Codice Civile art. 2046 - Imputabilità del fatto dannoso.

Francesco Agnino

Imputabilità del fatto dannoso.

[I]. Non risponde delle conseguenze dal fatto dannoso chi non aveva la capacità d'intendere o di volere [428] al momento in cui lo ha commesso [2047; 85 ss. c.p.], a meno che lo stato d'incapacità derivi da sua colpa.

Inquadramento

La ratio legis dell'art. 2046 è solo quella di escludere la responsabilità civile dell'autore di un fatto che cagiona ad altri un danno ingiusto, quando viene a mancare (per la incapacità naturale di intendere e volere) l'elemento soggettivo della imputabilità e cioè della responsabilità a titolo soggettivo.

Come affermato dalla Corte di Cassazione (Cass. n. 2425/1975), in tema di imputabilità del fatto dannoso opera, nel campo civile, un sistema diverso ed autonomo rispetto a quello previsto dal legislatore per l'imputabilità nel campo penale, laddove è la stessa legge che fissa le cause che la escludono, mentre, a norma dell'art. 2046, compete al giudice civile accertare caso per caso, se, in relazione all'età, allo sviluppo fisico-psichico, alle modalità del fatto o ad altre ragioni, debba escludersi o meno la capacità di intendere o di volere.

Dal coordinamento (logico sistematico) tra le norme richiamate (artt. 2043, 2046) si deduce che il soggetto che versi nelle condizioni di incapacità d'intendere e volere di cui all'art. 2046 (cd. incapacità naturale, provvisoria o definitiva) è esentato dalla responsabilità civile ma non dalla determinazione dell'apporto causale.

La nozione di imputabilità

La disposizione codicistica subordina la risarcibilità del danno extracontrattuale alla sussistenza dell'imputabilità, ossia alla capacità di intendere e di volere dell'autore del fatto lesivo, non rilevando in materia di illecito la capacità legale. Quest'ultima è richiesta in materia di rapporti obbligatori; in caso di illecito, invece, l'ordinamento ritiene che anche un minore di età, purché capace di intendere e di volere, sia in grado di comprendere le conseguenze dannose che da un certo comportamento possono derivare e, per converso, che un maggiore d'età, anche se legalmente capace, può non essere in condizione di capire il significato delle proprie azioni e di autodeterminarsi (Messineo, 50).

È stato ritenuto corretto far riferimento a quel minimo di attitudine psichica ad agire e valutare le conseguenze del proprio operato, che appare indispensabile perché, secondo i criteri di giudizio offerti dalla comune coscienza, il fatto dannoso, che si prende concretamente in considerazione, possa qualificarsi come espressione della libera scelta ed azione di chi materialmente lo pone in essere (Scognamiglio, 639). Ancora, l'incapacità di intendere e di volere è stata definita come la inidoneità psichica della persona a comprendere la rilevanza sociale negativa delle proprie azioni e a decidere autonomamente il proprio comportamento (Bianca, 657).

Nella giurisprudenza di merito si è precisato che affinché possa essere dichiarata l'effettiva incapacità di intendere e di volere di un soggetto imputato è necessario che vi sia la assoluta e totale assenza di capacità di autodeterminazione, tale da rendere impossibile la comprensione del disvalore sociale della propria condotta e di conseguenza la capacità di valutare se compiere o meno detta azione. In particolare non vi deve essere alcun dubbio o incertezza dell'assenza di tale capacità durante l'intera commissione del fatto illecito o omissione (App. Firenze, 10 maggio 2023, n. 981).

Accertamento dell'imputabilità

I due ambiti (quello civile e quello penale) divergono in ordine ai criteri di accertamento dello stato di incapacità. Com'è noto, il codice penale enuncia in modo preciso le cause in presenza delle quali un soggetto deve ritenersi incapace per presunzione legislativa: gli artt. 88,95,97 c.p. elencano fra le cause dell'incapacità il vizio di mente, la cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, l'età inferiore ai quattordici anni. Anche se l'opinione corrente non ritiene tassativo questo elenco, è evidente che in presenza di tali circostanze, il giudizio sulla non imputabilità dell'autore del reato è automatico. Viceversa, il diritto civile non conosce alcuna elencazione e quindi lascia arbitro il giudice di decidere, in relazione al caso concreto, se il soggetto sia capace di intendere e di volere e quindi imputabile in presenza delle circostanze indicate dal codice penale o di altre. Ne deriva che l'eventuale verifica penalistica del vizio parziale di mente di cui all'art. 89 c.p. è del tutto irrilevante nel giudizio di responsabilità civile. Infatti, com'è noto, il codice penale, oltre al vizio totale di mente che esclude l'imputabilità, prevede il vizio parziale di mente che comporta una diminuzione della capacità di intendere e di volere e, quindi, una riduzione della pena.

Per la Corte di Cassazione in tema di imputabilità del fatto dannoso opera, nel campo civile, un sistema diverso ed autonomo rispetto a quello previsto dal legislatore per l'imputabilità in campo penale (Cass. n. 11163/1990). In termini chiari, i giudici di legittimità hanno rilevato che la persona incapace d'intendere e di volere non può essere ritenuta responsabile, rispetto all'ordinamento giuridico civile e penale, del fatto dannoso da essa compiuto in obiettivo contrasto con le norme dei detti ordinamenti. L'ordinamento giuridico, penale e civile, segue criteri diversi per la concreta determinazione dello stato di incapacità di intendere e di volere; la legge penale, invero, enuncia tassativamente le cause in presenza delle quali il soggetto, per presunzione iuris et de iure, deve ritenersi incapace di intendere e di volere; così per vizio di mente, per cronica intossicazione da alcool, per età inferiore agli anni quattordici; la legge civile, invece, lascia arbitro il giudice di stabilire se il soggetto stesso, in presenza delle anzidette cause o di altre, sia o meno incapace di intendere e di volere; pertanto la responsabilità giuridica per uno stesso fatto dannoso, rispettivamente a titolo di illecito civile o di reato, può essere valutata diversamente dall'interprete in funzione delle diverse norme dettate dall'uno e dall'altro ordinamento circa la determinazione dell'anzidetto stato di capacità di intendere e di volere (Cass. n. 1006/1959).

Il sistema di accertamento previsto dal codice civile, pertanto, è più elastico di quello penalistico e permette al giudice di condurre l'indagine sulla base della comune esperienza, oltre che di nozioni scientifiche fornite dai periti e di correlare la sanzione al tipo di illecito, alla gravità del fatto e alla personalità dell'autore. Il consulente tecnico dovrà rispondere ai quesiti posti dal giudice, prospettando tutte le circostanze che inducono ad affermare che lo stato considerate, dal punto di vista civilistico, le monomanie, le quali non diminuiscono soltanto la capacità di intendere e di volere (come i vizi parziali di mente), ma potrebbero escluderla del tutto.

Si è affermato che la sentenza di assoluzione dell'imputato per vizio totale di mente non consente al giudice penale, ove anche applicasse all'imputato una misura di sicurezza, di pronunciare alcuna statuizione civile sull'esistenza del danno né di liquidare in favore della parte civile l'indennità prevista dall'art. 2047 c.c. (Cass. pen. n. 45228/2013).

In caso di assoluzione dell'imputato, dunque, per qualsiasi causa, è inibito al giudice penale — che in tal senso ha una vera e propria incompetenza funzionale, perché finisce per invadere indebitamente la giurisdizione civile — emettere pronuncia sulle richieste civilistiche dei soggetti danneggiati costituiti in parte civile. Non c'è dubbio, quindi, che il sistema ordinamentale prevede che la parte danneggiata, a fronte di assoluzione dell'imputato, non abbia altra via che quella di promuovere azione davanti alla giurisdizione civile, giudice generale dei diritti.

Il principio di diritto sopra espresso è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con una decisione che, pronunciata in un caso di assoluzione per la riconosciuta esimente della legittima difesa, ancorché putativa, ribadisce l'affermazione — peraltro imposta da una formulazione normativa (art. 538 c.p.p.) che non ammette dubbi interpretativi — secondo cui: a) la condanna risarcitoria può essere legittimamente emessa dal giudice penale solo in caso di pronuncia di condanna penale; b) l'assoluzione per causa esimente (e qui per vizio totale di mente), pronunciata ex art. 530 c.p.p., comma 3, è vera e propria assoluzione (art. 530 c.p.p., comma 1); c) a fronte di tale inequivocabile sbarramento normativo, neppure può porsi il principio generale di economia processuale, anche in funzione di un giusto e celere processo, per la cessazione, con il vigente codice di procedura penale, del pregresso sistema di unitarietà della funzione giurisdizionale e di generale prevalenza dell'accertamento in sede penale (Cass. pen. n. 33178/2012Cass. pen. n. 40049/2008).

Si è precisato che nell'azione risarcitoria per responsabilità extracontrattuale proposta allegando l'imputabilità dell'evento lesivo alla condotta dell'autore dell'illecito, qualificata da dolo o colpa, grava sul danneggiante l'onere di allegare e provare l'esistenza al momento del fatto illecito, dello stato di incapacità di intendere e di volere previsto dall'art. 2046 c.c., in quanto la imputabilità non integra un elemento costituivo della fattispecie di responsabilità aquiliana ma si pone come condizione soggettiva esimente della stessa. Tale accertamento che avrebbe dovuto essere sollecitato con apposita eccezione, da sollevare nei termini ex art. 167 cpc, accertamento, dunque, che in questa è ormai precluso ex art. 345 c.p.c. (App. Napoli, 8 gennaio 2024, n. 39).

La capacità naturale nell'interdizione, nell'inabilitazione, nell'amministrazione di sostegno, nella minore età

Accanto all'incapacità naturale il nostro ordinamento prevede l'incapacità legale, quale inidoneità del soggetto a compiere e ricevere gli atti giuridici incidenti sulla propria sfera personale e patrimoniale. La capacità di agire si acquista col raggiungimento della maggiore età e si può perdere a causa di una infermità mentale o di una condanna penale. In particolare, sono totalmente incapaci di agire: in primo luogo, i minori che non hanno compiuto il diciottesimo anno di età; in secondo luogo, gli interdetti giudiziali, cioè coloro che, trovandosi in condizioni di abituale infermità di mente (art. 414), sono dichiarati con provvedimento giudiziale incapaci di agire; gli interdetti legali, cioè le persone che sono prive della capacità di agire in quanto hanno subito una condanna ad una pena della reclusione non inferiore a cinque anni. Hanno, invece, una parziale capacità d'agire gli inabilitati, cioè coloro che si trovano in uno stato non talmente grave da dar luogo all'interdizione. Inoltre, la l. n. 6/2004, prevedendo l'istituto dell'amministrazione di sostegno, ha introdotto un nuovo sistema di protezione delle “persone in tutto o in parte prive di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana”, graduando, in base alle diverse esigenze del singolo caso concreto, gli interventi limitativi della capacità di agire. Con riferimento all'interdetto, all'inabilitato e al beneficiario dell'amministrazione di sostegno ci si domanda se questi soggetti rispondano o meno dei danni da essi stessi cagionati. Com'è noto, presupposto per l'interdizione è un'abituale infermità di mente accertata giudizialmente. Tale stato sussiste quando le condizioni mentali del soggetto siano stabilmente alterate. Ciò non vuol dire che sia necessaria un'infermità mentale continua. Tuttavia, non rileva, ai fini dell'interdizione, uno stato morboso transitorio, destinato a risolversi in un breve lasso di tempo. La Cassazione afferma che l'interdetto per infermità di mente si presume, con riferimento agli atti illeciti, non responsabile (fino a prova contraria).

Pertanto, del danno cagionato dall'interdetto risponde (salva la prova sulla capacità naturale del soggetto al momento dell'illecito) chi è tenuto alla sorveglianza secondo il disposto dell'art. 2047.

Anche per l'inabilitazione si ritiene sia necessario un accertamento caso per caso. La giurisprudenza ha affermato che il grado e l'intensità della malattia mentale necessaria e sufficiente per la pronuncia d'inabilitazione sono inferiori a quelli richiesti per l'accertamento dell'incapacità naturale, per cui l'avvenuta declaratoria d'inabilitazione non equivale alla dimostrazione dell'incapacità naturale dell'inabilitato (Cass. n. 1388/1994). Per quanto concerne l'amministrazione di sostegno, il beneficiario (come si è detto) viene considerato dal legislatore capace di agire, anche se si tratta di una capacità che viene limitata in relazione alla idoneità del soggetto di curare i propri interessi. Tale figura, pertanto, può essere accostata a quella dell'inabilitato. Anche in tal caso, dunque, l'incapacità di intendere e di volere dovrà essere accertata nel caso concreto. Lo stesso principio è stabilito dalla dottrina e dalla giurisprudenza per l'accertamento della capacità naturale del minore di anni quattordici (App. Firenze, 13 marzo 1964, ha considerato civilmente imputabile una bambina di dodici anni, ritenendola in condizioni psico-fisiche tali da poter valutare le proprie azioni).

Actiones liberae in causa

L'ultima parte dell'art. 2046 sancisce la responsabilità del non imputabile nel caso in cui lo stato d'incapacità derivi da sua colpa. Pertanto, il legislatore deroga, nell'ipotesi dell'incapacità procurata, alla regola generale della necessaria corrispondenza tra imputabilità e produzione dell'evento dannoso: il soggetto, infatti, nel momento in cui cagiona il danno ha perduto la capacità di intendere e di volere. Si tratta delle actiones liberae in causa, dove, tradizionalmente, la condotta «non libera», resa in stato d'incapacità, deve farsi risalire ad un'azione anteriore consapevole.

Ci si chiede in dottrina come possa spiegarsi che l'agente sia responsabile anche se al momento del fatto non era imputabile Sono state prospettate diverse giustificazioni. Un primo orientamento rinviene il fondamento della responsabilità nel semplice nesso causale, per cui causa causae est causa causati: e cioè, colui che determina una situazione dalla quale deriva un evento dannoso, ne deve rispondere, indipendentemente dalla circostanza che l'evento sia previsto e voluto (Visintini). Tuttavia, rifarsi ad un criterio puramente «oggettivo» di attribuzione della responsabilità non è opinione condivisibile in un sistema di responsabilità fondato sull'elemento soggettivo del dolo o della colpa. Secondo un'altra impostazione, l'incapace inizia a realizzare l'evento già nel momento in cui egli si pone volontariamente in condizione d'incapacità. 

Il concorso di colpa dell'incapace

Problemi interpretativi di eccezionale rilevanza sono sorti con riferimento al trattamento che la previsione di cui al 1° comma dell'art. 1277 (richiamato, per la responsabilità extracontrattuale, dall'art. 2056) sembrerebbe riservare allo stato di incapacità naturale. Secondo questa previsione se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate.

Si tratta, come è intuitivo, di spiegare come sia possibile ipotizzare una «colpa» a carico dell'incapace, posto che la condotta di quest'ultimo, in ragione del suo stato, non può essere qualificata nei termini della volontarietà.

Chi infatti ritiene che la «colpa» possa essere individuata anche prescindendo dal profilo psicologico, chi sostiene la tesi dell'indifferenza del giudizio sull'imputabilità rispetto al giudizio sulla «colpevolezza», riesce a motivare l'opinione secondo la quale la previsione dell'art. 1227, comma 1, costituirebbe altro indizio normativo (insieme all'art. 2047), capace di confermare l'impossibilità di configurare l'imputabilità quale elemento essenziale della colpevolezza.

Di tale dibattito non vi è particolare traccia nella giurisprudenza, della quale si avverte la fondamentale preoccupazione di non addossare definitivamente il danno a carico di un soggetto, quando non sussistano valide ragioni (e tale non sarebbe la circostanza che nell'illecito abbia avuto parte una persona incapace). Anche qui si tratta peraltro di teoria che la giurisprudenza, difficile è dire quanto consapevolmente o meno, da sempre ignora.

In risposta a tali esigenze, già a metà degli anni sessanta la Corte Suprema a sezioni unite (Cass. n. 351/1964) aveva affermato che la regola enunciata nel 1° comma dell'art. 1227 trova applicazione anche nel caso in cui il danneggiato sia incapace, ricomponendo in tale modo un conflitto che aveva segnato la giurisprudenza della stessa Corte di legittimità (Cass. n. 1749/1950; Cass. n. 1697/1953; Cass. n. 827/1962).

A decorrere dalla sentenza Cass. n. 351/1964 la Corte non ha invece più avuto oscillazioni e l'insegnamento in essa contenuto è stato seguito dalla giurisprudenza successiva, sicché oggi l'orientamento secondo il quale il 1° comma dell'art. 1227 trova applicazione anche nel caso dell'incapace è assolutamente univoco e dominante (Cass. n. 1736/1978; Cass. n. 1442/1983).

Da parte della giurisprudenza, si tratta quindi di un ossequio ad esigenze equitative, che non incide minimamente sul problema teorico ma anzi, per il richiamo operato dalla Corte alla regola della causalità, tende a produrre ulteriori equivoci.

Correlativamente, chi ha subito un danno deve sopportare quella parte di danno che sia ricollegabile alla sua condotta, ma non quello che si deve mettere in collegamento con fattori a lui esterni, compreso quello dell'altrui condotta, quand'anche incolpevole.

In questa direzione sembra collocarsi una non lontana sentenza della Corte di Cassazione, la quale ha affermato che nel caso di danno provocato ad un incapace la responsabilità dell'autore materiale del fatto sussiste solo se è confermata la colpa di quest'ultimo, con esclusione della percentuale ascrivibile al comportamento del danneggiato (Cass. n. 4691/1992; Cass. n. 142/1983).

La giurisprudenza rimane quindi attestata sull'affermazione della rilevanza giuridica del contributo causale della condotta del soggetto incapace che abbia concorso alla produzione dell'evento.

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