Codice Civile art. 269 - Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità 1 2 .[I]. La paternità e la maternità 3 possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso [250 ss., 253]. [II]. La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo [30 4 Cost.]. [III]. La maternità è dimostrata provando l'identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre. [IV]. La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all'epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità4 .
[1] L’art. 7, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il Titolo, modificando la rubrica del Titolo (la precedente era «Della filiazione»), e sostituendo la rubrica del paragrafo 2 della sezione I del capo II del libro primo del codice civile «Della dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturale», con: «Capo V. "Della dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità"» [2] Articolo così sostituito dall'art. 113 l. 19 maggio 1975, n. 151. [3] L'art. 30, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha soppresso la parola «naturale». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [4] L'art. 30, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha soppresso la parola «naturale». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. InquadramentoL'art. 269 disciplina il procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità. Ai sensi dell'art. 269, comma 1, la paternità e la maternità naturale possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso. L'azione perché venga dichiarata in giudizio la paternità può riguardare, invero, soggetti maggiori di età o minorenni. L'art. 38 disp. att. — nella formulazione vigente prima della riscrittura ad opera della l. n. 219/2012 — prescriveva che fossero di competenza del Tribunale per i Minorenni i provvedimenti contemplati dall'art. 269, comma 1, «nel caso di minori». Si era così creata una competenza ripartita su due giudici: al Tribunale ordinario, il procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità per figli maggiori di età; al Tribunale per i minorenni, il procedimento per la dichiarazione giudiziale di paternità per figli minori. La disciplina così illustrata aveva creato non poche perplessità con particolare riferimento ai moduli processuali applicabile. Dinanzi al tribunale ordinario, l'opinione era invero pacifica nel senso di ammettere la disciplina generale e, dunque, l'applicazione del rito ordinario. Ma quale rito seguire dinanzi al Tribunale per i Minorenni? Il problema non è solo teorico perché l'adozione del rito ordinario ovvero camerale incide sulla competenza territoriale, sull'ammissione e sull'assunzione delle prove, sulla forma del provvedimento finale, sulle modalità e sui termini di impugnazione (applicabilità o meno dell'art. 739 c.p.c.) sul passaggio in giudicato o sulla revocabilità del provvedimento emesso (art. 742 c.p.c.). La questione era stata risolta dalle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 5629/1996). Il giudice della nomofilachia aveva affermato che, l'attribuzione della competenza al Tribunale per i minorenni comportava l'applicazione del rito camerale. Profili processuali. CompetenzaIn materia di azione ex art. 269, la competenza si radica nel luogo di residenza del convenuto (Cass. n. 1373/1992, Cass. n. 11021/1997) non potendosi ritenere prevalente la tutela del minore, in quanto la causa ha ad oggetto la paternità biologica che, se accertata, legittima le domande nell'interesse della prole, per le quali, sì, opera il foro di residenza del minore (Trib. Milano, 26 giugno 2013), operata dalla l. n. 219/2012 ha espunto l’art. 269 dal novero dei procedimenti di competenza del tribunale per i Minorenni. Per effetto della modifica, si è posto il problema del rito da seguire per la dichiarazione giudiziale di paternità del minore. Secondo l'orientamento maggioritario della giurisprudenza, poiché la l. n. 219/2012 nulla ha innovato quanto al rito applicabile avanti al Tribunale ordinario si deve ritenere che, nel sistema di riparto di competenza delineato dall'art. 38 disp. att. novellato, l'azione di riconoscimento di cui all'art. 269, anche quando riguardi un figlio minore, debba essere introdotta nelle forme ordinarie del giudizio di merito a cognizione piena (Trib. Varese, 22 marzo 2013; Trib. Velletri, 8 aprile 2013). L'opinione espressa dai giudici di merito è confortata anche dai commenti di dottrina in cui si è osservato che la nuova legge, là dove non riproduce nel catalogo delle controversie affidate al giudice specializzato le controversie di cui all'art. 269, comma 1, restituisce al tribunale ordinario i giudizi dichiarativi della paternità o della maternità naturale di figli minori e il relativo procedimento si svolge ora, anche quando si tratta di figli minori, nelle forme del processo ordinario di cognizione (Tommaseo F., La nuova legge sulla filiazione: i profili processuali, in Fam. dir. 2013, III, 258 v. nota n. 39). Altri Autori, in particolare, annotando il nuovo art. 38 disp. att., hanno affermato che per la dichiarazione giudiziale della paternità o maternità (già) naturale, quand'anche riguardi un minore (art. 269, comma 1), dovrà per forza di cose seguire il rito ordinario, poiché ha ad oggetto l'accertamento con autorità di giudicato di uno status soggettivo (Graziosi A., Una buona novella di fine legislatura: tutti i “figli” hanno eguali diritti, dinanzi al tribunale ordinario, in Fam. dir. 2013, III, 270). Questa opinione è condivisibile. Originariamente, la competenza per la dichiarazione giudiziale di paternità era concentrata interamente dinanzi al Tribunale ordinario. L'art. 68 l. n. 184/1983 ha, successivamente, modificato il comma 1 dell'art. 38 disp. att., attribuendo la competenza per materia al Tribunale per i minorenni sulle controversie di paternità e maternità naturale previste dall'art. 269, comma 1, relativi a minori. L'innovazione additiva del citato art. 68, comma 1, ha introdotto una deroga all'art. 9, comma 2 c.p.c. (Cass. S.U., n. 5629/1996) che, come detto, attribuiva indistintamente alla competenza del Tribunale ordinario tutte le cause relative allo stato delle persone. La l. n. 219/2012 ha eliminato la innovazione a suo tempo introdotta dall'art. 68 l. n. 184/1983 (legge adozioni) e, conseguentemente, rimosso la «deroga» che quella norma aveva previsto. Ne consegue che è stato ripristinato il regime giuridico anteriore all'entrata in vigore della l. n. 184/1983. Orbene, prima della modifica dell'art. 38 disp. att., ad opera dell'art. 68 l. n. 184/83, il procedimento per la dichiarazione giudiziale di paternità riguardo ai minori, seguiva le norme del rito ordinario e si concludeva con sentenza suscettibile di passare in giudicato (Cass. n. 430/1980). La conseguenza fisiologica è, allora, che — per effetto della l. n. 219/2012 — adesso l'azione ex art. 269, anche in caso di minori, deve seguire il modello processuale ordinario e non anche quello camerale (Buffone, Cosmai, La dichiarazione giudiziale di paternità ex art. 269 in caso di figli minori: ritorno al Rito Ordinario, a seguito della legge 219 del 2012 in Questioni di Diritto di Famiglia 2013). Una ulteriore conferma si può, a ben vedere, trarre anche dall' art. 276 che — completando il regime della legittimazione passiva — espressamente utilizza i termini tecnici tipici del rito di cognizione ordinario (v. art. 276, comma I, ultima parte). Legittimazione passivaUn importante profilo procedimentale deve essere evidenziato in punto di legittimazione passiva: se manca il presunto genitore e non vi sono eredi, la legge precisa, colmando una lacuna esistente nell'attuale testo dell'art. 276 (e richiamandosi a quanto già avviene ex art. 247, ultimo comma, per la legittimazione passiva all'azione di disconoscimento), che in tal caso la domanda “deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso” (art. 1, comma 4, l. n. 219/2012; Tommaseo F., opera cit., in Fam. dir. 2013, III, 258 v. nota n. 39). È chiara l'importanza della norma: in mancanza del genitore presunto (ad es. perché non più in vita) e dei suoi eredi, il litisconsorte necessario è il “curatore”, che ben può essere inteso come curatore speciale ex art. 78, comma 1, c.p.c. Dichiarazione giudiziale e diritto all'anonimato della madreCome ha correttamente chiarito la giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 14 ottobre 2015 n. 11475), non è ammissibile la dichiarazione giudiziale di maternità nei confronti di una donna che al momento del parto ha dichiarato di non voler essere nominata, poiché altrimenti verrebbe frustrata la ratio della intera disciplina, ravvisabile non solo nell'esigenza di salvaguardare la famiglia legittima e l'onore della madre, ma anche di impedire che onde evitare nascite indesiderate, si faccia ricorso ad alterazioni di stato o a soluzioni ben più gravi quali aborti o infanticidi. Questa conclusione non muta alla luce dei recenti interventi delle Alte Corti poiché tanto nella pronuncia Godelli della Corte Europea, quanto nella sentenza Corte Cost. n. 278/2013, gli organi giudicanti, confermando la perdurante validità del fondamento costituzionale del diritto all'oblio della partoriente hanno censurato la “cristallizzazione” e l'”immobilizzazione” del diritto della madre, ed il fatto che non siano presenti strumenti che consentano di indagare la perdurante attualità dalla scelta della madre trascorsi numerosi anni dalla sua espressione. In particolare, la Corte Costituzionale ha individuato il punto di equilibrio tra i contrapposti interessi, in conformità alla Corte di Strasburgo, nella reversibilità dell'anonimato e soprattutto nel riconoscimento in favore dell'adottato del potere di dare impulso ad una procedura che, pur con le dovute cautele, consenta di verificare se persiste ancora la volontà di mantenere l'anonimato, ovvero se la donna, anche valutando il desiderio del figlio di conoscere le proprie origini, non muti la propria volontà al riguardo. Tuttavia, le Corti menzionate sono risultate assolutamente ferme nel ritenere che la volontà della madre di rimanere anonima, allorché non vi sia espressione di un diverso avviso da parte della stessa, sia degna di tutela e debba prevalere sull'interesse del figlio a conoscere le proprie origini e la propria identità biologica. Accertamento della paternità e maternitàIn tema di accertamento giudiziale della paternità, preponderante importanza è assegnata alle indagini ematologiche: l'ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all'esito della prova storica dell'esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall'art. 269, comma 2, non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l'imposizione, al giudice, di una sorta di "ordine cronologico" nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo "status" (Cass. n. 3479/2016). L'efficacia delle indagini ematologiche ed immunogenetiche sul Dna non può essere esclusa perché esse sono suscettibili di utilizzazione solo per compiere valutazioni meramente probabilistiche, in quanto tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche hanno questa natura anche se espresse in termini di «leggi», e tutte le misurazioni, anche quelle condotte con gli strumenti più sofisticati, sono ineluttabilmente soggette ad errore, sia per ragioni intrinseche (cosiddetto errore statistico), che per ragioni legate al soggetto che esegue o legge le misurazioni (cosiddetto errore sistematico), spettando al giudice di merito, nell'esercizio del suo potere discrezionale, la valutazione dell'opportunità di disporre indagini suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre la rinnovazione delle indagini (Cass. n. 6025/2015). È bene ricordare, al riguardo, che secondo la Cassazione, le cd. linee guida di esecuzione delle indagini genetiche, dettate dalle principali associazioni internazionali di studiosi ed operatori della genetica forense, sebbene prive di forza cogente in quanto non tradotte in protocolli imposti da norme di legge o di regolamento, costituiscono regole comportamentali autoimposte e normalmente rispettate, volte ad assicurare, sulla base delle acquisizioni tecnico-scientifiche del tempo, risultati peritali attendibili e verificabili, sicché la loro inosservanza fa legittimamente dubitare della correttezza delle conclusioni esposte dal consulente tecnico di ufficio (Cass. n. 16229/ 2015). L'indirizzo costante della giurisprudenza è nel senso che, nel giudizio promosso per l'accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, comma 2, c.p.c.., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda (Cass. n. 6025/ 2015; Cass. n. 28886/2019). Al contrario, la prova dell'esistenza di rapporti sessuali tra il presunto padre e la madre, nel periodo di concepimento del bambino, assume un elevato rilievo indiziario ma non è sufficiente a provare la paternità, occorrendo anche l'accertamento almeno di un ulteriore dato indiziario, che sia stato correttamente declinato dal giudice di merito nel suo nucleo essenziale, individuato senza decontestualizzazioni, per una complessiva ed univoca lettura (Cass. n. 7197/ 2019). BibliografiaAuletta, Diritto di famiglia, Torino, 2014; Bianca C. M., Istituzioni di diritto privato, Milano, 2014; Buffone, Le novità del “decreto filiazione”, Milano, 2014; Cian-Trabucchi (a cura di), Commentario breve al codice civile, Padova, 2011; Finocchiaro F., in Comm. S. B., artt. 84-158, Bologna-Roma, 1993; Jemolo, in La famiglia e il diritto, in Ann. fac. giur. Univ. Catania, Napoli, 1949, 57; Oberto, La comunione legale tra i coniugi, in Tr. C.M., Milano, 2010; Perlingieri, Manuale di Diritto Civile, Napoli, 2005; Sesta (a cura di), Codice della famiglia, Milano, 2015. |