Codice Civile art. 624 - Violenza, dolo, errore.

Mauro Di Marzio

Violenza, dolo, errore.

[I]. La disposizione testamentaria può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse quando è l'effetto di errore, di violenza o di dolo [1427 ss.].

[II]. L'errore sul motivo, sia esso di fatto o di diritto, è causa di annullamento della disposizione testamentaria, quando il motivo risulta dal testamento ed è il solo che ha determinato il testatore a disporre [787].

[III]. L'azione si prescrive in cinque anni dal giorno in cui si è avuta notizia della violenza, del dolo o dell'errore [2652 n. 7, 2690 n. 4].

Inquadramento

L'atto di ultima volta deve essere il risultato della spontanea e personale determinazione dei motivi nell'animo del disponente. Sicché, se la volontà è viziata, ciò si riverbera sulla validità del testamento. Si discorre in particolare di vizi della volontà, sotto forma di errore, violenza e dolo, quando vi è corrispondenza tra la volontà e la dichiarazione, ma il processo formativo della volontà è perturbato da agenti anormali interni od esterni al disponente, sicché la volontà formatasi non sarebbe venuta ad esistenza, ovvero si sarebbe formata diversamente, se gli agenti perturbanti non vi fossero stati. Accanto all'errore cui si è accennato, ovvero all'errore-vizio, che incide sul processo formativo della volontà del testatore, inducendo una falsa rappresentazione della realtà, occorre poi considerare l'errore ostativo, che incide non sulla volontà, e non è dunque vizio di questa, bensì sulla dichiarazione, rendendola difforme da essa.

La disposizione fondamentale in tema di vizi della volontà testamentaria è posta dall'articolo in commento. Esso, per un verso, rinvia alle successive norme della medesima Sezione, ed in particolare agli artt. 625, in tema di erronea indicazione dell'erede o del legatario ovvero della cosa che forma oggetto della disposizione, e 626, in tema di motivo illecito. Per altro verso l'argomento dei vizi della volontà testamentaria richiama la disciplina dettata nell'analoga materia, in ambito contrattuale, dagli art. 1427 ss.: ed a tal riguardo si presenta la questione di ordine generale dell'applicabilità della materia del testamento, considerate le peculiarità di tale negozio, delle regole dettate per il contratto.

La sanzione dei vizi della volontà considerati dalla norma è l'annullabilità della disposizione testamentaria (Giannattasio, 183; Caramazza, 209): ma si tratta di annullabilità assoluta, la quale può essere fatta valere non già «solo dalla parte nel cui interesse è stabilita dalla legge» (art. 1441), secondo la regola generale, bensì «da chiunque vi abbia interesse» (art 624), sebbene nella pratica l'autore dell'impugnazione sarà generalmente l'erede legittimo, destinato ad avvantaggiarsi dall'eventuale pronuncia di annullamento.

Sul piano processuale l'esercizio dell'azione di impugnazione ai sensi dell'art. 624 richiede talora di essere esercitata nel litisconsorzio necessario di tutti i chiamati all'eredità per successione legittima (Cass. n. 2328/1969).

Quanto al riparto degli oneri probatori, naturalmente, occorre dire che, in tema di errore ex art. 624, è necessaria la dimostrazione che la volontà del testatore sia stata influenzata in maniera decisiva dalla percezione, come reali, di fatti diversi dal vero. Analogamente, in tema di dolo o violenza, sempre ex art. 624 occorre la prova che i fatti di induzione in errore o di violenza abbiano indirizzato la volontà del testatore in modo diverso da come essa avrebbe potuto normalmente determinarsi (Cass. n. 254/1985). La prova del vizio della volontà del testatore deve essere fornita da chi deduce il vizio stesso, a fondamento della domanda di annullamento del testamento (Cass. n. 269/1966).

L'esito vittorioso dell'azione di annullamento non necessariamente travolge il testamento nel suo complesso, giacché il vizio dispiega il suo effetto invalidante limitatamente alla disposizione che ne è colpita (Cass. n. 5480/1981).

Prescrizione dell'azione

L'azione di impugnazione prevista dalla disposizione in commento si prescrive in cinque anni «dal giorno in cui si è avuta notizia della violenza, del dolo o dell'errore».

Il termine a quo fissato dalla norma deve essere inteso considerando che esso non può mai iniziare il suo corso quando la successione ereditaria non si sia ancora aperta. In ordine alla concreta individuazione del termine iniziale da cui la prescrizione quinquennale in discorso decorre, si è talora affermato che la pubblicazione del testamento, rendendo quest'ultimo di pubblico dominio, comporterebbe una presunzione iuris tantum di conoscenza del testamento medesimo, conoscenza che influirebbe anche sul termini di prescrizione in questione (Cass. n. 99/1970).

Più persuasivamente, in altra occasione, si è affermato che l'art. 624, comma 3, il quale fa decorrere il termine quinquennale di prescrizione dell'azione di impugnazione del testamento non dalla data della pubblicazione, ma dal giorno in cui l'attore abbia avuto notizia dell'errore, del dolo o della violenza, rappresenta uno dei casi eccezionali in cui, in deroga al principio generale di cui all'art. 2935, il legislatore attribuisce rilevanza, relativamente al dies a quo della prescrizione, all'impossibilità di mero fatto di esercitare il diritto. In conseguenza, in caso di azione di annullamento di una disposizione testamentaria proposta dopo il quinquennio dalla pubblicazione del testamento, per il convenuto, che intenda eccepire la prescrizione, è sufficiente provare il decorso di tale periodo, incombendo invece all'attore di dimostrare di essere venuto a conoscenza dell'errore, del dolo o della violenza subita dal testatore da meno di cinque anni dalla domanda giudiziale (Cass. n. 8063/1992).

Vizi della volontà e indegnità

I vizi della volontà sono considerati dall'ordinamento anche ai fini dell'indegnità a succedere del beneficiario della disposizione, sicché occorre soffermarsi sul campo di applicazione delle rispettive disposizioni.

L'art. 624 e l'art. 463, secondo cui è escluso dalla successione come indegno chi ha indotto con dolo o violenza il testatore a fare, revocare o mutare il testamento, hanno un diverso campo di applicazione, giacché mentre la sanzione della indegnità opera anche al di là del testamento estorto con violenza o carpito con dolo, la sanzione che deriva invece dal solo accertamento della violenza o del dolo opera soltanto in relazione all'atto viziato, ond'è che, annullatosi il testamento, l'autore dell'una o dell'altro può eventualmente succedere al de cuius nella successione ab intestate (Azzariti, Martinez e Azzariti, 454).

Lo scarto tra i due istituti, quello dell'annullamento per violenza o dolo e quello dell'indegnità, discende, sul piano applicativo, dal principio della domanda, ben potendo l'interessato sollecitare la pronuncia dell'uno ma non dell'altra, senza che il giudice possa statuire ex officio sull'indegnità. D'altronde, nulla esclude che l'annullamento possa essere pronunciato per violenza o dolo nei confronti del beneficiario della disposizione, ma che questi non possa essere dichiarato indegno, essendo stato indotto il vizio della volontà dalla condotta di un terzo. In quest'ultimo frangente, poi, la simultanea domanda di annullamento e di declaratoria di indegnità a carico del diverso soggetto autore della violenza o del dolo, quando sia anch'egli beneficiario del testamento, va proposta nei confronti di entrambi. Ulteriore profilo di distinzione tra la disciplina dei vizi della volontà e quella del'indegnità attiene infine al profilo della prescrizione, che, per l'azione di indegnità è quella ordinaria.

L'errore

L'errore è menzionato tanto nel primo, quanto nel secondo comma dell'art. 624. Nel primo è stabilito in generale che la disposizione testamentaria può essere impugnata quando è tra l'altro l'effetto di errore. Nel secondo è disciplinata una particolare specie errore, quale è l'errore sul motivo. Accanto a ciò, l'art. 625 si sofferma su ulteriori specifiche ipotesi di errore concernenti la persona del beneficiario della disposizione ovvero la cosa oggetto di essa.

Sorge allora il quesito se in ambito testamentario l'azione di annullamento per errore sia consentita nei soli casi espressamente previsti, ovvero sia ammessa, con gli opportuni adattamenti, per ciascuna figura di errore prevista in materia contrattuale. La soluzione restrittiva sembra accolta nella relazione al progetto ministeriale del codice civile la quale, al n. 135, riferendosi alla disciplina dell'errore sul motivo, afferma che «ogni altro caso di errore sugli elementi essenziali può valere soltanto come errore ostativo, che determina non l'annullabilità ma la nullità del testamento». L'opposta opinione è però senz'altro prevalente in dottrina, che la considera giustificata dal fatto che vi era una ragione particolare per disciplinare l'errore sul motivo in quanto nei contratti il motivo non ha normalmente influenza; e v'era pure ragione particolare per disciplinare l'errore sulla indicazione della persona o della cosa, perché si volle ammettere la possibilità della correzione dell'errore. Perciò, al di fuori di questi casi, saranno da applicare, in quanto lo consenta la natura particolare del testamento, le norme che la legge dà per l'errore nei contratti, nell'art. 1429 (Cicu, 132).

Anche nei testamenti, allora, così come nelle donazioni (art. 787) e negli altri atti tra vivi (art. 1492), possono ipotizzarsi i casi di errore essenziale sulla persona dell'erede o del legatario, ovvero sull'oggetto della disposizione, ovvero concernente l'esistenza di una norma di diritto in forza della quale il testatore si e creduto obbligato a disporre in un determinato modo (Azzariti-Martinez-Azzariti, 468).

Ed in effetti, è stata in un'occasione annullata per errore di diritto la disposizione con cui il testatore, nell'istituire erede universale la moglie, aveva lasciato ad una sorella la legittima, nella convinzione che la legge disponesse in tal senso (App. Torino 18 dicembre 1956, Rep. Giust. Civ., 1956) Una volta ammessa in linea di principio l'applicabilità al testamento della disciplina dell'errore dettata per i contratti, si discute dell'applicabilità delle singole norme, esaminando in particolare l'interrogativo se debba operare in materia testamentaria il requisito della essenzialità e riconoscibilità previsto dall'art. 1428 (così Bigliazzi Geri, in Tr. Res., 1993, 121).

Altra collegata questione, ove si condivida l'assunto che gli artt. 624 e 625 non esauriscono le ipotesi di errori rilevanti, limitandosi a recare per ragioni di opportunità talune precisazioni normative con riguardo a particolari specie di errore — quello sui motivi di cui all'art. 624, comma 2, e l'errore sulla persona o sulla cosa, che vedremo essere errore ostativo, di cui all'art. 625 —, è se la norma in commento, nel riferirsi al primo comma all'impugnazione per errore, abbia tratto anche all'errore ostativo. La riferibilità dell''art. 624, comma 1, all'errore ostativo sembra trovare conferma nell'esame dei lavori preparatori (Relazione del Guardasigilli al codice, al n. 303, ove si afferma che l'articolo è stato così formulato proprio per eliminare il dubbio che si fosse voluto escludere del tutto l'errore ostativo in materia testamentaria).

L'errore sul motivo

L'errore sul motivo consiste in una falsa rappresentazione della realtà da parte del testatore. L'errore, in tal caso, opera appunto come motivo della disposizione, costituendo movente esclusivo della determinazione volitiva del testatore ovvero concorrendo alla sua formazione.

Nell'intento di identificare l'errore-vizio, la giurisprudenza pone in rilievo che esso deve cadere sulla realtà oggettiva presa in considerazione dal testatore, restando invece irrilevante l'erroneità delle valutazioni che questi abbia svolto con riguardo ad un dato di realtà esattamente percepito nella sua oggettività. L'errore sul motivo è cioè quello che cade sulla realtà obiettiva e non già sulla valutazione che di essa abbia fatto il testatore, nel suo libero ed insindacabile apprezzamento circa l'importanza e le conseguenze della realtà stessa, in relazione alle sue personali vedute ed aspirazioni ed ai fini perseguiti nel dettare le sue ultime volontà, tale subiettiva valutazione della realtà obiettiva è giuridicamente irrilevante (Cass. n. 2152/1966; Cass. n. 2132/1971; Cass. n. 7178/2018). Non dissimilmente, in altra occasione, è stato affermato che, per poter parlare di motivo erroneo, tale da rendere nulla a norma dell'art. 624 la disposizione testamentaria, è necessaria la certezza che la volontà del testatore sia stata dominata dalla rappresentazione di un fatto non vero o diverso dal vero, in modo che se ne debba dedurre che se il fatto fosse stato percepito e conosciuto nella sua verità, quella disposizione non sarebbe stata fatta (Cass. n. 1290/1963; Cass. n. 1950/1962).

Il motivo mancato

Secondo parte della dottrina la norma di cui al comma 2 dell'art. 624 non trova applicazione nel caso di motivo mancato, ossia esistente al tempo della redazione del testamento, ma venuto meno, al momento della morte del testatore.

L'insegnamento della giurisprudenza è conforme. L'errore sul motivo non è configurabile nell'ipotesi in cui la situazione esistente al tempo della redazione del testamento ed assunta come motivo determinante della disposizione testamentaria, sia poi mancata, e cioè sia venuta meno o sia stata modificata per effetto di fatti sopravvenuti. In questo caso, esula l'estremo dell'errore; né si può attribuire rilevanza alla sopravvenienza, in sé e per sé considerata, giacché essa è dalla legge configurata come causa di revocazione ex lege delle disposizioni testamentarie solo in casi tassativamente determinati (arg. ex artt. 686 e 687), fuori dei quali le disposizioni conservano piena efficacia, ad onta dei mutamenti verificatisi nella situazione tenuta presente del testatore, qualora non siano revocate nelle forme e nei modi previsti dagli artt. 680 e 684 (Cass. n. 1950/1962).

La violenza

Con riguardo alla violenza, quale vizio del volere, occorre anzitutto rammentare che la norma in commento ha tratto alla violenza morale, la vis compulsiva, la quale consiste in minacce tali da spingere il testatore a disporre diversamente da come avrebbe fatto se la violenza non vi fosse stata. In tal caso il legislatore ritiene, in ossequio all'inveterata tradizione riassunta nel brocardo quamvis si liberum esset noluissem, tamen coactus volui, che la volontà del disponente non venga a mancare, ma debba considerarsi soltanto viziata.

Non cade viceversa sotto la disciplina dell'art. 624 la violenza fisica, giacché, se il testatore è fisicamente costretto a redigere il testamento in un determinato modo — come nell'ipotesi scolastica in cui la sua mano è guidata da chi esercita violenza — la volontà testamentaria non è soltanto viziata, ma viene radicalmente a mancare (Azzariti-Martinez-Azzariti, 456).

La violenza, per assumere rilievo ai fini dell'annullabilità di cui all'art. 624 deve essere — al pari della cui si riferisce l'art. 1435 — di natura tale da far impressione sopra una persona sensata e da farle temere di esporre se o i suoi beni a un male ingiusto e notevole (Cass. n. 1799/1963). Nella valutazione si deve aver riguardo, in questa materia, all'età, al sesso ed alla condizione della persona. Questi ultimi aspetti devono cioè essere necessariamente presi in considerazione ai fini della valutazione della sussistenza di un'ipotesi di annullabilità per violenza (Cass. n. 1117/1975).

A tal riguardo, è ricorrente l'osservazione secondo cui il testatore è sovente persona indebolita dall'età avanzata ovvero da condizioni di salute o di spirito debilitate ed è, così, più esposta ai condizionamenti della violenza morale di quanto non può sarebbe stata in precedenza. Si è così affermato che il legislatore abbia accolto l'opinione, condivisa nel vigore del vecchio codice civile, che la violenza, in materia testamentaria, debba essere valutata con criteri più severi di quanto non avvenga in ambito contrattuale (Cicu, 130).

Ove il giudice di merito abbia tenuto nel pertinente rilievo le circostanze del caso ed abbia congruamente motivato in proposito, il suo apprezzamento in concreto sulla idoneità degli atti di violenza morale ad infirmare la volontà del testatore è incensurabile in sede di legittimità (Cass. n. 269/1966). Così, prestando attenzione ai non frequenti responsi della giurisprudenza, si è escluso che costituisse violenza morale la minaccia fatta al testatore di non consentire il seppellimento delle spoglie della moglie di lui in una determinata cappella (App. Napoli 4 febbraio 1952, Rep. Foro it., 1952).

Quanto alle disposizioni dettate in tema di annullamento per violenza del contratto, non v'è dubbio che trovino applicazione, in ambito testamentario, oltre al già citato art. 1435, gli artt. 1434,1436,1437 e 1438. Da ciò discende che: a) la violenza è causa di annullamento della disposizione testamentaria anche se esercitata da un terzo, ex art. 1434 per tale dovendosi intendere il soggetto diverso dal beneficiario della disposizione; b) la violenza è causa di annullamento del testamento, ex art. 1436, anche se rivolta contro la persona o i beni del coniuge, di un ascendente o di un discendente del testatore, restando di volta in volta da valutare alla stregua delle circostanze del caso se abbia dispiegato effetto intimidatorio anche la violenza esercitata nei confronti di altre persone cui il testatore era legato da stretti vincoli affettivi; c) il timore reverenziale non è causa di annullamento del testamento per violenza, ex art. 1437; e) può determinare l'annullamento del testamento per violenza anche la minaccia di far valere un diritto, quando essa è stata diretta al conseguimento di un vantaggio ingiusto.

Il dolo

Il dolo consiste nell'impiego di mezzi fraudolenti idonei a trarre in inganno il destinatario di essi. In ambito successorio il dolo viene sovente definito come «captazione», la quale è volta ad indurre il testatore a disporre a favore dell'autore della condotta captatoria.

La «captazione» viene talora distinta dalla «suggestione», diretta ad indurre il testatore a disporre a favore di terzi (Cicu, 139). È in proposito ritenuto «che per il negozio di ultima volontà assumono rilievo anche forme attenuate di vizi del volere (come, ad es., la captazione)» (Giampiccolo, 134) e che, in altri termini, in materia testamentaria abbiano rilevanza condotte meno aggressive di quelle considerate in ambito contrattuale (Cicu, 138).

Anche in giurisprudenza ricorrente l'affermazione secondo cui il concetto di dolo contrattuale e di dolo testamentario (captazione) è unitario, non potendosi, in entrambi i casi, prescindere dalla necessita di un voluto e cosciente impiego di mezzi fraudolenti, idonei a trarre in inganno colui verso il quale sono diretti, con la precisazione, tuttavia, secondo cui nel caso del testament, tale idoneità deve essere valutata con maggior larghezza e con più specifico riferimento al concreto soggetto passivo, sia per la particolare natura del negozio da lui compiuto, sia perché, più facilmente, nel momento di compierlo, egli può risultare incline a subire l'altrui suggestione a causa di condizioni di salute e di spirito anormali (Cass. n. 2328/1969). 

Tuttavia, i mezzi fraudolenti sono tali, avuto riguardo all'età, allo stato di salute, alle condizioni di spirito del testatore, ove siano stati idonei a trarlo in inganno, suscitando in lui false rappresentazioni ed orientando la sua volontà in un senso verso il quale essa non si sarebbe spontaneamente indirizzata; idoneità da valutarsi con criteri di larghezza nei casi in cui il testatore, affetto da malattie senili che causano debolezze decisionali ed affievolimenti della «consapevolezza affettiva», sia più facilmente predisposto a subire l'influenza dei soggetti che lo accudiscono o con cui da ultimo trascorre la maggior parte delle sue giornate, costituendo tali valutazioni apprezzamenti di fatto non sindacabili in sede di legittimità (Cass. n. 30424/2022).

Pur essendo la captazione testamentaria giudicata con maggior rigore del dolo contrattuale, essa deve pur sempre assumere il contenuto di un intervento fraudolento sua volontà del testatore risultante da fatti certi obiettivi (Cass. n. 6396/2003; Cass. n. 7689/1999; Cass. n. 1260/1987; Cass. n. 5209/1986). Non v'è dubbio, allora, che il dolo non possa consistere in mere sollecitazioni, come tali lecite, rivolte al testatore, ma debba tradursi in atti idonei a trarre in inganno: e tuttavia l'attitudine di tali atti ad ingannare deve essere valutata secondo parametri più elastici di quelli adottati in ambito contrattuale (Cass. n. 8047/2001; Cass. n. 7689/1900; Cass. n. 2122/1991).

In punto di prova occorre osservare che la dimostrazione di una attività captatoria della volontà del testatore non può aversi normalmente in via diretta, sicché la stessa può desumersi da comportamenti, atti, successione di eventi altrimenti non comprensibili e del testatore e di coloro che dalla frode stessa vengano a trarre beneficio (Cass. n. 4939/1981). Quantunque la prova possa essere anche presuntiva, tuttavia, affinché tale prova acquisti rilievo in concreto è indispensabile che le presunzioni si basino su fatti certi e che questi consentano, nel loro complesso, sia di identificare e ricostruire, nella sua generica consistenza e nei suoi momenti essenziali, l'attività dolosa spiegata per trarre in inganno il testatore, sia di ritenere che tale attività abbia in realtà influito sul processo formativo della volontà del testatore (Cass. n. 1623/1964).

Bibliografia

Allara, Principi di diritto testamentario, Torino, 1957; Azzariti, Martinez e Azzariti, Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1973; Cannizzo, Successioni testamentarie, Roma, 1996; Capozzi, Successioni e donazioni, I, Milano, 1983; Caramazza, Delle successioni testamentarie, in Comm. cod. civ., diretto da De Martino, 2^ ed., Roma, 1982; Cicu, Testamento, Milano, 1969; Criscuoli, Il testamento, in Enc. giur., XXXI, 1-33, Roma, 1994; Criscuoli, Il testamento. Norme e casi, Padova, 1995; Degni, Della forma dei testamenti, in Comm. cod. civ., diretto da D'Amelio e Finzi, Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Firenze, 1941; Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento, Milano, 1954; Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, in Comm. cod. civ., Torino, 1961; Lipari, Autonomia privata e testamento, Milano, 1970; Liserre, Formalismo negoziale e testamento, Milano, 1966; Rescigno, Interpretazione del testamento, Napoli, 1952; Tamburrino, Testamento (dir. priv.), in Enc. dir., XLIV, 1992, 471-504; Triola, Il testamento, Milano, 1998.

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