Codice Civile art. 1453 - Risolubilità del contratto per inadempimento.

Cesare Trapuzzano
aggiornato da Rossella Pezzella

Risolubilità del contratto per inadempimento.

[I]. Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento [2930 ss.] o la risoluzione del contratto [2907, 2908], salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno [1223 ss.].

[II]. La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l'adempimento; ma non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione.

[III]. Dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione.

Inquadramento

La risoluzione del contratto è un rimedio giudiziale diretto a far valere le disfunzioni dell'autoregolamento, e segnatamente l'alterazione del sinallagma, sicché si inserisce tra le impugnative negoziali (Scognamiglio, in Tr. G. S.-P., 1980,  269). Il presidio risolutorio contemplato dall'ordinamento interviene a protezione della parte in ordine ad eventi sopravvenuti che riguardano la fase attuativa del contratto, ossia lo svolgimento del rapporto giuridico. Infatti a fronte di un contratto valido ed efficace possono presentarsi in sede di attuazione alterazioni dell'equilibrio originariamente previsto tra le reciproche attribuzioni patrimoniali, come l'inadempimento della prestazione, la sua impossibilità sopravvenuta non imputabile, l'eccessiva onerosità nei contratti di durata, in ordine alle quali la legge appresta gli adeguati strumenti di risposta. Sicché il fondamento economico dell'attribuzione non è viziato sin dall'origine, ma viene ad alterarsi in seguito (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 862). In particolare la risoluzione per inadempimento presuppone la mancata, inesatta, parziale o tardiva esecuzione di un obbligo contrattuale, ossia l'inadempimento relativo (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 610), e la riconducibilità di tale evento al contraente (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 19), oltre all'ulteriore presupposto della gravità dell'inadempimento. Il rapporto tra il rimedio risolutorio e la causa petendi dell'inadempimento è da alcuni ricondotto ad un'esigenza di reazione avverso un'anomalia funzionale della causa (Scognamiglio, in Tr. G. S.-P., 1980, 269), da altri ad una prospettiva sanzionatoria contro il debitore inadempiente, che si affianca alla domanda di risarcimento dei danni (Auletta, 137), sebbene a tale prospettiva non sia sottesa una finalità afflittiva o repressiva in senso stretto (Bianca, 1994, 263). La risoluzione per inadempimento può essere giudiziale o di diritto: nella prima ipotesi l'effetto risolutorio del contratto consegue alla pronuncia costitutiva di risoluzione, a seguito della corrispondente domanda giudiziale proposta dalla parte non inadempiente; nella seconda la risoluzione si realizza in via stragiudiziale per effetto di diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa o termine essenziale, cosicché all'esito dell'integrazione dei presupposti previsti da tali fattispecie l'eventuale pronuncia giudiziale si limiterà ad accertare un effetto risolutorio già avvenuto.

La stipulazione di un contratto a prestazioni corrispettive e l'inadempimento di uno dei contraenti sono, ai sensi dell'art. 1453, i fatti costitutivi del diritto dell'altro contraente ad ottenere la risoluzione del contratto, ovvero l'adempimento, ed in ogni caso il risarcimento del danno; ma ciascuno di tali diritti, configurandosi in termini di diversità ed autonomia rispetto a ciascun altro, può legittimamente costituire oggetto di rinuncia senza che, per ciò solo, gli effetti di tale rinuncia debbano automaticamente estendersi anche agli altri, a meno che l'atto abdicativo non si atteggi in concreto come rinuncia tout court a far valere tutti i diritti conseguenti al fatto dell'inadempimento della controparte (Cass. n. 32126/2019; Cass. n. 13598/2000).  L'azione di risoluzione del contratto per inadempimento è volta ad ottenere una pronuncia costitutiva diretta a sciogliere il vincolo contrattuale, previo accertamento da parte del giudice della gravità dell'inadempimento, e differisce perciò sostanzialmente dall'azione di risoluzione di cui agli artt. 1454, 1456 e 1457, poiché in tali ipotesi l'azione intende conseguire una pronuncia dichiarativa dell'avvenuta risoluzione di diritto del contratto, a seguito del verificarsi di un fatto obiettivo previsto dalle parti come determinante lo scioglimento del rapporto (Cass. n. 36918/2021).

Il campo applicativo

La norma fa espresso riferimento ai contratti con prestazioni corrispettive. La corrispettività si realizza non solo quando, a fronte di un'obbligazione in senso tecnico, vi sia un'altra obbligazione, ma anche quando, a fronte di un'obbligazione in senso tecnico, si ponga comunque un'attribuzione patrimoniale, poiché il termine prestazione è indicativo in modo generico di qualsiasi sacrificio di natura patrimoniale (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1988, 512). Le prestazioni il cui inadempimento consente la risoluzione devono essere legate da un nesso sinallagmatico con altre prestazioni. Il sinallagma può essere genetico o funzionale: nel primo caso ricorre un'interdipendenza iniziale delle prestazioni, nel senso che l'impossibilità originaria dell'una rende non dovuta l'altra; nel secondo l'interdipendenza delle prestazioni sussiste nella fase di svolgimento del rapporto. Il sinallagma funzionale assume rilievo ai fini della risoluzione per inadempimento e per impossibilità sopravvenuta nonché legittima l'opponibilità dell'eccezione di inadempimento (Bianca, 1997, 460). Anche se gli obblighi delle parti nascono ex lege la violazione dell'uno non è causa giustificatrice dell'eliminazione dell'altro (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1988, 512). Entro certi limiti l'interdipendenza delle prestazioni può costituire oggetto di deroga tra le parti, come accade nel caso di pattuizione della clausola solve et repete o nel caso di assunzione del rischio dell'impossibilità sopravvenuta. L'esclusione del diritto alla risoluzione per inadempimento incontra invece il limite dell'art. 1229 (Bianca, 1997, 461), sicché è nullo il patto con il quale si convenga la rinuncia preventiva all'azione di risoluzione per inadempimento (Auletta, 490; Bianca, 1994, 260; Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm., S.B. 1990, 109; Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1988, 513; contra Belfiore, 1309). È stato posto in dubbio che la risoluzione sia rimedio esclusivo dei contratti con prestazioni corrispettive, sia perché l'ordinamento ammette espressamente la possibilità di risoluzione di attribuzioni patrimoniali unilaterali, come accade per la disciplina della donazione modale, sia perché la risoluzione può derivare anche dalla mancata attuazione di elementi secondari del rapporto, come può desumersi dalla disciplina della clausola risolutiva espressa (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 600). Sicché il rimedio è applicabile ai contratti a titolo oneroso, quando l'obbligazione inadempiuta sia obbiettivamente rilevante nell'economia dell'affare: in tal senso si impone l'esigenza di tutelare l'interesse della parte di liberarsi da un contratto che l'altra parte ha gravemente violato; nonché ai contratti a titolo gratuito per inadempimento del beneficiario che non esegua gli obblighi di carattere accessorio o strumentale a suo carico, quando tali obblighi abbiano un rilievo determinante: si pensi al contratto di mandato, quando il mandante non provveda a somministrare al mandatario i mezzi necessari per l'esecuzione del mandato (Bianca, 1994, 264; contra Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 40). Anche il contratto risolutorio, con il quale le parti dispongono consensualmente la risoluzione del precedente contratto tra esse concluso, può costituire oggetto di risoluzione. Medesima conclusione vale per il contratto modificativo. Il nesso di corrispettività fra le prestazioni sussiste anche nell'ipotesi di contratti funzionalmente collegati, con la conseguenza che è possibile non solo sollevare l'eccezione di inadempimento, ma altresì ottenere una pronuncia di risoluzione per inadempimento di un contratto che comporti l'automatica inefficacia del contratto ad esso collegato (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 44).

Secondo la S.C. è altresì risolubile la situazione originata dalla sentenza esecutiva dell'obbligo di concludere il contratto quando detta sentenza abbia subordinato l'effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo (Cass. n. 8250/2009; Cass. n. 690/2006; Cass. n. 11850/1997; Cass. n. 324/1963). Anche nel caso di collegamento negoziale è ammessa la risoluzione in ragione del nesso sinallagmatico che si può determinare tre le prestazioni contemplate dai contratti collegati, nonostante ciascuno dei contratti mantenga la propria individualità giuridica (Cass. n. 17148/2019; Cass. n. 20726/2014; Cass. n. 3645/2007). La disciplina della risoluzione per inadempimento trova altresì applicazione in tema di disposizioni testamentarie, ove vi sia l'inadempimento del legatario (Cass. n. 2569/2003) ovvero l'inadempimento dell'onere stabilito a carico dell'erede (Cass. n. 11906/2013).

L'imputabilità dell'inadempimento

La dottrina è divisa sui requisiti che deve rivestire l'inadempimento rilevante per la risoluzione. Un primo indirizzo, assegnando una natura sanzionatoria alla risoluzione, ritiene che la relativa declaratoria presupponga un inadempimento colpevole (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 28). In forza di una diversa opinione la risoluzione rappresenterebbe un rimedio posto contro l'oggettiva mancata attuazione del vincolo contrattuale, indipendentemente dall'imputabilità del relativo comportamento al contraente (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 603). In dottrina si evidenzia altresì che la giurisprudenza, a fronte dell'assegnazione di un ruolo preminente all'imputabilità dell'inadempimento, ai fini di poter evocare la risoluzione ha altresì elaborato una nozione di incolpevolezza, che si identifica in una serie di esimenti tipiche, come la tolleranza del creditore verso precedenti inadempimenti, l'ostacolo frapposto dal creditore all'adempimento, ecc. (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1988, 517). Il rifiuto della controparte di adempiere non legittima la richiesta di risoluzione quando, nonostante la comunicazione di tale rifiuto da parte del debitore, questi sia ancora in termini per adempiere, sicché il rifiuto non precluderebbe un adempimento tempestivo (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 620).

In forza dell'unanime giurisprudenza la risoluzione può essere pronunciata solo quando l'inadempimento dedotto sia imputabile almeno a colpa della parte inadempiente; ove l'inadempimento non sia imputabile ricorrono piuttosto i presupposti per chiedere la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (Cass. n. 987/2007; Cass. n. 2553/2007; Cass. n. 567/2001; Cass. n. 360/1992; Cass. n. 5143/1987). Tuttavia la colpa dell'inadempiente è presunta, sicché è onere dello stesso inadempiente dimostrare che l'inadempimento è dipeso da circostanze a sé non ascrivibili (Cass. n. 8924/2019 ; Cass. n. 2853/2005). Onere della parte che agisce in risoluzione è solo quello di dare dimostrazione del titolo, ossia del contratto, di cui si invoca la risoluzione e dell'eventuale termine di scadenza previsto per l'adempimento, nonché di allegare l'inadempimento della controparte (Cass. n. 4163/2024Cass. n. 5853/2023; Cass. n. 826/2015; Cass. n. 15659/2011; Cass. S.U. n. 13533/2001).

L'eccezione di non imputabilità dell'inadempimento costituisce non mera difesa, ma eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio e, quindi, non soggetta alla decadenza ex art. 167 c.p.c., sempre che il fatto emerga dagli atti, dai documenti o dalle altre prove ritualmente acquisite al processo, atteso che consiste nell'allegazione non riservata all'iniziativa della parte - per legge o perché collegata alla titolarità di un'azione costitutiva - di un fatto diverso, non compreso tra quelli dedotti dalla controparte e dotato normativamente di idoneità impeditiva, in via immediata e diretta, del diritto azionato in giudizio (Cass. n. 12980/2020).

L'azione di risoluzione

In caso di inadempimento contrattuale la parte non inadempiente può chiedere in via giudiziale, oltre al risarcimento del danno, la condanna all'adempimento della prestazione della controparte ovvero la pronuncia della risoluzione del contratto. L'azione di adempimento è diretta a ottenere l'esecuzione del contratto; tramite il suo esercizio la parte non inadempiente si procura un titolo esecutivo nonché idoneo ad iscrivere ipoteca giudiziale. Per converso l'azione di risoluzione è volta a determinare lo scioglimento del vincolo contrattuale, con effetti restitutori. La legittimazione ad agire per la risoluzione spetta al contraente non inadempiente. Ne consegue che è esclusa sia la legittimazione in via surrogatoria del creditore del contraente non inadempiente (contra Mosco, 228) sia quella del cessionario del credito, che possono solo agire per l'esecuzione del contratto e il risarcimento del danno (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 46). La legittimazione spetta invece al cessionario nell'ipotesi di cessione del contratto (Bianca, 1994, 283; Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 48; in senso contrario Auletta, 440; Mosco, 228). Nel caso di contratto a favore di terzo, e in genere di obbligazioni soggettivamente complesse, lo stipulante non può chiedere la risoluzione senza il consenso del terzo, salvo che il contratto non produca effetti divisibili, occorrendo il consenso unanime di tutti i soggetti interessati (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1988, 513). Può agire in risoluzione anche chi non sia in grado di restituire la prestazione ricevuta (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1988, 515), poiché deve escludersi che la possibilità di restituzione sia una condizione dell'azione (Dalmartello, 145). La domanda può essere formulata anche in via riconvenzionale, ma non come semplice eccezione (Bianca, 1994, 283). Spetta al convenuto provare di avere adempiuto, in quanto l'attore in risoluzione deve dimostrare solo l'esistenza del titolo (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 71). L'azione di risoluzione è invece preclusa dall'acquiescenza all'inadempimento (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1988, 519) e dalla rinuncia successiva all'azione (Auletta, 489), che può essere anche tacita (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 111). La risoluzione può essere chiesta anche in caso di inadempimento parziale, purché grave, e di inadempimento di prestazioni accessorie (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 610). Non è invece possibile la risoluzione parziale del contratto almeno nel caso di inadempimento totale; in tal caso, ove la parte non inadempiente abbia comunque interesse al mantenimento del contratto, vivrebbe una nuova figura negoziale, connotata da uno spirito di liberalità, non già l'originario contratto risolto parzialmente (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 35). Nell'ipotesi di inesecuzione parziale invece si afferma l'ammissibilità di una risoluzione parziale anche per i contratti che non siano ad esecuzione continuata o periodica, qualora l'oggetto del contratto non sia una sola cosa caratterizzata da una particolare unicità e non frazionabile, ma si presenti come più cose aventi una propria individualità (Bianca, 1994, 302; Gentili, La risoluzione parziale, Napoli, 1990, 129; contra Rubino, in Tr. C. M., 1962, 815). La risoluzione non presuppone la previa costituzione in mora (Smiroldo, 363). Tuttavia, alcuni autori hanno sostenuto che nelle obbligazioni senza termine il debitore non può essere considerato inadempiente fino alla costituzione in mora, sicché se questa manca all'atto della domanda di risoluzione è sempre ammissibile l'adempimento successivo alla domanda (Mosco, 232; Bianca, 1994, 280). In senso contrario altro autore ha rilevato che il presupposto della risoluzione, la quale postula che sia già avvenuto l'inadempimento, non può essere rappresentato dalla costituzione in mora, bensì dall'accertamento che è decorso il termine derivante dagli usi o dalla natura della prestazione, accertamento affidato al giudice (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 615). L'azione di risoluzione si prescrive nel termine ordinario decennale (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 113).

La S.C. reputa ammissibile la risoluzione parziale del contratto, esplicitamente prevista dall'art. 1458 in riferimento ai contratti ad esecuzione continuata o periodica, anche nell'ipotesi di contratto ad esecuzione istantanea, quando l'oggetto di esso sia rappresentato non da una sola prestazione, caratterizzata da una sua unicità e non frazionabile, ma da più cose aventi una distinta individualità, il che si verifica allorché ciascuna di esse, separata dal tutto, mantenga una propria autonomia economico-funzionale che la renda definibile come un bene a sé stante e come possibile oggetto di diritti o di autonoma negoziazione (Cass. n. 25157/2010; Cass. n. 10700/2005; Cass. n. 23657/2004; Cass. n. 5434/2002). La risoluzione può essere chiesta senza che occorra la previa costituzione in mora del debitore (Cass. n. 17489/2012; Cass. n. 28647/2011; Cass. n. 8199/1991; Cass. n. 6362/1987; Cass. n. 2500/1986), salvo che la domanda si fondi su un inadempimento temporaneo del debitore che, non avendo fornito la sua prestazione entro il termine non essenziale fissato dalle parti, si appresti tuttavia ad adempiere (Cass. n. 385/1982). La costituzione in mora è necessaria se l'inadempimento riguardi una prestazione che deve essere eseguita al domicilio del debitore; in tal caso è la stessa domanda di risoluzione a valere come atto di costituzione in mora, con la conseguenza che il debitore è legittimato ad adempiere fino all'udienza di prima comparizione e trattazione (Cass. n. 2602/1971). La volontà di risolvere il contratto per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalle parti in giudizio, ben potendo essere implicitamente contenuta in un'altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto, che presupponga la domanda di risoluzione (Cass. n. 19513/2020; Cass. n. 24947/2017).

Il mutamento della domanda di adempimento in domanda di risoluzione

La norma, in considerazione della circostanza che il protrarsi dell'inadempimento può determinare la perdita di interesse della parte non inadempiente all'esecuzione del contratto, stabilisce che, in deroga al divieto di mutatio libelli e alle preclusioni processuali, la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio sia stato promosso per ottenere l'adempimento: si tratta di una disposizione volta a facilitare la posizione processuale della parte non inadempiente, ma che non incide sulla sua posizione sostanziale, poiché la persistente possibilità di risolvere il contratto, anche dopo un'eventuale sentenza di condanna, sia pure passata in giudicato, deriva dalla persistenza del rapporto contrattuale. Tale facoltà non contrasta con il principio di preclusione o di eventualità che governa il processo civile. Infatti consentire la possibilità di esercitare in tutto il corso del giudizio lo ius variandi contemplato dall'art. 1453, comma 2, oltre a non contrastare con gli interessi sottostanti la riforma del '90, risponderebbe anche ad esigenze di economia processuale (Gili, Rapporti tra diritto di mutare la domanda di adempimento in domanda di risoluzione, ex art. 1453, comma 2, c. c. e nuovo regime delle preclusioni nel processo civile di primo grado, in Giur. it., 1999, 1865).

Secondo l'orientamento della giurisprudenza la mutatio può essere esercitata non solo nel giudizio di primo grado fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, ma anche in appello e nel giudizio di rinvio, sempre che non siano allegati nuovi fatti costitutivi (Cass. n. 8048/2020 ; Cass. n. 12238/2011; Cass. n. 8234/2009; Cass. n. 1003/2008). Lo ius variandi può essere esercitato anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (Cass. n. 9941/2006). La domanda di risoluzione può essere proposta anche in un separato giudizio, pure all'esito del passaggio in giudicato della pronuncia di condanna all'adempimento, ove il creditore non abbia intrapreso l'esecuzione o l'esecuzione intrapresa sia rimasta infruttuosa, non risultando in tal caso nemmeno configurabile l'ipotesi del contrasto di giudicati, atteso che la condanna del debitore all'adempimento attribuisce alla parte il diritto all'esecuzione del contratto, non negandole tuttavia il diritto di ottenerne viceversa lo scioglimento, laddove l'inadempimento si protragga ulteriormente rispetto a quello già accertato e posto a fondamento della decisione passata in cosa giudicata (Cass. n. 15290/2011; Cass. n. 19826/2004). Tale facoltà spetta solamente alla parte che abbia chiesto l'adempimento e non anche a quella che in giudizio ad essa si opponga (Cass. n. 10927/2005). Non è necessaria una diversa o nuova procura del difensore nel caso di mutamento della domanda di adempimento in domanda di risoluzione, vertendosi in tema, non di atto di disposizione del diritto in contesa, ma di attività processuale che di tale diritto costituisce soltanto una modalità di esercizio e che rientra pertanto nei poteri del procurator ad litem, abilitato a proporre, in aggiunta o in sostituzione di quelle proposte con l'atto di citazione, tutte le domande che siano ricollegabili con l'originario oggetto, salva la sua responsabilità per l'eventuale inosservanza delle istruzioni del mandante (Cass. n. 1698/1993; Cass. n. 4325/1987). Inoltre unitamente alla domanda di risoluzione è possibile proporre, in sostituzione dell'originaria domanda di adempimento, anche la domanda di restituzione (Cass. n. 10917/2021; Cass. n. 15461/2016)  e la domanda di risarcimento del danno, quali domande accessorie e consequenziali rispetto alla domanda di risoluzione (Cass. n. 16682/2018; Cass. S.U., n. 8510/2014; Cass. n. 26325/2008). Non è invece proponibile la sola domanda di risarcimento dei danni dopo la domanda di adempimento (Cass. n. 13953/2009). E così non può essere proposta in corso di causa la domanda di risoluzione ove la domanda originaria sia stata solo quella di risarcimento dei danni derivanti dall'inadempimento (Cass. n. 17144/2006). La proposizione della domanda di adempimento produce l'effetto interruttivo della prescrizione anche con riferimento al diritto di chiedere la risoluzione e viceversa — nell'ipotesi in cui la domanda di risoluzione fosse disattesa o rinunciata — (Cass. n. 2822/2014; Cass. n. 15171/2001; Cass. n. 11825/1992). Intervenuta la risoluzione del contratto, sia legale che giudiziale, la parte a favore della quale si sono prodotti gli effetti risolutivi non può rinunciarvi, restando altrimenti leso l'affidamento legittimo del debitore sulla dissoluzione del contratto (Cass. n. 7313/2017; Cass. n. 20768/2015; contra Cass. n. 5734/2011; Cass. n. 23824/2010).

Gli effetti preclusivi della domanda di risoluzione

Per converso la proposizione della domanda di risoluzione preclude, da un canto, alla parte inadempiente di adempiere e, dall'altro, alla parte non inadempiente di chiedere l'adempimento, secondo il brocardo electa una via, non datur recursus ad alteram. Si tratta di una regola di carattere sostanziale che attribuisce alla parte non inadempiente il diritto potestativo unilaterale di modificare il rapporto, impedendo alla controparte l'adempimento della prestazione all'esito della proposizione della domanda di risoluzione che, per esigenze di certezza del debitore, costituisce una scelta irrevocabile (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1988, 520). Infatti con la domanda di risoluzione la parte non inadempiente dimostra di non avere più interesse alla prestazione e deve ormai assumersi la responsabilità di tale decisione, senza pentimenti che sarebbero d'intralcio a una chiara definizione dei conflitti tra le parti (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 865). Tali effetti preclusivi sono collegati, in base alla lettera della legge, solo alla proposizione della domanda di risoluzione (Bianca, 1994, 288). Tuttavia una dottrina ne ammette l'estensione, in base al principio di buona fede oggettiva, anche alla richiesta stragiudiziale di risoluzione (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1988, 520; contra Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 614). L'effetto preclusivo della domanda di risoluzione viene meno in caso di estinzione del giudizio (Bianca, 1994, 287) ovvero quando il giudizio si concluda in rito o in ultimo quando la domanda di risoluzione sia disattesa nel merito o sia dichiarata la cessazione della materia del contendere per rinuncia all'azione (Auletta, 458). Non è preclusa la possibilità di proporre la domanda di adempimento in subordine a quella di risoluzione, poiché l'effetto preclusivo sancito dalla norma è riferito solo alla proposizione di una domanda di risoluzione fondata (Bianca, 1994, 285). In senso contrario altri autori rilevano che in tal modo viene disattesa la ratio della norma, che è quella di impedire che il debitore debba tenersi pronto ad adempiere per un tempo indefinito (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 91; Dalmartello, 140; Smiroldo, 329). Secondo un'ulteriore opinione questa interpretazione è giustificata nei limiti in cui venga meno nell'inadempiente, a cui favore il divieto è posto, l'interesse ad eccepire l'improponibilità dell'azione di adempimento (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 614).

L'eccezione di improponibilità della domanda di adempimento, in ragione della precedente proposizione della domanda di risoluzione del contratto, essendo fondata su una norma posta nell'esclusivo interesse dell'altra parte contraente, può essere sollevata solo da quest'ultima, nel rispetto delle previste preclusioni, e si deve pertanto escludere che possa essere rilevata d'ufficio ovvero dedotta per la prima volta in sede di legittimità (Cass. n. 5460/2006; Cass. n. 5964/2004; Cass. n. 15969/2000). L'avvenuta risoluzione di diritto per effetto della scadenza del termine previsto nell'inviata diffida ad adempiere impedisce di richiedere successivamente l'adempimento (Cass. S.U., n. 553/2009). Nel giudizio arbitrale non può trovare applicazione il principio della non mutabilità della domanda di risoluzione in domanda di adempimento del contratto (Cass. n. 4463/2003). È ammessa la possibilità di proporre la domanda di adempimento in subordine a quella di risoluzione, poiché il divieto non deve essere inteso in senso assoluto, ma è operante soltanto nei limiti in cui esiste l'interesse attuale del contraente che ha chiesto la risoluzione alla cessazione del rapporto, per modo che, quando tale interesse viene meno, per essere stata rigettata o dichiarata inammissibile la domanda di risoluzione, la preclusione non opera, essendo cessata la ragione del divieto (Cass. n. 12637/2020; Cass. n. 20899/2013; Cass. n. 26152/2010; Cass. n. 1077/2005; Cass. n. 6672/1988). Il rigetto con sentenza passata in giudicato della domanda di risoluzione preclude la riproposizione della medesima azione, sia pure sulla base di un diverso petitum o di una differente causa petendi (Cass. n. 4003/2020; Cass. n. 3702/2018).

L'adempimento tardivo

L'adempimento è tardivo per effetto del decorso del termine stabilito dalle parti nel contratto ovvero per il venir meno dell'interesse del creditore al conseguimento della prestazione. In ragione della maturazione di tali condizioni occorre distinguere due ipotesi: quella in cui l'offerta tardiva della prestazione sia avanzata successivamente alla proposizione della domanda di risoluzione; quella in cui l'adempimento tardivo sia offerto prima che sia proposta detta domanda. La norma prevede espressamente che dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione. L'interpretazione letterale della disposizione lascia intendere che l'adempimento tardivo non ha efficacia liberatoria per il debitore né paralizza l'azione di risoluzione. La regola quindi rappresenta il corollario del principio che individua nella proposizione della domanda di risoluzione un'inequivoca manifestazione da parte del creditore di non avere più interesse alla prestazione (Smiroldo, 340). Nondimeno si è ritenuto che l'adempimento effettuato dopo la domanda produce i suoi effetti, in quanto può essere preso in esame dal giudice al fine di valutare l'importanza dell'inadempimento (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 620). Ove invece l'adempimento tardivo preceda la domanda di risoluzione, le soluzioni proposte sono le seguenti: un primo orientamento sostiene che, per un verso, la parte che non ha ancora richiesto la risoluzione non potrebbe rifiutarne il ricevimento e, per altro verso, sarebbe preclusa la risoluzione del contratto (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1988, 518); secondo altra opinione la parte potrebbe comunque rifiutare la prestazione tardiva e resterebbe ferma la valutazione del giudice in ordine alla rilevanza dell'inadempimento, con la conseguente possibilità di pronunciare comunque la risoluzione (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 93).

In base ad un primo indirizzo, una volta proposta la domanda giudiziale di risoluzione, e sino a quando non intervenga il giudicato, il convenuto non può più adempiere la propria obbligazione, in tal modo negando qualsiasi efficacia ad un siffatto adempimento, senza distinzioni o limiti di sorta (Cass. n. 18500/2012; Cass. n. 4317/2000). Secondo altro indirizzo l'adempimento effettuato dopo la domanda di risoluzione, pur non arrestando gli effetti di tale domanda, deve essere tuttavia preso in considerazione dal giudice al fine di valutare l'importanza dell'inadempimento (Cass. n. 14011/2017; Cass. n. 10490/2004). Quanto all'ipotesi dell'adempimento tardivo offerto prima della domanda di risoluzione, il verificarsi di un inadempimento di non scarsa importanza attribuisce al contraente non inadempiente, ancora prima della proposizione della domanda giudiziale, il diritto potestativo ad ottenere la risoluzione giudiziale del rapporto, rendendo così legittimo il rifiuto opposto ad un adempimento tardivo offerto dalla parte inadempiente (Cass. n. 14766/2005; Cass. n. 2153/1998; Cass. S.U., n. 6224/1997; Cass. S.U., n. 5086/1997, in Giust. civ. 1997, 11, I, 2765, con nota di Costanza; Cass. n. 4260/1996; Cass. n. 1595/1993; contra Cass. n. 5235/1999).

Nel verificare, in base all’art. 1453, comma 3, c.c., la prontezza dell’adempimento rispetto alla domanda di risoluzione, occorre aver riguardo al momento in cui detta domanda è stata portata a conoscenza del debitore col perfezionamento della notifica, e non a quello in cui il procedimento notificatorio che la riguarda è stato avviato (Cass. n. 14561/2023).

Gli inadempimenti reciproci

Il c.c. non contiene una disciplina specifica dell'ipotesi in cui le parti si contestino reciprocamente degli inadempimenti allo scopo di ottenere la risoluzione del contratto. L'unica disposizione codicistica in materia è rappresentata dall'art. 1551, comma 2, in tema di riporto, a norma del quale, se entrambe le parti non adempiono le proprie obbligazioni nel termine stabilito, il riporto cessa di avere effetto e ciascuna di esse ritiene ciò che ha ricevuto al tempo della stipulazione del contratto: trattasi di norma speciale, con l'effetto che ad essa non si può riconoscere portata generale (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 78). Quando siano dedotte inadempienze reciproche il giudizio sulla colpevolezza presuppone una valutazione unitaria e comparativa della condotta di entrambi i contraenti; si tratta di un accertamento di fatto demandato al giudice di merito, da effettuarsi sulla base dei criteri cronologico, eziologico e quantitativo, che devono essere valutati congiuntamente al fine di stabilire quale dei due inadempimenti debba considerarsi prevalente (Sacco-De Nova, in Tr. Res., 1988, 520). Ove non si riesca a stabilire a quale dei due contraenti sia addebitabile l'inadempimento devono essere respinte entrambe le domande, in quanto non è consentito pronunciare la risoluzione del contratto in favore di entrambe le parti (Carresi, in Tr. C. M., 1987, 909). Ma in senso contrario altro autore osserva che la risoluzione del contratto fondata su inadempimenti bilaterali, che siano indipendenti, coevi e di pari importanza, non contrasta con i presupposti e la funzione dell'istituto (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 28).

In ragione della ricostruzione giurisprudenziale il giudice adito con contrapposte domande di risoluzione per inadempimento del medesimo contratto può accogliere l'una e rigettare l'altra, ma non anche respingere entrambe e dichiarare l'intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, implicando ciò una violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto stesso difforme da quella perseguita dalle parti (Cass. n. 3455/2020; Cass. n. 2984/2016; Cass. n. 14648/2013; contra Cass. 19706/2020; Cass. n. 26907/2014). Qualora siano dedotte reciproche inadempienze, la valutazione comparativa del giudice intesa ad accertare la violazione più grave, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata, deve tenere conto non solo dell'elemento cronologico ma anche degli apporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della loro incidenza sulla funzione del contratto, sicché, ove manchi la prova sulla causa effettiva e determinante della risoluzione, entrambe le domande vanno rigettate per insussistenza dei fatti costitutivi delle pretese azionate (Cass. n. 13827/2019 ; Cass. n. 13627/2017; Cass. n. 18320/2015; Cass. n. 13840/2010; Cass. n. 20614/2009).

La domanda di risarcimento del danno

Si tratta di domanda indipendente sia dalla domanda di adempimento sia dalla domanda di risoluzione, che può essere proposta anche come domanda a sé stante. Qualora la parte non inadempiente abbia interesse alla manutenzione del contratto, questa ha diritto ad un'azione autonoma di risarcimento per equivalente, non solo nel caso in cui la prestazione dovuta dalla controparte sia divenuta definitivamente impossibile, ma anche nel caso di semplice ritardo o di inadempimento inesatto; inoltre il risarcimento può essere chiesto quando, pur essendo possibile domandare l'adempimento, la parte preferisca non farlo, poiché la prestazione dovuta è insuscettibile di esecuzione forzata in forma specifica (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 127). Il danno è riparabile anche nel caso in cui, essendo l'inadempimento di scarsa importanza, non può essere pronunciata la risoluzione (Dalmartello, 133). Il risarcimento ha ad oggetto l'interesse positivo (Belfiore, 1326). Ciò significa che se la domanda di risarcimento si affianca a quella di risoluzione, la parte avrà diritto ad ottenere una somma pari alle spese eventualmente necessarie al fine di preparare il proprio adempimento nonché al vantaggio patrimoniale che sarebbe derivato dall'esecuzione del contratto; pertanto al risarcimento del danno emergente si unisce quello del lucro cessante (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 867). Sicché deve escludersi che la norma in esame fornisca la possibilità di un cumulo del risarcimento dell'interesse positivo con quello dell'interesse negativo, poiché altrimenti la parte risolvente conseguirebbe un arricchimento ingiustificato (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 222). Tuttavia quando il contraente fedele subisca la sola lesione dell'interesse negativo, o quando l'entità di questo superi quella del danno ancorato all'interesse positivo, sarà possibile il risarcimento nella misura dell'interesse negativo, in applicazione del principio generale desumibile dagli artt. 1337,1338 e 1398, che non opera esclusivamente in tema di responsabilità precontrattuale, secondo cui la parte inadempiente deve risarcire le spese affrontate in vista della realizzazione dell'affare (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 381). Nel caso in cui la domanda di risarcimento sia proposta unitamente alla domanda di adempimento il danno da risarcire consiste nella differenza tra le conseguenze economiche dell'esatta e tempestiva esecuzione del contratto e le conseguenze economiche dell'esecuzione inesatta e tardiva (Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 867). Quando la parte non inadempiente si avvalga dell'eccezione di inadempimento, il risarcimento del danno dovrà essere calcolato tenendo conto delle utilità che ad essa sono derivate per aver potuto continuare a godere del bene a sua volta dovuto, in applicazione del principio compensatio lucri cum damno (Luminoso-Carnevali-Costanza, in Comm. S.B., 1990, 124).

La S.C. afferma che l'azione di risoluzione del contratto per inadempimento e la relativa azione risarcitoria hanno differenti presupposti applicativi, perché la prima esige che l'inadempimento di una delle parti non sia di scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse dell'altra, mentre l'azione risarcitoria presuppone che l'inesatta esecuzione della prestazione abbia prodotto al creditore un danno (Cass. n. 18515/2009).   La domanda di risarcimento dei danni da inadempimento contrattuale non deve essere necessariamente correlata alla richiesta di risoluzione del contratto, perché l'art. 1453, facendo salvo “in ogni caso” il risarcimento del danno, ha voluto evidenziare l'autonomia dell'azione risarcitoria rispetto a quella di risoluzione (Cass. n. 11348/2020; Cass. n. 23820/2010).

Nei contratti a prestazioni corrispettive, alla risoluzione per inadempimento si accompagna il diritto, per il contraente fedele, al risarcimento del danno, non limitato all'interesse negativo (id quod interest contractum non fuisse) ma esteso all'interesse positivo (quantum lucrari potuit), atteso, per un verso, che l'azione di risoluzione è alternativa all'azione di adempimento, la quale è senz'altro finalizzata al conseguimento dell'interesse positivo e considerato, per altro verso, che, diversamente opinando, la responsabilità (contrattuale) per inadempimento coinciderebbe quoad effectum con la responsabilità precontrattuale, venendosi a trattare in modo uguale situazioni diverse (Cass. n. 28022/2021).

In ipotesi di inadempimento contrattuale la parte non inadempiente ha diritto al ristoro di tutti i pregiudizi subiti a causa della condotta della controparte inadempiente, compreso il rimborso delle spese affrontate in vista del proprio adempimento (Cass. n. 25351/2014; Cass. n. 17562/2005). Il pregiudizio deve essere risarcito facendo riferimento al momento in cui avviene la liquidazione e non a quello in cui si realizza la violazione contrattuale (Cass. n. 3940/2016).  Pertanto spetta anche il danno da svalutazione monetaria, la cui prova ricade sul richiedente, purché tale voce non sia assorbita dal danno derivante dall'inadempimento, dovendosi evitare ingiustificate duplicazioni (Cass. n. 15708/2018).Altro arresto precisa che le spese erogate in adempimento di un obbligo contrattuale non possono rappresentare, in caso di risoluzione, un danno, trovando la loro causa non già nell'inadempimento, ma unicamente nel contratto, salvo il caso in cui dette spese, per effetto dell'inadempimento di controparte e della risoluzione, si rivelassero in tutto o in parte inutili e non suscettibili di un qualunque proficuo risultato (Cass. n. 14744/2002). Di contro l'obbligo restitutorio relativo all'originaria prestazione pecuniaria, anche in favore della parte non inadempiente, ha natura di debito di valuta, come tale non soggetto a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno — da provarsi dal creditore — rispetto a quello soddisfatto dagli interessi legali (Cass. n. 14289/2018; Cass. n. 5639/2014; Cass. n. 10373/2002).

Bibliografia

Auletta, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942; Belfiore, voce Risoluzione del contratto per inadempimento, in Enc. dir., Milano, 1988; Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1997; Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994; Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, Diritto civile, 1.2, Fatti e atti giuridici, Torino, 1990; Boselli, voce Eccessiva onerosità, in Nss. D.I., Torino, 1960; Busnelli, voce Clausola risolutiva espressa, in Enc. dir., Milano, 1960; Dalmartello, voce Risoluzione del contratto, in Nss. D.I., Torino, 1969; Grasso, Eccezione di inadempimento e risoluzione del contratto, Napoli, 1973; Mosco, La risoluzione del contratto per inadempimento, Napoli, 1950; Natoli, voce Diffida ad adempiere, in Enc. dir., Milano, 1964; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, rist. 1989; Smiroldo, Profili della risoluzione per inadempimento, Milano, 1982; Tartaglia, voce Onerosità eccessiva, in Enc. dir., Milano, 1980.

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