Codice Civile art. 2047 - Danno cagionato dall'incapace.

Francesco Agnino

Danno cagionato dall'incapace.

[I]. In caso di danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere [2046; 185 ss. c.p.], il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell'incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto.

[II]. Nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l'autore del danno a una equa indennità [2045; 113 c.p.c.].

Inquadramento

L'art. 2047, comma 1 prevede un'ipotesi di colpa presunta a carico di colui che sia tenuto alla sorveglianza di una persona incapace di intendere o di volere, la quale abbia cagionato un danno a terzi. Tale presunzione, qualora non sia superata dalla prova che l'evento dannoso non poteva essere in alcun modo impedito, dà luogo ad una responsabilità diretta e propria di coloro che sono tenuti alla sorveglianza dell'incapace, responsabilità fondata sull'inosservanza dell'obbligo di custodia cui sono tenuti per legge verso di lui. Consegue che la prova liberatoria può ritenersi raggiunta solo allorché si dimostri che l'evento dannoso si sia verificato nonostante il diligente esercizio della sorveglianza.

L'ingiustizia del fatto

Relativamente, alla responsabilità del soggetto che ha la sorveglianza dell'incapace, l'art. 2047, non fa riferimento al fatto illecito dell'incapace, ma esclusivamente al fatto e ciò conformemente all'art. 2046, che esclude l'imputabilità del fatto dannoso dell'incapace, salvo che l'incapacità dipenda da sua colpa. Invece l'art. 2048, in tema di responsabilità dei genitori e degli altri soggetti ivi indicati, presuppone che il danno sia stato cagionato da fatto illecito dei figli minori o delle persone soggette alla tutela. Il legislatore, seguendo l'ottica tradizionale, ha ritenuto che fosse risarcibile solo quel danno che derivasse da un atto qualificabile come doloso o colposo, per cui, non ritenendo di configurare una forma di responsabilità oggettiva a carico del soggetto incapace di intendere o di volere, non fa riferimento al «fatto illecito», proprio per la mancanza dell'elemento psicologico.

Sennonché, escluso questo elemento psicologico, per potersi avere la responsabilità del sorvegliante a norma dell'art. 2047, è tuttavia necessario che il fatto dell'incapace presenti tutte le altre caratteristiche di antigiuridicità, e cioè sia tale che, se fosse assistito da dolo o colpa, integrerebbe un fatto illecito.

Proprio perché non ogni fatto dell'incapace espone il sorvegliante dello stesso all'obbligo del risarcimento (salva la prova liberatoria), ma solo quello che ha cagionato un danno ingiusto, è necessario che detto fatto sia antigiuridico e sia causativo della lesione di una posizione meritevole di tutela (Cass. n. 8740/2001).

Ciò comporta che anche nel caso di cui all'art. 2047 il giudice deve anzitutto accertare se il comportamento dell'incapace sia oggettivamente antigiuridico e se esso sia stato causativo del danno lamentato.

Solo se sussiste detta antigiuridicità del comportamento dell'incapace, per effetto della presunzione disposta dall'art. 2047, sussisterà la responsabilità del soggetto, cui è affidata la sorveglianza dell'incapace, salva la prova liberatoria.

L'accertamento della incapacità

La giurisprudenza oggi dominante, in materia di illeciti civili commessi da minori, rileva come l'accertamento della capacità debba essere lasciato alla prudente valutazione del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, se correttamente motivata (Cass. n. 11163/1990). Ciò, prescindendo da ogni tipo di presunzione, anche d'ufficio e senza alcun specifico onere della prova in capo all'una od all'altra parte (Cass. n. 2027/1984). In ogni caso, le corti fanno, per lo più, ricorso a criteri indiziari, quale l'età estremamente immatura dell'autore del fatto (Cass. n. 597/1965), gli studi frequentati (Cass. n. 565/1985), le modalità del fatto, lo sviluppo intellettivo e fisico, l'esistenza di eventuali patologie, la forza del carattere, la capacità del minore di rendersi conto dell'illiceità della sua azione, la capacità del volere con riferimento all'attitudine ad autodeterminarsi (Cass. n. 1642/1975). Per affermare o escludere la capacità di intendere e di volere di un minore d'età, autore di un fatto illecito, il giudice di merito non è tenuto a compiere una indagine tecnica di tipo psicologico, quando le modalità del fatto e l'età del minore siano tali da autorizzare una conclusione in un senso o nell'altro (così, rispetto ad un bambino di dieci anni, ritenuto incapace, Cass. n. 23464/2010).

La prova liberatoria del sorvegliante

Al sorvegliante, il legislatore concede la prova di non avere potuto impedire il fatto dannoso. Questa disposizione viene interpretata, per lo più, in senso relativo, ossia che il sorvegliante possa superare la «presunzione di colpa» che grava su di lui, dimostrando di avere adottato tutte le cautele materiali, organizzative e disciplinari, normalmente necessarie alla vigilanza dell'incapace, ed idonee a scongiurare il danno in quello specifico caso concreto; ciò, nei limiti di quanto fosse legittimo attendersi, secondo criteri di diligenza relativi allo specifico rapporto tra sorvegliante e vigilato, cosicché non si possa affermare che il primo abbia creato o lasciato in essere situazioni di pericolo, tali da agevolare o permettere il compimento di atti lesivi. Il sorvegliante, pertanto, viene liberato ogni qualvolta dimostri di avere tenuto una condotta corrispondente al «modello tipico» che normalmente si richiede in relazione a quella particolare fattispecie (Cossu, in Tr. Bes., 220). La prova liberatoria di cui all'art. 2047, in altri termini, deve essere prevalentemente ancorata a criteri di mero fatto, al contrario di quella prevista dall'art. 2048, che deve essere determinata con criteri giuridici (Cigolini, 865).

Il danneggiato dovrà intentare l'azione per il risarcimento, direttamente contro il sorvegliante (Cass. n. 2560/1960), senza l'onere di provarne la colpa (Cass. n. 5122/1979). Sarà il vicario a dover eventualmente dimostrare la circostanza, diversa dall'omissione materiale di vigilanza, idonea a vincere la presunzione che lo riguarda (Cass. n. 1812/1953). Poiché l'esatto contenuto dell'obbligo di vigilanza va valutato dal giudice del merito sulla base della natura e del grado di incapacità del sorvegliato, nonché in riferimento a tutto l'ambiente circostante che deve essere tale da non creare o lasciare permanere cause di pericolo (Cass. n. 2460/1976), la prova liberatoria dovrà riguardare il diligente esercizio di codesto dovere (Cass. n. 18327/2015; Cass. n. 12965/2005), e non già la semplice dimostrazione che l'incapace, al momento del fatto, si accompagnava a persona capace (Cass. n. 2157/1967; v. però Cass. n. 1321/2016 a mente della quale "il trasferimento del dovere di sorveglianza, tra i genitori dell'incapace, maggiorenne e non interdetto, entrambi informati e consapevoli delle problematiche del figlio, esclude in radice la responsabilità della mamma che abbia validamente affidato il ragazzo al padre, reputato ragionevolmente idoneo, con giudizio ex ante, alla sorveglianza; sicché la donna non sarà tenuta a fornire la prova liberatoria di cui all'art. 2047 c.c., in quanto questa presuppone la titolarità attuale in capo all'onerato del dovere di sorveglianza.").

Si è, altresì, evidenziato come il proscioglimento dei sorveglianti dal reato di lesioni colpose, in sede penale, non comporti il superamento della presunzione su di essi gravante ai sensi dell'art. 2047, né costituisca prova del caso fortuito (Cass. n. 19060/2003).

La condanna dell'incapace ad una equa indennità

Nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza, il giudice può prendere in considerazione la domanda volta ad ottenere la condanna dell'autore del danno, riconosciuto incapace, ad una equa indennità, solo se sia rimasta senza esito la domanda, volta ad ottenere il risarcimento, diretta nei confronti di chi era tenuto alla sorveglianza dell'incapace.

Tutto il sistema di tutela del terzo rinvenibile negli articoli 2046 e 2047 del c.c. ruota intorno all'assenza di una responsabilità civile dell'incapace verso il terzo, affiancata dall'assenza di una responsabilità civile di un terzo comunque per fatto proprio, finalizzata a far conseguire al danneggiato un risarcimento o, in via residuale, un equo indennizzo. È, quindi, illogico, se non contrario al principio di parità di trattamento di situazioni uguali di matrice costituzionale (art. 3 Cost.), limitare l'obbligo residuale dell'incapace, di natura solidaristica, al caso in cui il sorvegliante abbia previamente dimostrato l'assenza di una propria responsabilità di cui all'art. 2047, comma 1, c.c, per negarlo invece nel caso in cui l'incapace non sia stato sottoposto ad alcun tipo di sorveglianza, o comunque non sia rinvenibile alcun altro soggetto civilmente responsabile per il fatto dell'incapace (Cass. n. 11718/2021).

Peraltro, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l'autore del danno a una equa indennità; l'equo indennizzo, previsto dall'art. 2047, pur potendo in astratto corrispondere all'integrale ristoro del danno inferto, dipende, sia nell'an, sia nel quantum, da una valutazione comparativa delle condizioni economiche delle parti, tale previsione essendo non già correlata ad un atteggiamento colposo dell'autore del danno, ma dettata dall'ordinamento al fine di soddisfare l'esigenza di riparazione della persona danneggiata, in base a principi di solidarietà sociale, che coinvolgono lo stesso soggetto leso, sul quale il danno finisce sovente per gravare, almeno in parte; tale indennità, pertanto, può senz'altro subire decurtazioni, rispetto all'entità del risarcimento integrale del danno, secondo equi temperamenti dettati dalle condizioni economiche del soggetto su cui esso dovrebbe gravare, fino a doversi considerare del tutto non dovuto quando, dalla valutazione comparativa richiesta dalla norma, emerga una manifesta sperequazione fra la posizione economica del danneggiato, per avventura florida, e quella deteriore del danneggiante (Trib. Macerata 20 maggio 1986; contra Trib. Venezia 14 luglio 1999 secondo cui, in caso di lesioni personali cagionate da incapace, che sia stato prosciolto in sede penale per difetto di imputabilità, il giudice civile che condanna al pagamento a favore del danneggiato di un'equa indennità ai sensi dell'art. 2047 non può comprendere i danni morali). Attesa la diversità dei fatti costitutivi posti a base delle due diverse domande, la domanda diretta alla liquidazione dell'indennità ‐ a differenza di quella riguardante la diversa indennità di cui all'art. 2045  ‐ non può ritenersi implicita nella domanda di risarcimento del danno, proposta contro l'incapace ed il soggetto tenuto alla sua sorveglianza: la domanda diretta alla liquidazione dell'indennità prevista dall'art. 2047 a differenza da quella riguardante la diversa indennità di cui all'art. 2045 stesso codice, non può ritenersi implicita nella domanda di risarcimento del danno proposta contro l'incapace ed il soggetto tenuto alla sua sorveglianza, stante la diversità dei fatti costitutivi posti a base delle due domande (Trib. Roma 28 maggio 1987).

Responsabilità dell'ente ospedaliero per danni provocati da un incapace ricoverato

Dal rapporto instaurato tra una struttura sanitaria ed un soggetto legalmente capace, ma di concreta e nota incapacità naturale, deriva il dovere, a carico della prima, di continua sorveglianza onde evitare che l'incapace naturale possa arrecare danno a terzi. Ne consegue che, qualora detto incapace cagioni un danno, la struttura sanitaria ne dovrà rispondere, salvo che non fornisca la prova liberatoria posta a suo carico dall'art. 2047.

L'obbligo di vigilanza a carico delle persone che hanno la custodia dell'incapace, posto dall'art. 2047 in relazione all'unica causa di esclusione della responsabilità presunta a carico degli stessi, cioè il non aver potuto impedire l'evento, non viene, poi, inteso soltanto con riferimento alla persona dell'incapace, ma esteso a tutto l'ambiente che lo circonda, che deve esser tale da non creare o lasciare permanere, in relazione allo stato d'incapacità del soggetto vigilato, cause di pericolo con le quali questi possa venire in relazione e determinare con il suo illecito comportamento eventi dannosi (Cass. n. 12965/2005). Tutto ciò viene affermato nonostante che si riconosca come l'evoluzione legislativa in tema di assistenza psichiatrica, a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 180/1978, abbia determinato il passaggio dell'assistenza del malato da quella del tipo sostanzialmente contenitivo ad una di carattere principalmente terapeutico, per cui l'attuale organizzazione psichiatrica, secondo una sorta di obbligazione di mezzi, deve perseguire la tutela della salute mentale attraverso progetti alla cui realizzazione concorre anche il soggetto assistito, con il coinvolgimento dei parenti e della società; pertanto, la precedente impostazione fondata sulla sorveglianza del paziente è stata sostituita dall'attenzione terapeutica e dalla continuità ed adeguatezza delle cure, che valgono anche a costituire i presupposti della responsabilità professionale psichiatrica (Trib. Ravenna 29 settembre 2003). Invero, si afferma che ai fini della responsabilità di una Usl per lesioni riportate per omissione di vigilanza da un paziente durante il ricovero ospedaliero è irrilevante il carattere volontario ed obbligatorio del trattamento sanitario praticato in concreto, non potendo quest'ultimo condizionare l'obbligo di sorveglianza da parte del medico e del personale sanitario, basato sulla stessa diagnosi dei sanitari, sulle precise prescrizioni affidate al personale infermieristico (Cass. n. 11038/1997).

In ogni caso, si riconosce che la responsabilità vicaria dell'Usl per il danno cagionato da soggetto infermo di mente, non interdetto né sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, presuppone l'accertamento — da parte del giudice di merito — dello stato di incapacità di intendere e di volere al momento del fatto (Cass. n. 2483/1997; Trib. Monza 4 luglio 1996).

A carico del personale di un centro di assistenza per lo svolgimento di attività di terapia occupazionale sussiste l'obbligo di sorvegliare l'assistito in modo adeguato alle sue condizioni, al fine di prevenire che questi possa causare danni a terzi o subirne; la prova liberatoria dell'impossibilità oggettiva non imputabile, richiesta dall'art. 1218 c.c., non può essere fornita deducendo l'asserita eccezionalità di quelle ipotesi di rischio alle quali si intende provvedere proprio attraverso la prestazione contrattuale (Cass. n. 9714/2020, in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ravvisato la responsabilità delle operatrici socio-assistenziali della struttura per il decesso di un soggetto adulto, affetto da oligofrenia di grado elevato, rimasto vittima di soffocamento da ingestione di cibo mentre era affidato al centro).

La stessa Corte di Cassazione ha evidenziato che a carico della struttura di accoglienza facente parte del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, cd. SPRAR, sussiste l'obbligo di sorvegliare il rifugiato ospite al fine di prevenire che questi possa causare danni a terzi o subirne; rispetto a tale obbligo assumono rilievo le condizioni di vulnerabilità del rifugiato e la conoscenza delle stesse da parte dell'ente, trovando il predetto obbligo un limite nella doverosità e esigibilità in concreto della condotta richiesta al sorvegliante, ancorché sia esigibile, da detta struttura, un obbligo di vigilanza che impone di sottoporre il rifugiato a particolare attenzione - ad esempio, con l'inserimento in un percorso di recupero, con l'erogazione di un supporto psicologico e con la eventuale segnalazione all'autorità di pubblica sicurezza ed al servizio sanitario nazionale perché gli fornisca la necessaria assistenza terapeutica - ma non un più pregnante dovere di impedire l'evento lesivo (Cass. n. 14260/2020, nella specie, la Corte ha escluso la violazione dell'obbligo di sorveglianza in capo ad una comunità alloggio per i danni a terzi conseguenti al tentativo di suicidio di un rifugiato-ospite, sul presupposto che essa, seppure a conoscenza dello stato di incapacità del danneggiante, non era una struttura terapeutica di ricovero, non poteva imporre alcuna terapia farmacologica né limitare la libertà personale e non era obbligata a dotare l'edificio di presidi specifici, quali lo sbarramento delle finestre al fine di prevenire il suicidio per precipitazione, avendo una funzione prevalentemente residenziale e non reclusiva).

Danni autoprodotti dall'incapace

Alla ipotesi di danni autoprodotti dal soggetto incapace non si attaglia la disciplina dettata dall'art. 2047.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, la norma, che pone una presunzione di responsabilità a carico del sorvegliante per i danni cagionati dal soggetto sottoposto alla sorveglianza, suscettiva di essere superata soltanto dalla prova «di non aver potuto impedire il fatto», non è infatti applicabile nel caso di danni che l'incapace abbia causato a se stesso, atteso che la detta presunzione è stabilita nei confronti di coloro che sono tenuti alla sorveglianza degli incapaci, i quali cagionino danni, e non trova pertanto applicazione nell'ipotesi inversa di incapaci i quali siano i soggetti passivi dell'evento di danno (Cass. n. 67/2012).

Ma va ancora precisato che, nel caso di danno arrecato dall'incapace a se stesso, la responsabilità del sorvegliante e della struttura nella quale l'incapace è ammesso va ricondotta non già nell'ambito della responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell'art. 2043, bensì nell'ambito della responsabilità contrattuale, ai sensi dell'art. 1218.

Ed infatti, per quanto concerne l'istituto di accoglienza, l'accettazione della domanda di iscrizione e la conseguente ammissione del soggetto incapace determinano l'instaurazione di un vincolo negoziale, in virtù del quale, nell'ambito delle obbligazioni assunte dall'istituto, deve ritenersi sicuramente inclusa quella di predisporre, in termini, di strutture, di organizzazione e di personale, quanto occorra per vigilare adeguatamente anche sulla sicurezza e l'incolumità dei piccoli nel tempo in cui fruiscono della prestazione del servizio, anche al fine di evitare che i bambini procurino danno a se stessi.

Quanto al personale della struttura addetto alla cura ed alla vigilanza dei bambini, osta alla configurabilità di una responsabilità extracontrattuale il rilievo che tra vigilante e bambino si instaura pur sempre, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell'ambito del quale il vigilante assume, nel quadro delle obbligazioni di cura ed assistenza proprie del servizio di asilo-nido, anche uno specifico obbligo di protezione e di vigilanza.

Circa l'onere probatorio, da tale inquadramento consegue che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione sofferto da soggetto incapace, non trovano applicazione i principi vigenti in tema di responsabilità extracontrattuale, secondo cui è onere del danneggiato fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito di cui all'art. 2043, ma il diverso regime probatorio desumibile dall'art. 1218. 

L'attore deve quindi provare soltanto che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre è onere del convenuto dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa a loro non imputabile (Cass. S.U., n. 9346/2002).

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