Codice Civile art. 263 - Impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità 1 2 .[I]. Il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall'autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse. [II]. L'azione è imprescrittibile riguardo al figlio. [III]. L'azione di impugnazione da parte dell'autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno che decorre dal giorno dell'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita. Se l'autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza; nello stesso termine, la madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa a provare di aver ignorato l'impotenza del presunto padre. L'azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall'annotazione del riconoscimento3. [IV]. L'azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita. Si applica l'articolo 245.
[1] L’art. 7, d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il Titolo, modificando la rubrica del Titolo (la precedente era «Della filiazione»), e sostituendo le parole «Capo II. "Della filiazione naturale e della legittimazione"»; «Sezione I. "Della filiazione naturale» e la rubrica del paragrafo 1 «Del riconoscimento dei figli naturali» con le parole: «Capo IV. "Del riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio"». [2] Articolo sostituito dall'art. 28, d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 Il testo precedente era il seguente: «[I]. Il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall'autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse. [II]. L'impugnazione è ammessa anche dopo la legittimazione. [III]. L'azione è imprescrittibile». Ai sensi dell’art. 108, d.lgs. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. Per la decorrenza del termine per proporre l'azione di impugnazione di cui al presente articolo, v. art. 104, comma 10, del d.lgs. n. 154 cit. [3] La Corte costituzionale, con sentenza n. 133 depositata il 25 giugno 2021 (in Gazzetta Ufficiale n. 26 del 30 giugno 2021), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 263, terzo comma, codice civile, come modificato dall'art. 28, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell'articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), nella parte in cui non prevede che, per l'autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l'azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità. InquadramentoL'art. 263 disciplina l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, nel solco di un lenta ma progressiva evoluzione storico-normativa dell'istituto. L'art. 339 del Codice Napoleone prevedeva, infatti, l'impugnativa per il falso riconoscimento solo da parte dei terzi e il legislatore italiano del 1865, nell'art. 188 del codice civile, vi aggiunse il figlio, volendosi con ciò escludere che il padre o la madre potessero far valere un proprio interesse alla veridicità della riconosciuta filiazione in quanto autori dell'atto di agnizione. E', infine, il legislatore del 1942, con l'art. 263, a legittimare all'azione anche l'autore del riconoscimento. La disciplina è stata sottoposta a revisione dal d.lgs. n. 154/2013 che ha pure previsto un regime transitorio, all'art. 104: “fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell'entrata in vigore della l. n. 219/2012, nel caso di riconoscimento di figlio annotato sull'atto di nascita prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 154/2013, i termini per proporre l'azione di impugnazione, previsti dall'art. 263 e dai commi 2, 3, e 4 dell'art. 267, decorrono dal giorno dell'entrata in vigore del medesimo decreto legislativo” (entrata in vigore: 7 febbraio 2014). Per effetto del regime transitorio, in particolare, l'imprescrittibilità dell'azione di disconoscimento di paternità proposta dal figlio, introdotta dall'art. 244, comma 5, come riformulato dall'art. 18 d.lgs. n. 154/2013, si applica, in quanto non esclusa dalle disposizioni transitorie di cui all'art. 104, commi 7 e 9, del medesimo d.lgs., anche ai giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore della nuova normativa (Cass. n. 5242/2019). Dando esecuzione alla delega legislativa contenuta nell'art. 2, comma 1, lett. g) l. n. 219/2012, il d.lgs. n. 154/2013 limita l'imprescrittibilità dell'azione al solo figlio e introduce un termine di decadenza per l'esercizio dell'azione da parte degli altri legittimati, così mirando a tutelare la stabilità dello status nel tempo, rispetto a possibili azioni caducatorie. Nel complesso, il Legislatore del 2013 ha dunque lasciato prevalere sull'interesse pubblico alla verità del rapporto di filiazione l'esigenza di non prolungare indefinitivamente la durata dell'incertezza sullo stato di figlio: solo per il figlio l'azione resta imprescrittibile e solo questi, dunque, può decidere in ogni momento di recidere il rapporto di filiazione che non sia veritiero. Nel vigore del vecchio testo, dottrina e giurisprudenza avevano più volte dubitato della costituzionalità di una disciplina che lasciava per sempre il figlio nato fuori del matrimonio esposto all'impugnazione, anche da parte di chi avesse consapevolmente effettuato un falso riconoscimento. Con la revisione, l'azione di impugnazione da parte dell'autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno che decorre dal giorno dell'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita; se, però, l'autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza; nello stesso termine, la madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa a provare di aver ignorato l'impotenza del presunto padre. Viene però inserito un termine generale conclusivo: “l'azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall'annotazione del riconoscimento”; termine per vale anche per gli altri legittimati: “l'azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita”. E' opportuno rilevare che detto termine, secondo quanto affermato da Corte cost. n. 133/2021 , non si pone in contrasto con l'art. 117, comma 1 Cost., in rapporto alla norma interposta di cui all'art. 8 CEDU atteso che un così lungo decorso del tempo incide sul legame familiare radicandolo e sposta il peso assiologico, nel bilanciamento attuato dalla norma, sul consolidamento dello status filiationis , in modo tale da giustificare che la prevalenza di tale interesse sia risolta in via automatica dalla fattispecie normativa. Corte cost. n. 133/2021 , è peraltro intervenuta sulla disciplina dell'impugnazione per difetto di veridicità ed ha dichiarato incostituzionale l'art. 263, comma 3, c.c. per contrasto con l'art. 3 Cost. nella parte in cui non prevede che, per l'autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l'azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità. La decisione muove, nel dettaglio, dal contenuto della norma la quale riguarda sia i casi di riconoscimento effettuato nella consapevolezza della non paternità quanto quelli in cui il consenso all'atto personalissimo si fondi sulla erronea supposizione del legame biologico. Si evidenzia, quindi, come mentre non possa ritenersi irragionevole che il termine decorra dalla annotazione del riconoscimento per colui che abbia effettuato il riconoscimento consapevolmente, lo stesso non possa egualmente dirsi per colui che, al momento del riconoscimento, ignorasse il difetto di veridicità, così limitando la possibilità di far valere la decorrenza del termine dalla scoperta della non paternità alla sola ipotesi di impotenza. Proprio tale circostanza, rende, quindi, palese, la disparità di trattamento esistente tra gli autori del riconoscimento che possano provare l'impotenza e quelli che, non affetti da tale patologia, siano venuti a conoscenza della non veridicità del riconoscimento decorso un anno dall'annotazione e rende inoltre evidente la contrarietà dell'art. 263, comma 3, c.c. con i principi statuiti dalle precedenti Corte cost. n. 170 del 1999 e n. 134 del 1985 (con le quali è stato ritenuto irragionevole far decorrere il termine annuale di decadenza dall'azione volta ad impugnare lo status filiationis quando il padre non era a conoscenza dei fatti oggetto della prova). Alla luce delle osservazioni di cui innanzi, la Corte Costituzionale giunge a riconoscere la disparità di trattamento anche in relazione alle disposizioni dettate per il padre che intenda far valere la verità biologica, impugnando il riconoscimento, e quelle previste per il padre che agisca per il disconoscimento di paternità. Si osserva, infatti, che il padre non coniugato può dimostrare solo l'impotenza, onde far decorrere il termine annuale di decadenza da un dies a quo diverso rispetto all'annotazione del riconoscimento mentre il padre coniugato può avvalersi anche di altre prove, tra cui quella dell'adulterio. Verità e interesse del minoreCome si legge nella Relazione del Guardasigilli, il legislatore civile del 1942 adottò “il principio di ordine superiore che ogni falsa apparenza di stato deve cadere”. Questo principio entra però in contrasto con quello di tutela del superiore interesse del minore. Il Legislatore del 2013 ha lasciato prevalere sull'interesse pubblico alla verità del rapporto di filiazione l'esigenza di non prolungare indefinitivamente la durata dell'incertezza sullo stato di figlio: l'aspetto della verità è però rimasto comunque presente nella disposizione normativa, seppur con diversi sbarramenti temporali. Si tratta cioè di un bilanciamento tra veridicità del riconoscimento e interesse superiore del minore (bilanciamento riservato alla discrezionalità del legislatore: v. Corte cost. n. 134/1985). Certo è allora che comunque l'interesse del bambino va tenuto in considerazione. In tal senso, la Corte costituzionale (Corte cost. n. 272/2017) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263, sollevata sulla premessa che essa non consente di tenere in considerazione il superiore interesse del bambino. Ha precisato il giudice delle Legge che l'affermazione della necessità di considerare il concreto interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano è fortemente radicata nell'ordinamento sia interno, sia internazionale. “Non si vede conseguentemente perché, davanti all'azione di cui all'art. 263, fatta salva quella proposta dallo stesso figlio, il giudice non debba valutare: se l'interesse a far valere la verità di chi la solleva prevalga su quello del minore; se tale azione sia davvero idonea a realizzarlo (come è nel caso dell'art. 264); se l'interesse alla verità abbia anche natura pubblica (ad esempio perché relativa a pratiche vietate dalla legge, quale è la maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane) ed imponga di tutelare l'interesse del minore nei limiti consentiti da tale verità”. Regime giuridicoL'azione di impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità postula, a norma dell'art. 263, la dimostrazione della assoluta impossibilità che il soggetto che abbia inizialmente compiuto il riconoscimento sia, in realtà, il padre biologico del soggetto riconosciuto come figlio (Cass. n. 17095/2013). Diversi precedenti di legittimità affermano, in tal senso, essere necessario, perchè possa essere accolta l'azione di impugnazione della veridicità del riconoscimento di figlio nato fuori da matrimonio, «il raggiungimento della prova dell'assoluta impossibilità di concepimento» (Cass. n. 17970/2015). Secondo altra giurisprudenza, questa previsione, però, non è dettata dalla legge, ed invero non si rinvengono ragioni che inducano a ritenere diversa la prova che è necessario fornire, in materia di impugnazione del riconoscimento, rispetto alle ipotesi affini, quale il disconoscimento della paternità (Cass. n. 30122/2017). Questa nuova pensée si rivela prevalente, in tempi recenti, poiché anche difesa da giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 5242/2019): alla luce dell'evoluzione dell'interpretazione del diritto positivo, per le mutate concezioni sociali, in tema di azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, stante la nuova disciplina introdotta dalle riforme del 2012 e 2013 in materia di filiazione, la prova della “assoluta impossibilità di concepimento” non è diversa rispetto a quella che è necessario fornire per le altre azioni di stato, richiedendo il diritto vigente che sia il favor veritatis ad orientare le valutazioni da compiere in tutti i casi di accertamento o disconoscimento della filiazione (v. anche Cass. n. 18140/2018 ; Cass. n. 4791/2020). In questa tipologia di controversia, la consulenza tecnica ematologica è uno strumento istruttorio officioso rivolto verso l'unica indagine decisiva in ordine all'accertamento della verità del rapporto di filiazione e, pertanto, la sua richiesta, da un lato, non può essere ritenuta esplorativa, intendendosi come tale l'istanza rivolta a supplire le deficienze allegative ed istruttorie di parte, così da aggirare il regime dell'onere della prova sul piano sostanziale o i tempi di formulazione delle richieste istruttorie sul piano processuale, e, dall'altro, non essendo soggetta al regime processuale delle istanze di parte, non può essere oggetto di rinuncia, anche implicita (Cass. n. 23290/2015). La legittimazione attiva spetta all'autore del riconoscimento, al riconosciuto e a chiunque vi abbia interesse. Diversi, però, sono i termini preclusivi, di cui si è già detto. Nel caso di azione proposta dal figlio riconosciuto, l'azione è imprescrittibile. Se il figlio è minorenne e non ha compiuto 14 anni, l'azione può essere promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore. Se il figlio minorenne è infraquattordicenne, l'azione può essere promossa su istanza del pubblico ministero o dell'altro genitore che abbia validamente riconosciuto il figlio. Anche l'autore del riconoscimento può impugnarlo per difetto di veridicità: l'azione deve essere proposta nel termine di un anno che decorre dal giorno dell'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita. Se l'autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza; nello stesso termine, la madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa a provare di aver ignorato l'impotenza del presunto padre. Negli ultimi casi esposti, l'azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall'annotazione del riconoscimento. Si tratta di un termine “tombale” che determina la decadenza dall'azione. L'azione di impugnazione proposta da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita. Si applica la disciplina dell'art. 245 (sospensione del termine). Il legislatore delegato, dunque, attua l'art. 2, comma 1, lett. g), l. n. 219/2012 che chiedeva di limitare l'imprescrittibilità dell'azione solo al figlio e di introdurre termine di decadenza per l'esercizio dell'azione da parte degli altri legittimati. Questioni che richiedevano l'intervento del legislatore avendo ritenuto la Corte costituzionale di non potere intervenire per via curiale (Corte cost, n. 7/2012). Il legislatore delegato, nell'art. 2 l. n. 219/2012, non ha dato indicazioni stringenti circa la durata del termine di decadenza da assegnare agli altri legittimati. Il decreto legislativo ha individuato in un anno il termine di decadenza per l'autore del riconoscimento, applicando lo stesso termine previsto dall'art. 244, per il disconoscimento di paternità. La ratio di questa scelta è illustrata nella relazione al d.lgs. n. 154/2013 ove emerge che il Legislatore ha ritenuto che un termine più lungo sarebbe stato idoneo a lasciar sopravvivere un potere discrezionale del legittimato attivo circa l'altrui stato di figlio, incompatibile con i principi costituzionali in materia che, ormai, tendono a lasciare prevalere sull'interesse pubblico alla verità del rapporto di filiazione l'esigenza di non prolungare indefinitamente la durata dell'incertezza sullo stato di figlio e ciò, soprattutto, in ragione della natura volontaria dell'atto di riconoscimento e della conseguente assunzione di responsabilità che esso comporta. Legittimazione a impugnareIl riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall'autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse. Sotto tale aspetto, è bene coordinare l'art. 263 con la speciale procedura prevista dalla l. n. 184/1983, avente la finalità di contrastare i riconoscimenti falsi, elusivi delle norme sulle adozioni. Ai sensi dell'art. 74 l. n. 184/1983, gli ufficiali di stato civile trasmettono immediatamente al competente tribunale per i minorenni comunicazione, sottoscritta dal dichiarante, dell'avvenuto riconoscimento da parte di persona coniugata di un figlio nato fuori del matrimonio non riconosciuto dall'altro genitore. Il tribunale dispone l'esecuzione di opportune indagini per accertare la veridicità del riconoscimento. Nel caso in cui vi siano fondati motivi per ritenere che ricorrano gli estremi dell'impugnazione del riconoscimento il tribunale per i minorenni assume, anche d'ufficio, i provvedimenti di cui all'art. 264. A lume di questa disposizione, il curatore speciale del minore è legittimato a proporre impugnazione del riconoscimento del figlio non matrimoniale per difetto di veridicità ai sensi dell'art. 74 l. n. 184/1983, giusta il rinvio formale contenuto da tale disposizione all'art. 264 in unico comma, a seguito della nuova formulazione introdotta dall'art. 29 d.lgs. n. 154/2013 (Cass. n. 23290/2015). Dal punto di vista processuale, nell'azione di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento di un figlio nato da genitori non uniti in matrimonio, l'altro genitore, che pure abbia operato il riconoscimento, è litisconsorte necessario nel giudizio, perché l'acquisizione di un nuovo "status" da parte del minore è idonea a determinare una rilevante modifica della situazione familiare, della quale resta in ogni caso partecipe l'altro genitore (Cass. n. 10775/2019). Laddove, tuttavia, l'azione, venga intrapresa da un terzo interessato, in relazione al riconoscimento di un figlio nato da genitori non uniti in matrimonio, già maggiorenne ed economicamente indipendente al momento della instaurazione del giudizio, l'altro genitore non è un litisconsorte necessario, perché l'eventuale pronuncia caducatoria dello status filiationis del soggetto maggiorenne non produce effetti rilevanti di alcun genere nei confronti del primo, sotto il profilo della responsabilità genitoriale, come pure degli obblighi morali di crescita, educazione ed istruzione e di quelli materiali al mantenimento del figlio, ormai non più ipotizzabili. In tal ipotesi tale genitore può intervenire volontariamente nel processo, ove intenda tutelare eventuali propri diritti e/o interessi, o esservi chiamato dal figlio stesso, laddove quest'ultimo voglia giovarsi della sua partecipazione alla lite (Cass. n. 3252/2022; sul punto da ultimo Cass. n. 35998/2022). Nel giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex art. 263 c.c., il presunto padre naturale non è legittimato ad intervenire nel giudizio, né in qualità di interveniente autonomo né di interveniente adesivo, essendo egli portatore di un mero interesse di fatto all'esito del giudizio, e non di un interesse giuridico a sostenere le ragioni dell'una o dell'altra parte, direttamente correlato ai vantaggi ed agli svantaggi che il giudicato potrebbe determinare nella sua sfera giuridica (Cass. n. 20953/2018). Deve infine evidenziarsi che la Corte Edu si è recentemente pronunciata in merito al rapporto tra l'art. 8 Cedu e l'azione per il riconoscimento della paternità, ritenendo violato il primo da parte della legge bulgara nella parte in cui essa non consente al padre biologico di contestare il riconoscimento effettuato da un altro uomo, marito della madre in forza di matrimonio contratto successivamente alla nascita del minore. (Corte Edu, 13 ottobre 2020, Koychev c. Bulgaria). Falso riconoscimentoAnche l'autore del riconoscimento può impugnare per difetto di veridicità il proprio atto. Il Legislatore, cioè, ha consapevolmente rifiutato di limitare la legittimazione alla impugnativa al solo autore del riconoscimento in buona fede, escludendone quello in male fede, e scegliendo di non sanzionare per costui con la irretrattabilità il disvalore del comportamento subbiettivo. Ciò vuol dire che, in generale, il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio non deve essere considerato irretrattabile da parte del suo autore. L'azione ex art. 263 promossa da chi sapeva di riconoscere un figlio non suo non configura, quindi, una revoca (illegittima) del riconoscimento e ciò vuol dire, tra l'altro, che si sottrare all'art. 256. In definitiva, l'autore del falso riconoscimento, indipendentemente dalla sua buona o mala fede, è oggettivamente utilizzabile come strumento di caducazione di uno status costituito contro verità. “Anzi, mentre a fondamento della legittimazione all'impugnativa del riconoscimento per difetto di veridicità del riconosciuto o del terzo sono individuabili posizioni di interesse personale, sia morale sia patrimoniale, nella legittimazione dell'autore del mendacio può residuare soltanto l'interesse disinteressato alla verità, mero pentimento per la falsità dichiarata” (Corte cost., n. 158/1991). Al lume di questi rilievi, deve darsi atto della irrilevanza della condizione subbiettiva dell'autore del falso riconoscimento: secondo la Corte costituzionale, perché si realizzi l'interesse oggettivo dell'ordinamento alla verità dello status personale di filiazione, non può farsi valere lo scioglimento dai vincoli assunti dal pseudo-genitore verso il preteso figlio (ex art. 261) come causa del contrasto con l'art. 2 Cost. (Corte cost. n. 158/1991 cit.). Una scelta differente è stata compiuta dal Legislatore in materia di procreazione medicalmente assistita, attraverso l'art. 9 l. n. 40/2004 ove è istituito un “divieto del disconoscimento della paternità”. Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, «il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l'azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall'art. 235, comma 1, nn. 1) e 2), del codice civile, né l'impugnazione di cui all'articolo 263 dello stesso codice». Nella fecondazione assistita eterologa (così come per l'omologa), quindi, il preventivo consenso manifestato dal coniuge o convivente può essere revocato fino al momento della fecondazione dell'ovulo, sicchè ove la revoca intervenga successivamente, ai sensi dell'art. 9, comma 1, l. n. 40/2004, il partner non ha azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito e partorito in esito a tale inseminazione. Le due situazioni sono, però, differenti e rispondono a finalità diverse (art. 263 e art. 9 l. n. 40/2004). Infatti, il divieto in parola ha radice nell'esigenza di offrire una protezione all'embrione, interesse che non è in gioco aliunde: consentire la revoca del consenso, anche in un momento successivo alla fecondazione dell'ovulo, non apparirebbe compatibile con la tutela costituzionale degli embrioni, più volte affermata dalla Corte costituzionale (tra le altre Corte cost. 151/2009 e Corte cost. n. 229/2015). Va ancora ricordato l'insegnamento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 347/1998) e della Corte di Cassazione (Cass. n. 2315/1999), secondo cui l'attribuzione dell'azione di disconoscimento al marito, anche quando abbia prestato assenso alla fecondazione eterologa, priverebbe il nato di una delle due figure genitoriali e del connesso rapporto affettivo ed assistenziale, stante l'impossibilità di accertare la reale paternità a fronte dell'impiego di seme di provenienza ignota; e, ancora, la Corte di Cassazione (Cass. n. 5653/2012) ha precisato che non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta la preminenza della verità biologica rispetto a quella legale. Tale impostazione, del resto, trova ulteriore preciso riscontro, come già osservato, nella riforma della filiazione del 2013 che ha abrogato l'art. 235, e introdotto il nuovo art. 244, per cui il genitore non può proporre l'azione di disconoscimento oltre cinque anni dal giorno della nascita del figlio. Il raffronto tra le due situazioni ne mette in risalto la profonda diversità ed esclude, dunque, che l'attuale disciplina dell'art. 263 sia incostituzionale per raffronto con l'art. 9 l. n. 40/2004. E' di diversa opinione quell'orientamento di giurisprudenza che, al contrario, reputa le due fattispecie sovrapponibili in quanto facenti comunque capo a un soggetto che consapevolmente “mente” e che si avvale del proprio mendacio: in questo senso, di recente, Appello Torino ord. 4 ottobre 2017 n. 245, in G.U. n. 3 del 15 gennaio 2020, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c. (la Corte solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 con riferimento all'art. 9 l. n. 40/2004 perche' in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., nella parte in cui non prevede che il padre che ha effettuato il riconoscimento nella consapevolezza della sua non veridicità, non sia legittimato a promuovere la relativa azione, dichiarata inammissibile da Corte Cost. n. 127/2020). L'acquis della Corte di Cassazione è, però, di contrario avviso. Secondo la Cassazione, l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità da parte del suo autore, ex art. 263, non richiede la sopravvenienza di elementi di conoscenza nuovi rispetto a quelli noti al momento del riconoscimento e non ne costituisce una revoca, non consentita dall'art. 256, poiché l'autore che impugna il riconoscimento è tenuto a dimostrare la non rispondenza del riconoscimento al vero (indirizzo che si rintraccia a partire da Cass. n. 2269/1993 ed è stato confermato, da ultimo, da Cass. n. 30122/2017). Questa linea interpretativa è stata affermata anche di recente dalla Suprema Corte (Cass. n. 5242/2019): “l'impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, ai sensi dell'art. 263, è ammessa in ogni caso in cui il riconoscimento sia obiettivamente non veridico, a nulla rilevando eventuali stati soggettivi di buona o mala fede dell'autore del riconoscimento, e quindi anche nel caso in cui il riconoscimento stesso sia stato effettuato con la consapevolezza dell'altrui paternità”. Per questo orientamento, la doglianza relativa all'abuso dell'impugnazione, se compiuta dallo stesso autore del falso riconoscimento, non è fondata perché ai fini dell'accoglimento dell'azione in esame l'art. 263 richiede la dimostrazione della assoluta impossibilità che il soggetto che aveva inizialmente compiuto il riconoscimento fosse, in realtà, il padre biologico del soggetto riconosciuto come figlio (tra le tante, v. Cass. n. 17095/2013). Alcuni in dottrina, criticano questo orientamento, ritenendo che consentire l'impugnazione del riconoscimento a chi l'abbia fatto in male fede, significa in sostanza consentirne la revoca (Busnelli, La disciplina dei vizi del volere nella confessione e nel riconoscimento dei figli naturali in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1959, II, 1264). Partecipazione del P.M.La Suprema Corte ha chiarito che, al fine del rispetto della prescrizione relativa all'intervento obbligatorio del P.M. nei procedimenti civili riguardanti lo stato delle persone, non è necessaria la presenza di un rappresentante di tale ufficio nel corso delle udienze né che rassegni le proprie conclusioni, ma è sufficiente che egli sia stato informato mediante l'invio degli atti del giudizio e così posto in condizione di sviluppare l'attività ritenuta opportuna (Cass. n. 6136/2015). Curatela specialeIn tema di impugnativa di riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio, per difetto di veridicità, «è necessaria, a pena di nullità del relativo procedimento per violazione del principio del contraddittorio, la nomina di un curatore speciale per il minore, legittimato passivo e litisconsorte necessario, dovendosi colmare la mancanza di una espressa previsione in tal senso dell'art. 263 c.c. (anche nella formulazione successiva al d.lgs. n. 154/2013) mediante una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata in quanto la posizione del minore si pone, in via generale ed astratta, in potenziale conflitto di interessi con quella dell'altro genitore legittimato passivo, non potendo stabilirsi ex ante una coincidenza ed omogeneità d'interessi in ordine né alla conservazione dello status, né alla scelta contrapposta, fondata sul favor veritatis e sulla conoscenza della propria identità e discendenza biologica» (Cass. n. 1957/2016). Sempre in tema di curatela è utile ricordare che qualora l'azione riguardi più minori, non è sempre necessario nominare curatori speciali diversi per ciascuno di essi; tale obbligo sussiste, infatti, nel solo caso in cui si verifichi tra i figli un conflitto di interessi, anche potenziale, ipotesi che non ricorre, tuttavia, per il solo fatto che i minori siano parti di un giudizio in posizioni processuali non contrapposte (Cass. n. 20940/2018). BibliografiaAuletta, Diritto di famiglia, Torino, 2014; Bianca C. M., Istituzioni di diritto privato, Milano, 2014; Buffone, Le novità del “decreto filiazione”, Milano, 2014; Cian-Trabucchi (a cura di), Commentario breve al codice civile, Padova, 2011; Finocchiaro F., in Comm. S. B., artt. 84-158, Bologna-Roma, 1993; Jemolo, in La famiglia e il diritto, in Ann. fac. giur. Univ. Catania, Napoli, 1949, 57; Oberto, La comunione legale tra i coniugi, in Tr. C.M., Milano, 2010; Perlingieri, Manuale di Diritto Civile, Napoli, 2005; Sesta (a cura di), Codice della famiglia, Milano, 2015. |