Codice Civile art. 1079 - Accertamento della servitù e altri provvedimenti di tutela.Accertamento della servitù e altri provvedimenti di tutela. [I]. Il titolare della servitù può farne riconoscere in giudizio la esistenza contro chi ne contesta l'esercizio e può far cessare gli eventuali impedimenti e turbative [949]. Può anche chiedere la rimessione delle cose in pristino [2933], oltre il risarcimento dei danni [2043]. InquadramentoA tutela delle servitù, è preordinata l'azione confessoria (detta anche vindicatio servitutis), mediante la quale il titolare intende accertare giudizialmente l'esistenza del suo diritto, chiedendo anche che siano fatti cessare gli eventuali impedimenti o le eventuali turbative all'esercizio della medesima servitù (si pensi all'istanza di eliminazione di un cancello che impedisce la servitù di passaggio). Pertanto, legittimato passivamente è colui che contesta l'esercizio della suddetta servitù o che, comunque, ne turba o ne impedisce il medesimo esercizio. Tale azione ha carattere “petitorio”, ed il suo accoglimento presuppone l'accertamento del diritto di servitù, senza escludere, però, che, a tutela dello stato di fatto corrispondente alla stessa servitù, si possano esperire le azioni “possessorie” di reintegrazione di cui all'art. 1168 e di manutenzione ex art. 1170. In quest'ordine di concetti, la norma in commento che compendia l'intero capo VII, dedicato alle azioni a difesa della servitù, dispone che il titolare della servitù può farne riconoscere in giudizio l'esistenza contro chi ne contesta l'esercizio e può far cessare gli eventuali impedimenti e turbative, e parimenti può anche chiedere la rimessione delle cose in pristino, salvo sempre il risarcimento dei danni eventualmente subiti. Tutela giudiziaria della servitùI giudici di legittimità, analizzando le singole fattispecie sottoposte al loro esame, hanno avuto modo di affinare i concetti sopra delineati. Invero, si è affermato (Cass. II, n. 4499/2010) che, in tema di servitus aedificandi, il contenuto del diritto si concreta nel corrispondente dovere del proprietario del fondo servente di astenersi da qualsiasi attività edificatoria che abbia come risultato quello di comprimere o ridurre le condizioni di vantaggio derivanti al fondo dominante dalla costituzione di detta servitù, quale che sia, in concreto, l'entità di siffatta compressione o riduzione e indipendentemente dalla misura dell'interesse del titolare del diritto a far cessare impedimenti e turbative del medesimo; ne consegue che non è possibile subordinare la tutela giudiziale di una tale servitù, come, in genere, di ogni diritto reale, all'esistenza di un concreto pregiudizio derivante dagli atti lesivi, attesa l'assolutezza propria di tali situazioni giuridiche soggettive, tutelate da ogni forma di compressione o ingerenza da parte di terzi, col solo limite del divieto di atti emulativi e salva la rilevanza dell'entità del pregiudizio al solo fine della quantificazione dell'eventuale risarcimento. Per completezza, in tema di liquidazione dei compensi del difensore, si è chiarito (Cass. II, n. 10755/2019) che il valore della causa concernente l'accertamento dell'esistenza di una servitù di passaggio va determinato sulla base dei criteri stabiliti dall'art. 15 c.p.c. ed alla luce dell'oggetto delle domande della parti, non potendo attribuirsi autonoma rilevanza alla domanda di inibitoria contestualmente avanzata, poiché ricompresa nell'azione a difesa della servitù, e dovendosi ritenere il procedimento possessorio svoltosi nel corso del giudizio anch'esso sottoposto, per analogia, alla disposizione sopra indicata. Azione risarcitoriaSotto l'aspetto risarcitorio, pur contemplato nella norma de qua, si è sottolineato (Cass. II, n. 250/1986) che la violazione di una servitù, anche quando tale diritto reale sia stato costituito per contratto, dà luogo non a responsabilità contrattuale ma, per la natura (reale) del diritto leso, a responsabilità extracontrattuale; pertanto, l'azione risarcitoria, concessa, ex art. 1079, in aggiunta a quella tendente alla riduzione in pristino, si prescrive nel termine di cinque anni, che, versandosi in tema di illecito permanente, decorre dall'inizio del fatto illecito generatore del danno, rinnovandosi di momento in momento. Onere della provaSul versante probatorio, si è precisato che 'attore che agisce in confessoria servitutis ha l'onere di provare l'esistenza del relativo diritto — presumendosi il fondo preteso come servente libero da pesi e limitazioni — mediante uno dei modi di costituzione o di acquisto (artt. 1058 ss.), non essendo all'uopo sufficiente la mera esistenza di opere visibili e permanenti, la cui esistenza non rappresenta, ipso facto, un modo autonomo di acquisto della servitù, ma solo il presupposto dell'acquisto per usucapione o per destinazione del padre di famiglia (Cass. II, n. 18890/2014). Formazione del giudicatoIn argomento, si è sottolineato (Cass. II, n. 24400/2014) che, in tema di confessoria servitutis, l'attore, che abbia dedotto in primo grado l'acquisto della servitù per usucapione, può dedurne in appello il titolo convenzionale, senza violare il divieto di ius novorum, atteso che la servitù è un diritto autodeterminato, sicché la causa petendi dell'azione confessoria si identifica con esso, e col bene che ne forma l'oggetto, piuttosto che con i fatti o gli atti allegati a suo fondamento. Inoltre, il giudicato può spiegare efficacia riflessa nei confronti di soggetti rimasti estranei al giudizio quando contenga l'affermazione di una verità che non ammette un diverso accertamento e il terzo non vanti un diritto autonomo rispetto a quello su cui il giudicato è intervenuto; ne consegue che l'accertamento dell'inesistenza di una servitù di passaggio per destinazione del padre di famiglia a carico di un fondo e a vantaggio di un altro fondo, successivamente frazionato, pregiudica l'azione del terzo per un nuovo accertamento della stessa servitù a carico dello stesso fondo e a vantaggio di altra parte del fondo frazionato (Cass. II, n. 22908/2013). Comunque, ove venga proposta l'actio confessoria servitutis (anche per usucapione), è tardiva la successiva proposizione in appello della azione di servitù coattiva, atteso che le predette azioni presentano petita e causae petendi del tutto distinte, in quanto con la prima si deduce un diritto esistente, con la seconda si mira a costituire il diritto ex novo - con la conseguenza che quest'ultima costituisce domanda nuova rispetto alla prima (Cass. II, n. 23078/2023). Sempre sul versante processuale, si è, di recente, chiarito (Cass. II, n. 22052/2023) che, in caso di rigetto della domanda di costituzione, per destinazione del padre di famiglia o per usucapione, di servitù di passaggio e di inibitoria delle turbative al suo esercizio, dà luogo a mutatio libelli, preclusa in sede di gravame, la proposizione di una domanda di accertamento del diritto di passaggio in virtù di una comunione incidentale ex collatione privatorum agrorum, perché in tale modo si chiede l'accertamento di un diverso diritto erga omnes, con mutamento degli elementi costitutivi della domanda, impedendosi all'appellato di sollevare pertinenti eccezioni ed argomentazioni. Legittimazione attiva e passivaParticolare attenzione ha mostrato la giurisprudenza nell'individuare gli esatti soggetti in contesa nell'azione de qua. Sotto il profilo attivo, si è affermato (Cass. II, n. 1214/1986) che il titolare di una servitù può agire in giudizio sia per farne accertare la esistenza e il contenuto, sia per fare cessare eventuali impedimenti o turbative, nonché per chiedere la rimessione delle cose in pristino, oltre al risarcimento del danno; tuttavia, mentre la domanda di riduzione delle cose in pristino stato, ove si tratti di violazione posta in essere dal proprietario del fondo servente, può essere proposta, per il carattere reale della relativa azione dall'attuale titolare della servitù e contro l'autore della violazione, solo se e in quanto costui abbia ancora quella proprietà, la domanda, diretta a ottenere il risarcimento dei danni subiti dal fondo dominante, è esperibile, tenuto conto del carattere personale della relativa azione, anche dal soggetto che abbia perso la qualità di titolare della servitù, purché abbia subìto i danni quando ancora la conservava, e contro l'autore della violazione da cui è derivato il danno, anche se non sia più proprietario del fondo servente, limitatamente ai danni maturati sino al momento in cui ha avuto luogo il trasferimento della proprietà di detto fondo. Colui che agisce in confessoria servitutis ha l'onere di provare qualora questa venga contestata, la propria legittimazione ad agire, in quanto titolare di un diritto di proprietà sul fondo dominante, sebbene la prova della proprietà non sia altrettanto rigorosa di quella richiesta per la rivendicazione, posto che, mentre con quest'ultima azione si mira alla dichiarazione del diritto di proprietà sul fondo, nel caso dell'azione confessoria si domanda soltanto l'affermazione del vincolo di servitù con le eventuali altre conseguenti dichiarazioni di diritto, onde la proprietà del fondo dominante costituisce unicamente il presupposto dell'azione ed è sufficiente che emerga anche attraverso delle presunzioni (Cass. II, n. 25809/2013). Sempre sotto lo stesso profilo, in dottrina, si è ritenuto che la legittimazione attiva spetti al titolare della servitù che normalmente corrisponde al proprietario del fondo dominante, ma può essere identificato anche nell'enfiteuta, nell'usufruttuario o nel titolare di altro diritto reale di godimento sul fondo dominante (Gambaro, Confessoria e negatoria (azione), in Enc. giur., VIII, Roma 1988, 4); per le servitù costituite attivamente dall'usufruttuario, si ritiene che questi possa esercitare da solo la confessoria e non debba chiamare in giudizio il proprietario (Branca, in Comm. S.B. 1979, 491). La giurisprudenza (Cass. II, n. 10617/2017) ha recepito tali insegnamenti, affermando che l'enfiteuta è legittimato ad agire in confessoria servitutis, onde farne riconoscere in giudizio l'esistenza, essendo abilitato a costituire una servitù in favore del fondo oggetto del suo dominio, ai sensi dell'art. 1078 c.c., ed in applicazione analogica dell'art. 1012, comma 2, c.c., secondo cui l'usufruttuario può far riconoscere l'esistenza delle servitù a favore del fondo. Riguardo alla confessoria servitutis, la legittimazione dal lato passivo è in primo luogo di colui che, oltre a contestare l'esistenza della servitù, abbia un rapporto attuale con il fondo servente (proprietario, comproprietario, titolare di un diritto reale sul fondo o possessore suo nomine), potendo solo nei confronti di tali soggetti esser fatto valere il giudicato di accertamento, contenente, anche implicitamente, l'ordine di astenersi da qualsiasi turbativa nei confronti del titolare della servitù o di rimessione in pristino ex art. 2933; gli autori materiali della lesione del diritto di servitù possono, invece, essere eventualmente chiamati in giudizio quali destinatari dell'azione ex art. 1079, soltanto se la loro condotta si sia posta a titolo di concorso con quella di uno dei predetti soggetti o abbia comunque implicato la contestazione della servitù; altrimenti, nei loro confronti possono essere esperite, ai sensi dell'art. 2043, l'azione di risarcimento del danno e, ai sensi dell'art. 2058, l'azione di riduzione in pristino con l'eliminazione delle turbative e molestie (Cass. II, n. 1332/2014; Cass. II, n. 1383/1994). Ipotesi di litisconsorzio necessarioPer completezza sul versante processuale, i giudici di legittimità hanno verificato le ipotesi in cui il contraddittorio dove essere necessariamente integrato. In tema di servitù prediali, ove l'actio confessoria servitutis sia diretta anche a modificare lo stato dei luoghi mediante rimessione in pristino rispetto alle opere eseguite in violazione del diritto di servitù, la domanda deve essere necessariamente proposta nei confronti di tutti i proprietari dei fondi ritenuti serventi (Cass. II, n. 8843/2004). In materia di procedimento civile, l'actio confessoria o l'actio negatoria servitutis diretta — nell'ipotesi che il fondo dominante o quello servente o entrambi appartengano pro indiviso a più proprietari — soltanto a far dichiarare, nei confronti di chi ne contesti o ne impedisca l'esercizio, l'esistenza della servitù o a conseguire la cessazione delle molestie, non dà luogo a litisconsorzio necessario, né dal lato attivo né da quello passivo; solo qualora sia domandato anche un mutamento dello stato di fatto dei luoghi, mediante la demolizione di manufatti o di costruzioni, che incida su di un rapporto inscindibilmente comune a più soggetti, l'azione deve essere esperita nei confronti di tutti i proprietari, giacché solo in tal caso la sentenza, ove non avesse efficacia nei confronti di tutti, risulterebbe ineseguibile e, pertanto, inutiliter data (Cass. II, n. 13818/2019; Cass. II, n. 12479/2013; Cass. II, n. 8261/2002; Cass. II, n. 8565/1996; ad avviso di Cass. II, n. 7040/2020, ne deriva, in fase di appello, l'inscindibilità delle cause, ai sensi dell'art. 331 c.p.c., e, quindi, la necessità della partecipazione a tale fase di tutte le parti originarie, la quale deve essere verificata dal giudice del gravame preliminarmente ad ogni altra pronuncia, con l'emissione di un eventuale ordine d'integrazione del contraddittorio, mentre, in difetto, si determina la nullità, rilevabile di ufficio pure in sede di legittimità, dell'intero processo di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso). In senso conforme, da ultimo, si è statuito (Cass. II, n. 6622/2016) che la actio confessoria o negatoria servitutis dà luogo a litisconsorzio necessario passivo solo se, appartenendo il fondo servente pro indiviso a più proprietari, l'azione sia diretta anche ad una modificazione della cosa comune che altrimenti non potrebbe essere disposta od attuata pro quota in assenza di uno dei contitolari del diritto dominicale, mentre, ove l'azione sia diretta soltanto a far dichiarare, nei confronti di chi ne contesti o ne impedisca l'esercizio, l'esistenza della servitù o a conseguire la cessazione delle molestie, non è configurabile un litisconsorzio necessario, né dal lato attivo, né da quello passivo. Proposta domanda di reintegrazione di una servitù, è onere dell'attore dimostrare l'esistenza e la violazione di un possesso della servitù stessa; correttamente, pertanto, i giudici del merito escludono l'esistenza di prova di una situazione di possesso tutelabile allorché l'attore si limiti a dedurre (e a offrire di provare) che una certa area (oggetto di rivendicazione) era utilizzata per il parcheggio di vetture; se, infatti, il parcheggiare l'auto può essere una delle tante manifestazioni di un possesso a titolo di proprietà, un tale potere di fatto non è inquadrabile nel contenuto di un diritto di servitù, perché caratteristica tipica di detto diritto è la realità e, cioè, l'inerenza al fondo dominante della utilità così come al fondo servente del peso e la comodità di parcheggiare l'auto per specifiche persone che accedono al fondo non può valutarsi come un'utilità inerente al fondo stesso, piuttosto che un vantaggio del tutto personale del proprietario di questo (Cass. II, n. 20409/2009; Cass. II, n. 8137/2004). BibliografiaBiondi, Le servitù, Milano 1967; Caruso - Spanò, Le servitù prediali, Milano 2013; De Tilla, Servitù prediali, in Enc. dir., XIV, Milano, 2007; Gallucci, Servitù prediali: natura, funzione e contenuto del diritto, in Il Civilista, 2010, n. 3, 79; Grosso - Deiana, Le servitù prediali, Torino, 1963; Musolino, Servitù prediali: l'estinzione per rinunzia, in Riv. not. 2013, 368; Terzago G. - Terzago P., Le servitù prediali - Volontarie - Coattive - Pubbliche - Costituzione - Esercizio - Estinzione - Tutela - Le singole servitù, Milano, 2007; Vitucci, Servitù prediali, in Dig. civ., XVIII, Torino 1998; Zaccheo, La tutela possessoria della servitù, in Giust. civ. 1982, II, 215. |