Codice Civile art. 1343 - Causa illecita.

Cesare Trapuzzano

Causa illecita.

[I]. La causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume [1418 2; 31 prel.; 412 Cost.].

Inquadramento

Il legislatore utilizza l'espressione causa attribuendogli plurimi significati: in tema di obbligazioni la causa o titolo è indicativa della fonte da cui trova genesi il rapporto giuridico; la causa è altresì descrittiva della ragione dell'attribuzione patrimoniale, come si riscontra con riferimento all'istituto dell'arricchimento senza giusta causa (Rescigno, 335); con riguardo ai negozi la definizione di causa non è di facile enucleazione poiché sulla causa convergono interessi individuali ed esigenze indefettibili dell'ordinamento (Distaso, in Comm. Utet, 1980, 717), che si coniugano nella causa quale giustificazione del contratto (Roppo, 1977, 113; Di Majo, 1). La causa in senso soggettivo, di origine francese, si traduce in una sintesi della volontà delle parti, sicché nei contratti a titolo oneroso essa si cristallizza nell'assunzione dell'obbligazione dell'altra parte mentre nelle donazioni e negli altri contratti a titolo gratuito si identifica con l'intento di liberalità o di remunerazione (Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 302; Osti, 506). Il concetto di causa in senso soggettivo è stato superato dal riferimento ad una causa in senso oggettivo, di derivazione tedesca, che corrisponde al fondamento economico-giuridico del vantaggio patrimoniale che un soggetto acquista ad opera di un altro (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 157). Anche il nostro c.c. accoglie una dimensione oggettiva del significato di causa del contratto, come emerge dalla relazione al codice, secondo cui la causa non si identifica con lo scopo soggettivo perseguito dalle parti nel caso concreto, ma si consacra nella funzione economico-sociale che il diritto riconosce rilevante e che sola giustifica l'autonomia privata. Sicché la causa rappresenta la ragione giustificativa apprezzabile in base ai principi cui si ispira l'ordinamento giuridico (Osti, 506). L'adesione a siffatta nozione porta con sé il seguente corollario: il giudizio in ordine alla liceità è risolto a priori dal legislatore mediante la determinazione dei connotati caratterizzanti del tipo contrattuale; sicché l'elencazione delle caratteristiche essenziali dei contratti normativamente disciplinati rappresenterebbe già, in via preventiva, un giudizio positivo del legislatore sulla liceità dell'operazione posta in essere mediante la loro stipulazione; per converso la valutazione di liceità, ai sensi dell'art. 1343, dovrebbe riguardare soltanto i contratti innominati (Santoro Passarelli, 187). Secondo altro autore la causa coincide con l'operazione giuridico-economica realizzata tipicamente da ciascun contratto, con il complesso dei risultati e degli effetti essenziali che tipicamente ne conseguono (Roppo, 1977, 178). Pertanto la causa come funzione del contratto sarebbe sempre integrata qualora il contratto sia attuato e rimarrebbe immutata; per contro, l'eventuale divergenza tra l'intento dei contraenti e la causa non menomerebbe né muterebbe la validità del contratto (Messineo, 1961, 828). Finalità della causa è quella di dare giustificazione dello spostamento dei beni da un individuo ad un altro (Giorgianni, 573). In base ad altro indirizzo la causa consiste nella ragione pratica del contratto, ossia si coniuga con l'interesse concreto che l'operazione contrattuale è destinata a soddisfare (Bianca, 419). La riconduzione del trattamento del contenuto contrattuale alla concretezza dell'assetto di interessi convenuto tra le parti permetterebbe l'apprezzamento del contratto nella sua caratteristica dimensione di regola definitoria degli interessi privati, ossia consentirebbe di valutare appieno, così da annettervi congrua rilevanza giuridica, il complesso delle finalità perseguite dai contraenti, risultato che ben difficilmente potrebbe raggiungersi utilizzando lo schema del perseguimento della funzione economico-sociale astrattamente espressa dal tipo legale (Carresi, in Tr. C. M., 1987, 251). Ed infatti la pedissequa assimilazione del concetto di causa al tipo legale di volta in volta prescelto dalle parti si presta a critiche su più fronti, sia con riferimento alla mancanza di causa che dovrebbe tradursi nella mancanza del negozio stesso, sia con riferimento all'illiceità della causa, atteso il contrasto intrinseco che deriverebbe tra una funzione giuridicamente riconosciuta e al contempo contrastante con il diritto (Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 306); sicché dovrebbe pervenirsi alla conclusione negata dall'evidenza che la rispondenza di un concreto contratto adottato dalle parti ad un tipo legale dovrebbe assicurare la ricorrenza di una causa lecita (Sacco, in Tr. Vas., 1975, 579). In conseguenza si è ritenuto di dovere accentuare la discriminazione tra i concetti di causa e tipo e altresì di rivedere la risalente contrapposizione tra teoria soggettiva ed oggettiva della causa. In adesione a queste direttive si è osservato che la nozione soggettiva della causa, ossia lo scopo perseguito dalle parti attraverso il contratto, non è affatto incompatibile con la nozione oggettiva, ossia la funzione che il singolo contratto è diretto a realizzare, anzi le convergenti prospettive analizzerebbero due profili della medesima realtà (Cataudella, 93). E tanto perché la funzione economica tipica dell'atto non solo deve essere contemplata in astratto dall'ordinamento, ma deve anche ricorrere in concreto come funzione del contratto di fatto concluso dalle parti (Galgano, 180). Inoltre tale funzione non deve risolversi nella mera proiezione di un disegno soggettivo, ma deve rilevare anche sul piano oggettivo, ossia deve essere immediatamente o potenzialmente idonea a divenire operativa (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 701). In questa dimensione si evidenzia che il tipo legale in realtà si identifica con l'astratto schema regolamentare contenente la rappresentazione di un'operazione economica ricorrente nella pratica commerciale, laddove la causa del contratto deve essere ricercata piuttosto negli interessi concreti che i privati mirano a raggiungere mediante la concreta operazione economica prescelta, di modo che mentre l'indagine sul tipo è essenzialmente astratta e statica, quella sulla causa è esclusivamente concreta e dinamica (Gazzoni, 755). Ne consegue che l'aspetto funzionale della causa va riferito ai soggetti che siano autori del negozio: si tratterà allora non già di causa come funzione economico-sociale, bensì di causa come funzione economico-individuale, con ciò attribuendo rilevanza al valore e alla portata che l'operazione economica nella sua globalità assume per le parti (Ferri, 364).

La giurisprudenza di legittimità più recente aderisce ad una nozione di causa concreta, risultante dalla composizione della nozione soggettiva e oggettiva di causa. La causa del contratto costituisce la sintesi dei contrapposti interessi reali che le parti intendono realizzare con la specifica negoziazione, indipendentemente dall'astratto modello utilizzato (Cass. n. 8100/2013; Cass. n. 23941/2009; Cass. n. 24769/2008; Cass. n. 10490/2006). ). La causa in concreto – intesa quale scopo pratico del contratto, in quanto sintesi degli interessi che il singolo negozio è concretamente diretto a realizzare, al di là del modello negoziale utilizzato - conferisce rilevanza ai motivi, sempre che questi abbiano assunto un valore determinante nell'economia del negozio, assurgendo a presupposti causali, e siano comuni alle parti o, se riferibili ad una sola di esse, siano comunque conoscibili dall'altra (Cass. n. 12069/2017). Inoltre la causa concreta orienta la qualificazione giuridica del negozio (Cass. n. 10612/2018). Pertanto il giudice, nel procedere all'identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed all'individuazione della disciplina che lo regola, deve procedere alla valutazione in concreto della causa, quale elemento essenziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di accertamento per l'interprete della generale conformità a legge dell'attività negoziale posta effettivamente in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell'art. 1343, ossia la liceità della causa, e dell'art. 1322, comma 2, ossia la meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l'ordinamento giuridico (Cass. n. 1898/2000). Già un arresto risalente sosteneva che la causa, come funzione economico-sociale del negozio, va intesa nei contratti tipici come funzione concreta obiettiva, che corrisponde ad una delle funzioni tipiche ed astratte determinate dalla legge. Pertanto anche nei contratti tipici, avendo riguardo a detta funzione concreta, è concepibile una causa illecita, che si ha quando le parti, con l'uso di uno schema negoziale tipico, abbiano direttamente perseguito uno scopo contrario ai principi giuridici ed etici fondamentali dell'ordinamento (Cass. S.U.,  n. 63/1973).

L'astrazione della causa

La causa può assumere rilievo sotto il profilo genetico del negozio, in quanto sia mancante, illecita o altrimenti viziata (e in tale ultima evenienza il difetto genetico parziale determina la rescindibilità del negozio), ovvero sotto il profilo funzionale, in quanto non si realizzi nel rapporto che trova fonte nel contratto (e in tale ultima evenienza il difetto funzionale sopravvenuto determina la risolubilità del negozio). La causalità del contratto costituisce un principio-cardine della teoria del negozio giuridico; solo eccezionalmente sono ammessi negozi, la cui validità ed efficacia prescinde dalla causa, nel senso che l'eventuale mancanza o difetto di quest'ultima può trovare un correttivo per altra via, ma non incidere appunto su tale validità ed efficacia, integrandosi in tal caso un fenomeno di astrazione materiale. Si realizza invece il fenomeno dell'astrazione processuale della causa, quando sia invertito l'onere probatorio relativo alla sua esistenza (Santoro Passarelli, 174; Bianca, 440). In senso contrario altra dottrina osserva che l'ammissibilità del negozio astratto nei casi ricondotti dalla dottrina a tale categoria non deve ingenerare equivoci nell'ordinamento; e ciò sulla scorta di una doppia valenza della causa: la causa interna, intesa come ragione giustificativa in concreto perseguita, elemento essenziale di ogni atto di autonomia privata, che non solo non può mancare, ma al contempo deve risultare positivamente dall'atto, pena la nullità del negozio, e la causa esterna, quale fondamento significativo dello spostamento patrimoniale, che risiede fuori dell'atto. L'astrazione processuale, intesa come mera presunzione dell'esistenza fino a prova contraria, può riguardare la sola causa esterna, da cui comunque non può prescindersi (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 712).

Nel senso da ultimo rammentato la S.C. afferma che la promessa di pagamento ha il solo effetto di sollevare il promissario dall'onere di provare l'esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria e deve essere, oltre che esistente, valido. Ne consegue che essa è priva di effetti se si accerti giudizialmente che il rapporto non è sorto, è invalido o si è estinto (Cass. n. 18249/2015; Cass. n. 13506/2014; Cass. n. 21098/2013). Pertanto la promessa di pagamento, come la ricognizione di debito, non costituisce fonte autonoma di obbligazione, ma spiega soltanto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale ed anche quando è titolata, cioè contenente il riferimento al rapporto giuridico che sta alla sua base, produce il mero effetto dell'astrazione processuale dalla causa debendi, dispensando il promissario dall'onere di provare l'esistenza del rapporto fondamentale che si presume fino a prova contraria e deve essere, oltre che esistente, valido (Cass. n. 10574/2007).

La causa illecita

L'indagine sulla liceità della causa va riferita al contratto concluso in concreto, sia esso un negozio tipico ovvero atipico, ossia rientrante o meno in uno schema previsto dalla legge con una funzione predeterminata appezzata in astratto (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 716; Cataudella, 184). Sicché l'integrazione della causa illecita può riguardare anche i contratti tipici, qualora un determinato schema negoziale sia in concreto utilizzato per il perseguimento di finalità contrarie ai principi giuridici ed etici fondamentali dell'ordinamento (Roppo, 1977, 113). Segnatamente la causa è illecita qualora contrasti con le norme imperative, l'ordine pubblico o il buon costume. Il riferimento all'ordine pubblico e al buon costume ha valenza sussidiaria rispetto al parametro della legge, sicché tali parametri sono applicabili qualora manchi nell'ordinamento un divieto espresso (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 164). Il controllo giudiziale sulla liceità della causa diviene in tali casi particolarmente delicato, poiché l'ordine pubblico e il buon costume costituiscono clausole generali passibili di valutazione elastica in relazione alle circostanze concrete del fatto (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 716).

L'illiceità della causa è un vizio che inerisce alla funzione obiettiva che intenzionalmente entrambe le parti attribuiscono al negozio per il raggiungimento di una comune finalità contraria alla legge (Cass. n. 826/1983). Pertanto l'illiceità dello scopo pratico immediato, cioè dell'interesse concreto sottostante alla causa, si comunica a questo e trasforma il negozio in uno strumento volto al raggiungimento di fini antisociali, la cui attuazione è riprovata e combattuta dall'ordine giuridico, risolvendosi sostanzialmente in un abuso della funzione strumentale del negozio (Cass. n. 2213/1957). Allorché un contratto sia nullo per illiceità della causa, e perciò improduttivo di qualsiasi effetto, non è configurabile un inadempimento imputabile in relazione alla mancata esecuzione degli obblighi da esso nascenti (Cass. n. 21398/2013; Cass. n. 25631/2017).

La contrarietà a norme imperative

La causa è illecita quando contrasti con la legge. Per legge devono intendersi le norme imperative, cioè cogenti e precettive. Per converso non vi è contrarietà alla legge nel caso di violazione di norme meramente dispositive. Inoltre le norme imperative violate devono essere previste dall'ordinamento statuale ed essere in vigore al momento in cui si realizza il contrasto (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 162; Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 324). La sanzione prevista dall'ordinamento nel caso in cui la causa contrattuale sia contraria a norme imperative è la nullità, sebbene il legislatore possa a certe condizioni far salvi gli effetti del negozio, benché illecito e nullo, o possa intervenire sostituendo l'elemento essenziale colpito da nullità o possa statuire una forma di invalidità diversa, come l'annullabilità (Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 325). Segnatamente l'illiceità per contrasto con norme imperative sussiste quando è possibile individuare un'incompatibilità tra il regolamento contrattuale così come posto in essere e la norma imperativa, sicché l'attribuzione di efficacia a questo stesso regolamento determini un insanabile contrasto con gli scopi in vista dei quali è stata prevista la disciplina normativa (Breccia, 124). La rilevanza di siffatta condizione è possibile cogliere in tema di validità dei contratti posti in essere in violazione di norme penali; al riguardo si opera la distinzione tra contratti reato e contratti in reato, in base alla circostanza che rispettivamente la stessa conclusione del contratto sia oggetto del divieto penale ovvero rappresenti la conseguenza necessaria (ma tuttavia non oggetto di specifico divieto) del comportamento sanzionato penalmente: solo nel primo caso il contratto è nullo per illiceità; nel secondo invece il comportamento volto alla conclusione del contratto costituisce reato e il contratto in tal modo perfezionato può essere anche annullabile (Bianca, 618).

L'illiceità della causa per contrarietà a norme imperative si realizza quando il negozio contemplato dalle parti comporta un'inaccettabile compressione dell'interesse, pubblico ed essenziale, assicurato dalle norme imperative, in quanto volto nel suo contenuto intrinseco al perseguimento di un risultato pratico contrario alle disposizioni preposte alla tutela di situazioni indisponibili, senza che abbiano rilievo, allo scopo di escludere tale invalidità, la possibilità di ricorrere eventualmente a rimedi di carattere amministrativo, quale la confisca dei beni, né la tipicità dello schema negoziale utilizzato o la buona fede soggettiva dei contraenti in ordine all'antigiuridicità dell'operazione economica compiuta (Cass. n. 21398/2013). Sicché la causa del contratto è illecita per contrarietà a norme imperative qualora il risultato perseguito sia vietato dall'ordinamento (Cass. n. 24769/2008).

La contrarietà all'ordine pubblico

L'ordine pubblico al quale la norma intende riferirsi è quello interno, in contrapposizione a quello internazionale che impedisce l'ingresso alle sole norme straniere che contrastano con gli interessi fondamentali dello Stato italiano (Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 327). L'ordine pubblico si identifica con il complesso dei principi e dei valori che informano l'organizzazione politica ed economica della società in una certa fase della sua evoluzione storica e perciò devono considerarsi immanenti nell'ordinamento giuridico che vige per quella società in quella fase storica (Roppo, 1977, 163). La nozione di ordine pubblico è divenuta più complessa e articolata, poiché non è più ristretta ai valori della persona, della famiglia e della comunità statale (ordine pubblico politico), ma è estesa alle scelte fondamentali di indirizzo economico (ordine pubblico di direzione e struttura economica), alla difesa di interessi collettivi e sociali (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 720).

L'ordine pubblico deve intendersi come il complesso dei principi e dei valori che contraddistinguono l'organizzazione politica ed economica della società in un determinato momento storico (Cass. n. 4228/1999). Così è un principio di ordine pubblico l'incommerciabilità del posto di lavoro (Cass. n. 2859/1974; Cass. n. 1529/1974; Cass. n. 3196/1972). Altro principio di ordine pubblico, la cui violazione importa illiceità della causa, è la libertà di voto (Cass. n. 1574/1971). É funzionale al concetto di ordine pubblico anche l'esigenza che l'attività di amministrazione del patrimonio dell'incapace sia giustificata esclusivamente dalla considerazione degli interessi dell'incapace stesso, senza interferenze derivanti da impegni personali assunti dal rappresentante legale e quindi senza possibili deviazioni dal fine proprio di quell'attività (Cass. n. 541/1969; Cass. n. 557/1968).

La contrarietà al buon costume

La nozione di buon costume si rivela più variabile e vaga, poiché con essa si fa rinvio non già a norme positive ma a norme etiche ed extragiuridiche deducibili dalla coscienza sociale e dall'opinione pubblica diffusa nella società regolata dall'ordinamento (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 163). Il buon costume, in quanto costituito da norme sociali, rileva solo come limite alla liceità e validità dell'agire negoziale, che può essere colpito sotto questo profilo e per la stessa esigenza della libertà e sicurezza dei traffici solo in quanto si espone ad un giudizio netto e grave di riprovazione (Scognamiglio, in Comm. S.B., 1992, 330). Nel senso che la nozione di buon costume rientra nella nozione di morale sociale, ma non la esaurisce, si è espresso un autore (Bianca, 585). Un esponente della dottrina ha tentato di catalogare gli atti contrari al buon costume, ma tale sforzo ha evidentemente una mera valenza esemplificativa (Trabucchi, 705). I confini tra ordine pubblico e buon costume non sono netti ed in presenza di casi concreti non è talvolta facile stabilire se occorra riferirsi all'una o all'altra clausola (Roppo, 1977, 168), tanto che le due espressioni sono considerate da alcuni equivalenti, scorgendosi nel linguaggio legislativo un'inutile duplicazione di parole e concetti (Rescigno, 347). Invece notevole importanza pratica può rivestire la distinzione dell'illiceità in base al fatto che essa discenda da norme imperative o da contrasto con l'ordine pubblico ovvero da offesa al buon costume, perché se ne trae criterio per delimitare l'applicazione della norma che nega la ripetibilità della prestazione a chi l'abbia eseguita per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca appunto offesa al buon costume (Osti, 508).

La nozione di buon costume non si identifica soltanto con le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma comprende anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico; pertanto anche il perseguimento di una finalità truffaldina o corruttiva viola la clausola del buon costume, oltre ad essere contrario a norme imperative (Cass. n. 9441/2010). Il buon costume è infatti inteso, a norma delle disposizioni del c.c. (artt. 1343,1354), come il complesso dei principi etici costituenti la morale sociale, in quanto ad essi uniforma il proprio comportamento la generalità delle persone corrette, di buona fede e di sani principi in un determinato momento storico e in un dato ambiente (Cass. n. 6381/1993). Pertanto, poiché la causa turpe deve essere apprezzata in relazione al momento in cui il negozio è stato compiuto, deve escludersi che sia contrario al buon costume un contratto diretto a violare norme imperative, ma non più sanzionate penalmente al momento della conclusione del contratto, in quanto lo stesso legislatore, escludendo la rilevanza penale di tali fatti, quanto meno pro tempore, attenua la valutazione negativa dei fatti stessi anche sotto il profilo etico e sociale (Cass. n. 4414/1981). L'accertamento che un contratto sia contrario a norme imperative e quindi sia nullo per tale ragione non impedisce un'autonoma valutazione dell'atto dal punto di vista della sua eventuale immoralità al fine di negare l'azione di ripetizione ai sensi dell'art. 2035 (Cass. n. 4414/1981).

Bibliografia

Allara, La teoria generale del contratto, Torino, 1955; Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969; Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1997; Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, Diritto civile, 1.2, Fatti e atti giuridici, Torino, 1990; Carraro, Negozio in frode alla legge, in Nss. D.I., Torino, 1968; Cataudella, I contratti. Parte generale, Torino, 2014; Costanza, Il contratto atipico, Milano, 1981; Di Majo, voce Causa del negozio giuridico, in Enc. giur., Roma, 1988; Donisi, voce Atti unilaterali, in Enc. giur., Roma, 1988; Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1968; Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1993; Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 1990; Giorgianni, voce Causa (diritto privato), in Enc. dir., Milano, 1960; Messineo, voce Contratto (diritto privato), in Enc. dir., Milano, 1961; Osti, voce Contratto, in Nss. D.I., Torino, 1959; Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1990; Roppo, Il contratto, Bologna, 1977; Roppo, voce Contratto, in Dig. civ.,Torino, 1989; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, rist. 1985; Trabucchi, voce Buon costume, in Enc. dir., Milano, 1959.

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