Codice Civile art. 1321 - Nozione. [ 25 prel.]InquadramentoL'individuazione della natura dell'accordo contrattuale risente dei contrasti esistenti sulla stessa definizione dell'atto di autonomia negoziale. All'equazione atto negoziale/dichiarazione di volontà corrisponde la nozione di accordo contrattuale quale fusione di due o più dichiarazioni di volontà (Distaso, in Comm. Utet, 1980, 278; Messineo, 1961, 876); dalla concezione del negozio come atto di autoregolamento dei privati interessi deriva la definizione dell'accordo contrattuale quale espressione dell'incontro e della confluenza, in un autoregolamento unitario, degli atti dispositivi delle diverse parti interessate (Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 11). Le due prospettive sul negozio giuridico, storicamente riguardate come non incompatibili, colgono l'aspetto strutturale (del contratto-atto o fatto), da un lato, e quello funzionale (del contratto-rapporto), dall'altro (Rescigno, 1989, 296). Una definizione dell'atto di autonomia negoziale (o negozio giuridico) si rivela essenziale, sul piano pratico, ove si distingua, dalla disciplina legislativa riservata a tali atti, il regime positivo degli atti giuridici in senso stretto o atti non negoziali (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 448). I riflessi pratici della distinzione, laddove operata secondo il tradizionale criterio della volontà degli effetti dell'atto (Santoro Passarelli, 107), si riducono ai differenti e minori requisiti di capacità richiesti per il compimento degli atti non negoziali (capacità dell'illecito) e alla inapplicabilità, a quest'ultimi, della disciplina generale riservata al contratto. Al riguardo, in assenza di una regolamentazione generale degli atti giuridici in senso stretto, occorre di volta in volta attingere alla particolare disciplina a questi riservata dal legislatore e a quelle norme idonee ad operare un'appropriata composizione degli interessi in conflitto (Bianca, 17). Nel rinnovare i criteri di discriminazione delle due categorie di atti, la dottrina ha evidenziato l'esigenza di operare un adeguato contemperamento tra l'analisi del ruolo dell'attività umana, come criterio essenziale di imputazione degli effetti, e la ratio della norma che prevede tali effetti: ratio che dovrà essere commisurata, oltre che alla volontà, agli stessi interessi in gioco, sino a prescindere, talora, dalla volontà medesima (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 452). Su un piano più concreto, muovendo dall'assenza di una specifica disciplina normativa del negozio giuridico, si è finanche revocata in dubbio la congruità della categoria degli atti non negoziali per i quali siano sufficienti requisiti di capacità diversi e minori di quelli propri degli atti di autonomia negoziale. Conseguentemente al carattere definitorio dell'equazione accordo-contratto si è riconosciuto dalla dottrina il compito di offrire un paradigma generale di una serie di figure tipiche, sul presupposto che l'accordo delle parti interessate rappresenti tuttora lo strumento essenziale e specifico attraverso cui si rende possibile realizzare, nel campo della circolazione dei beni, un congruo regolamento dei rapporti giuridici privati (Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 6; sul valore paradigmatico della definizione del contratto come accordo Messineo, 1961, 786). Della realizzazione di tale compito non si è mancato di dubitare: al di là della incongruenza derivante dal raffronto della disposizione dell'art. 1321 con il successivo art. 1325, dove l'accordo, dapprima identificato con il contratto, viene poi “degradato” ad uno dei requisiti del medesimo (Ferri, 1983, 244; Messineo, 1961, 876), si è indicata l'emersione dal sistema di figure contrattuali irriducibili allo schema tradizionale dell'accordo, dove questo appare la risultante ora di una dichiarazione di volontà seguita da un inizio di esecuzione, talora di una mera esecuzione di prestazioni (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1999, 7). Alla logica dell'accordo (e alla sua bilateralità) la dottrina ha visto sottrarsi la stessa fattispecie regolata dall'art. 1333, comma 2, dove la produzione degli effetti contrattuali muove dall'emissione della sola proposta (atto unilaterale) non seguita dal rifiuto dell'oblato. La ricognizione di una multiforme realtà di fenomeni contrattuali eccentrici, rispetto all'orizzonte segnato dall'accordo, ha sollecitato l'invito a servirsi della nozione legislativa quale mera definizione di base, limitatamente capace di esprimere la complessità del panorama normativo e individuata, sul piano strutturale, dalla bilateralità della formazione e dalla dichiarazione come strumento di autonomia (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1999, 13). Una prospettiva più rispettosa del linguaggio normativo, e convinta dell' oggettiva comprensività della nozione offerta dal legislatore, affida all'accordo, da non considerarsi come una realtà fenomenica assoluta, il ruolo di una qualificazione normativa di determinate realtà fenomeniche, in funzione di una valutazione in termini di ragionevolezza sociale, a sua volta dipendente dal contenuto economico-giuridico della realtà da qualificare (Roppo, 1989, 96). In tal senso le ragioni dell'accordo muovono dall'esigenza di tutelare l'interesse del destinatario dell'altrui dichiarazione a non veder modificata la propria sfera giuridica in senso svantaggioso ovvero in senso vantaggioso rispettivamente senza o contro la propria volontà di accettare (Roppo, 1989, 97). L'atto complesso, collettivo e collegialeDi regola la struttura dell'accordo contrattuale risulta da un insieme di dichiarazioni o di altri comportamenti umani e quindi da un concorso di volontà (Carresi, in Tr. C.M., 1987, 68). Il che ha indotto la dottrina ad indicare, rispetto al contratto, i profili differenziali di altre figure di atti plurisoggettivi (aventi contenuto patrimoniale), in cui si ha del pari un concorso di volontà. Tali figure sono state enucleate negli atti complessi, atti collettivi e atti collegiali. Nell'atto complesso le dichiarazioni di volontà, avendo il medesimo contenuto quali espressioni di interessi identici, si fondono in una dichiarazione di volontà (complessa ma) unitaria (Messineo, 1961, 908); nell'ambito di tale categoria si distinguono gli atti i cui effetti vengono risentiti da uno soltanto dei soggetti che hanno concorso alla loro formazione (l'atto di straordinaria amministrazione compiuto dal limitatamente capace di agire con il curatore) e gli atti i cui effetti ricadono su un soggetto che rispetto a tale formazione sia rimasto estraneo (l'atto compiuto da più persone che costituiscono l'organo di una persona giuridica). In relazione alla totale o parziale estraneità agli effetti dell'atto, le manifestazioni di volontà saranno determinanti nella stessa misura, e in tal caso si tratterà di atti complessi eguali, ovvero in misura diversa, e in tal caso si tratterà di atti complessi diseguali (Carresi, in Tr. C.M., 1987, 69). Dall'atto complesso l'accordo contrattuale differisce non sul piano della struttura, bensì sul piano del contenuto (Distaso, in Comm. Utet, 1980, 75): nell'atto complesso ha luogo una fusione nel senso, tecnico, di formazione di una volontà unitaria, in quanto sono identici gli interessi e i contenuti delle dichiarazioni; laddove, a fronte dell'accordo contrattuale, potrebbe discorrersi in termini di fusione soltanto in senso improprio, in quanto le dichiarazioni di volontà e gli interessi sono, per definizione, di contenuto diverso e opposto; onde ne è possibile, non la fusione, ma soltanto la convergenza (Messineo, 1961, 908). L'atto collettivo consiste nella manifestazione, da parte di più soggetti, di volontà aventi identico contenuto e dirette al raggiungimento del medesimo effetto, ma, diversamente da quanto avviene nell'atto complesso, nell'interesse di tutti i partecipanti, nel senso che tutti costoro risentiranno nella propria sfera giuridica degli effetti che la legge ricollega a quell'atto (Carresi, in Tr. C.M., 1987, 70; Distaso, in Comm. Utet, 1980, 76). Nell'atto collettivo le dichiarazioni di volontà non sono destinate a fondersi, bensì si sommano restando distinte l'una dall'altra (Messineo, 1961, 906). Mentre appare agevole distinguere l'atto collettivo dall'accordo contrattuale di scambio — sotto il profilo della diversità degli interessi delle parti che si trovano e restano in conflitto — assai più ardua si è ritenuta l'individuazione del profilo discriminante tra atto collettivo e accordo contrattuale associativo, in cui ugualmente è sembrato ricorrere l'elemento della comunità degli interessi delle parti: al riguardo, si è prospettata una parziale coincidenza strutturale tra le due categorie, ritenendo atto collettivo ogni contratto associativo e riconoscendo al primo un'estensione più ampia e comprensiva di fenomeni ricorrenti in altri settori dell'ordinamento, come nella comunione dei diritti reali (Messineo, 1961, 906). Svalutando la rigidità della contrapposizione accennata, si è al contrario sottolineato il carattere artificioso della nozione di conflitto di interessi relativa ai contratti di scambio (Allara, 82) e si è messo in luce il carattere configgente e non parallelo degli interessi che sono alla base dei contratti associativi (Osti, 474). In tal senso, pur riconoscendo il carattere peculiare dei contratti associativi, in cui si dà vita ad un organismo unitario nel cui ambito le parti operano per il raggiungimento di uno scopo comune, e pur valorizzando i conseguenti riscontri sul piano della disciplina normativa, si è escluso che tali caratteristiche possano reagire, alterandola, sulla struttura dell'accordo contrattuale fino al punto di trasformarlo in atto di diverso tipo (Carresi, in Tr. C. M., 1987, 73). Ai fini di caratterizzare la figura dell'atto collettivo rispetto all'accordo contrattuale, la dottrina ha conseguentemente richiamato la nozione di centro di interessi: nel contratto, oltre ad una pluralità di parti, si hanno necessariamente più centri di interessi; nell'atto collettivo, al contrario, alla pluralità di parti corrisponde un unico centro di interessi, in quanto gli effetti che all'atto conseguono si indirizzano verso un unico lato anche se poi, essendo questo lato impersonato da più soggetti, si riverseranno frazionatamente nella sfera giuridica di ciascuno di essi. Un ulteriore criterio (di natura formale) distintivo degli atti collettivi rispetto ai contratti muove dal rilievo secondo cui i primi si presentano necessariamente come atti di secondo grado, dovendo comunque presupporsi, a monte del loro compimento, un preventivo accordo delle parti che costituisca tra esse una comunione di interessi (Carresi, in Tr. C. M., 1987, 78). L'atto collegiale è l'atto che promana da una collettività organizzata di persone, ossia da un organo, composto da più soggetti, il quale provvede nell'interesse della collettività medesima; in esso spicca il carattere della volontà maggioritaria che comporta la coesistenza di altre volontà orientate in senso diverso, sebbene il peso di queste ultime resti, di regola, inefficace (Messineo, 1961, 909). Ove l'atto compiuto sia l'espressione di una collettività sfornita della personalità giuridica, gli effetti saranno risentiti da tutti indistintamente i componenti di quella collettività; in tal caso occorre distinguere tra efficacia dell'atto esterna alla collettività che lo ha espresso (dichiarazione di assemblea condominiale che stabilisca il licenziamento del portiere) ovvero interna alla sfera della collettività entro cui si esaurisce (delibera dell'assemblea condominiale che approva il regolamento di condominio): nelle due ipotesi l'efficacia degli atti si riaccosterà, rispettivamente, allo schema dell'atto collettivo o al contratto, ferma restando la diversa disciplina normativa dell'eventuale iter formativo collegiale dell'atto (Carresi, in Tr. C. M., 1987, 85). Il contratto di cui sia parte la pubblica amministrazioneParte del contratto può altresì essere la P.A. L'assoggettamento della P.A. alla disciplina del diritto comune e la conseguente tutela contrattuale del privato non ledono l'interesse pubblico di cui l'ente è portatore, poiché il ricorso al contratto significa che tale interesse si realizza adeguatamente, secondo le valutazioni della stessa P.A., tramite rapporti di diritto comune, cioè tramite la cooperazione negoziale dei privati (Bianca, 47). Accanto ai contratti conclusi iure privatorum, attraverso i quali la P.A. persegue in modo generico la soddisfazione di interessi patrimoniali di rilievo strumentale rispetto alle proprie finalità istituzionali, possono definirsi contratti di diritto pubblico quei contratti caratterizzati, oltre che dall'impiego dello schema formale dell'evidenza pubblica, anche dall'inerire del negozio allo scopo specifico istituzionale del singolo ramo della P.A., vale a dire dal costituire il contratto lo strumento attraverso il quale la P.A. attua i propri compiti precipui (Moscarini, 195). L'inerenza del contratto agli interessi pubblici istituzionalmente propri dell'Amministrazione stipulante caratterizza dall'interno la funzione (causa) del negozio, concorrendo, con gli altri elementi caratterizzanti, alla definizione del tipo negoziale: così da giustificare la prospettazione per cui causa del contratto di diritto pubblico (o ad evidenza pubblica) non sarebbe il semplice scambio tra la prestazione caratterizzante e il pagamento del corrispettivo, quanto piuttosto lo scambio tra l'utilizzazione del pubblico denaro all'uopo stanziato e il soddisfacimento delle esigenze di pubblico interesse specificate ed individuate in concreto dalla valutazione provvedimentale della P.A. In tal senso la disciplina del contratto di diritto pubblico risulta caratterizzata dall'alternarsi, sia nella fattispecie costitutiva del rapporto che nelle vicende inerenti alla sua successiva esecuzione, di momenti privatistico-negoziali con momenti di natura autoritativo-provvedimentale (Moscarini, 159).La linea di confine tra il contratto di diritto privato e il contratto di diritto pubblico non può ritenersi segnata in modo netto ed assiomatico, bensì deve riguardarsi come sfumata in una pluriarticolata gamma di prospettazioni e di passaggi intermedi nei quali la natura pubblica di uno dei soggetti del rapporto contrattuale assume sempre una qualche, sia pure variamente gradata, rilevanza (Moscarini, 60). La minuta o puntuazioneNella realizzazione della fattispecie contrattuale le parti talora procedono per gradi; regolando il rapporto soltanto su alcuni punti (attraverso la minuta o puntuazione) e riservandosi di completare l'accordo sui punti residui. Conseguentemente, si pone il problema dell'efficacia giuridica da attribuirsi agli accordi che le parti abbiano parzialmente raggiunto ove si siano riservate di trattare in seguito su altri punti e — più ancora — in relazione alla determinazione del momento in cui si renda possibile individuare il passaggio dalla fase delle trattative a quella della conclusione del contratto (Distaso, in Comm. Utet, 1980, 523). Il rifiuto di una delle parti di tener conto degli accordi parzialmente raggiunti e il relativo intento di rimettere in discussione tale punto legittima l'altra parte a recedere dalle trattative e ad agire nei suoi confronti per il risarcimento dei danni precontrattuali (Carresi, in Tr. C. M., 1987, 707). Una minoritaria posizione della dottrina ha ritenuto che gli accordi progressivamente raggiunti dalle parti in trattativa costituiscano essi stessi altrettanti contratti (per i quali si propone la qualifica di preparatori), con cui le parti rinunziano al potere di revoca in ordine ai punti già concordati (Tamburrino, 105). La dottrina prevalente è propensa a “sconsigliare” una definizione di tali intese attraverso l'equivoca terminologia del contratto preparatorio, data l'appartenenza delle intese raggiunte alla fase precontrattuale; si è così optato per l'attribuzione a tali accordi di un mero rilievo circostanziale di fatto, il cui valore è limitato alla portata integrativa del contratto concluso quand'anche, nell'ultima proposta o nell'accettazione conclusiva ad essi non sia stato fatto espresso riferimento (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 51). Secondo la giurisprudenza, si ha una mera minuta o puntuazione o punctatio o bozza di contratto, priva di effetti vincolanti, quando le parti abbiano assunto un impegno con funzione meramente interlocutoria e preparatoria di un futuro negozio, salvo che non si sia formata la volontà attuale di un accordo contrattuale mediante un'intesa raggiunta dalle parti che abbia ad oggetto un vero e proprio regolamento definitivo del rapporto; affinché ciò possa essere accertato è possibile fare ricorso ai criteri interpretativi dettati dagli artt. 1362 e ss., i quali mirano a consentire la ricostruzione della volontà delle parti, operazione che non assume carattere diverso quando sia questione, invece che di stabilirne il contenuto, di verificare anzitutto se le parti abbiano inteso esprimere un assetto d'interessi giuridicamente vincolante, dovendo il giudice accertare, al di là del nomen iuris e della lettera dell'atto, la volontà negoziale con riferimento sia al comportamento, anche successivo, comune delle parti, sia alla disciplina complessiva dettata dalle stesse, interpretando le clausole le une per mezzo delle altre (Cass. n. 30851/2018 ; Cass. n. 667/2012; Cass. n. 2720/2009; Cass. n. 28618/2008; Cass. n. 6871/2004; Cass. n. 4265/1995). Sul punto, si è riconosciuta l'inidoneità di un accordo telefonico o di un mero scambio di lettere a segnare il perfezionamento del contratto, qualora fra le parti sia intervenuta una successiva corrispondenza con una nuova proposta ed una nuova accettazione, sì da evidenziare il loro intento di assegnare ai precedenti contatti il valore di mere trattative preliminari (Cass. n. 1283/1989). A tal fine la valutazione del giudice deve prevalentemente incentrarsi sul documento in ordine al quale si è formato l'accordo delle parti, fermo restando che la parte ha la più ampia facoltà di provare con elementi extratestuali il mancato perfezionamento del contratto e che le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa della quale sono formate, concorrono tutte ed indistintamente alla formazione del convincimento del giudice (Cass. n. 16118/2006). La puntuazione o minuta di contratto non ha in via di massima carattere vincolativo, ma solo una funzione essenzialmente storica e probatoria della fase delle trattative contrattuali in quanto con essa le parti di solito intendono solo documentare l'intesa raggiunta su alcuni punti, rinviando la conclusione del contratto al momento successivo nel quale avranno raggiunto l'accordo anche sugli altri (Cass. n. 11429/1992). La sua formalizzazione costituisce materia di valutazione dell'affidamento sulla conclusione futura del contratto ai fini dell'eventuale responsabilità precontrattuale (Cass. n. 2500/1983). Perché possa configurarsi un definitivo vincolo contrattuale, è necessario che tra le parti sia raggiunta l'intesa su tutti gli elementi dell'accordo, non potendosene ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l'intesa solamente su quelli essenziali ed ancorché riportati in apposito documento, risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori. Peraltro, anche in presenza del completo ordinamento di un determinato assetto negoziale, può risultare integrato un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le parti, in difetto dell'attuale effettiva volontà delle medesime di considerare concluso il contratto (Cass. n. 910/2005; Cass. n. 3158/1994). Del tutto minoritario è in giurisprudenza l'assunto secondo cui il contratto preparatorio in senso stretto è quel contratto che, insinuandosi nella formazione di un contratto definitivo, produce l'effetto di fissare, in modo vincolativo per le parti, determinate clausole e determinate parti del contratto definitivo; ove questo dovesse concludersi, quelle clausole e quelle parti entrerebbero automaticamente nel contratto definitivo, senza bisogno di ulteriore consenso su di esse (Cass. n. 1944/1981). Rientrano nella nozione di minuta o puntuazione del contratto, per la quale è indispensabile l'esistenza di un documento sottoscritto da entrambe le parti, sia i documenti che contengano intese parziali in ordine al futuro regolamento di interessi — puntuazione di clausole —, sia i documenti che predispongano con completezza un accordo negoziale in funzione preparatoria del medesimo — puntuazione completa di clausole — (Cass. n. 2204/2020; Cass. n. 10276/2002; Cass. n. 7857/1997). Qualora il definitivo assetto (su base contrattuale) di interessi tra le parti non si formi immediatamente per mezzo di un unico atto, si possono prospettare tre diverse ipotesi, produttive di differenti conseguenze giuridiche: a) patto d'opzione, negozio bilaterale con cui si concorda l'irrevocabilità della dichiarazione di una delle parti relativamente ad un futuro contratto che sarà concluso con la semplice accettazione dell'altra parte (relativamente ad un regolamento negoziale interamente contemplato nel patto di opzione), la quale però rimane libera di accettare o meno detta dichiarazione, entro un certo termine; b) contratto preparatorio in senso stretto (o puntuazione), con cui i contraenti si accordano su taluni punti del futuro contratto, in occasione della cui stipula (a cui le parti non sono obbligate, così come nei casi in cui sono intercorse semplici trattative) non sarà necessario un nuovo incontro di volontà sui punti già definiti; c) contratto preliminare, diretto ad obbligare le parti (o una sola nel caso di preliminare unilaterale) a stipulare un futuro contratto (Cass. n. 10649/1994). Analoga qualificazione di mero atto precontrattuale spetta alla lettera di intenti qualora, dall'accertamento della volontà delle parti, risulti che tale intesa sia stata sottoscritta al solo fine di manifestare o formalizzare l'intenzione delle parti stesse di trattare e di puntualizzare i termini della trattativa (Trib. Milano 26 giugno 1989). Costituisce accertamento riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, valutare se l'intesa raggiunta dai contraenti abbia ad oggetto un regolamento definitivo del rapporto ovvero un documento con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio (Cass. n. 14006/2017). Il momento perfezionativo dell'accordoIn ordine ai requisiti minimi necessari affinché l'accordo contrattuale possa reputarsi perfezionato, la dottrina ritiene che non occorre fare riferimento agli elementi dell'autoregolamento, bensì all'intento manifestato dalle parti; la stessa affermazione secondo cui l'accordo sui soli punti essenziali non è sufficiente a porre in essere il contratto è poi temperata; finisce, infatti, con l'aggiungere che la riserva sui punti secondari non incide sulla conclusione del negozio qualora le parti abbiano dimostrato di non voler subordinare al successivo accordo la perfezione del contratto (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1999, 64). Sicché l'interpretazione dell'intenzione delle parti assume un ruolo decisivo anche in merito alla cristallizzazione del momento conclusivo dell'accordo (Benedetti, 101). Secondo le tesi più risalenti, sarebbe necessario fare riferimento all'integrazione oggettiva degli elementi essenziali del contratto (Osti, 515). In ragione di un indirizzo intermedio, bisogna distingue tra le ipotesi in cui l'accordo manca della previsione dei punti che non richiedono una specifica disciplina o possono essere regolati alla stregua dei normali mezzi di integrazione del contenuto contrattuale (usi, norme suppletive, ecc.) e l'ipotesi in cui manca, e non può altrimenti realizzarsi, la disciplina di elementi che, secondo l'apprezzamento dei contraenti, debbono comunque avere una puntuale disciplina; nel qual caso il contratto deve ritenersi inesistente (Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 92). In giurisprudenza si aderisce ad un'impostazione oggettivizzata: si ritiene, infatti, che nei contratti a formazione progressiva, nei quali l'accordo delle parti su tutte le clausole si raggiunge gradatamente, il momento perfezionativo del negozio è di regola quello dell'accordo finale su tutti gli elementi, principali ed accessori, salvo che le parti abbiano inteso vincolarsi agli accordi raggiunti su singoli punti, riservandosi la disciplina degli elementi secondari (Cass. n. 13610/2020; Cass. n. 77/1993). Sicché l'accordo su alcuni punti essenziali del contratto non esaurisce la fase delle trattative, perché, al fine di perfezionare il vincolo contrattuale, è necessario che tra le parti sia raggiunta l'intesa sugli elementi costitutivi, sia principali che secondari, dell'accordo (Cass. n. 367/2005; Cass. n. 1072/1985; Cass. n. 2443/1970). Ma in senso contrario altro arresto evidenzia che la perfezione dell'accordo contrattuale si realizza con il raggiungimento del consenso delle parti sui soli elementi essenziali del contratto; la riserva sui punti complementari, ove le parti abbiano dimostrato di non voler subordinare la perfezione del contratto al successivo accordo anche su tali elementi, non incide sulla conclusione del negozio (Cass. n. 2051/1980). In linea con tali pronunce si è definita finanche “non lecita” la distinzione tra elementi essenziali e non essenziali del contratto; e ciò per l'evidente ragione logico-giuridica che non può concepirsi il diritto di uno dei contraenti ad esigere l'adempimento dall'altro dell'obbligazione assunta, se non quando siano stati precisati e definiti i singoli elementi di fatto che integrano a carico di ciascun contraente l'obbligazione propria, in relazione alle finalità che ciascuna delle parti persegue (Cass. n. 1849/1953). L'accordo delle parti, ai fini della conclusione del contratto, può considerarsi inesistente solo quando sia impossibile la giuridica identificazione di un'espressione della volontà comune che, sorretta da una comune intenzione, abbia forza di legge fra le parti, e non anche nei casi in cui il consenso sia solo viziato o minato da errore (Cass. n. 3378/1993). Le clausole e i pattiL'accordo contrattuale si articola normalmente in una serie di determinazioni o proposizioni che assumono la denominazione di clausole (talora patti o condizioni). Pur nella complessiva unità delle determinazioni contrattuali, ad ogni clausola corrisponde, quale precetto negoziale o unità precettiva autonoma, un proprio effetto giuridico (Carresi, in Tr. C.M., 1987, 214). Ogni clausola può articolarsi in più disposizioni. La clausola non va confusa con il paragrafo (o articolo) del contratto che, rispetto alla clausola, si trova nella stessa relazione dell'articolo di legge rispetto alla proposizione normativa in essa racchiusa (Carresi, in Tr. C.M., 1987, 214). All'insieme delle clausole è estraneo il preambolo che le parti sono solite far precedere al testo: quando non si riduce ad una mera esposizione delle trattative precedenti alla conclusione, il preambolo ha la funzione di puntualizzare gli scopi che le parti si sono proposte di raggiungere con lo stipulando contratto e, per la sua conseguente carenza di contenuto precettivo, non acquista mai il valore stesso delle clausole (contra Messineo, 1961, 820); la sua rilevanza potrà esaurirsi, al più, sul terreno interpretativo delle clausole eventualmente oscure od ambigue (Carresi, in Tr. C.M., 1987, 214). Le clausole contrattuali possono definirsi principali ovvero secondarie, in base al fatto che la loro nullità importi o meno la nullità dell'intero contratto sotto il profilo del carattere determinante del consenso, salvo l'inserimento imperativo ex art. 1339. Possono altresì ricorrere clausole (o, più specificamente, condizioni) generali o particolari, in ragione della determinazione del contenuto contrattuale mediante elementi precostituiti, che importano un fenomeno di standardizzazione, ossia di uniformità del contenuto di una pluralità di contratti, ovvero mediante elementi stabiliti specificamente per il singolo contratto. Alla predisposizione delle condizioni generali di contratto possono pervenire entrambe le parti, terzi estranei ovvero uno solo dei due contraenti (Maiorca, 618). Sono dette clausole di stile — che rispondono ad una pratica stilistica (Bianca, 313) — quelle espressioni tradizionali che, intese a colmare eventuali omissioni, rimangono in realtà prive di qualsiasi significato giuridico a cagione della loro genericità ed indeterminatezza. Esse si distinguono dalle clausole d'uso regolate dall'art. 1340. L'irrilevanza giuridica delle clausole di stile è stata riconosciuta in virtù della loro presunta mancata corrispondenza ad un effettivo intento negoziale delle parti: spetta così a chi abbia interesse a dimostrare il contrario la prova della effettiva sottostante volontà negoziale (Carresi, in Tr. C.M., 1987, 224). Si è altresì sostenuto che le clausole di stile in senso proprio non hanno efficacia diversa da ogni altra clausola contrattuale concorrendo così, utilmente e a pieno titolo, alla formazione del regolamento degli interessi dedotti in contratto, per cui si impone alle parti il dovere di rispettarle e soggiacere alla loro forza obbligatoria. L'affermazione della necessaria obbligatorietà delle clausole di stile è stata tuttavia ritenuta valida a condizione che non sia possibile provare una comune volontà contraria alla clausola, da ascrivere alla volontà altrui (per lo più un notaio), nel senso che la stessa non fu fatta propria dalle parti, nonostante la sottoscrizione del documento contrattuale. Sotto il profilo della discriminazione concettuale, accanto alla nozione di clausola, spesso si usa il riferimento all'espressione patto. Di regola i patti sono visti come clausole del contratto, benché essi costituiscano materia di specifica stipulazione e possano apparire autonomi circa il momento della conclusione: gli artt. 2722-2723 sulla prova testimoniale espressamente evocano i patti aggiunti, contrari o posteriori. Di patti non riducibili a mere clausole di un più complesso regolamento può parlarsi a proposito dei patti in materia di limitazione della libertà di concorrenza (Rescigno, 1988, 3). Secondo la S.C. la nozione di clausola va intesa come parte elementare del contratto, cioè come elemento irriducibile del medesimo, anche quando essa consti di più disposizioni, le quali costituiscano il precetto unitario che disciplina una obbligazione contrattuale, principale o accessoria, nel suo insieme (Cass. n. 5675/1987; Cass. n. 2123/1979; Cass. n. 1631/1963). Possono aversi anche clausole aggiunte, ossia discendenti da un contratto successivo tendente a modificare in parte il contenuto di quello precedente (Cass. n. 2625/1962). Clausola di stile è quella che si limita a rappresentare la consueta espressione di una prassi stilistica di determinati atti, e non trova, perciò, alcun riscontro effettivo nella determinazione dei contraenti, relativa al singolo negozio (Cass. n. 2591/1966). Essa è costituita soltanto da quelle espressioni generiche, frequentemente contenute nei contratti o negli atti notarili, che per la loro eccessiva ampiezza e indeterminatezza rivelano la funzione di semplice completamento formale, mentre non può considerarsi tale la clausola che abbia un concreto contenuto volitivo ben determinato, riferibile al negozio posto in essere dalle parti (Cass. n. 19876/2011; Cass. n. 5203/1983). Più risalente è la definizione delle clausole di stile come quelle clausole che intanto possono spiegare efficacia, siccome corrispondenti alla comune volontà delle parti, in quanto non contrastanti con l'oggetto, e in genere con il tenore, contenuto e portata giuridica della specifica contrattazione considerata nel suo complesso (Cass. n. 1826/1942). Il giudice di merito, anche a fronte di una clausola estremamente generica ed indeterminata, deve comunque presumere che sia stata oggetto della volontà negoziale, sicché deve interpretarla in relazione al contesto per consentire alla stessa di avere qualche effetto e, solo se la vaghezza e la genericità siano tali da rendere impossibile attribuire ad essa un qualsivoglia rilievo nell'ambito dell'indagine volta ad accertare la sussistenza ed il contenuto dei requisiti del contratto, ovvero siano tali da far ritenere che la pattuizione in esame non sia mai concretamente entrata nella sfera dell' effettiva consapevolezza e volontà dei contraenti, può negare ad essa efficacia qualificandola come clausola di stile (Cass. n. 13839/2013; Cass. n. 19104/2009). Si è riconosciuto integrare gli estremi della clausola di stile alla clausola risolutiva espressa pattuita con generico riferimento ad una qualsiasi inadempienza contrattuale (Cass. n. 1950/2009; Cass. n. 11055/2002; Cass. n. 5147/2001; Cass. n. 5169/1990; Cass. n. 3119/1985; Cass. n. 5990/1981; Cass. n. 345/1979) ovvero alla clausola di mero riferimento allo stato di fatto dell'immobile (Cass. n. 18349/2012; Cass. n. 11674/2000; Cass. n. 6062/1983). La natura patrimoniale del rapportoIl contratto è altresì connotato dalla natura patrimoniale del rapporto giuridico da esso regolato. Il che costituisce la nota distintiva del contratto a fronte di altre figure denominate convenzione o accordo in senso ampio (Messineo, 1961, 817). La necessaria patrimonialità del rapporto contrattuale si ricollega evidentemente alla necessaria patrimonialità dell'obbligazione che dal contratto trae fonte, sicché può farsi riferimento a quest'ultima nel definire la patrimonialità del primo (Roppo, 1989, 98). L'accordo verte su un regolamento di rapporti patrimoniali quando i vantaggi e/o i sacrifici che ne conseguono sono tutti apprezzabili secondo valori di mercato. Nondimeno, è integrato ugualmente il contratto anche quando alcuni di tali vantaggi non hanno carattere patrimoniale, perché riguardano beni giuridici o valori non patrimoniali, ma sono collegati — nell'ambito del regolamento concordato — a beni patrimoniali. In tale prospettiva devono essere considerati contratti anche accordi che non potrebbero in alcun modo ricevere tutela dall'ordinamento, perché indubitabilmente contrari a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, come l'assunzione, dietro corrispettivo, dell'obbligo di non contrarre matrimonio (Roppo, 1989, 98). Al contrario si è ritenuto che la previsione di una clausola penale non è idonea di per sé ad attribuire carattere di patrimonialità ad una prestazione in sé priva di tale connotazione, potendo, al più, costituire un indice della volontà delle parti di assumere il vincolo sul piano del diritto (Rescigno, 1979, 185). La patrimonialità come oggettivo carattere della prestazione in sé considerata deriva dalle concezioni proprie dell'ambiente sociale entro cui tale prestazione è prevista, in quanto sia approvata l'assunzione di un sacrificio economico per il conseguimento di una prestazione di quel tipo, pur se sprovvista di un prezzo di mercato (Giorgianni, 38). Al di fuori dell'ambito delle relazioni caratterizzate dall'indispensabile connotazione della patrimonialità, il ricorso legislativo alla nozione di accordo (da intendere in senso ampio) appare dettato, di volta in volta, dalla peculiarità delle situazioni regolate. In ordine alle figure, indubbiamente negoziali e volontarie, il cui oggetto è costituito da rapporti giuridici non patrimoniali, la dottrina ha proposto, dovendole espungere dalla cerchia del contratto, la categoria dogmatica della convenzione (Messineo, 1962, 510). Si è peraltro evidenziata la sostanziale irrilevanza costruttiva della categoria: sul piano pratico infatti il problema non riguarda l'identificazione dei caratteri e dei principi comuni a questi altri negozi — tutti del resto tipizzati ed ampiamente disciplinati dalla legge — bensì ed al più quello di stabilire l'inapplicabilità ad essi della nozione e del regime giuridico dei contratti (Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 18). Agli accordi non patrimoniali conseguentemente non troveranno applicazione diretta le norme ed il regime giuridico stabilito per il contratto; il quale al contrario costituirà il punto di riferimento per un' eventuale estensione in via analogica della relativa disciplina (Carresi, in Tr. C. M., 1987, 4; Messineo, 1962, 512). Sono espunti dall'ambito del contratto, quand'anche siano coinvolti interessi di natura patrimoniale, i negozi di diritto familiare e quelli a causa di morte. Secondo la S.C. il termine convenzione che, a differenza del contratto non è definito legislativamente, oltre ad essere usato come equivalente del contratto stesso, indica anche gli accordi non patrimoniali ovvero una parte del contratto stesso, diventando sinonimo di patto o di complesso di pattuizioni (Cass. n. 1145/1976). Quanto alla natura patrimoniale del rapporto, ha riconosciuto carattere patrimoniale a prestazioni intrinsecamente non dotate di tale connotazione, ove le parti le abbiano dedotte in contratto come corrispettivo di prestazioni a carattere patrimoniale (Cass. n. 649/1971; Cass. n. 835/1964). Le parti del contrattoLa nozione di parte del contratto indica la posizione o relazione dinamica del titolare di un interesse unitario, o se si vuole di un centro di interessi, nell'arco e per gli effetti della sua autoregolamentazione. Una parte può comporsi di uno o più soggetti individuali o collettivi (parte complessa) e, per altro verso, un soggetto può rappresentare, seppure a titolo eccezionale, due distinte parti, come accade nella figura del contratto con se stesso (Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 13). Alla parte in senso materiale la dottrina è solita contrapporre la nozione di parte in senso formale nell'ipotesi in cui alla stipulazione del contratto attenda un soggetto estraneo agli interessi in gioco, come avviene nel caso della rappresentanza (Messineo, 1961, 825). Dal concetto di parte risulta talora distinta la nozione di centro di interessi, allo scopo di distinguere dal contratto la struttura dell'atto collettivo (la distinzione è criticata da Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 13 e respinta da Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 18; per l'identificazione delle due nozioni Messineo, 1961, 824). Nel caso in cui la parte contrattuale si presenti come parte complessa si verifica l'inserzione nella struttura del contratto del risultato di un atto complesso ovvero di un atto collettivo, sebbene la parte si presenti nel contratto come unitaria. È per converso parte semplice il soggetto collettivo del quale, all'esterno, è indifferente il fatto che unifichi, all'interno, una pluralità di soggetti, come l'associazione o la società (Messineo, 1961, 824). Dalla parte in senso sostanziale — in quanto partecipe di rapporti di diritto sostanziale — occorre distinguere il concetto di parte in senso processuale — in quanto abilitata a stare in giudizio —. Parte in senso sostanziale e parte in senso processuale possono coincidere o meno, secondo i casi (Messineo, 1961, 824). Si versa nell'ipotesi del contratto plurilaterale (o associativo), non già in base al mero riferimento al numero dei contraenti (superiore a due), bensì per il fatto che la prestazione di ciascuna parte appare diretta al conseguimento di uno scopo comune alle altre, distinguendosi così dai contratti di scambio, nei quali la prestazione di una parte è compiuta esclusivamente nell'interesse dell'altra (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1999, 459). I contratti di scambio (o di altro tipo), in cui molti soggetti dispongono in modo parallelo dei propri diritti a favore della controparte, non sono contratti plurilaterali (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1999, 460). La parte complessa va considerata come un unico soggetto anche ai fini processuali (Cass. n. 265/1981; Cass. n. 922/1974). La costituzione, regolazione o estinzione del rapportoL'accordo contrattuale è diretto a costituire, regolare od estinguere un rapporto giuridico patrimoniale tra le stesse parti. Le tre finalità cui può essere indirizzato il contratto riassumono le essenziali manifestazioni del potere dispositivo dei privati rispetto agli interessi che sono per l'appunto dall'ordinamento ricondotti alla loro disponibilità (Rescigno, 1988, 5). Accanto al chiaro riferimento alla costituzione e all'estinzione, ossia alla genesi di un nuovo rapporto o alla cessazione di un rapporto pregresso, il legislatore ha utilizzato la formula più ampia della regolazione del rapporto, che non è stata identificata con la mera modificazione (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1999, 251). Piuttosto, attraverso l'espressione indicativa della regolazione appare contemplata, nel quadro dell'autonomia privata, la funzione consistente nel dettare le modalità di esecuzione e svolgimento del rapporto (Rescigno, 1988, 5). Sul piano pratico è possibile regolare l'effetto delle fattispecie legali ricorrendo al gioco delle condizioni (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1999, 251). La regolazione dei rapporti si può realizzare anche mediante il contratto normativo, che costituisce il contratto-quadro cui segue la stipulazione dei contratti esecutivi (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1999, 251). Ma in senso contrario altro autore nega che il concetto di contratto normativo inerisca alla funzione regolatoria del contratto (Messineo, 1961, 934). Alla funzione regolatoria del contratto è altresì ricondotta la figura dei negozi di accertamento, attraverso cui le parti intendono conferire certezza, con efficacia anche per il passato, a situazioni incerte: la libertà di assumere i fatti e i rapporti in una certa misura e di atteggiarli in un modo piuttosto che in un altro appartiene ai contenuti propri dei poteri di autonomia privata (Rescigno, 1989, 374). In senso contrario si evidenzia che l'autonomia negoziale attribuita alle parti conferisce loro un potere dispositivo e non già di accertamento, che invece spetta al giudice; solo eccezionalmente, in vista di circostanze particolari, è ad essi riconosciuto un potere di accertamento del fatto, sicché tale atto resta di natura non negoziale, essendo il presupposto e non la fonte della nuova situazione giuridica (Santoro Passarelli, 177). Per il principio dell'autonomia contrattuale, è pienamente ammissibile l'accordo o contratto normativo che, avendo ad oggetto la disciplina di negozi giuridici eventuali e futuri, dei quali fissa preventivamente il contenuto, non comporta il sorgere di un rapporto da cui scaturiscono immediatamente diritti ed obblighi per i contraenti, ma detta norme intese a regolare il rapporto, nel caso che le parti intendano crearlo (Cass. n. 6720/1981; Cass. n. 4393/1979; Cass. n. 2998/1973; Cass. n. 1706/1973; Cass. n. 2096/1968). L'accertamento negoziale costituisce una figura (negoziale) di carattere generale, la cui funzione risiede nel fissare la portata di un negozio o il contenuto di un rapporto precedente con effetto immediatamente preclusivo di ogni ulteriore contestazione al riguardo. Esso può consistere anche nel riconoscimento dell'esistenza o dell'inesistenza di un diritto proprio del dichiarante, purché non si verta in materia sottratta alla disponibilità delle parti (Cass. n. 9687/2003; Cass. n. 241/1974; Cass. n. 2070/1964). La sua efficacia dichiarativa deriva dalla natura di mera ricognizione degli obblighi già fissati in altro negozio, quello originario, cui si correla esigendo non necessariamente l'identità soggettiva delle rispettive parti, ma almeno quella dei soggetti, del rapporto oggetto di ricognizione che debbono esserne titolari (ad esempio, per successione); ne consegue che ha natura dispositiva il negozio che incida su rapporti di cui sono titolari soggetti differenti da quelli del rapporto originario, anche se esso muova dalla ricognizione di una situazione giuridica preesistente (Cass. n. 6739/2008; Cass. n. 2611/1996). Può essere anche a struttura unilaterale (Cass. n. 9651/2004) e, non avendo natura dispositiva, non è richiesta l'autorizzazione prevista, con elencazione tassativa dagli artt. 374 e 375, per gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione compiuti dal tutore provvisorio dell'interdicendo (Cass. n. 11748/2003). La sua stipulazione non soggiace a vincoli di forma, sicché può concludersi anche per facta concludentia (Cass. n. 4437/2008). La nullità per mancanza di causa di detto negozio è ipotizzabile solo quando le parti, per errore o volutamente, abbiano accertato una situazione inesistente, oppure quando la situazione esisteva, ma era certa (Cass. n. 14618/2012). Il rapporto contrattuale di fattoIl contratto di fatto o rapporto contrattuale di fatto è integrato quando il rapporto deriva da un contatto sociale che prescinde dal contratto, ma che nondimeno si modella, in ragione di una qualificazione sociale tipica, sul contenuto di un contratto tipico (Bianca, 40). Ciò accade anche quando il contratto che costituisce la fonte del rapporto non osservi le norme cogenti relative al concorso di determinati elementi richiesti a pena di nullità. Nella nozione di contratti di fatto si comprendono alcuni rapporti (società di fatto, lavoro subordinato di fatto, gestione di fatto) svoltisi come se siano costituiti su base negoziale, ma che tale fonte non hanno per non essere state osservate norme cogenti, relative al concorso di elementi determinati, richiesti a pena di nullità. In tali casi il contratto regolare non si costituisce, ma l'ordinamento intende salvare determinate situazioni costituitesi per effetto del rapporto svoltosi di fatto e stabilisce che, sulla base della specifica attività tenuta nell'ambito di un rapporto di fatto adeguantesi a quello giuridico, nasca una corrispondente obbligazione. Questa, pertanto, deriva da un fatto idoneo a produrla in conformità all'ordinamento giuridico, non da contratto e, quindi, si determina l'esigenza di determinare una norma che stabilisca, in relazione alla concreta attività svolta, il costituirsi di un'obbligazione con contenuto analogo a quello dell'obbligazione ex contractu. Ma allo stato della nostra legislazione positiva non sussiste una disciplina uniforme di una categoria generale di contratti di fatto, parallela a quella dei contratti regolari o di diritto (Cass. n. 2088/1967). Il negozio di attuazioneIl negozio generalmente è integrato da una manifestazione di volontà, che consiste in un contegno che, in base al suo significato tipico secondo le regole del traffico giuridico o in base alle circostanze in cui si verifica, ha per il destinatario o per i destinatari il senso di mezzo di comunicazione della volontà di produrre le conseguenze giuridiche proprie del negozio a cui la manifestazione si riferisce. Quando il soggetto giuridico cristallizza direttamente e consapevolmente il proprio intento, determinando una situazione di fatto a tale intento corrispondente, ma senza che l'atto da lui compiuto abbia il significato di una comunicazione di tale suo volere, è integrata la figura del negozio di attuazione o di volontà o consistente in un semplice comportamento (Santoro Passarelli, 136). Sicché la volontà non è dichiarata ma è soltanto espressa mediante attuazione (Messineo, 1961, 871). Ne sarebbero delle espressioni le fattispecie delineate dagli artt. 476, 684, 685, 1327, comma 1, 1444, comma 2. Per una ricostruzione critica dell'autonomia del negozio di attuazione è orientata altra dottrina, secondo cui i contratti che si concludono mediante esecuzione possono ugualmente concludersi mediante accettazione espressa (Bianca, 245). In questa prospettiva l'attuazione è solo uno dei modi in cui può manifestarsi la volontà dell'oblato; tanto è vero che l'inizio dell'esecuzione non segna per lo più la realizzazione adeguata dell'intento di una parte, ossia l'accettante, né tanto meno può concepirsi come espressione della piena attuazione dell'accordo contrattuale nell'ipotesi tipica della bilateralità delle prestazioni (Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 114). In ordine ai negozi di attuazione i vizi della volontà possono essere fatti valere liberamente (Santoro Passarelli, 138). Essi non possono essere sottoposti a condizione, termine o modo (Santoro Passarelli, 138). Il silenzio in se considerato non costituisce mai una manifestazione di volontà, ma può assumere questa veste solo in relazione alle circostanze in cui viene tenuto, tali da attribuire ad esso un preciso significato; in tal caso si realizza una manifestazione negoziale tacita (Cass. n. 3957/1983; Cass. n. 5743/1981; Cass. n. 1326/1975). Affinché il silenzio possa assumere valore negoziale, occorre o che il comune modo di agire o la buona fede, nei rapporti instauratisi tra le parti, impongano l'onere o il dovere di parlare, o che, secondo un dato momento storico e sociale, avuto riguardo alla qualità delle parti e alle loro relazioni di affari, il tacere di una possa intendersi come adesione alla volontà dell'altra (Cass. n. 5363/1997). BibliografiaAllara, La teoria generale del contratto, Torino, 1955; Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969; Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1960; Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1997; Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, Diritto civile, 1.2, Fatti e atti giuridici, Torino, 1990; Cariota Ferrara, Il negozio giuridico, Napoli, 1948; Cataudella, I contratti. Parte generale, Torino, 2014; Costanza, Il contratto atipico, Milano, 1981; Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli, 1972; Donisi, voce Atti unilaterali, in Enc. giur., Milano, 1988; Ferri G.B., Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1968; Ferri G.B., Saggi di diritto civile, Città di Castello, 1983; Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1993; Giorgianni, L'obbligazione, Milano, 1968; Gorla, Il contratto, Milano, 1955; Maiorca, voce Contratti standard, in Nss. D.I. - App., Torino, 1981; Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 1948; Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, I, Milano, 1957; Messineo, voce Contratto (diritto privato), in Enc. dir., Milano, 1961; Messineo, voce Convenzione, in Enc. dir., Milano, 1962; Mirabelli, L'atto non negoziale nel diritto privato italiano, Napoli, 1955; Moscarini, Profili civilistici del contratto di diritto pubblico, Milano, 1988; Osti, voce Contratto, in Nss. 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