Codice Civile art. 948 - Azione di rivendicazione.

Alberto Celeste

Azione di rivendicazione.

[I]. Il proprietario può rivendicare la cosa [1706, 1994, 2789] da chiunque la possiede o detiene [1140] e può proseguire l'esercizio dell'azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa [2653 n. 1]. In tal caso il convenuto è obbligato a ricuperarla per l'attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno.

[II]. Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la restituzione della cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di essa.

[III]. L'azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell'acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione [1158 ss.].

Inquadramento

La norma in commento disciplina la prima, e principale, azione a difesa della proprietà, ossia l'azione di rivendicazione, che è concessa a colui che si afferma proprietario di una cosa, che è posseduta o detenuta da altri, e serve ad accertare se chi agisce ha effettivamente il diritto di proprietà e tende a fargli ottenere il possesso della cosa ove in giudizio venga accertato che egli è davvero il proprietario, con conseguente condanna del convenuto a consegnare il bene all'attore. In conformità delle regole generali di cui all'art. 2697, quest'ultimo ha l'onere di dimostrare il suo diritto, per cui, se l'acquisto non è a titolo originario, deve dare la prova del suo titolo di acquisto e del titolo di acquisto dei precedenti titolari fino ad arrivare ad un acquisto a titolo originario. A voler andare all'infinito, sembrerebbe una probatio diabolica, per cui soccorrono due istituti: per gli immobili, è sufficiente che l'attore, unendo al tempo per cui è durato il suo possesso, quelli dei suoi autori (art. 1146), provi il possesso continuato per venti anni ai sensi dell'art. 1158, che gli avrebbe comunque fatto acquistare la proprietà sulla cosa, mentre, per i beni mobili, basta che l'attore abbia, a suo tempo, ricevuto in buona fede ed in base ad un titolo idoneo al trasferimento della proprietà ex art. 1153 il possesso di quel bene, di cui ora lamenta di non avere il godimento.

Differenze dell'azione di restituzione

Lo sforzo della giurisprudenza si è incentrato nel delineare i confini dell'azione di rivendicazione, segnatamente rispetto alle altre azioni, sempre a tutela della proprietà, contemplate dall'ordinamento, con riflessi anche sul versante processuali per quanto concerne gli oneri allegatori e probatori delle parti in contesa.

In quest'ordine di concetti, si è ribadito che l'azione di rivendicazione e quella di restituzione hanno natura distinta: la prima ha carattere reale, si fonda sul diritto di proprietà di un bene, del quale l'attore assume di essere titolare e di non avere la disponibilità, ed è esperibile contro chiunque in fatto possiede o detiene il bene al fine di ottenere l'accertamento del diritto di proprietà sul bene stesso e di riacquisirne il possesso, mentre la seconda ha, invece, natura personale, si fonda sulla deduzione della insussistenza o del sopravvenuto venir meno di un titolo di detenzione del bene da parte di chi attualmente lo detiene per averlo ricevuto dall'attore o dal suo dante causa, ed è rivolta, previo accertamento di quella insussistenza o di quel venir meno, ad ottenere consequenzialmente la consegna del bene; ne discende che l'attore in restituzione non ha l'onere di fornire la prova del suo diritto di proprietà; ma solo dell'originaria insussistenza o del sopravvenuto venir meno — per invalidità, inefficacia, decorso del termine di durata, esercizio dell'eventuale facoltà di recesso del titolo giuridico che legittimava il convenuto alla detenzione del bene nei suoi confronti; le due azioni, peraltro, pur avendo causa petendi e petitum distinti, in quanto dirette al raggiungimento dello stesso risultato pratico della disponibilità materiale del bene riacquisito, possono non solo proporsi in via alternativa o subordinata nel medesimo giudizio, ma anche trasformarsi l'una nell'altra nel corso di esso, nel rispetto delle preclusioni introdotte nel codice di rito (Cass. III, n. 23086/2004; Cass. III, n. 2392/2002; Cass. III, n. 2092/2000).

In tema di difesa della proprietà, l'azione di rivendicazione e quella di restituzione, pur tendendo al medesimo risultato pratico del recupero della materiale disponibilità del bene, hanno natura e presupposti diversi: con la prima, di carattere reale, l'attore assume di essere proprietario del bene e, non essendone in possesso, agisce contro chiunque di fatto ne disponga onde conseguirne nuovamente il possesso, previo riconoscimento del suo diritto di proprietà; con la seconda, di natura personale, l'attore non mira ad ottenere il riconoscimento di tale diritto, del quale non deve, pertanto, fornire la prova, ma solo ad ottenere la riconsegna del bene stesso, e, quindi, può limitarsi alla dimostrazione dell'avvenuta consegna in base ad un titolo e del successivo venir meno di questo per qualsiasi causa, o ad allegare l'insussistenza ab origine di qualsiasi titolo; in tale seconda ipotesi, la difesa del convenuto che pretenda di essere proprietario del bene in contestazione, non è idonea a trasformare in reale l'azione personale proposta nei suoi confronti, atteso che, per un verso, la controversia va decisa con esclusivo riferimento alla pretesa dedotta, per altro, la semplice contestazione del convenuto non costituisce strumento idoneo a determinare l'immutazione, oltre che dell'azione, anche dell'onere della prova incombente sull'attore, imponendogli, una prova ben più onerosa — la probatio diabolica della rivendica — di quella cui sarebbe tenuto alla stregua dell'azione inizialmente introdotta (Cass. II, n. 26003/2010; Cass. II, n. 13605/2000).

In quest’ottica, si è, di recente, chiarito (Cass. II, n. 795/2020) che, un tema di azioni a tutela della proprietà, le difese di carattere petitorio opposte, in via di eccezione o con domande riconvenzionali, ad un'azione di rilascio o consegna non comportano - in ossequio al principio di disponibilità della domanda e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato - una mutatio od emendatio libelli, ossia la trasformazione in reale della domanda proposta e mantenuta ferma dell'attore come personale per la restituzione del bene in precedenza volontariamente trasmesso al convenuto, né, in ogni caso, implicano che l'attore sia tenuto a soddisfare il correlato gravoso onere probatorio inerente le azioni reali (probatio diabolica), la cui prova, idonea a paralizzare la pretesa attorea, incombe solo sul convenuto in dipendenza delle proprie difese.

In quest’ottica, si è, di recente, chiarito (Cass. II, n. 795/2020) che, un tema di azioni a tutela della proprietà, le difese di carattere petitorio opposte, in via di eccezione o con domande riconvenzionali, ad un'azione di rilascio o consegna non comportano - in ossequio al principio di disponibilità della domanda e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato - una mutatio od emendatio libelli, ossia la trasformazione in reale della domanda proposta e mantenuta ferma dell'attore come personale per la restituzione del bene in precedenza volontariamente trasmesso al convenuto, né, in ogni caso, implicano che l'attore sia tenuto a soddisfare il correlato gravoso onere probatorio inerente le azioni reali (probatio diabolica), la cui prova, idonea a paralizzare la pretesa attorea, incombe solo sul convenuto in dipendenza delle proprie difese.

Il proprietario che intenda conseguire il possesso della cosa sottrattagli contro la sua volontà (nella specie, per occupazione abusiva) deve esperire l'azione reale di rivendicazione e non già quella personale di restituzione, che, diversamente dalla prima, presuppone l'avvenuta consegna in base ad un titolo ed il successivo venir meno di quest'ultimo per qualsiasi causa (Cass. II, n. 14135/2005).

L'azione personale di restituzione è destinata ad ottenere l'adempimento dell'obbligazione di ritrasferire un bene in precedenza volontariamente trasmesso dall'attore al convenuto, in forza di negozi giuridici (tra i quali la locazione, il comodato ed il deposito) che non presuppongono necessariamente nel tradens la qualità di proprietario; da essa si distingue l'azione di rivendicazione, con la quale il proprietario chiede la condanna al rilascio o alla consegna nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell'assenza anche originaria di ogni titolo, per il cui accoglimento è necessaria la probatio diabolica della titolarità del diritto di chi agisce (Cass. II, n. 25052/2018).

Differenze dall'azione di accertamento della proprietà

Sul presupposto che la domanda di revindica, avendo tipica finalità recuperatoria, presuppone necessariamente che all'atto della sua formulazione il bene rivendicato sia nel possesso del convenuto, si è affermato che colui il quale propone un'azione di accertamento della proprietà di un bene non ha l'onere della probatio diabolica, ma soltanto quello di allegare e provare il titolo del proprio acquisto, atteso che detta azione mira non già alla modifica di uno stato di fatto, bensì solo all'eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l'attore è già investito (Cass. II, n. 7777/2005)

Colui il quale propone un'azione di accertamento della proprietà di un bene ha l'onere di allegare e provare il titolo del preteso dominio e tale esigenza probatoria non è attenuata o esclusa nel caso di rigetto degli assunti prospettati dal convenuto, neppure se volti ad ottenere il riconoscimento a suo favore della proprietà del medesimo bene, a meno che essi non risultino basati su asserzioni che presuppongano l'originaria sussistenza del titolo su cui si fonda la domanda dall'attore e ne deducano la sopravvenuta caducazione (Cass. II, n. 696/2000).

L'attore che proponga una domanda di accertamento della proprietà e non abbia il possesso della cosa oggetto del preteso diritto ha l'onere di offrire la stessa prova rigorosa richiesta per la rivendica — dimostrazione della titolarità del diritto mediante la prova di un acquisto a titolo originario, eventualmente risalendo al titolo originario dei propri danti causa, o quanto meno il possesso continuato del bene conforme al titolo, da parte del proprietario ed eventualmente dei suoi danti causa, protratto per il tempo necessario all'usucapione del bene — perché egli esercita un'azione a contenuto petitorio, diretta al conseguimento di una pronuncia giudiziale utilizzabile per ottenere la consegna della cosa da parte di chi la possiede o la detiene; al contrario è esonerato dall'onere della prova richiesta per la rivendicazione, dei vari trasferimenti della proprietà sino alla copertura del tempo sufficiente ad usucapire, l'attore che propone un'azione di accertamento della proprietà ed abbia il possesso della cosa oggetto del preteso diritto — anche se tale minore rigore probatorio rispetto all'azione di rivendicazione non esime dall'onere di allegare e provare il titolo del proprio acquisto — e ciò perché tale azione tende non già alla modifica di uno stato di fatto, ma solo all'eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l'attore è già investito (Cass. II, n. 7894/2000; Cass. II, n. 12300/1997; Cass. II, n. 2989/1993).

Differenze dall'azione di regolamento di confini

Il criterio distintivo dell'azione di rivendica rispetto all'azione di regolamento dei confini risiede nell'esistenza nella prima, del contrasto fra i titoli di proprietà a fronte di un contrasto tra i fondi che caratterizza la seconda, mentre il volere, da parte attrice, rientrare nella disponibilità della zona di terreno contestata non si traduce necessariamente in una contestazione dei titoli di proprietà, ben potendo l'eliminazione dell'incertezza dei confini determinare l'effetto restitutorio, in ordine al quale la volontà dell'attore di rientrare nella disponibilità della porzione del terreno oggetto di controversia, agisce sul piano processuale al fine di consentire l'effettivo recupero del bene ove il regolamento di confini si realizzi in senso favorevole all'attore (Cass. II, n. 15507/2010; Cass. II, n. 15954/2009).

Nell'azione di regolamento di confini non vengono in discussione i titoli di acquisto ma solo la determinazione quantitativa dell'oggetto della proprietà dei fondi confinanti per cui, mentre l'attore è sollevato dall'onere di fornire la dimostrazione del suo diritto di proprietà in virtù di un titolo di acquisto originario o derivativo risalente ad un periodo di tempo atto all'usucapione, su entrambe le parti ricade l'onere probatorio con la conseguenza che ogni mezzo di prova, anche tecnico o presuntivo, può essere utilizzato per la formazione del convincimento del giudice; tale assunto non viene inficiato dal fatto che anche nel giudizio di regolamento di confini può proporsi la richiesta di rilascio di una zona di terreno compresa tra i due fondi contigui, poiché in tal caso il possesso di essa deriva da semplice incertezza dei confini, per la promiscuità del possesso della zona confinaria o perché si contesti che il confine apparente corrisponda a quello reale. In tale caso infatti, siffatta richiesta non snatura l'azione proposta, trasformandola in rivendicazione, poiché l'effetto recuperatorio è soltanto una conseguenza dell'accertamento del confine; quando invece l'attore assuma che la superficie del fondo da lui in concreto posseduta sia inferiore a quella indicata nel proprio titolo di acquisto e denunci lo sconfinamento del vicino il quale contesti quanto affermato dall'attore, invocando a sua volta il proprio titolo di acquisto, il conflitto non è più tra fondi ma fra titoli, con la conseguenza che l'attore è soggetto all'onere probatorio dell'azione di rivendicazione (Cass. II, n. 15013/2000).

Onere della prova

Particolarmente rilevanti, specie sul versante processuale, le precisioni offerte sul principio dell'onere della prova ad avviso della giurisprudenza.

Il rigore del principio secondo il quale l'attore in rivendica deve provare la sussistenza dell'asserito diritto di proprietà sul bene anche attraverso i propri danti causa fino a risalire ad un acquisto a titolo originario, o dimostrando il compimento dell'usucapione, risulta attenuato in caso di mancata contestazione da parte del convenuto dell'originaria appartenenza del bene ad un comune dante causa, ben potendo in tale ipotesi il rivendicante assolvere l'onere probatorio su di lui incombente limitandosi a dimostrare di avere acquistato tale bene in base ad un valido titolo di acquisto (Cass. II, n. 694/2016; Cass. II, n. 22598/2010).

In tema di azione di rivendicazione, nel caso in cui il convenuto non contesti l'originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa, l'onere probatorio a carico dell'attore si riduce alla prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell'appartenenza del bene medesimo al suo dante causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, ed alla prova che quell'appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto (Cass. II, n. 9303/2009); si precisato, però, che, al fine di tale dimostrazione non è la prova della continuità delle risultanze catastali e ipotecarie, trattandosi di forme di pubblicità prive di effetti costitutivi sulla titolarità del diritto dominicale (Cass. II, n. 25793/2016).

Il rigore del principio secondo il quale l'attore in rivendica deve provare la sussistenza dell'asserito diritto di proprietà sul bene anche attraverso i propri danti causa fino a risalire ad un acquisto a titolo originario, oppure dimostrare il compimento dell'usucapione, non è, di regola, attenuato dalla proposizione, da parte del convenuto, di una domanda riconvenzionale (o di un'eccezione) di usucapione (atteso che il convenuto in un giudizio di rivendica non ha l'onere di fornire alcuna prova, pur nell'opporre un proprio diritto di dominio sulla cosa rivendicata , peraltro potendo avvalersi del principio possideo quia possideo, dal momento che tale difesa non implica alcuna rinuncia alla più vantaggiosa posizione di possessore (Cass. II, n. 14734/2018),  anche se la mancata contestazione, da parte del convenuto stesso, dell'originaria appartenenza del bene rivendicato al comune autore ovvero ad uno dei danti causa dell'attore comporta che il rivendicante possa, in tal caso, limitarsi alla dimostrazione di come il bene in contestazione abbia formato oggetto di un proprio, valido titolo di acquisto. Infatti, l'opposizione di un acquisto per usucapione il cui dies a quo sia successivo a quello del titolo di acquisto del rivendicante comporta che — attenendo il thema disputandum all'appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell'invocata usucapione e non già all'acquisto di esso da parte dell'attore — l'onere probatorio del rivendicante possa legittimamente ritenersi assolto per effetto del fallimento dell'avversa prova della prescrizione acquisitiva, con la dimostrazione della validità del titolo in base al quale quel bene gli era stato trasmesso dal precedente titolare (Cass. II, 25865/2021; Cass. II, n. 20037/2010; Cass. II, n. 7529/2006).

Quando il convenuto deduca con eccezione o domanda riconvenzionale di avere acquistato per usucapione la proprietà del bene rivendicato, si attenua l'onere probatorio a carico dell'attore in rivendicazione, poiché tale onere si riduce alla prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell'appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, nonché alla prova che quell'appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto (Cass. II, n. 8215/2016; Cass. II, n. 8806/2000).

Chiarendo meglio i concetti, si è precisato (Cass. II, n. 28865/2021) che, essendo l'usucapione un titolo di acquisto a carattere originario, la sua invocazione, in termini di domanda o di eccezione, da parte del convenuto con l'azione di rivendicazione, non suppone, di per sé, alcun riconoscimento idoneo ad attenuare il rigore dell'onere probatorio a carico del rivendicante, il quale, anche in caso di mancato raggiungimento della prova dell'usucapione, non è esonerato dal dover provare il proprio diritto, risalendo, se del caso, attraverso i propri danti causa fino ad un acquisto a titolo originario o dimostrando che egli stesso o alcuno dei suoi danti causa abbia posseduto il bene per il tempo necessario ad usucapirlo, tuttavia, il rigore probatorio rimane attenuato quando il convenuto, nell'opporre l'usucapione, abbia riconosciuto, seppure implicitamente, o comunque non abbia specificamente contestato, l'appartenenza del bene al rivendicante o ad uno dei suoi danti causa all'epoca in cui assume di avere iniziato a possedere. Per contro, la mera deduzione, da parte del convenuto, di un acquisto per usucapione il cui dies a quo sia successivo al titolo del rivendicante o di uno dei suoi danti causa, disgiunta dal riconoscimento o dalla mancata contestazione della precedente appartenenza, non comporta alcuna attenuazione del rigore probatorio a carico dell'attore, che a maggior ragione rimane invariato qualora il convenuto si dichiari proprietario per usucapione in forza di un possesso remoto rispetto ai titoli vantati dall'attore.

La petitio hereditatis si differenzia dalla rei vindicatio, malgrado l'affinità del petitum, in quanto si fonda sull'allegazione dello stato di erede ed ha per oggetto beni riguardanti elementi costitutivi dell'universum ius o di una quota parte di esso; ne consegue, quanto all'onere probatorio, che, mentre l'attore in rei vindicatio deve dimostrare la proprietà dei beni attraverso una serie di regolari passaggi durante tutto il periodo di tempo necessario all'usucapione, nella hereditatis petitio può invece limitarsi a provare la propria qualità di erede ed il fatto che i beni, al tempo dell'apertura della successione, fossero compresi nell'asse ereditario; pertanto, deve ritenersi inammissibile il mutamento in corso di causa dell'azione di petizione ereditaria in azione di rivendicazione, anche quando non sia contestata dal convenuto la qualità di erede dell'attore, in quanto tale mancata contestazione non fa venire meno la funzione prevalentemente recuperatoria dell'azione ereditaria, ma produce effetti solo sul piano probatorio, senza incidere sulla radicale diversità — per natura, presupposti, oggetto e onere della prova — tra le due azioni (Cass. II, n. 7871/2021; Cass. II, n. 1074/2009; Cass. II, n. 5252/2004).

La denuncia di successione — avente, di per sé, efficacia a soli fini fiscali — non è idonea a fornire la prova del diritto di proprietà di un determinato bene, ma, in assenza di prove o indizi di segno contrario, può costituire elemento di convincimento del giudice in favore di chi la alleghi a dimostrazione di una situazione di fatto esistente al momento della denuncia stessa (Cass. II, n. 15716/2002).

Sempre in materia ereditaria, si è chiarito (Cass. II, n. 21940/2018; Cass. II, n. 25643/2014) che, in tema di azione di rivendicazione, ai fini della probatio diabolica gravante sull'attore, tenuto a provare la proprietà risalendo, anche attraverso i propri danti causa, fino all'acquisto a titolo originario, oppure dimostrando il compimento dell'usucapione, non è sufficiente produrre l'atto di accettazione ereditaria, che non prova il possesso del dante causa, né il contratto di acquisto del bene, che non prova l'immissione in possesso dell'acquirente.

L'atto di divisione, stante la carenza di effetti traslativi derivanti dallo stesso, ha carattere semplicemente dichiarativo e non è idoneo, pertanto, a fornire da solo, nei confronti dei terzi, la prova dell'acquisto della proprietà (Cass. II, n. 9041/2006). Al contempo, però, sempre sul presupposto che, in caso di azione di rivendica, la portata dell'onere probatorio a carico dell'attore deve stabilirsi in relazione alla peculiarità di ogni singola controversia, sicché il criterio di massima secondo cui l'attore deve fornire la prova rigorosa della sua proprietà e dei suoi danti causa fino a coprire il periodo necessario per l'usucapione, può subire opportuni temperamenti secondo la linea difensiva adottata dal convenuto, si è ritenuto attenuato il rigoroso regime probatorio della rivendicazione, nell’ipotesi di provenienza del bene rivendicato dallo stesso titolo dei convenuti, nella specie un atto di divisione, atteso che quest'ultimo ha valore probatorio nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa, con la conseguenza che la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione di beni indivisi, postula il riconoscimento dell'appartenenza dei beni in comunione (Cass. II, n. 1569/2022).

La denuncia di successione — avente, di per sé, efficacia a soli fini fiscali — non è idonea a fornire la prova del diritto di proprietà di un determinato bene, ma, in assenza di prove o indizi di segno contrario, può costituire elemento di convincimento del giudice in favore di chi la alleghi a dimostrazione di una situazione di fatto esistente al momento della denuncia stessa (Cass. II, n. 15716/2002).

In dottrina, ci si è interrogati se la probatio diabolica summenzionata sia sempre necessaria, a pena di soccombenza: alcuni (Proto Pisani, Sulla tutela giurisdizionale del diritto di proprietà, in Foro it. 1971, I, 434) hanno sostenuto, infatti, che l'attenta lettura delle massime lascia intendere che la giurisprudenza è meno rigida di quanto possa sembrare di primo acchito, modulando l'onere della prova in rapporto alle allegazioni del convenuto ed assegnando il diritto a chi dimostri di avere un titolo migliore.

Individuazione del bene oggetto di rivendicazione

In tema di rivendicazione, il giudice di merito è tenuto innanzitutto a verificare l'esistenza, la validità e la rilevanza del titolo dedotto dall'attore a fondamento della pretesa, e ciò a prescindere da qualsiasi eccezione del convenuto, giacché, investendo tale indagine uno degli elementi costitutivi della domanda, la relativa prova deve essere fornita dall'attore e l'eventuale insussistenza deve essere rilevata dal giudice anche d'ufficio; per quanto attiene, in particolare, alla identità del bene domandato dall'attore con quello descritto nel titolo stesso, i dati catastali non hanno valore di prova ma di semplice indizio, costituendo le mappe catastali un sistema secondario e sussidiario rispetto all'insieme degli elementi raccolti in fase istruttoria (Cass. II, n. 5131/2009; Cass. II, n. 711/1998).

In tema di azione di rivendicazione, di cui all'art. 948, per l'individuazione del bene rivendicato, del quale si chiede il rilascio (o per stabilire esattamente l'unità immobiliare contesa), la base primaria dell'indagine del giudice di merito è costituita dall'esame e dalla valutazione dei titoli di acquisto delle rispettive proprietà, quando essi sono stati esibiti in giudizio; difatti, solo la mancanza o l'insufficienza di indicazioni sui dati di individuazione delle unità rilevabile dai titoli, oppure la loro mancata produzione, giustifica il ricorso ad altri mezzi di prova, ivi comprese le mappe catastali (Cass. II, n. 21834/2007).

In tema di azione di rivendicazione, ai fini della prova dell'estensione della proprietà, non è decisiva la superficie indicata nell'atto di compravendita, poiché l'estensione del fondo va determinata in base ai confini menzionati nel contratto, ove essi siano precisi e riscontrabili sul terreno (Cass. II, n. 3568/2002).

Parimenti, chi, nel richiedere la restituzione di un'area rivendicata, non dimostri di esserne proprietario per l'intero, ma solo in parte, ha diritto di vedere accolta la sua domanda nei limiti della raggiunta prova e non può vedersi rigettare l'istanza solo per avere richiesto più di quanto consentitogli dall'oggetto del suo diritto di proprietà (Cass. II, n. 20671/2019).

Resta inteso (ad avviso di Cass. II, n. 6007/2019) che, poiché l'azione di rivendicazione ha per oggetto la restituzione del medesimo bene che l'attore afferma essere nel possesso o detenzione del convenuto, laddove tale bene, già prima della proposizione della domanda, sia venuto a mancare per distruzione, per alienazione ad altro soggetto o per altra causa, l'azione esperibile sarà soltanto quella personale o di risarcimento dei danni diretta a conseguire il valore pecuniario della cosa.

Legittimazione attiva

Interessanti puntualizzazioni si rinvengono, da parte dei giudici di legittimità, in ordine alla legittimazione (attiva e passiva) per quanto concerne l'azione de qua.

Ai fini dell'esercizio dell'azione di rivendicazione, la qualità di proprietario, che la legittima, non costituisce un presupposto processuale, che è necessario che sussista al momento della proposizione della domanda, bensì una condizione dell'azione la quale, estrinsecandosi nella manifestazione del potere di provocare, mediante l'esercizio dell'attività giurisdizionale, il riconoscimento di un diritto realmente spettante, è sufficiente che sussista nel momento della decisione (Cass. II, n. 13882/2010).

Il venditore non è legittimato ad agire con azione di rivendicazione (art. 948) per ottenere la restituzione del bene alienato, che sia detenuto da terzi, neppure al limitato scopo di poter adempiere alla obbligazione assunta di consegnare la cosa al compratore (art. 1476), atteso che detta azione spetta esclusivamente a chi sia proprietario del bene al momento della proposizione della domanda (Cass. III, n. 4421/1994).

Legittimazione passiva

In tema di azione di rivendicazione, non è legittimato passivamente il venditore il quale, avendo nel frattempo trasferito a terzi la detenzione del bene alienato al compratore, non ne abbia la disponibilità; la relativa questione, seppure proposta per la prima volta in sede di legittimità, va esaminata e decisa dalla Cassazione quando non comporti accertamenti di fatto (Cass. II, n. 11110/2007).

Legittimato passivamente nell'azione di rivendicazione prevista dall'art. 948, qualunque sia il titolo di acquisto petitorio invocato dall'attore, è chiunque di fatto possegga o detenga il bene rivendicato e sia in grado, quindi, di restituirlo, sul quale, ai fini del rigetto della domanda proposta nei suoi confronti, incombe l'onere di provare la legittimità del possesso o della detenzione relativi allo stesso bene (Cass. II, 13973/2006; Cass. II, n. 9851/1997).

Ipotesi di litisconsorzio necessario

Non si escludono, in subiecta materia, alcune ipotesi in cui occorre integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i soggetti interessati alla lite, ma i giudici di legittimità si sono rivelati molto attenti a circoscriverle.

L'azione di rivendicazione, non inerendo ad un rapporto giuridico plurisoggettivo unico ed inscindibile e non tendendo ad una pronuncia con effetti costitutivi, non introduce un'ipotesi di litisconsorzio necessario, con la conseguenza che essa può essere esercitata da uno solo o da taluni dei comproprietari (Cass. II, n. 6697/2002).

L'azione di rivendicazione non dà luogo ad un'ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti di eventuali terzi che vantino o possano avere interesse a vantare diritti sulla cosa contrastanti con il diritto di proprietà fatto valere in giudizio dall'attore, poiché in tal caso l'unica conseguenza sarà che la sentenza, facendo stato solo tra le parti del giudizio, non sarà opponibile ai terzi interessati rimasti estranei al giudizio stesso, non potendo, invece, essere considerata inutiliter data (Cass. II, n. 10739/2001).

Nel caso in cui un soggetto, assumendo di essere comproprietario di un bene, proponga domanda di rivendica, la necessità dell'integrazione del contraddittorio dipende dal comportamento del convenuto; infatti, qualora il convenuto si limiti a negare il diritto di comproprietà dell'attore, non si richiede la citazione in giudizio di altri soggetti, non essendo in discussione la comunione del bene, mentre, per contro, ove il convenuto eccepisca di essere proprietario esclusivo del bene, la controversia ha come oggetto la comunione di esso, cioè l'esistenza di un rapporto unico plurisoggettivo e il contraddittorio deve svolgersi nei confronti di tutti coloro dei quali si prospetta la contitolarità, giacché la sentenza non può conseguire un risultato utile se non pronunciata nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione (Cass. II, n. 5190/2002;  in senso conforme, Cass. II, n. 24234/2018ha cassato la sentenza impugnata che, in un giudizio di opposizione di terzo in cui l'attore aveva chiesto accertarsi un proprio diritto – di comproprietà - autonomo incompatibile rispetto a quello – di proprietà esclusiva - vantato dal convenuto, aveva escluso la necessità di integrare il contraddittorio verso coloro che sarebbero risultati comproprietari dell'immobile, ove il bene non fosse stato compreso nella compravendita invocata dall'opposto).

Il diritto di ciascun condomino ha, per oggetto, la cosa comune intesa nella sua interezza, pur se entro i limiti dei concorrenti diritti altrui, con la conseguenza che egli può legittimamente proporre le azioni reali a difesa della proprietà comune senza che si renda necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini (Cass. II, n. 19460/2005; Cass. II, n. 10478/1998 ); di contro, la domanda di un terzo estraneo al condominio, volta all'accertamento, con efficacia di giudicato, della proprietà esclusiva su di un bene condominiale ed al conseguente rilascio dello stesso in proprio favore, si deve svolgere in contraddittorio con tutti i condomini, stante la loro condizione di comproprietari dei beni comuni e la portata delle azioni reali, che incidono sul diritto pro quota o esclusivo di ciascun condomino, avente pertanto reale interesse a contraddire (Cass. II, n. 3575/2018).

In argomento, si è, di recente, puntualizzato (Cass. II, 2852/2020) che la presunzione legale di proprietà comune di parti del complesso immobiliare in condominio, che si sostanzia sia nella destinazione all'uso comune della res, sia nell'attitudine oggettiva al godimento collettivo, dispensa il condominio dalla prova del suo diritto, ed in particolare dalla cosiddetta probatio diabolica, conseguendone che, quando un condomino pretenda l'appartenenza esclusiva di uno dei beni indicati nell'art. 1117 c.c., poiché la prova della proprietà esclusiva dimostra, al contempo, la comproprietà dei beni che detta norma contempla, onde vincere tale ultima presunzione è onere dello stesso condomino rivendicante dare la prova della sua asserita proprietà esclusiva, senza che a tal fine sia rilevante il titolo di acquisto proprio o del suo dante causa, ove non si tratti dell'atto costitutivo del condominio, ma di alienazione compiuta dall'iniziale unico proprietario che non si era riservato l'esclusiva titolarità del bene.

Contenuto della domanda

La proprietà appartiene alla categoria dei diritti “autodeterminati”, individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto, rappresentato dal bene che ne costituisce l'oggetto, sicché nelle azioni ad essi relative, a differenza delle azioni accordate a tutela dei diritti di credito, la causa petendi si identifica con i diritti stessi, mentre il titolo, necessario alla prova del diritto, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda; ne consegue che l'allegazione, nel corso del giudizio di rivendicazione, di un titolo diverso (nella specie, usucapione) rispetto a quello (nella specie, contratto) posto inizialmente a fondamento della domanda costituisce soltanto un'integrazione delle difese sul piano probatorio, integrazione non configurabile come domanda nuova, né come rinuncia alla valutazione del diverso titolo dedotto in precedenza (Cass. II, n. 22598/2010).

In tema di azione rivendicazione, la proprietà appartiene alla categoria dei diritti “autodeterminati”, individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto rappresentato dal bene che ne costituisce l'oggetto, cosicché nelle azioni ad essi relative, a differenza delle azioni accordate a tutela dei diritti di credito, la causa petendi si identifica con i diritti stessi, mentre il titolo, necessario alla prova del diritto, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda, sicché non può ravvisarsi la nullità dell'atto di citazione per mancata indicazione del titolo in funzione del quale il bene immobile viene rivendicato (Cass. II, n. 15915/2007).

La proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei c.d. diritti autodeterminati, individuati, cioè, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto quale rappresentato dal bene che ne forma l'oggetto, con la conseguenza che la causa petendi delle relative azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non svolge, per l'effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda, ma è rilevante ai soli fini della prova (Cass. II, n. 3089/2007).

Sempre sulla premessa che i diritti reali si identificano in base alla sola indicazione del loro contenuto (ossia il bene che ne forma l'oggetto) e non al titolo che ne costituisce il fondamento, sicché l'allegazione nel giudizio di rivendicazione, in primo come in secondo grado, di un titolo diverso rispetto a quello originariamente posto a base della domanda rappresenta solo un'integrazione delle difese sul piano probatorio, non implicando la proposizione di una domanda nuova né la rinunzia alla valutazione del diverso titolo dedotto in precedenza, sicché, decisa la controversia sulla base di uno dei titoli suddetti, al giudice dell'impugnazione non è preclusa la decisione sulla base dell'altro o di entrambi i titoli dedotti, anche se la parte interessata non abbia proposto alcuna specifica doglianza ed istanza in tal senso, giacché l'art. 346 c.p.c. attiene alle domande ed eccezioni non accolte nella sentenza appellata e non riproposte in appello, non agli elementi di prova che, acquisiti al giudizio ma pretermessi dal primo giudice, il secondo ritenga, invece, rilevanti ai fini dell'esatta definizione della controversia, si è escluso (Cass. II, n. 24335/2017) che, accolta in prime cure la domanda, proposta in via subordinata, di acquisto per usucapione della proprietà di una terrazza di copertura, fosse necessaria, ai fini dell'esame, in appello, di un diverso titolo di acquisto - già dedotto in prime cure in via principale - la formulazione di impugnazione incidentale.

Parimenti sul versante processuale – sul presupposto di cui sopra che a proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei c.d. diritti autodeterminati, che si identificano in base alla sola indicazione del loro contenuto e non per il titolo che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non assolve ad una funzione di specificazione della domanda o dell'eccezione, ma è necessaria ai soli fini della prova - ne consegue che l'allegazione, nel corso del giudizio inteso alla tutela del diritto di proprietà, di un titolo diverso rispetto a quello posto originariamente a fondamento della domanda rappresenta solo un'integrazione delle difese che non dà luogo alla proposizione di una domanda nuova, così come non implica alcuna rinuncia a che il primo titolo dedotto venga anch'esso preso in considerazione né influisce in alcun modo sulle conclusioni, che restano, comunque, cristallizzate nel medesimo petitum, consistente nella richiesta di accertamento del diritto di proprietà (Cass. II, n. 21641/2019).

Resta inteso che, in tema di rivendicazione, il giudice possa riconoscere l'esistenza di una proprietà pro quota pure laddove si assuma esistere una proprietà esclusiva, senza con ciò trasmodare dai limiti della domanda, ricorrendo il vizio di ultrapetizione soltanto allorché dalla pronunzia derivino effetti giuridici più ampi di quelli richiesti dall'attore (Cass. II, n. 12953/2015).

Bibliografia

Argiroffi, Delle azioni a difesa della proprietà - Art. 948-951, Milano, 2011; Bregante, Le azioni a tutela della proprietà e degli altri diritti reali, Torino, 2006; Celeste, Le azioni a difesa della proprietà - Tecniche di tutela - Singole domande - Profili processuali, Milano, 2010; Costanza, Azione di revindica e onere della prova, in Giust. civ. 2010, I, 123; De Tilla, Sulla natura dell'azione negatoria servitutis, in Riv. giur. edil. 2005, I, 1471; Ferreri, Questioni attuali in tema di azioni a difesa della proprietà, in Riv. dir. civ. 2004, II, 809; Gambaro, Apposizione di termini e regolamento di confini (azione per), in Enc. giur., II, Roma, 1988; Maganzani, Rivendica e regolamento di confini: una distinzione problematica, in Riv. dir. civ. 2009, II, 475; Musolino, L'azione di regolamento di confini, in Riv. not. 2008, 1070; Troiano, Proprietà (azioni a tutela della), in Enc. dir., XII, Milano, 2007.

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