporto di società o di lavoro subordinato. Il regime giuridico in esame si distingue per due connotazioni preminenti. In primis, in favore del convivente che lavori dell'impresa del partner, è riconosciuta una partecipazione agli utili della compagine familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato.

In secundis, confermando la linea seguita dalle Cass. S.U., n. 23676/2014, è espressamente previsto che un diritto di partecipazione all'utile dell'impresa non sussiste ove esista un rapporto di società; e così pure dove esista un rapporto di lavoro, tenuto conto della natura residuale dell'impresa familiare. I due articolati – art. 230-bis, ed art. 230-ter,– non sono perfettamente coincidenti: il legislatore attribuisce al convivente un arsenale di diritti che però è inferiore a quello attribuito al coniuge; per il convivente, ad esempio, non è reiterata la disposizione di cui al secondo periodo dell'art. 230-bis, comma 1: «le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa».

Con questa norma viene superato il dibattito esistente in giurisprudenza e in dottrina circa l'applicabilità dell'istituto in commento anche al convivente. Giova ricordare come certa giurisprudenza escludesse questa possibilità (v. Cass. n. 4204/1994contraCass. n. 5632/ 2006).

Il terzo comma dell'art. 230-bis c.c. è stato dichiarato incostituzionale, con la recentissima sentenza Corte Cost. n. 148/2024, nella parte in cui non prevede come familiare anche il convivente di fatto, e come impresa familiare quella cui collabora anche il convivente di fatto, In via consequenziale anche la disposizione in commento. Al convivente di fatto sono state quindi riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all'imprenditore. La Corte Costituzionale ha, in particolare, accertato la violazione del diritto fondamentale al lavoro e alla giusta retribuzione in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto. Si è altresì affermata la violazione dell'art. 3 della Cost. non per la” sua portata eguagliatrice restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente (sentenza n. 213 del 2016)” ma per la “contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità della persona, sia come singolo che quale componente delle comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.).

 

Bibliografia

Cian, Trabucchi (a cura di), Commentario breve al codice civile, Padova, 2011; Sesta (a cura di), Codice della famiglia, Milano, 2015.

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