Codice Civile art. 2056 - Valutazione dei danni.

Francesco Agnino

Valutazione dei danni.

[I]. Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227.

[II]. Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso [113 c.p.c.].

Inquadramento

L'art. 2056, disciplinante la valutazione dei danni in ambito extracontrattuale, richiama al comma 1 le disposizioni degli artt. 1223,1226 e 1227 c.c., relativi rispettivamente alla configurazione del risarcimento del danno emergente (cioè le perdite economiche che il soggetto subisce) e del lucro cessante (che indica il mancato guadagno) in quanto conseguenza immediata e diretta, alla valutazione equitativa del giudice in mancanza della possibilità di provare il danno nel suo esatto ammontare, alla proporzionale diminuzione del risarcimento dovuto per concorso colposo del creditore nonché, infine, all'esclusione del diritto al risarcimento per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza.

La portata degli articoli 1223 e 1227 c.c. nell'ambito della responsabilità aquiliana

Gli artt. 1223 e 1227 sono disposizioni destinate ad incidere entro l'area del danno “diretto ed immediato” al fine di circoscrivere le conseguenze di cui l'autore dell'evento dannoso non è tenuto a rispondere.

Infatti, la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, proposta dal danneggiato nei confronti del soggetto responsabile, comprende necessariamente tutte le voci che compongono il danno ed in particolare il lucro cessante, pur se non contiene alcuna precisazione in tal senso, in quanto la domanda stessa, per la sua onnicomprensività, esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno (Cass. n. 2869/2003; Cass. n. 12284/2016 per la quale "l'obbligo di risarcimento del danno da fatto illecito contrattuale o extracontrattuale ha per oggetto l'integrale reintegrazione del patrimonio del danneggiato, sicché in caso di distruzione e danneggiamento di alcuni alberi di ulivo a causa di un incendio va riconosciuto non solo il danno (lucro cessante) per la perdita del reddito prodotto dagli ulivi, protratta per la loro prevedibile vita residua, ma anche quello (danno emergente) per la perdita degli stessi alberi e consistente nel valore in sé dei beni").

La questione cui preme assegnare una risposta è se l'art 1223 sia disposizione destinata a disciplinare in linea generale il rapporto tra comportamento ed evento, e quindi l'imputazione causale del fatto illecito al suo autore (in sostanza ad individuare il responsabile); o se piuttosto non si tratti di un criterio normativo di quantificazione del danno risarcibile, relativo al nesso fra evento dannoso e conseguenze ulteriori; di un criterio, cioè, rivolto a scriminare le conseguenze pregiudizievoli di un fatto lesivo addossabili al soggetto (già individuato, in base ad altre norme, come) responsabile da quelle ritenute irrisarcibili per valutazioni di opportunità pratica.

La seconda opzione si giustifica e si impone in primo luogo alla luce della ricostruzione delle origini storiche della disposizione. La matrice dell'art. 1223 è stata inizialmente elaborata in ambito contrattuale, laddove l'avvenimento produttivo di danno (inadempimento imputabile al debitore) è dato per presupposto, e non si pongono problemi di accertamento della responsabilità, ma si tratta esclusivamente di limitarne la misura, circoscrivendola ad alcune soltanto fra le conseguenze pregiudizievoli materialmente connesse all'inadempimento. Solo mediante il rinvio contenuto nell'art. 2056 l'operatività del principio per cui il risarcimento va limitato al solo danno qualificabile come “conseguenza immediata e diretta” è stata stesa alla materia extracontrattuale. Ma i criteri finalizzati all'individuazione del piano della imputazione del danno e della sua rilevazione quantitativa non sono contenuti nell'art. 1223 ma rimangono distinti, in quanto disciplinati da norme differenti. Più precisamente, si tratterà dell'art. 1218 e dell'art. 1227, comma 1, per quanto concerne l'inadempimento delle obbligazioni; degli artt. 40, 41, 45 c.p., degli artt. 2043 ss. e nuovamente dell'art. 1227, comma 1, per quanto attiene all'illecito extracontrattuale.

Diverso (anche se sovente, in materia extracontrattuale, inevitabilmente intrecciato con questo) è invece il problema della determinazione della misura dell'obbligazione risarcitoria.

L'art. 1223 attiene alla determinazione del quantum di risarcimento dovuto, in base alla tecnica di selezione fondata sul criterio legislativo di “consequenzialità immediata e diretta”. In pratica, mediante tale disposizione il legislatore ha inteso risolvere, piuttosto che un problema di imputazione causale del danno, o di individuazione della catena eziologica giuridicamente rilevante, un problema di limitazione del risarcimento. Quest'ultimo andrà sempre e comunque circoscritto alle sole conseguenze normativamente qualificate come “immediate e dirette”.

La irrisarcibilità dei danni evitabili dal creditore — danneggiato trova il suo diretto referente normativo nella previsione generale dell'art. 1227, intitolato al “concorso del fatto colposo del creditore”, e applicabile, in virtù del rinvio operato dall'art. 2056, anche alla responsabilità aquiliana.

Il capoverso dell'art. 1227 esclude la risarcibilità di quei danni che, pur potendosi definire conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento o dell'illecito aquiliano ai sensi dell'art. 1223, il creditore danneggiato avrebbe potuto evitare mediante l'uso dell'ordinaria diligenza.

Va constatato come la ratio e il fondamento logico dei due commi in cui si articola l'art. 1227 sono del tutto autonomi e differenti.

Il comma 1 è senz'altro riconducibile alle regole in materia di causalità, dato che riguarda la particolare ipotesi in cui il fatto del creditore-danneggiato abbia concorso sotto il profilo eziologico a produrre l'evento dannoso, vale a dire l'inadempimento dell'obbligazione, oppure la lesione di un interesse protetto che integra la fattispecie di illecito civile. In tal caso, si prospetta una ripartizione di responsabilità fra l'autore del fatto produttivo di danno ed il danneggiato, in applicazione di un criterio analogo a quello contemplato dall'art. 2055, in relazione al concorso di soggetti nella produzione dell'illecito. Solo che qui il criterio di ripartizione fondato sulla gravità delle rispettive colpe e delle conseguenze derivate gioca nel senso di impedire che il danneggiato possa ripetere quella porzione di danno che egli stesso si è cagionato e che pertanto non rappresenta un danno ingiusto.

Nell'ipotesi contemplata dal comma 2 dell'art. 1227, si presuppone invece che l'evento dannoso (inadempimento, illecito aquiliano) si sia già prodotto e sia addebitabile per intero, sotto il profilo causale, al debitore-danneggiante.

I danni risarcibili

L'art. 2056 non contiene alcun rifermento al criterio della prevedibilità del danno di cui all'art. 1225, secondo il quale il risarcimento è limitato ai danni prevedibili nel tempo in cui è sorta l'obbligazione ove l'inadempimento o il ritardo non dipendono dal dolo del debitore. Tale limitazione, che vale a consentire al debitore di valutare preventivamente i rischi connessi a tutte le vicende, anche patologiche dell'impegno contrattuale che assume, non avrebbe senso nell'ambito della responsabilità aquiliana.

Ciò spiega il disposto dell'art. 2056, il quale, mentre rinvia per la quantificazione del danno risarcibile ex art. 2043, alle regole poste in tema di responsabilità da inadempimento, omette di richiamare giusto l'art. 1225.

Si tratta di una tecnica di selezione il cui scopo fondamentale va ravvisato nella esigenza di proporzionare il sacrificio economico del debitore entro i limiti del rischio specifico di danno volontariamente assunto con il rapporto contrattuale e con la relazione particolare che a questo accede, ancorando il risarcimento al normale (preventivabile) valore di utilizzo che la prestazione inadempiuta riveste per il creditore.

In buona sostanza, “prevedibile” può definirsi quel danno che realizza la lesione dell'interesse base sia con riguardo alla comune esperienza, sia in relazione alle concrete e specifiche circostanze del caso note o riconoscibili con l'ordinaria diligenza alla parte inadempiente.

Sicché la limitazione ai danni prevedibili fissata dalla norma appena richiamata, non si applica all'illecito extracontrattuale; con riguardo a quest'ultimo la valutazione del danno risente piuttosto dell'esatta configurazione del criterio di causalità tra l'atto e l'evento dannoso (Cass. n. 11609/2005).

La regola di risarcibilità dei soli danni prevedibili in caso di inadempimento, non dipendente da dolo del debitore, appare motivata, all'interno dell'art. 1225, dal collegamento dell'obbligo risarcitorio con l'obbligo primario.

La norma espressamente fissa la prevedibilità del danno al “tempo in cui è sorta l'obbligazione” con evidente riferimento all'obbligazione originaria rimasta inadempiuta.

L'art. 1225 non è richiamato, come già sopra detto, dall'art. 2056, norma di collegamento tra le due aree di responsabilità, e non a caso: nella responsabilità aquiliana il riferimento temporale ad un obbligo primario non avrebbe alcun senso.

Prova del danno

Quanto alla prova del danno, l'art. 1223 non pone particolari problematiche, ove si consideri la necessità (e la sufficienza) di dimostrare che il lucro cessante e/o il danno emergente, subiti dal danneggiato, configurano conseguenza immediata e diretta del fatto illecito: in materia di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, ai sensi degli artt. 1223 e 2056, il danno da lucro cessante può essere risarcito solo ove annoverabile, sotto il profilo giuridico, conseguenza diretta e immediata di una data condotta illecita secondo un criterio di cd. causalità giuridica che possa indurre a considerare il danno come conseguenza «normale», in base all'id quod plaerumque accidit dell'evento (Trib. Isernia 4 gennaio 2010).

Parimenti, non di difficile interpretazione appare la lettera dell'art. 1227, teso a disciplinare il concorso di colpa del danneggiato nelle sue due, diverse, ipotesi: l'una, in cui il fatto colposo del danneggiato abbia concorso al verificarsi del danno (comma 1): ai fini della riduzione del risarcimento del danno in caso di accertato concorso colposo tra danneggiante e danneggiato in materia di responsabilità extracontrattuale, occorre — ai sensi dell'art. 1227, comma 1, — fare riferimento sia alla gravità della colpa che all'entità delle conseguenze che ne sono derivate. In particolare, la gravità della colpa deve essere rapportata alla misura della diligenza violata e, solo se non sia possibile provare le diverse entità degli apporti causali tra danneggiante e danneggiato nella realizzazione dell'evento dannoso, il giudice può avvalersi del principio generale di cui all'art. 2055, comma ult., ossia della presunzione di pari concorso di colpa, rimanendo esclusa la possibilità di far ricorso al criterio equitativo (previsto dall'art. 1226 e richiamato dall'art. 2056). il quale può essere adottato solo in sede di liquidazione del danno ma non per la determinazione delle singole colpe (Cass. n. 1002/2010), l'altra, in cui il comportamento del medesimo ne abbia prodotto soltanto un aggravamento senza contribuire alla sua causazione (comma 2): secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, come in altre occasioni ribadito anche da questo Tribunale, l'art. 2051 nello stabilire che ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito, richiede, per la sua applicabilità al caso concreto che il danno sia provocato dalla cosa, e cioè che si sia verificato nell'ambito del dinamismo connaturato alla cosa o per l'insorgenza in questa di un processo dannoso ancorché provocato da elementi esterni, e che sussista un effettivo potere fisico di un soggetto sulla cosa accompagnato dal dovere di «vigilare» la cosa stessa. È inoltre pacifico che, sia che si ravvisi nella fattispecie delineata dall'art. 2051 una responsabilità per colpa presunta del soggetto che ha in custodia la cosa (secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale), sia che si voglia inquadrare la fattispecie in discorso nell'ambito della responsabilità oggettiva, al danneggiato che agisca per il ristoro dei danni subiti invocando la responsabilità del custode, spetta, in ogni modo e per certo, di provare resistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l'evento lesivo. Se dunque l'art. 2051 non richiede necessariamente che la cosa sia suscettibile di produrre danni per sua natura e tanto meno che essa sia pericolosa, peraltro, la predetta norma, non prevede un esonero per il danneggiato dall'onere di dimostrare la esistenza di un efficace nesso causale tra la res e l'evento, pur esaurendosi, tale attività probatoria, nella dimostrazione che l'evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione potenzialmente lesiva, originariamente posseduta o successivamente assunta dalla cosa considerata nella sua globalità. Occorre poi che la cosa, pur nella combinazione con l'elemento esterno, costituisca essa la causa o la concausa del danno, sotto il profilo dinamico, per cui va esclusa la responsabilità del custode nel caso in cui il fatto esterno, non imputabile al custode, sia stato da solo sufficiente a causare il danno e la cosa sia solo il mezzo o l'occasione per la produzione del danno. Nel caso in cui il danneggiato sia inciampato in avvallamenti presenti sulla rampa di accesso ad un garage e cadendo abbia riportato lesioni riconducibili all'evento, deve ritenersi che la presenza degli avvallamenti non appare costituire un fatto eccezionale perché, come risultato dall'istruttoria, dell'effettivo stato dei luoghi e della presenza degli avvallamenti, il danneggiato era pienamente a conoscenza per essere cliente abituale dell'autorimessa. Se il danneggiato avesse pertanto prestato maggiore attenzione, avrebbe potuto avvistare l'avvallamento ed utilizzare la dovuta prudenza nell'evitarlo o nel passarlo, con la conseguenza che tale comportamento colposo, se non è di per sé stesso idoneo a determinare da solo il danno dallo stesso subito, né tantomeno integra il fortuito non liberando perciò il custode dalla responsabilità ex art. 2051, ciò nondimeno rileva ai sensi del comma 1 dell'art. 1227, con la conseguenza che tale condotta disattenta ha concorso nell'aggravamento delle conseguenze dannose, rilevante exart. 1227 richiamato dall'art. 2056, nella misura del 50% (Trib. Milano 28 febbraio 2006).

In materia di espropriazione per pubblica utilità, qualora venga accolta la domanda giudiziale di retrocessione proposta dal privato espropriato, con determinazione del relativo prezzo, l'effetto reale del trasferimento della proprietà si determina  ex nunc  nel momento del passaggio in giudicato della sentenza che accoglie tale domanda e a prescindere dal pagamento del relativo prezzo. Ne consegue che, ove il privato espropriato sia rimasto nel possesso del bene durante lo svolgimento della procedura di espropriazione e del successivo giudizio di retrocessione, il mancato pagamento, da parte sua, del prezzo stabilito in sentenza costituisce inadempimento, ma non impedisce il venire meno del carattere abusivo di tale occupazione ai fini del risarcimento del danno spettante alla Pubblica Amministrazione (Cass. n. 9304/2023).

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale subìto dalle persone giuridiche, il pregiudizio arrecato ai diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all'immagine e alla reputazione commerciale, non costituendo un mero danno-evento, e cioè in re ipsa, deve essere oggetto di allegazione e di prova, anche tramite presunzioni semplici (Cass. n. 19551/2023, in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che – pur ritenendo lesive dell'immagine della società attrice le numerose mails inviate da un dipendente licenziato ad interlocutori istituzionali, lamentando l'adozione di comportamenti non etici da parte dell'ente datoriale – aveva rigettato la domanda risarcitoria, difettando l'allegazione del danno conseguenza, anche con il ricorso a presunzioni semplici, per mancanza di elementi dai quali ricavare che gli interlocutori istituzionali della società avessero avuto effettiva contezza delle recriminazioni dell'ex dipendente, con conseguente pregiudizio per l'immagine societaria, quali affari o relazioni commerciali non conclusi in conseguenza della condotta diffamatoria realizzata).

La liquidazione equitativa

Quanto all'art. 1226 (valutazione equitativa del danno non quantificabile nel suo preciso ammontare), esso rappresenta il fulcro della quantificazione del danno non patrimoniale (privo, ovviamente e per definizione, delle caratteristiche della patrimonialità e danno da ritenersi non suscettibile d'esser provato nel suo preciso ammontare): la liquidazione equitativa del danno biologico può essere legittimamente effettuata dal giudice sulla base di criteri standardizzati e predeterminati, assumendosi come parametro il valore medio per punto, calcolato sulla media dei precedenti in virtù delle cosiddette «tabelle» presso l'ufficio giudiziario, purché il risultato, in tal modo raggiunto, venga poi «personalizzato», tenendo; conto della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno (Cass. n. 9921/2010).

Le regole che sovraintendono alla liquidazione equitativa de qua possono indicarsi nella non suscettibilità di sindacato, in sede di legittimità, della quantificazione operata, se sorretta da motivazioni immuni da vizi logici o errori di diritto, l'esercizio in concreto del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno, in via equitativa, nonché l'accertamento del relativo presupposto, costituito dall'impossibilità o dalla rilevante difficoltà di precisare il danno nel suo esatto ammontare, non sono suscettibili di sindacato in sede di legittimità quando la relativa decisione sia sorretta da motivazioni immuni da vizi logici o errori di diritto (Cass. n. 1261/2010); nel grado di approssimazione ontologicamente ad essa collegato: la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria; carenze che non sono state denunciate con modo specifico dal ricorso e che non sono comunque rilevabili nella motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 12318/2010).

Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato (Cass. S.U., n. 33645/2022).

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