Codice Civile art. 587 - Testamento.Testamento. [I]. Il testamento è un atto revocabile [679 ss.] con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse [2821 2]. [II]. Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento [254, 256, 285, 348, 355, 424 3, 466, 629, 700, 2735 1], hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento [601 ss.], anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale. InquadramentoDalla norma in commento, considerata nel contesto della disciplina della successione mortis causa, emergono (Di Marzio-Matteini Chiari, 4 ss.) quali caratteri del testamento: i ) la patrimonialità; le disposizioni testamentarie hanno carattere patrimoniale, come si deduce non soltanto dall'inciso del primo comma secondo cui esse hanno ad oggetto «sostanze», ma anche dalla lettura a contrario del secondo comma - su cui si tornerà più innanzi - il quale sta a testimoniare che le disposizioni non patrimoniali possono essere contenute in un testamento, ma non per questo sono testamento; ii ) la tipicità; le disposizioni testamentarie sono tipizzate dalla legge nella forma dell'istituzione di erede, del legato e del modus; iii ) la unilateralità; il testamento è un atto unilaterale, che si fonda sulla esclusiva volontà del testatore, la quale neppure richiede di essere comunicata a terzi, sicché l'atto è altresì non ricettizio; tale carattere trova conferma nel dettato dall'art. 458, il quale esclude i patti successori, nonché dell'art. 589, che reca il divieto del testamento congiuntivo o reciproco, senza che l'opposta conclusione possa essere arguita dalla necessità dell'accettazione da parte del chiamato all'eredità, dal momento che proprio detta ultima qualità è unilateralmente ed indipendentemente dalla comunicazione dell'atto attribuita dal testamento; iv ) la revocabilità; il testamento è per sua stessa natura, quale atto di ultima volontà, oltre che per espressa previsione dell'art. 587, necessariamente revocabile fino alla morte del testatore, né, ai sensi dell'art. 679, si può in alcun modo rinunziare alla facoltà di revocare o mutare le disposizioni testamentarie, essendo priva di effetto ogni clausola o condizione contraria; v ) la personalità; il testamento è un atto personalissimo, non suscettibile di essere delegato ad un rappresentante, né di essere integrato, se non entro limiti circoscritti, ad opera di un terzo, come si desume dall'art. 631, comma 1, il quale commina la nullità di ogni disposizione testamentaria con la quale si fa dipendere dall'arbitrio di un terzo l'indicazione dell'erede o del legatario, ovvero la determinazione della quota di eredità, nonché dall'art. 632, comma 1, il quale sanziona parimenti di nullità da disposizione che lascia mero arbitrio del terzo la determinazione dell'oggetto o della quantità del legato (in giurisprudenza App. Firenze 8 agosto 1953 ). La patrimonialitàLe disposizioni testamentarie hanno di regola carattere patrimoniale, come si deduce anzitutto dall'impiego, nell'art. 587, del verbo « disporre » (sovente impiegato con riguardo al diritto di proprietà, che è per l'appunto diritto di godere e disporre, ai sensi dell'art. 832), riferito alle « sostanze ». Il « disporre », secondo l'opinione meno recente, è da intendere in collegamento con le «disposizioni» disciplinate dal successivo art. 588, anch'esso inserito nel capo contenente la disciplina generale delle successioni testamentarie: il disporre delle proprie sostanze, da parte del testatore, consiste, in tale prospettiva, nell'attribuire la qualità di erede, se le disposizioni testamentarie comprendono l'universalità o una quota dei beni del testatore; quella di legatario in caso contrario. Il carattere della patrimonialità del testamento, così, si specifica per la connotazione strettamente dispositivo-attributiva di beni (Cass. n. 712/1953). Alla luce dell'opinione comunemente accolta, la patrimonialità del testamento, anche nel senso indicato, non trova d'altronde smentita, bensì conferma, nella lettura del comma 2 dell'art. 587, secondo cui le disposizioni di carattere non patrimoniale che la legge consente siano contenute in un testamento — argomento su cui si tornerà più innanzi — hanno efficacia se contenute in un atto che ha la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale. La norma, difatti, sta a testimoniare che le disposizioni non patrimoniali possono essere contenute in un testamento (in questo caso inteso come «testamento-documento»), ma non per questo sono testamento (intendendo con ciò il «testamento-atto»). In altri termini, il contenuto non patrimoniale del testamento non si pone in contrasto con quello patrimoniale, ma costituisce eccezione al principio generale, in forza del quale l'atto di ultima volontà è destinato a regolare post mortem gli interessi economici del disponente. Come emerge dalla relazione al codice civile, «il testamento, nella sua nozione tradizionale e nella sua funzione pratica, è l'atto con cui si provvede alla destinazione dei beni post mortem [...] esso può contenere disposizioni non patrimoniali, ma ciò, indubbiamente, costituisce una mera accidentalità [...] e, quindi, per evitare l'apparente contraddizione tra il primo e il secondo comma dell'art. 587, si è ritenuto opportuno modificare quest'ultimo in modo che ne emergesse chiaro il concetto che, in mancanza di disposizioni patrimoniali, si può parlare di atto rivestito delle forme testamentarie, ma non di testamento». La connotazione dispositivo-attributiva della patrimonialtà, quale saliente carattere del testamento, è stata negata attraverso l'osservazione che il testamento ben può accogliere disposizioni non attributive, quantunque di contenuto evidentemente patrimoniale: basti pensare all'onere o modus, alla divisione fatta dal testatore ed alle regole dettate dal testatore per la divisione. Per questa è stata delineata — per lo più attraverso la riflessione sulla diseredazione, di cui si parlerà tra breve — una diversa e più ampia nozione del carattere di patrimonialità del testamento. Quest'ultimo viene inteso, così, non restrittivamente quale atto volto all'attribuzione di beni, bensì quale atto di «regolamento» mortis causa degli interessi del testatore (Trabucchi, 1970, 61). Si può dunque dire, con riguardo al testamento, che «la normale destinazione dell'atto è il regolamento dell'assetto degli interessi patrimoniali della persona» (Rescigno, 2010, 727). Tale impostazione valorizza il profilo della libertà testamentaria, con l'ovvio limite del rispetto della quota di riserva, sicché « la disciplina del testamento arricchisce il regime dell'autonomia negoziale con riguardo alla rilevanza delle ragioni individuali degli atti privati ed alle modalità accessorie che i privati possono inserire nella struttura tipica degli atti » (Rescigno, 2010, 730). Nella stessa linea di lettura, si evolve anche il significato del vocabolo «sostanze», contenuto nell'art. 587. Esso, cioè, non è più inteso come sinonimo di «beni», quanto di «interessi», di modo che, in breve, il testamento diviene strumento di «sistemazione d'interessi post mortem» (Bonilini, 2006, 204). Possono rammentarsi, quali disposizioni regolatrici di interessi, ma non dispositive di beni, le disposizioni in cui l'attribuzione di essi è neutralizzata dalle passività ereditarie (anzitutto la damnosa hereditas, ma anche l'onere imposto al legatario che esaurisce l'attivo, ex art. 671 c.p.c., nonché il legato a favore del creditore di cui all'art. 659); le previsioni degli artt. 651, 653 e 656, concernenti beni non appartenenti al testatore; la costituzione di fondazione; la nomina dell'esecutore testamentario; le regole dettate per la divisione; la divisione fatta dal testatore; la dispensa dalla collazione o dall'imputazione; il riconoscimento di debito; la revoca del beneficio nel contratto a favore di terzi con prestazione da eseguire dopo la morte dello stipulante (art. 1412), la confessione stragiudiziale (art. 2735, comma 1); l'esercizio del diritto di opzione o di riscatto. Quantunque la giurisprudenza non abbia preso espressa posizione sull'interpretazione della nozione di patrimonialità, l'adesione alla soluzione più elastica emerge da una pronuncia resa a conclusione di una controversia iniziata come lite tra coniugi in cui si legge: «L'esistenza o meno di un patrimonio nella disponibilità del de cuius non incide sulla validità del testamento, non essendo prescritta detta condizione da alcuna norma di legge» (Cass. n. 3939/2001). In tale pronuncia si afferma che del patrimonio di cui il testatore può disporre «fanno parte non solo i beni che appartengono a quest'ultimo al momento della morte, ma anche il diritto di veder riconosciuta la sua proprietà sui beni che apparentemente appartengono ad altri; colui che è stato istituito erede acquista quanto meno tale diritto» (Cass. n. 3939/2001). Più di recente, poi, l'affermazione secondo cui il «disporre» cui si riferisce l'art. 587 non va inteso in senso strettamente attributivo emerge con chiarezza da una pronuncia, resa in tema di diseredazione, che si esaminerà più avanti (Cass. n. 8352/2012). In tale prospettiva va a collocarsi l'affermazione secondo cui a dichiarazione unilaterale scritta dal fiduciario, ricognitiva dell'intestazione fiduciaria dell'immobile, può essere contenuta anche in un testamento; essa non costituisce autonoma forma di obbligazione, avendo solo effetto confermativo del preesistente rapporto nascente dal patto fiduciario, con conseguente esonero a favore del fiduciante, destinatario della contra se pronuntiatio, dell'onere della prova del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (Cass. II, n. 26988/2020). L'evoluzione della nozione di patrimonialità, intesa nel senso di sistemazione di interessi post mortem, non sta tuttavia a recidere il legame, al quale si è accennato, tra l'art. 587 e l'art. 588, che definisce le disposizioni a titolo universale e a titolo particolare, ma soltanto a significare che la disposizione mediante attribuzioni di beni costituisce soltanto una species del genus del «disporre», cui si riferisce la prima delle due norme. La diseredazioneAl carattere della patrimonialità del testamento si collega il classico tema della diseredazione, il quale richiede di prendere posizione su alcuni aspetti fondamentali della disciplina successoria: per un verso, come si è visto, sul significato da attribuire al dettato dell'art. 587, secondo cui il testamento è un atto con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse; per altro verso sul rapporto tra la successione testamentaria e la successione legittima, come delineata dall'art. 457, il quale stabilisce che l'eredità si devolve per legge o per testamento e che non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria. Secondo l'opinione tradizionale, «la diseredazione, come tale, non può avere effetto, perché non è, per se stessa, atto di disposizione dei beni, mentre un atto di tale natura è necessario per evitare l'apertura della successione legittima. Il testatore non può modificare la disciplina della successione legittima, escludendo taluno dei successibili designati dalla legge o alterando gli ordini successori e così via; il testatore può soltanto impedire l'applicazione delle norme sulla successione legittima disponendo dei propri beni a favore di una o più persone, sì da determinare l'apertura della successione testamentaria » (Mengoni, 1961, 15). Secondo altro indirizzo, è ammissibile la disposizione testamentaria volta alla esclusione dalla successione legittima di un successibile ex lege (naturalmente non legittimario), anche in mancanza della positiva attribuzione dei beni, e cioè la disposizione meramente negativa, diretta a paralizzare, in sede di successione intestata, la chiamata all'eredità di uno dei soggetti designati dalla legge. Seguendo questa seconda impostazione, sovente accolta dalla giurisprudenza di merito (App. Firenze 9 settembre 1954; App. Napoli 21 maggio 1961; Trib. Parma 3 maggio 1977; Trib. Nuoro 15 settembre 1989), la clausola di diseredazione è pur essa da qualificare quale disposizione testamentaria, la quale produce l'effetto di dar luogo all'apertura della successione legittima (si badi: non della successione testamentaria) in favore dei successibili non diseredati. La S.C. ha per lungo tempo mantenuto nei fatti, fino a tempi recenti, una posizione di compromesso, volta in teoria a negare validità alla diseredazione, ma nella sostanza diretta a salvaguardare le clausole di diseredazione sottoposte al suo esame. Il fatto è che la clausola di diseredazione è per sua natura intrisa di un fortissimo contenuto emotivo-esistenziale: c'è nella diseredazione una volontà vivamente formata, sia pure in negativo, a causa, normalmente, di torti, mancanze, disattenzioni, sgarbi cumulatisi nel corso degli anni in danno del testatore e ad opera del diseredato; una volontà, di segno negativo, che fa premio sulla stessa volontà positiva, che in definitiva il testatore rimette al disegno del legislatore, dando luogo all'apertura della successione legittima nei confronti dei successibili non diseredati. Sicché, tenuto conto della naturale attenzione alla volontà del testatore (volutas testantis magis spectanda est), la S.C. ha per lungo tempo ribadito l'invalidità della clausola di diseredazione, ma ad una condizione: che la clausola fosse solo e soltanto di contenuto negativo e, dunque, non consentisse di riconoscere una positiva volontà attributiva, sia pure implicita, in favore dei non diseredati. Per questa via, quindi, la S.C. ha aderito alla tesi dell'invalidità della clausola di diseredazione, ma, nella pratica, ha poi «salvato» le clausole di diseredazione nelle quali si è imbattuta, riconoscendovi, spesso con più di uno sforzo, una implicita volontà attributiva. Ciò è reso palese, ad esempio, dalla vicenda scrutinata dal tribunale di Nuoro (Trib. Nuoro 15 settembre 1989). Il testamento era così formulato: « Io sottoscritto [...] esprimo la propria volontà con piena e serena conoscenza, in caso di morte o di legittimo impedimento, escludo dai miei beni mobili o immobili i propri fratelli [...], con loro anche le loro famiglie non devono beneficiare nulla delle mie cose ». Ora, il tribunale aveva sostenuto che il testamento contenesse una volontà meramente negativa, ma valida, con conseguente apertura della successione legittima. La corte d'appello era stata di diverso avviso e così pure la S.C., che aveva riconosciuto nella formula adottata dal testatore una volontà non soltanto negativa, ma positiva di istituzione (si badi: attraverso l'apertura della successione testamentaria) dei non diseredati (Cass. n. 5895/1994; la sentenza fondamentale, per quest'indirizzo, è Cass. n. 1458/1967). La S.C. ha poi capovolto il proprio precedente indirizzo, affermando che: « Il “disporre” di cui all'art. 587, comma 1, può includere, non solo una volontà attributiva o una volontà istitutiva, ma anche una volontà ablativa e più esattamente, destituiva ogni disposizione patrimoniale di ultima volontà, anche se non “attributiva” e anche se non prevista nominatim dalla legge, può dunque costituire un valido contenuto del negozio testamentario, solo se rispondente al requisito di liceità e meritevolezza di tutela e se rispettosa dei diritti dei legittimari. L'ammissibilità della clausola diseredativa, quale autonoma disposizione negativa, appare, infine, in linea con l'ampio riconoscimento alla libertà e alla sovranità del testatore compiuto dal legislatore » (Cass. n. 8352/2012). È dunque valida, secondo quest'ultima pronuncia, la clausola del testamento con la quale il testatore manifesti la volontà destituiva, che può includersi nel «disporre», di cui all'art. 587, comma 1, diretta ad escludere dalla propria successione legittima alcuni dei successibili ed a restringerla così ai non diseredati, costituendo detta clausola di diseredazione espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, rientrante nel contenuto tipico dell'atto di ultima volontà e volta ad indirizzare la concreta destinazione post mortem delle proprie sostanze, senza che per diseredare sia, quindi, necessario procedere ad una positiva attribuzione di bene, né occorra prova di un'implicita istituzione. Il testamento come atto personalissimoIl testamento è un atto personalissimo, non suscettibile di essere delegato ad un rappresentante, né di essere integrato, se non entro limiti circoscritti, ad opera di un terzo, come si desume dall'art. 631, comma 1, il quale commina la nullità di ogni disposizione testamentaria con la quale si fa dipendere dall'arbitrio di un terzo l'indicazione dell'erede o del legatario, ovvero la determinazione della quota di eredità, nonché dall'art. 632, comma 1, il quale sanziona parimenti di nullità da disposizione che lascia al mero arbitrio del terzo la determinazione dell'oggetto o della quantità del legato. Così si è ad esempio affermato, in dottrina, che « il principio della personalità del negozio testamentario è assoluto, e pertanto non soffre alcuna eccezione. Esso riguarda sia la rappresentanza volontaria che la rappresentanza legale. La incapacità negoziale in materia testamentaria assume pertanto un carattere di irrimediabilità sino a che perdura lo stato di incapacità del soggetto » (Allara, 1957). In giurisprudenza si trova parimenti affermato che «il testamento è atto personalissimo del testatore in cui si manifesta la sua volontà esclusiva senza possibilità di intermediari o rappresentanti» (App. Firenze 8 agosto 1953). L'inquadramento del testamento nell'ambito degli atti personalissimi trae origine dalla tesi secondo cui esistono nell'ordinamento atti che, richiedendo una determinazione volitiva ed una scelta non surrogabile (matrimonio, separazione, divorzio, riconoscimento del figlio naturale, richiesta di legittimazione del figlio naturale, adozione, testamento, donazione, confessione, giuramento), sono strettamente inerenti alla persona dell'autore, sicché per essi non opera il congegno della rappresentanza legale. Tale carattere del testamento suscita forti dubbi sull'esattezza dell'assunto sostenuto da un giudice di merito secondo cui: «Il paziente affetto da sclerosi laterale amiotrofica (Sla) può fare testamento dettando le proprie volontà all'amministratore di sostegno avvalendosi del comunicatore oculare, non potendosi ammettere che un individuo perda la facoltà di testare a causa della propria malattia, trattandosi di una discriminazione fondata sulla disabilità» (Trib. Varese 12 marzo 2012). D'altro canto, negare che il beneficiario dell'amministratore di sostegno (quando ne sia capace ai sensi dell'art. 591 e la capacità di fare testamento non sia stata esclusa mediante il provvedimento giudiziale di nomina dell'amministratore, ex art. 411, possa fare testamento olografo a mezzo dell'amministratore non significa impedirgli tout court di testare, ben potendo egli ricorrere al testamento pubblico. Il testamento come atto unilaterale non ricettizioIl testamento è inoltre un atto unilaterale, che si fonda sulla esclusiva volontà del testatore, come emerge ancora una volta dall'uso del verbo «dispone». Tale carattere trova conferma nel dettato dall'art. 458, il quale vieta i patti successori, nonché dell'art. 589, che reca il divieto del testamento congiuntivo o reciproco, senza che l'opposta conclusione possa essere arguita dalla necessità dell'accettazione da parte del chiamato all'eredità, dal momento che proprio detta ultima qualità è attribuita dal testamento unilateralmente ed indipendentemente dalla comunicazione dell'atto. Testamento di accettazione, insomma, «costituiscono due distinti, autonomi negozi» (Cicu, 1969, 20). Neppure la volontà testamentarie richiede di essere comunicata a terzi, sicché il testamento è per conseguenza atto non ricettizio (già Cass. n. 834/1965; Cass. n. 8495/2004; Cass. n. 5604/2001). Come è stato osservato, la dichiarazione di ultima volontà « non è rivolta a nessuno dei presenti; né la pubblicazione (artt. 620, 621) né la comunicazione (art. 623) rappresentano un elemento di efficacia dell'atto, o tanto meno un suo elemento formativo » (Giampiccolo, 1954, 106). Corollario del carattere non ricettizio del testamento è che il suo perfezionamento, del quale subito si dirà, non richiede l'uscita dell'atto dalla sfera soggettiva del suo autore (App. Napoli 8 agosto 1957). Dal menzionato carattere, inoltre, discendono importanti conseguenze sul piano dell'interpretazione del testamento, che non segue il principio dell'affidamento, come si vedrà più avanti. Il «perfezionamento» del testamento e la definitività della determinazione volitivaLa successione si apre al momento della morte, ai sensi dell'art. 456. Sicché il testamento, prima di tale momento, non produce alcun effetto. Ciò non vuol dire, tuttavia, che esso non sia perfezionato per il fatto stesso della sua formazione. Nel testamento, in altri termini: « Chi compie l'atto di ultima volontà, se anche si rappresenta la possibilità di ritornare sulla sua determinazione con una revoca, non effettua comunque un abbozzo di dichiarazione, ma vuole esprimere la volontà seria e definitiva di disporre in quel determinato modo in cui dispone. L'atto pertanto non è la semplice manifestazione di una intenzione, di un proposito, ma la manifestazione di un volere » (Giampiccolo, 1954, 59). Ne discende, guardando all'individuazione del momento di perfezionamento del testamento, che la soluzione di continuità tra detto momento e quello di efficacia del testamento è totale, «nel senso che medio tempore tra la sua formazione e l'evento della morte l'atto non spiega effetto di sorta di fronte ai terzi, nemmeno prodromico o preliminare, per cui può dirsi che di fronte ad essi, fino al momento della morte del suo autore, non rileva come compiuto ancora» (Giampiccolo, 1954, 60). Il momento in cui la dichiarazione di volontà può dirsi formata ed acquista attitudine a produrre i suoi effetti, pur dopo il verificarsi dell'evento morte, « è quello del distacco della dichiarazione stessa dal suo autore, salvo una precisa prova del contrario: cioè è il momento della sottoscrizione della scheda testamentaria e non quello della morte del testatore» (App. Napoli 8 agosto 1957). Il testamento, naturalmente, richiede la volontà del testatore di disporre delle proprie sostanze o di parte di esse per il tempo in cui avrà cessato di vivere, ex art. 587. La verifica della sussistenza di una volontà testamentaria deve integrarsi con lo scrutinio della conformità dell'atto al paradigma formale normativamente richiesto: «Ai fini della configurabilità di una scrittura privata come testamento olografo, non è sufficiente il riscontro della sussistenza dei requisiti di forma individuati dall'art. 602, occorrendo altresì l'accertamento dell'oggettiva riconoscibilità nella scrittura della volontà attuale del suo autore di compiere un atto di disposizione del proprio patrimonio per il tempo successivo al suo decesso. Tale accertamento, che costituisce un prius logico rispetto alla stessa interpretazione della volontà testamentaria, è rimesso al giudice del merito e, se congruamente e logicamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità» (Cass. n. 8490/2012). Nel sottolineare l'importanza della volontà, ragionando per assurdo, come si ricorderà più avanti, si è ipotizzato il caso che un documento presenti tutti i requisiti dell'olografo e, nella dichiarazione, rechi «soltanto il nome dei giocatori della Roma» (Branca, in Comm. S.B. 1986, 106). Tutto semplice, in questo caso, non potendo dubitarsi che un testamento non via sia. Ma, per aversi testamento «basta ed occorre una dichiarazione seria e attuale di disporre delle proprie sostanze a causa di morte» (Branca, in Comm. S.B. 1986, 106), sicché, può accadere infinite volte che la dichiarazione racchiusa nel documento, perfetta dal punto di vista formale, susciti dubbi sulla sua natura di testamento. Nel caso esaminato dall'ultima decisione ricordata (Cass. n. 8490/2012), ad esempio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, la quale aveva ravvisato la sussistenza di un testamento olografo in un documento recante soltanto la dichiarazione ricognitiva dell'autore che tutti i beni a lui intestati erano esclusivamente di proprietà della moglie. In giurisprudenza, l'elemento distintivo della vera dichiarazione di ultima volontà è stata individuata nella sua definitività, intesa, però, non come immodificabilità — giacché solo la morte del testatore rende immodificabile il testamento — ma come contingente compiutezza ed incondizionatezza. In particolare, si è affermato: «Perché si abbia una disposizione di ultima volontà e quindi esista un negozio mortis causa, è necessario che lo scritto contenga la manifestazione di una volontà definitiva dell'autore (definitiva non nel senso che non possa essere revocata, ma nel senso che essa si sia compiutamente ed incondizionatamente formata e manifestata), diretta a disporre attualmente, in tutto o in parte, dei propri beni per il tempo successivo alla morte» (Cass. n. 8668/1990). Si ha testamento, dunque, se il proponimento del testatore, al momento della formazione della scheda, è racchiuso in essa, senza il programma di una ulteriore determinazione volitiva. Il testamento come atto revocabileIl testamento è per sua stessa natura, quale atto di ultima volontà, oltre che per espressa previsione dell'art. 587, necessariamente revocabile fino alla morte del testatore, né, ai sensi dell'art. 679, si può in alcun modo rinunziare alla facoltà di revocare o mutare le disposizioni testamentarie, essendo priva di effetto ogni clausola o condizione contraria. Il carattere della revocabilità del testamento si ricollega alla sua attitudine al perfezionamento per effetto della sola formazione dell'atto, prima ancora che l'evento morte abbia luogo. La previsione della revocabilità, cioè, conferma che l'atto, al momento della sua formazione, è già perfetto, richiedendo un atto contrario al precedente, volto a travolgerne l'esistenza (Giampiccolo, 1954, 60). Per altro verso, il carattere della revocabilità, espresso nel tradizionale brocardo ambulatoria est voluntas defuncti usque ad vitae supremum exitum, non è che un'altra faccia di quello della personalità, giacché è volto a garantire la libertà e spontaneità della determinazione volitiva del testatore, nella stessa prospettiva in cui operano il divieto del testamento congiuntivo (art. 589), la particolare rilevanza dell'errore sul motivo e del motivo illecito (artt. 624, comma 2, e 626), la complessiva disciplina della forma del testamento. Il carattere della solennità e la configurabilità di un testamento oraleIl testamento è atto formale e solenne, poiché richiede a pena di nullità l'osservanza delle particolari forme previste dalla legge, ossia quelle del testamento olografo, pubblico e segreto (tra gli altri Cicu, in Tr. C. M 1961, 26; Giannattasio, 1961, 86; Tamburrino, 1992, 488; Bonilini, 1995, 42; sul tema, più di recente, Cicala, in Tr. B. 2009, 1253). Come si vedrà più avanti, tuttavia, taluni hanno tenuto distinto il carattere della formalità da quello della solennità, che mancherebbe nel testamento olografo (Branca, in Comm. S.B. 1986, 110), eccezion fatta per la marginale ipotesi dei c.d. «testamenti speciali». Le forme del testamento costituiscono comunque, indipendentemente dall'accoglimento del carattere di solennità, non già mera modalità di espressione del volere, ma requisito indefettibile di esso (Bigliazzi Geri, in Tr. Res. 1997, 163). Occorre qui accennare alla questione del testamento orale o nuncupativo — dal latino nuncupare, ossia nominare — il quale, considerato il formalismo che caratterizza le disposizioni testamentarie, altro non è che un non-testamento, come tale inidoneo a produrre effetti (p. es., Giannattasio, 1961, 104). Ed anzi, è opportuno ricordare che — mancando un qualche ostacolo all'astratta configurabilità del testamento orale, già riconosciuto come valido dal diritto romano — detta forma di testamento «erasi bensì tentato di introdurre nel codice con l'art. 166 del prog. prelim. del libro delle successioni per i testamenti in caso di infortuni o in luoghi di malattie contagiose pei quali non potessero essere presenti gli ufficiali pubblici espressamente abilitati a riceverli» (Azzariti-Martinez-Azzariti, 1973, 396), ma il progetto era stato abbandonato per la sfiducia nella possibilità di pervenire ad una esatta ricostruzione della volontà del testatore a mezzo della relazione verbale dei testimoni, anche al di fuori dei casi di malafede dei medesimi. È oggetto di discussione, invece, la diversa questione — alla quale occorrerà in questa sede limitarsi ad accennare — se il testamento orale possa essere oggetto della eccezionale sanatoria prevista dall'art. 590, che disciplina la conferma ed esecuzione volontaria di disposizioni testamentarie nulle. Parte della dottrina è dell'opinione che il testamento orale sia non già semplicemente nullo, bensì giuridicamente inesistente e, come tale, insuscettibile di sanatoria (Caramazza, 1982, 56; Capozzi, 1983, 442; Cannizzo, 1996, 46; Triola, 1998, 356). Secondo quest'indirizzo, se si ammettesse alla sanatoria il testamento orale, si finirebbe, quindi, per attribuire alla conferma o esecuzione volontaria non già la natura sua propria di atto accessorio ad un testamento esistente, sebbene viziato, ma quella di atto sostitutivo del testamento. Vi sarebbero, cioè, come è stato ribadito, «due modi di fare testamento: quello indicato negli artt. 601 ss. e quello della conferma o esecuzione volontaria» (Marmocchi 1994, 759). Altra parte della dottrina, al contrario, si è espressa per la confermabilità del testamento orale (Pasetti, 1953, 87; Giannattasio, 1961, 43; Lipari, 1970, 399; Venditti, 1989, 408; Scalia, 1994, 1246; Bigliazzi Geri, 1997, 212). La giurisprudenza, nelle non numerose pronunce sul punto, si è anch'essa orientata, in misura del tutto prevalente, nello stesso senso. La S.C., in particolare, collocatasi nella scia di una remota decisione resa in riferimento all'art. 1311 del previgente, secondo la quale «non ripugna alla realtà delle cose la esistenza di un testamento nuncupativo, ammessa in varie legislazioni» (Cass. n. 1479/1941), ha in più occasioni ribadito l'indirizzo (Cass. n. 8/1946; Cass. n. 1689/1964; Cass. n. 719/1965; Cass. n. 389/1970; Cass. n. 2800/1984; Cass. n. 6313/1996; nella giurisprudenza di merito Trib. Napoli 30 giugno 2009; App. Roma 4 maggio 1961; Trib. Napoli 29 aprile 1986; App. Napoli 3 maggio 1989; Trib. S. Maria Capua Vetere 28 giugno 1955; contra Trib. Trani 28 luglio 1950, sul rilievo dell'inesistenza del testamento orale; indirettamente v. pure Cass. n. 6313/1996, in tema di responsabilità del notaio per aver rogato l'atto di conferma del testamento orale; contra sul punto App. Brescia 20 luglio 1995; Trib. Bergamo 7 novembre 1994). In una citata decisione (Cass. n. 6313/1996), la S.C. ha indirettamente ammesso la confermabilità del testamento orale, ex art. 590, per atto di notaio, in un caso in cui (come si desume implicitamente dal riferimento contenuto nella sentenza alla l. n. 52/1985 ed alla l. n. 47/1985) il patrimonio relitto comprendeva beni immobili. Viceversa, è stato ritenuto che la sanatoria del testamento orale non possa in nessun caso produrre il trasferimento della proprietà di beni immobili, per i quali l'atto scritto - proveniente dal dante causa, naturalmente, non da coloro i quali danno luogo alla sanatoria - è richiesto ad substantiam actus: e ciò perché la conferma ed esecuzione volontaria del testamento orale, una volta riconosciutane l'ammissibilità, producono la sanatoria dei vizi da cui è affetto il testamento orale, ma non costituiscono esse stesse autonome fonti di attribuzione patrimoniale (Caramazza, in Comm. De M. 1982, 56; Cannizzo, 1996, 46). Liberalità e gratuitàNon sono caratteri del testamento la liberalità e gratuità, quantunque con esso possano arricchirsi «per spirito di liberalità, determinati soggetti, come avviene con la donazione» (Bonilini, 2006, 208). La donazione, infatti, a differenza del testamento, che dà luogo ad un fenomeno di eteroregolamento, è un contratto (art. 769 c.p.c.) che comporta, a fronte dell'arricchimento del donatario, un simmetrico depauperamento del donante, depauperamento intrinsecamente insuscettibile di colpire il testatore. D'altronde, neppure detto che il testamento porti con sé un vantaggio, sia pure senza corrispettivo sacrificio del testatore: tale vantaggio è difatti normale conseguenza della disposizione testamentaria, ma pur sempre soltanto eventuale, come nel caso poc'anzi citato della damnosa hereditas, e, più in generale, delle disposizioni destinate a rimanere assorbite dal passivo ereditario. La gratuità, dunque, non è carattere tale da concorrere alla definizione di testamento, sicché sembra corretto dire che quest'ultimo è «negozio neutro, disponibile, con la modellabilità delle sue disposizioni, sia ad effetti liberali e gratificatori che non» (Criscuoli, 1991, 161). La natura di atto negoziale del testamentoNon è mancato, in dottrina, a fronte dell'opinione di segno opposto generalmente accolta, il tentativo volto a negare il carattere negoziale del testamento, essenzialmente a partire dalla constatazione che esso è, di per sé, improduttivo di effetti prima della morte del suo autore, sicché si ridurrebbe a semplice presupposto di fatto di effetti meramente legali (Lipari, 1970). Nella formulazione della tesi viene posto l'accento, oltre che su considerazioni di carattere generale, su diverse disposizioni normative le quali contraddirrebbero il carattere negoziale del testamento: l'art. 651, comma 2, (legato di cosa dell'onerato o di un terzo) che commisura il potere di disporre da parte del testatore al momento dell'apertura della successione e non a quello della formazione del testamento; l'art. 687 (revocazione per sopravvenienza di figli) il quale comporta l'inefficacia dell'atto laddove non abbia potuto operare la volontà di escludere la successione legittima; gli artt. 625, 627, 630, comma 2, 634, 692, comma 3, ed altri, attraverso i quali la legge darebbe luogo ad effetti ulteriori o in contraddizione rispetto alla determinazione volitiva del testatore. Pur dopo la formulazione della tesi così riassunta, la dottrina prevalente ha mantenuto ferma l'affermazione del carattere negoziale del testamento, non esclusa dalla circostanza che i suoi effetti non siano perfettamente corrispondenti a quelli voluti. È rimasta così ferma la definizione di esso quale « dichiarazione di volontà con effetti corrispondenti al suo contenuto ». In definitiva, attraverso le disposizioni testamentarie, « si producono circa l'assetto patrimoniale post mortem del de cuius, conseguenze giuridiche divergenti da quelle che si verificherebbero se si aprisse soltanto la successione ex lege e che tali diverse conseguenze sono appunto quelle la cui produzione il testatore persegue con l'emissione della dichiarazione predetta » (Cian, 2007, 156). La giurisprudenza non dubita invece della natura negoziale del testamento, quale negozio mortis causa con struttura di atto unilaterale non recettizio (basti ricordare Cass. n. 27773/2011; Cass. n. 8495/2004; Cass. n. 8668/1990; Cass. n. 207/1985; Cass. n. 6343/1981, tutte concernenti l'applicabilità al testamento delle regole di ermeneutica contrattuale «con la sola eccezione di quelle incompatibili con la natura di atto unilaterale non recettizio del negozio mortis causa»). Le disposizioni di carattere non patrimonialeIl testatore, col testamento, può dare disposizioni di carattere non soltanto patrimoniale, ai sensi dell'art. 587, comma 1, c.p.c., ma anche non patrimoniale, secondo quanto dispone il comma 2. Taluno discorre in proposito di testamento in senso formale, dal momento che l'atto ha soltanto forma di testamento, come contrapposto al testamento in senso sostanziale, disciplinato dal comma 1 (Gangi, 1947, 28). Secondo altra opinione occorrerebbe distinguere tra contenuto tipico e contenuto atipico del testamento (Giampiccolo, 1954; ma v. Tamburrino, 1992, 474, secondo cui l'espressione «contenuto atipico» suscita confusione, sicché è preferibile utilizzare la formula «contenuto non patrimoniale». Altri ancora introducono le nozioni di testamento in senso negoziale e testamento in senso documentale, l'uno contenente disposizioni di carattere patrimoniale, l'altro recante soltanto disposizioni non patrimoniali, quale mero veicolo di trasmissione di esse (Cicu, in Tr. C. M. 1961, 33). Secondo l'opinione prevalente, tali disposizioni non patrimoniali, lungi dal possedere sostanza di disposizioni testamentarie, vedono attraverso la norma in esame semplicemente riconosciuta la propria efficacia nel contesto di un atto che - contenga o meno disposizioni di carattere patrimoniale - ha mera apparenza formale di testamento. Questa impostazione si appoggia sulla relazione al codice nella quale il Guardasigilli afferma di aver ritenuto opportuno di redigere la norma «in modo che ne emerga chiaro il concetto, già, del resto, insito nella precedente formulazione, che in mancanza di disposizioni patrimoniali si può parlare di atto rivestito delle forme testamentarie, ma non di testamento» (Relazione del Guardasigilli al Re, n. 285). Altri invece sostengono al contrario che, alla luce dell'art. 587, comma 2, deve essere considerato quale testamento anche quello che contenga soltanto disposizioni di ordine non patrimoniale. Non avrebbe cioè ragion d'essere la concezione del testamento in senso puramente formale, poiché testamento equivale ad atto di ultima volontà ed è proprio quest'ultima a distinguerlo da ogni altro atto, sicché anche la disposizione non patrimoniale sarebbe da considerare alla stregua di una disposizione testamentaria: ricorrerebbe in definitiva una disposizione testamentaria in presenza di una qualsivoglia manifestazione di volontà rivolta a regolare un dato rapporto nel tempo successivo alla morte (per tutti Bonilini, 2009, 3). La enunciata distinzione tra testamento in senso sostanziale ed in senso formale non manca di produrre ricadute applicative. Se, ad esempio, è richiesta per il testamento l'ordinaria capacità di agire che si consegue al 18º anno di età (art. 591, comma 2, n. 1), il riconoscimento del figlio naturale, che per espressa disposizione di legge può essere contenuto nel testamento, è valido se il testatore abbia compiuto il 16º anno di età (art. 250, u.c.); si immagini che il testatore, oltre a riconoscere il figlio naturale, abbia anche disposto delle proprie sostanze: si avrà in tal caso un riconoscimento valido, ma non un valido testamento, con conseguente apertura della successione legittima e non di quella testamentaria. Sul piano operativo merita cioè sottolineare che, secondo l'opinione comunemente accolta, l'inserimento di disposizioni non patrimoniali in una scheda testamentaria «non le fa partecipi del destino incontro al quale il testamento può andare incontro. L'eventuale nullità di questo non travolgerebbe quelle: un riconoscimento di figlio naturale produrrà i suoi effetti, alla morte del testatore, nonostante che, per avventura, l'atto di ultima volontà - col quale condivide, utilizzandolo, d'elemento formale - dovesse risultare, per una qualsiasi ragione, nullo» (Bigliazzi Geri, 1993, 83). L'art. 587, comma 2, si riferisce apparentemente a disposizioni di carattere non patrimoniale espressamente contemplate dalla legge. In questo senso si rinviene anche qualche responso giurisprudenziale (App. Roma 8 luglio 1999). Successivamente è stato detto che l'atto contenente disposizioni di carattere esclusivamente non patrimoniale può essere qualificato alla stregua di un testamento purché di questo abbia contenuto, forma e funzione, la quale ultima, in particolare, consiste nell'esercizio, da parte dell'autore, del proprio generale potere di disporre mortis causa (Cass. n. 1993/2016, che ha escluso la ricorrenza di un testamento olografo in una scrittura privata contenente il riconoscimento di figlio naturale, non evincendosi univocamente da essa la volontà del de cuius di determinare l'effetto accertativo della filiazione dopo la propria morte). Si discute, tuttavia, se la norma debba essere interpretata in senso stretto, ritenendo così valide soltanto le disposizioni non patrimoniali previste dalla legge. Secondo un primo prevalente orientamento, le disposizioni di carattere non patrimoniale contenuto in un testamento, abbia o no contenuto economico, devono, per essere giuridicamente efficaci, «consistere in negozi pei quali la legge - nel dettato della disciplina - specificamente consenta di compierli in un atto testamentario... e ne resta esclusa ogni altra disposizione, la quale, se pur abbia contenuto giuridico (ordine di distruggere determinati documenti o di consegnarli a una data persona, disposizioni relative alla sorte del proprio cadavere), non abbia però una propria disciplina della legge che ne consenta l'attuazione della forma del testamento» (Azzariti-Martinez-Azzariti, 1973, 400). Altri ritengono preferibile una lettura estensiva (Giampiccolo, 1954, 11). Seguendo l'orientamento maggioritario, le disposizioni non patrimoniali vengono così ad essere identificate, per rimanere a talune disposizioni codicistiche, nel riconoscimento del figlio naturale (art. 254), nella legittimazione del medesimo (art. 285), nella designazione del tutore (artt. 348 e 424), nella nomina del curatore speciale per l'amministrazione dei beni (art. 356), nella riabilitazione dell'indegno (art. 466), nella nomina dell'esecutore testamentario (art. 700), nella designazione del beneficiario dell'assicurazione sulla vita (art. 1920, su cui v. App. Ancona 11 maggio 1955, Rgc, 1955, Successione testamentaria, n. 103), nella confessione stragiudiziale (art. 2735). Al secondo comma dell'art. 587, inoltre, è stata ricondotta dalla giurisprudenza la disposizione concernente la propria cerimonia funebre e la propria sepoltura (così, Trabucchi, 2005, 438; Barassi, 1947, 303; contra, secondo un'opinione rimasta isolata, Azzariti, 1977, 822; in argomento Musolino 2001, 471; Musolino 2007, 690; più di recente Bonilini 2009, 789, spec. 808). Difatti, «ogni persona fisica può scegliere liberamente le modalità ed il luogo della propria sepoltura, consentendo espressamente la legge che tra le disposizioni testamentarie rientrino anche quelle a carattere non patrimoniale (art. 587, comma 2)» (Cass. n. 12143/2006). Eguali considerazioni valgono per l'incenerimento della propria salma: «La disposizione relativa all'incenerimento della propria salma rientra tra le disposizioni di carattere non patrimoniale che hanno efficacia se contenute in un atto che alla forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale» (Cass. n. 1584/1969). La dottrina riconosce inoltre che il testatore possa dare per testamento le disposizioni concernenti non solo la sepoltura, ma anche la cerimonia funeraria (per tutti Giampiccolo, 1954, 15). È rimasta isolata, come si è detto, la tesi (Azzariti, 1977, 822), secondo cui le disposizioni in tema di cerimonia funeraria e sepoltura, ove non assumano il rilievo del modus, sono prive di efficacia giuridica, non essendo disciplinate dalla legge, secondo quanto richiederebbe l'art. 597, comma 2. Si tenga presente, tuttavia, che la disposizione testamentaria diviene esecutiva con la formalità della pubblicazione, la quale difficilmente è realizzata prima del funerale abbia luogo: ciò non esclude tuttavia che a detta disposizione possa darsi esecuzione e che, d'altronde, essa possa assumere forme diverse da quella testamentaria (v. sul tema Bonilini, 2011, 405; in giurisprudenza la citata Cass. n. 12143/2006, ritiene ammissibile il conferimento di un mandato avente ad oggetto atti da compiersi dopo la morte del mandante). Un caso peculiare di disposizione non patrimoniale è stato esaminato dalla corte di merito capitolina, trovatasi a giudicare di un testamento con cui la de cuius dava atto di aver già dato tutti i propri beni, in vita, in beneficenza, sicché nessun vantaggio economico sarebbe derivato all'erede nominato (App. Roma 26 luglio 1978). L’interpretazione del testamentoAnche il testamento, come gli altri negozi giuridici, pone il problema dell'individuazione dell'esatta volontà in esso cristallizzata: non già, tuttavia, la volontà «delle parti», volendo rammentare l'espressione che si rinviene nell'art. 1362, dal momento che il testamento è negozio giuridico unilaterale, sicché l'interpretazione è diretta alla ricerca della volontà del testatore (v. di recente Vidiri, 2012, 651; Carleo, 2009, 1535; Musolino, 2007, 467). In dottrina, l'applicabilità al testamento delle regole di ermeneutica contrattuale, sia pure nei limiti della compatibilità, viene posta in correlazione con il carattere negoziale, in precedenza illustrato, del testamento. Si riconosce, per altro verso, che il testamento non tollera l'interpretazione secondo buona fede, ma obbedisce, al contrario, al criterio fondamentale della ricerca dell'effettivo intento del dichiarante (Giampiccolo, 1954, 169 ss.). Va dunque individuata la volontà vera del disponente, la quale, ove sorgano contestazioni, va accertata in qualsiasi modo che fornisca garanzie di sicurezza, giacché, come emerge dalle norme in tema di vizi della volontà (art. 624, comma 2), di divergenza tra la volontà e la dichiarazione (art. 625), e di nullità per illiceità del motivo (art. 626), l'interpretazione del testamento deve mirare ad indagare la volontà effettiva e reale del testatore (Azzariti-Martinez-Azzariti 1973, 409). In tale ottica l'interpretazione non incontra il limite operante in materia contrattuale dell'affidamento dell'altro contraente. Considerato, dunque, che il testatore è arbitro di decidere tanto se fare testamento, quanto di determinare il contenuto dell'atto, è del tutto ovvio che il significato delle disposizioni testamentarie debba essere individuato in esclusiva considerazione della sua volontà, ricostruita sulla base delle sue stesse modalità espressive: «Il significato in disputa non è quello che risulta dalla maniera in cui si vogliono generalmente adoperare le parole, ma è quello desunto dal modo di esprimersi proprio del dichiarante o dalle sue convinzioni o dai suoi affetti o magari dai suoi pregiudizi, e cioè da tutti quegli elementi che servono a determinare l'esatta volontà da lui manifestata in un atto che poteva compiere o non a suo libito e nei limiti da lui voluti, senza alcun riguardo alle aspettative o alle idee o alle illusioni altrui; a nulla varrebbero in contrario le pretese o le speranze del beneficiario, appunto perché si tratta di stabilire non la volontà comune a più parti, ma la volontà esclusiva del disponente, la quale plenius spectanda est» (Stolfi 1961, 239). Si è ancora posto l'accento sull'inapplicabilità dei criteri di interpretazione oggettiva (art. 1366-1371), almeno fintanto che sia possibile identificare altrimenti la reale volontà del de cuius (Branca, in Comm. S.B. 1986, 32). Secondo la S.C., ai fini dell'interpretazione del testamento sono utilizzabili tutti i canoni ermeneutici dettati dagli artt. 1362-1371, ma nei limiti della compatibilità derivanti dalla particolarità della materia (p. es. Cass. n. 3282/1962); tutto ciò sempre salvaguardando il rispetto, in materia, del principio del favor testamenti, ovvero di conservazione del testamento (p. es. Cass. n. 468/2010, la quale ha ritenuto non implausibile, che l'espressione «mobili di casa», oggetto di un legato, fosse stata intesa quale sinonimo di «arredamento», come tale non idonea a ricomprendere anche pellicce e preziosi; Cass. n. 4022/2007, concernente una clausola testamentaria con cui il testatore non intendendo istituire un erede, aveva previsto soltanto un onere, avente ad oggetto la realizzazione di un asilo nido a beneficio di bambini extracomunitari, a carico dell'erede, individuato secondo le norme della successione legittima). Non può dunque trovare ingresso, come appena accennato, l'indagine sulla « comune intenzione delle parti ». Ed allo stesso modo risultano inutilizzabili tutti criteri interpretativi diretti alla tutela dell'affidamento dei terzi: la natura non recettizia del testamento, in precedenza illustrata, determina infatti l'inapplicabilità del principio dell'affidamento. Occorre cioè tener presente, come criterio generale, come si è già visto, che «il senso giuridico della dichiarazione testamentaria deve ritenersi conforme a quello che il dichiarante riteneva che la medesima avesse, quale che sia il significato oggettivo delle espressioni da lui usate» (Cian 2007, 164). È perciò ricorrente, in giurisprudenza, l'affermazione secondo cui, nella ricerca dell'effettiva volontà del testatore, non ha alcuna rilevanza del comportamento degli eredi o di coloro che si ritengono tali, non potendosi da esso ricavare alcun utile elemento per stabilire il contenuto e le disposizioni di ultima volontà (Cass. n. 3751/1976; Cass. n. 273671975). La S.C., nel riassumere i termini della scansione del procedimento interpretativo, ha osservato che: «L'interpretazione del testamento, cui in linea di principio sono applicabili le regole di ermeneutica dettate dal codice in tema di contratti, con la sola eccezione di quelle incompatibili con la natura di atto unilaterale non recettizio del negozio mortis causa è caratterizzata rispetto a quella contrattuale da una più penetrante ricerca, al di là della dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, alla stregua dell'art. 1362, va individuata con riferimento ad elementi intrinseci alla scheda testamentaria, sulla base dell'esame globale della scheda stessa e non di ciascuna singola disposizione, e, solo in via sussidiaria, ove cioè dal testo dell'atto non emerga con certezza l'effettiva intenzione del de cuius e la portata della disposizione, con il ricorso ad elementi estrinseci al testamento, ma pur sempre riferibili al testatore, quali ad esempio la personalità dello stesso, la sua mentalità, cultura, condizione sociale, ambiente di vita ecc.» (Cass. n. 8668/1980; Cass. n. 25521/2023). L'interpretazione del testamento, cui in linea di principio sono applicabili le regole di ermeneutica dettate dal codice in tema di contratti, con la sola eccezione di quelle incompatibili con la natura di atto unilaterale non recettizio del negozio mortis causa — si trova altrove affermato sulla scia di Cass. n. 12861/1993) — è caratterizzata «rispetto a quella contrattuale da una più penetrante ricerca, al di là della dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, alla stregua dell'art. 1362, va individuato con riferimento ad elementi intrinseci alla scheda testamentaria, sulla base dell'esame globale della scheda stessa e non di ciascuna singola disposizione, e, solo in via sussidiaria, ove cioè dal testo dell'atto non emerga con certezza l'effettiva intenzione del de cuius e la portata della disposizione, con il ricorso ad elementi estrinseci al testamento, ma pur sempre riferibili al testatore, quali ad esempio la personalità dello stesso, la sua mentalità, cultura, condizione sociale, ambiente di vita ecc.; l'accertamento di tale volontà, risolvendosi in una indagine di fatto da parte del giudice di merito, è, quindi, sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica sopradescritte o per vizi logici e giuridici attinenti la motivazione» (Cass. n. 5604/2001; Cass. n. 10882/2018). Ciò in conformità all'indirizzo segnato da Cass. n. 1266/1987; Cass. n. 7025/1986;Cass. n. 207/1985; Cass. n. 110/1984. Solo in via sussidiaria, dunque, nel caso che dal testo non emerga con certezza l'effettiva intenzione del de cuius, è consentito il ricorso ad elementi estrinseci al testamento, secondo l'insegnamento già tracciato dalle medesime pronunce appena citate (e ribadito in tempi meno remoti da Cass. n. 13785/2004; Cass. n. 3940/2001). Perciò: « In tema di interpretazione del testamento, qualora dall'indagine di fatto riservata al giudice di merito risulti già chiara, in base al contenuto dell'atto, la volontà del testatore, non è consentito - alla stregua del primario criterio ermeneutico della letteralità - il ricorso ad elementi tratti aliunde, ed estranei alla scheda testamentaria » (Cass. n. 20204/2005). L'interpretazione della volontà del testatore espressa nella scheda testamentaria, infine, risolvendosi in un accertamento di fatto demandato al giudice di merito, è compito esclusivo di questo, nel senso che a lui è riservata la scelta e la valutazione degli elementi di giudizio più idonei a ricostruire la predetta volontà, potendo egli avvalersi in tale attività interpretativa, ovviamente con opportuni adattamenti per la particolare natura dell'atto, delle stesse regole ermeneutiche di cui all'art. 1362; con la conseguenza che, se siffatta operazione è compiuta nel rispetto delle predette regole e se le conclusioni che vengono tratte sono aderenti alle risultanze processuali e sorrette da logica e convincente motivazione, il giudizio formulato in quella sede non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 7422/2005). La volontà nel testamentoIl testamento, naturalmente, richiede la volontà del testatore di disporre delle proprie sostanze o di parte di esse per il tempo in cui avrà cessato di vivere, ex art. 587. Nel sottolineare l'importanza della volontà — ragionando per assurdo —, si è ipotizzato il caso che un documento presenti tutti i requisiti dell'olografo e, nella dichiarazione, rechi «soltanto il nome dei giocatori della Roma» (Branca, in Comm. S.B. 1986, 106). Tutto semplice, in questo caso, non potendo dubitarsi che un testamento non via sia. Ma, per aversi testamento «basta ed occorre una dichiarazione seria e attuale di disporre delle proprie sostanze a causa di morte» (Branca, in Comm. S.B. 1986, 106), sicché, può accadere infinite volte che la dichiarazione racchiusa nel documento, perfetta dal punto di vista formale, susciti dubbi sulla sua natura di testamento. In giurisprudenza si è parimenti osservato che perché un atto costituisca disposizione testamentaria, è necessario che lo scritto contenga la manifestazione di una volontà definitiva dell'autore, compiutamente e incondizionatamente formata, diretta allo scopo di disporre attualmente dei suoi beni, in tutto o in parte, per il tempo successivo alla propria morte; pertanto, ai fini della configurabilità di una scrittura privata come testamento non è sufficiente il riscontro dei requisiti di forma, occorrendo, altresì, l'accertamento dell'oggettiva riconoscibilità nella scrittura della volontà attuale del suo autore di compiere non già un mero progetto, ma un atto di disposizione del proprio patrimonio per il tempo successivo al suo decesso (Cass. n. 25936/2021). L' elemento distintivo della vera dichiarazione di ultima volontà è stata dunque individuata nella sua definitività, intesa, però, non come immodificabilità - giacché solo la morte del testatore rende immodificabile il testamento - ma come contingente compiutezza ed incondizionatezza. In particolare, si è affermato: «Perché si abbia una disposizione di ultima volontà e quindi esista un negozio mortis causa, è necessario che lo scritto contenga la manifestazione di una volontà definitiva dell'autore (definitiva non nel senso che non possa essere revocata, ma nel senso che essa si sia compiutamente ed incondizionatamente formata e manifestata), diretta a disporre attualmente, in tutto o in parte, dei propri beni per il tempo successivo alla morte» (Cass. n. 8668/1990). Si ha testamento, dunque, se il proponimento del testatore, al momento della formazione della scheda, è racchiuso in essa, senza il programma di una ulteriore determinazione volitiva. La dottrina, pur riconoscendo che non si possono predisporre criteri ermeneutici validi in ogni caso - poiché ciascuna fattispecie va valutata tenuto conto dei suoi specifici tratti distintivi -, nel suggerire criteri generali di discernimento, ha ritenuto: «Se il foglio contiene disposizioni patrimoniali espresse col tempo presente, sarà difficile negare che si tratti di olografo: es. “lascio”, “do”, “nomino erede”, “dispongo” ecc. L'opposto si dirà se il verbo è al futuro: “darò” ecc.» (Branca, in Comm. S.B. 1986, 107). Ma, che si tratti di un parametro di giudizio da intendersi con prudenza e secondo le circostanze del caso concreto, risulta subito evidente, ove si consideri che la giurisprudenza ha, in un'occasione, trovato ragioni di giustificazione dell'opposta conclusione, negando rilievo all'uso del verbo futuro in luogo dell'indicativo presente (Trib. Palermo 30 giugno 1955). E, comunque, già l'uso del condizionale si colloca in un'area di incertezza alla quale, di certo, non può porsi rimedio con il ricorso al generico principio del favor testamenti, ed all'art. 1369, che non può essere speso per risolvere il quesito se il testamento c'è o non c'è (Branca, in Comm. S.B. 1986, 107). In giurisprudenza, si trova affermato che, nel testamento, può mancare ogni riferimento alla causa mortis, qualora vi siano espressioni tali da non lasciare alcun dubbio sulla volontà del de cuius di disporre delle proprie sostanze per il tempo successivo alla morte, come nel caso dell'utilizzazione dell'espressione « lascio, notoriamente utilizzata in negozi mortis causa » (Trib. Genova 8 ottobre 1983). Oppure che può mancare l'utilizzazione di verbi dispositivi, quando il contesto della scheda non susciti incertezza sulla volontà del de cuius (App. Bologna 10 marzo 1955; App. Genova 18 febbraio 1952, per il caso dell'utilizzazione del verbo «desidero»). Al di là dell'esame della casistica, ciò che può affermarsi con relativa certezza, in conclusione, è che la natura dell'atto, secondo che sia o meno testamento, deve essere desunta « solo dall'esame del contenuto di quel documento, in primo luogo del linguaggio che ha usato il testatore e poi dagli altri elementi anche esterni » (Branca, in Comm. S.B. 1986, 107). Il progetto di testamentoIn tema di volontà testamentaria non può mancarsi di accennare alla figura del progetto di testamento, riguardo al quale in tanto si può porre la quaestio voluntatis della distinzione dal testamento vero e proprio, in quanto sia scritto per intero, datato e sottoscritto dal testatore, giacché, in caso contrario, di olografo certamente non può parlarsi. Se il documento sia perfetto sotto il profilo della forma, invece, può darsi che esso, tuttavia, presenti una «trasparente natura provvisoria e parziale» (in dottrina Rescigno, 1952, 25), di contro al testamento vero e proprio, nel quale la volontà del testatore ha raggiunto un assetto definitivo — beninteso, nel significato che è proprio dell'atto di ultima volontà —, ossia di disposizione compiuta e, allo stato della sua redazione, non condizionata ad un successivo miglior esame (Cass. n. 8668/1990). È, così, possibile definire il progetto di testamento come «un mero proposito ancora vago ed incerto, il quale, nell'intenzione del dichiarante, abbisogna, perché si produca l'effetto dispositivo, di una ulteriore determinazione volitiva» (Trib. Savona 21 gennaio 1952). Quanto alla casistica, si è condivisibilmente ritenuto, con riferimento al supporto materiale dell'olografo ed al mezzo di scrittura, che la scheda non possa qualificarsi come progetto, piuttosto che come testamento, dalla sua redazione con un lapis su un foglio tratto da un blocco notes (App. Bologna 10 marzo 1955). Si è, inoltre, ritenuta irrilevante, ai fini della distinzione tra progetto o minuta e testamento, la circostanza dell'utilizzazione di carta da lettera in luogo di carta rigata uso-bollo usata nella redazione di un altro testamento (App. Trieste 27 luglio 1959). La esistenza di un testamento, invece, è stata esclusa (in considerazione, però, anche di altri elementi) in un caso in cui il de cuius, nonostante la sua abituale meticolosa diligenza, aveva redatto la scheda su un foglio qualsiasi e non sulla sua carta intestata, apportandovi correzioni, contrariamente al suo uso (così Trib. Savona 21 gennaio 1952, ma occorre segnalare che la decisione resa su un caso a suo tempo noto, è stata in seguito riformata con sentenza confermata da Cass. n. 2194/1954). A quest'ultimo riguardo, la dottrina, all'opposto, ha ritenuto che le correzioni - ossia le cancellature, sovrascritture, interlineature -, lungi dall'essere sicuramente indicative di una volontà ancora in itinere, possono essere « i segni della maggiore ponderazione e del proposito di rendere le espressioni usate il più conforme possibile alla propria volontà » (Greco, 1953, 718). Il caso esaminato dal tribunale di Savona nella sentenza appena ricordata, oltre agli aspetti ai quali si è accennato, presentava la particolarità che la scheda era stata espressamente qualificata dal testatore come progetto. Su di essa, cioè, pur dotata dei necessari requisiti di forma, il testatore aveva apposto la frase «appunti per il mio testamento», chiudendola in una busta con la medesima dicitura. Il giorno successivo vi aveva aggiunto la frase «ho scritto le mie volontà», nuovamente datata e sottoscritta. Riconosciuto nella scheda un mero progetto di testamento dai giudici di primo grado, il responso è stato ribaltato in appello (App. Genova 5 dicembre 1952). Giunta la causa dinanzi alla S.C., si è osservato: « Il testatore ha semplicemente utilizzato la carta su cui aveva steso i suoi appunti e gli appunti medesimi, e vi ha aggiunto espressioni con le quali ha impresso efficacia giuridica alle disposizioni che ivi erano state precedentemente scritte in un primo momento a titolo di mero progetto. Si è dinanzi a quel fenomeno di formazione progressiva della volontà che è comune nella genesi del negozio giuridico » (Cass. n. 2194/1954). Il testatore, dunque, può trasformare il progetto di testamento in testamento vero e proprio indirizzando la volontà in tal senso, come, nella specie, aveva fatto il de cuius scrivendo sulla scheda parole nelle quali si è riconosciuto «echeggiare il sic volo, sic iubeo, valore di manifestazione giuridicamente rilevante della propria volontà» (Cass. n. 2194/1954). La soluzione data alla vicenda dai giudici di appello e di cassazione ha soddisfatto solo parte della dottrina (Greco, 1953), mentre si è da altri osservato che essi non avrebbero assegnato il giusto rilievo alla «volontà della forma», ossia alla « volontà di un'espressione adeguata all'intenzione, giuridicamente vincolante per i destinatari, di disporre a causa di morte » (Rescigno, 1954, 1246), sicché si era ridotto il testamento « ad una serie di elementi costitutivi... combinati ad unità dalla volontà, che interviene per ultima » (Rescigno, 1954, 1245 s.), in contrasto con l'essenza del testamento quale atto di autonomia privata e con il rilievo sociale prima che con i caratteri giuridici della figura. Nel che sembra ravvisarsi il riconoscimento di una solennità dell'atto che, invece, è sembrato esatto ad altri escludere. La minutaDistinta dal progetto di testamento è la minuta, o brutta copia, o altro di simile. In un caso non vi è una volontà testamentaria definita, ma in via di formazione. La minuta, invece, «è il più delle volte l’espressione di una volontà definitiva che, attraverso vari ripensamenti (manifestati dalle cancellature, dalle aggiunte, dalle interlineatura), si è già formata. Il testatore dovrebbe solo ricopiarla in forma esteticamente più corretta, anche per non far conoscere ai terzi, e in particolar modo agli eredi, quali sono stati i suoi ripensamenti» (Caramazza, in Comm. De M. 1982, 15). Si è affermato, pertanto, che se si redige un testamento in minuta con l’intenzione di passarlo poi in “bella copia”, quando questa intenzione non si realizza e, alla morte del testatore, rimane la minuta, quello scritto in cui egli aveva definitivamente concretato le effettive sue volontà post mortem, quello è il suo testamento con piena validità ed efficacia (App. Genova 5 dicembre 1952). Se, dunque, la riproduzione della minuta vi sia, nulla quaestio: soltanto quest’ultimo sarà il testamento. Altrimenti, ove il de cuius non abbia potuto o voluto far seguire la redazione di una nuova scheda alla minuta, questa, se possieda il carattere di definitiva espressione della volontà del testatore e sia munita dei requisiti di forma necessaria, ben potrà valere come testamento. Secondo altri la minuta non lascerebbe presumere una volontà attuale di disporre, sicché quest’ultima dovrebbe essere di volta in volta ricercata, distinguendo il caso che il testatore intendesse esclusivamente riprodurre la minuta nella nuova scheda, ovvero intendesse dare, con la redazione di questa, un assetto definitivo alle proprie ultime volontà (Trabucchi, 1953, 313 s). Il codicilloÈ ormai generalmente ammessa la possibilità di apportare aggiunte e correzioni ad un testamento perfetto, nei termini prima illustrati, ha perso di rilievo l’istituto del codicillo, peraltro non più espressamente regolato dal codice civile vigente. L’espressione, oggi, «nel linguaggio giuridico, si intende semplicemente nel senso di scritto aggiuntivo a una qualsiasi scrittura legale e in ispecie a un testamento, per modificare ed integrare quanto in essa già disposto» (Vismara, 1960, 295). Il codicillo aggiunto ad un testamento olografo deve avere i requisiti di forma di questo, ed anzi, «se è anch’esso autografo, datato e sottoscritto dal testante, rientra nell’ampio concetto di testamento olografo» (Cass. n. 1405/1968). Ma, proprio perché riconducibile al genere del testamento olografo e, dunque, dotato di propria autonomia, la sua validità, dal punto di vista formale, « non è compromessa dall’altro testamento (eventualmente nullo), cui si riferisce » (Cass. n. 1405/1968). Attesa l’attitudine del codicillo a vivere di vita propria, costituisce, poi, questione non tanto di forma, ma di volontà, l’indagine sul collegamento tra testamento olografo e codicillo, al fine di determinare se si sia o meno in presenza di un unico testamento. BibliografiaAllara, Principi di diritto testamentario, Torino, 1957; Azzariti-Martinez-Azzariti, Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1973; Cannizzo, Successioni testamentarie, Roma, 1996; Capozzi, Successioni e donazioni, I, Milano, 1983; Cicu, Testamento, Milano, 1969; Di Marzio-Matteini Chiari, Le successioni testamentarie, Milano, 2013; Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento, Milano, 1954; Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, in Comm. cod. civ., Torino, 1961; Greco, Progetto di testamento, minuta di testamento, testamento olografo. Criteri di distinzione, in Giur. compl. Cass. civ. 1953, V, 714-719; Lipari, Autonomia privata e testamento, Milano, 1970; Marmocchi, Forma dei testamenti, Successioni e donazioni, I, Padova, 1994; Pasetti, La sanatoria per conferma del testamento e della donazione, Padova, 1953; Rescigno, Interpretazione del testamento, Napoli, 1952; Rescigno, Il “progetto” di testamento, in Foro it. I, 1954, 1243-1247; Scalia, Confermabilità del testamento orale: prova della volontà del de cuius, certezza dei rapporti e funzione notarile. Alcune riflessioni sul tema, in Riv. not. 1994, II, 166-170; Sibilia, Delle successioni testamentarie. Disposizioni generali. Della capacità di disporre del testamento. Della capacità di ricevere per testamento, in Cod. Civ. annotato, diretto da Perlingieri, Torino, 1980; Trabucchi, A proposito dell'efficacia di una “minuta” di testamento olografo, in Giur. it. I, 2 1953, 313-318; Triola, Il testamento, Milano, 1998; Venditti, Un caso controverso di disposizione testamentaria orale eseguita volontariamente ai sensi dell'art. 590, in Dir. e giust. 1989, 408-433; Vismara, Codicillo, in Enc. dir., VII, , Milano, 1960, 290-295. |