Codice Civile art. 2052 - Danno cagionato da animali.Danno cagionato da animali. [I]. Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni [2056 ss.] cagionati dall'animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito [672 c.p.], salvo che provi il caso fortuito [1218, 1256 1]. InquadramentoL'esegesi letterale dell'art. 2052 pare chiara nell'individuare una responsabilità alternativa (non concorrente) tra il proprietario (o i proprietari in via tra loro solidale in caso di comproprietà) e colui che si “serve” dell'animale (si noti: tutti i tipi di animale purché domestici o comunque non selvatici) per il tempo in cui “lo ha in uso”. Perché quindi vi sia il trasferimento della res anche solo di fatto, della facoltà di far uso dell'animale, in favore del secondo. Natura giuridicaI giudici di legittimità hanno ripetutamente sottolineato come sia estraneo alla natura della responsabilità in questione qualsiasi fondamento soggettivo (Cass. n. 2333/1964, ha precisato si è in presenza di una fattispecie di responsabilità a prevalente, se non integrale, carattere obiettivo, e giustificata, com'è noto, più che da colpa o negligenza in vigilando, dalla esigenza sociale di far sopportare i danni procurati dagli animali a chi da questi trae vantaggio: id est cuius commoda eius et incommoda; Cass. n. 13016/1992, ha sostenuto con chiarezza che la responsabilità indicata dall'art. 2052 per il danno provocato da animali è caratterizzata dal fatto che i soggetti indicati dalla norma rispondono per il solo nesso di causalità fra l'azione dell'animale e l'evento del quale è chiamato a rispondere il proprietario dell'animale, oppure il soggetto che l'abbia utilizzato). Invero, del danno cagionato da animale risponde ex art. 2052 il proprietario o chi ne ha l'uso, per responsabilità oggettiva e non per condotta colposa (anche solo omissiva), sulla base del mero rapporto intercorrente con l'animale nonché del nesso causale tra il comportamento di quest'ultimo e l'evento dannoso, che il caso fortuito, quale fattore esterno generatore del danno concretamente verificatosi, può interrompere, sicché, mentre grava sull'attore l'onere di provare l'esistenza del rapporto eziologico tra l'animale e l'evento lesivo, la prova del fortuito è a carico del convenuto (Cass. n. 12808/2015; Cass. n. 17091/2014; Cass. n. 979/2010, ad avviso della quale la responsabilità del proprietario dell'animale, ex art. 2052, si fonda, non su un comportamento del proprietario, ma su una relazione intercorrente tra questi e l'animale, per cui solo lo stato di fatto e non l'obbligo di vigilanza o di controllo può assumere rilievo. Correlativamente la prova liberatoria ha per oggetto un fattore (il caso fortuito) che attiene non a un comportamento del responsabile, ma al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all'esterno, anziché all'animale che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi). Nella norma, infatti, la responsabilità non si instaura tra una azione umana ed un evento dannoso, ma tra l'azione dell'animale e l'evento del quale è chiamato a rispondere il proprietario e l'utilizzatore, indipendentemente da ulteriori indagini che possano essere fatte sulla diligenza, prudenza o perizia di questi soggetti. il proprietario di un animale risponde ai sensi dell'art. 2052 sulla base non già di un proprio comportamento o di una propria attività, ma sulla base della mera relazione (di proprietà o di uso) intercorrente fra lui e l'animale, nonché del nesso di causalità sussistente fra il comportamento di quest'ultimo e l'evento dannoso (Cass. n. 1210/2006; Trib. Nola 22 gennaio 2009, in tema di danni provocati da animali, l'art. 2052 prevede che siano soltanto il proprietario o l'utilizzatore dell'animale a dover rispondere, peraltro in termini oggettivi, dei pregiudizi che derivino causalmente da una condotta del medesimo: e ciò, sulla base non già di un proprio comportamento o di una propria attività, ma di una mera relazione fattuale (di proprietà o di uso) intercorrente con l'animale). In questo senso il criterio di imputazione della responsabilità non è la colpa (in vigilando o in custodiendo), ma il mero fatto di essere proprietario o «servirsi» dell'animale, responsabilità che ammette l'unica prova liberatoria del concorso di una causa estranea determinante il verificarsi dell'evento lesivo. La diligenza del legittimato passivo, secondo il carattere oggettivo dell'imputazione, non ha alcuna rilevanza ai fini dell'esonero della responsabilità (Cass. n. 75/1983, ha così ribadito che la presunzione di responsabilità per danno cagionato da animali può essere superata solo qualora il proprietario o colui che si serve dell'animale provi il caso fortuito; pertanto non può attribuirsi efficacia liberatoria alla semplice prova dell'uso della normale diligenza nella custodia dell'animale stesso o della mansuetudine di questo). In giurisprudenza non sono mancate sentenze, per le quali la responsabilità del proprietario o dell'utente dell'animale per i danni da questo causati è riconducibile alle ipotesi di responsabilità presunta e non a quelle di colpa presunta e trova un limite solo nel caso fortuito, ossia l'intervento di un fattore esterno nella determinazione del danno, che può consistere anche nel fatto del terzo o nella colpa del danneggiato, ma che necessariamente presenti i caratteri dell'inevitabilità, imprevedibilità ed assoluta eccezionalità (Cass. n. 25223/2015, nella specie, è stata esclusa la responsabilità del circolo ippico per i danni provocati da un calcio al volto sferrato dal cavallo a una cavallerizza esperta che si era introdotta nell'area recintata). Il rapporto di utenzaIl confine tra “utilizzatore responsabile” ed “utilizzatore non responsabile” é sottile e variegata è la casistica giurisprudenziale sul punto. È stata esclusa la responsabilità di chi utilizzi l'animale per svolgere mansioni inerenti la propria attività lavorativa, che gli siano state affidate dal proprietario dell'animale alle cui dipendenze egli presti tale attività (Cass. n. 10189/2010). In altri casi è stata invece esclusa la responsabilità del proprietario seppure il terzo utilizzatore stesse eseguendo la prestazione lavorativa commissionatagli. Il discrimen, in questi casi, è dato dalla autonomia della gestione dell'animale correlata al perseguimento di un profitto specifico da parte del terzo. Se il proprietario mantiene un effettivo potere di governo sullo stesso, e quindi di utilizzo sia pure tramite un terzo, resterà responsabile dei danni. Successivamente, per fare un esempio, la Cassazione ha respinto la richiesta di risarcimento danni avanzata da un soggetto, nella fattispecie il trasportatore (quindi utilizzatore) di un toro dal centro di allevamento al sito di macellazione, nei confronti della società cooperativa proprietaria dell'animale che, nel mentre delle operazioni di trasporto, aveva provocato danni fisici al trasportatore medesimo. Ciò sul presupposto per cui il danno si era verificato allorquando la cooperativa non aveva alcun potere di governo e controllo dell'animale che, al contrario, era gestito direttamente dal danneggiato trasportatore, cui lo stesso era stato affidato, in modo indipendente ed in funzione del perseguimento di un interesse proprio (l'adempimento della prestazione per trarne il relativo compenso), del tutto distinto rispetto a quello della proprietaria (Cass. n. 22632/2012). La prova liberatoriaLa responsabilità del proprietario dell'animale per i danni da questo causati è da tempo inquadrata tra le ipotesi di responsabilità presunta, non tra quelle di colpa presunta. Si tratta di un orientamento millenario, risalente all'istituto dell'actio de pauperie contemplata dal diritto romano classico. Secondo questo orientamento, la presunzione di responsabilità per danno causato da animali può essere superata esclusivamente qualora il proprietario o colui che si serve dell'animale provi il caso fortuito, inteso quale fattore concreto del tutto estraneo alla sua condotta (Cass. n. 10402/2016; Cass. n. 8042/2016 che ha escluso la responsabilità del proprietario in considerazione della condotta imprudente della danneggiata). Da ciò si è tratta la conseguenza che non può attribuirsi efficacia liberatoria alla semplice prova dell'uso della normale diligenza nella custodia dell'animale stesso o della mansuetudine di questo, essendo, e che è irrilevante che il danno sia stato causato da impulsi interni imprevedibili o inevitabili della bestia (Cass. n. 75/1983; Cass. n. 778/1979). L'animale, infatti, sensu caret: e l'imprevedibilità dei suoi comportamenti non può per ciò costituire un caso fortuito, costituendo anzi una caratteristica ontologica di ogni essere privo di raziocinio. Gli elementi necessari e sufficienti dell'illecito previsto dall'art. 2052 sono il rapporto di utenza (Cass. n. 12392/2016) e il nesso di causalità tra fatto dell'animale ed evento dannoso. La loro sussistenza deve essere provata dal danneggiato, in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697; il proprietario o «chi si serve» dell'animale può tuttavia liberarsi provando il caso fortuito. La fattispecie regolata dall'art. 2052 non configura infatti un'ipotesi di responsabilità assoluta da fatto illecito, ma prevede semplicemente un'imputazione oggettiva della responsabilità in capo al proprietario o all'utente sulla base del solo nesso di causalità. Così non era secondo le disposizioni del codice previgente. Stando infatti alla lettera dell'art. 1154 del codice del 1865, il proprietario o il custode rispondevano in ogni caso dei danni cagionati dall'animale, senza che fosse prevista alcuna prova liberatoria. La giurisprudenza aveva tuttavia costantemente ritenuto ammissibile la prova del caso fortuito inteso in senso ampio, come comprensivo cioè della forza maggiore, del fatto del terzo o dello stesso danneggiato; aveva peraltro negato che la responsabilità per danno da animale concretasse un'ipotesi di responsabilità senza colpa. Il riferimento al fortuito quale prova liberatoria, ora invece espressamente contenuto nell'art. 2052, ha indotto vari interpreti ad escludere che il fondamento della responsabilità da animali stia nel solo nesso eziologico tra fatto e danno, sostenendo invece che la ratio della norma sia quella di sancire una responsabilità del proprietario o dell'utente per culpa in custodiendo (Trib. Foggia, 26 aprile 1963, ha osservato che il caso fortuito è previsto come causa di esclusione della responsabilità per riaffermare il principio che non trattasi di responsabilità obiettiva, ma di responsabilità per colpa presunta in modo assoluto, senza possibilità di prova contraria). Per caso fortuito è da intendersi ogni circostanza estranea al proprietario (o all'utente) che si ponga come causa autonoma dell'evento dannoso, non imputabile al responsabile presunto e da lui non evitabile (Cass. n. 3674/1975); non è di conseguenza sufficiente la prova di avere usato la comune diligenza nella custodia dell'animale (Cass. n. 2717/1983). Non integra gli estremi del caso fortuito, pertanto, la condotta impulsiva o anomala dell'animale seppur mai manifestata in precedenza. Ad esempio, il cane, di regola mansueto, docile ed ubbidiente che per la prima volta si liberi dalla catena non esime da responsabilità (Cass. n. 2615/1970). In tema di responsabilità per danni derivanti dall'urto tra un autoveicolo ed un animale, la presunzione di responsabilità oggettiva a carico del proprietario o dell'utilizzatore di quest'ultimo concorre con la presunzione di colpa a carico del conducente del veicolo, ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c., che ha portata generale, applicabile a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione, sicché, ove il danneggiato sia il conducente e non sia possibile accertare la sussistenza e la misura del rispettivo concorso - sì che nessuno supera la presunzione di responsabilità a suo carico dimostrando, quanto al conducente, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno e, quanto al proprietario dell'animale, il caso fortuito - il risarcimento va corrispondentemente diminuito per effetto non dell'art. 1227, comma 1, c.c., non occorrendo accertare in concreto il concorso causale del danneggiato, ma della presunzione di pari responsabilità di cui agli artt. 2052 e 2054 c.c. (Cass. 16550/2022). Di recente si affermato che in materia di danni da fauna selvatica, a norma dell'articolo 2052 c.c., grava sul danneggiato l'onere di dimostrare il nesso eziologico tra il comportamento dell'animale e l'evento lesivo, mentre spetta alla Regione fornire la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che la condotta dell'animale si è posta del tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile neanche mediante l'adozione delle più adeguate e diligenti misure concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto e compatibili con la funzione di protezione dell'ambiente e dell'ecosistema di gestione e controllo del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi (Cass. n. 25868/2023). Danni provocati dall'animale da affezione abbandonato (c.d. randagio)Il fenomeno del randagismo trova la propria disciplina nella l. n. 281/1991 che impone alle Regioni di emanare leggi che individuino e distribuiscano in capo ai Comuni e/o alle Asl il compito di assumere i provvedimenti idonei a vigilare il territorio, catturare, custodire e mantenere gli animali randagi e così impedire che essi arrechino disturbo, molestia ed ancor più danni fisici ai cittadini, cui deve essere garantito il diritto, tutelato anche a livello costituzionale, della libera e sicura circolazione sul territorio pubblico. A seconda della normativa regionale che verrà alla luce nel caso di specie, quindi, risponderà del danno la ASl di riferimento o, solidalmente, il Comune. Esposta la cornice legislativa di riferimento occorre altresì notare come la tutela giuridica e quindi la possibilità di ottenere il risarcimento del danno patito sia in questi casi certamente più gravosa per il danneggiato. Ciò perché non si applica l'art. 2052, invero applicabile solo a condotte di animali domestici o comunque non selvatici (Corte cost. n. 4/2001) posto che l'Ente pubblico non è qualificato dalla legge come custode dell'animale, bensì la clausola generale di cui all'art. 2043. Ciò significa che occorrerà dar prova, in giudizio, non solo dell'evento lesivo e del nesso di causa tra il danno e l'azione dell'animale ma anche dei profili, specifici e concreti, di colpa ascrivibili in capo all'Ente pubblico. Così, l'esistenza di una pluralità di segnalazioni al Comune della presenza di branchi di randagi nell'area cittadina può comprovare la negligenza del Comune stesso, allorquando non siano state dallo stesso adottate le misure necessarie ad evitare pregiudizi ai cittadini (morsi o anche solo latrati aggressivi fonti di cadute a terra: Cass. III, n. 10190/2010). 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