Codice Civile art. 2058 - Risarcimento in forma specifica.

Francesco Agnino

Risarcimento in forma specifica.

[I]. Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica qualora sia in tutto o in parte possibile [184 3] (1).

[II]. Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore [194 trans.].

(1) V. art. 311 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152.

Inquadramento

La reintegrazione del danno in forma specifica si risolve nell'obbligazione del responsabile di ricostituire la situazione di fatto antecedente alla procurata lesione, consentendo all'attore pregiudicato di attuare l'interesse vantato senza doversi accontentare del mero equivalente pecuniario.

Pertanto, il risarcimento del danno per equivalente costituisce una reintegrazione del patrimonio del creditore che si realizza mediante l'attribuzione, al creditore, di una somma di danaro pari al valore della cosa o del servizio oggetto della prestazione non adempiuta e quindi si atteggia come la forma, per così dire, tipica di ristoro del pregiudizio subito dal creditore per effetto dell'inadempimento dell'obbligazione da parte del debitore, mentre il risarcimento in forma specifica, essendo diretto al conseguimento dell'eadem res dovuta, tende a realizzare una forma più ampia e, di regola, più onerosa per il debitore, di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato, dato che l'oggetto della pretesa azionata non è costituito da una somma di danaro, ma dal conseguimento, da parte del creditore danneggiato, di una prestazione del tutto analoga, nella sua specificità ed integrità, a quella cui il debitore era tenuto in base al vincolo contrattuale.

Natura del risarcimento in forma specifica

La parte preponderante dei contributi dottrinali cerca di trarre risposte dall'analisi dei rapporti tra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente, ma denota ancor oggi (per il numero ed i contenuti) come le originarie tensioni interpretative non possano considerarsi pacificate o, altrimenti, composte.

Le soluzioni suggerite rimangono, infatti, divergenti.

Vi è chi, animato da propositi di organicità, si sforza di ricondurre ad «unità» i due rimedi. In tale prospettiva sono state elaborate due diverse ipotesi ricostruttive: o si fa appello alla categoria generale della «riparazione del danno», comprensiva sia del risarcimento per equivalente, sia del risarcimento in forma specifica, cui viene attribuita funzione alternativa rispetto al primo (Giordano, 800); o si postula l'unicità dell'obbligazione risarcitoria, per poi configurare le due forme di risarcimento come mere modalità alternative di attuazione dell'obbligazione medesima.

Altri intendono riconoscere uno statuto di autonomia ai rimedi, affermando che alla netta separazione esistente, sul piano sostanziale, tra illecito e danno, corrisponde inevitabilmente una altrettanto certa e precisa distinzione tra strumenti di tutela azionabili: l'illecito deve essere represso con il ricorso all'inibitoria; il danno deve essere riparato con il risarcimento (Mocciola, 367; Proto Pisani, 131).

L'adesione alla prima ricostruzione orienta l'indagine verso la comprensione della relazione tra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente.

La dottrina ha preteso scorgere tra gli stessi una vera e propria gerarchia, tale per cui l'uno è qualcosa di più, o di prioritario (sotto il profilo pratico, se non ideale), rispetto all'altro.

Si è giunti a definire la reintegrazione in forma specifica come parametro di valutazione del risarcimento del danno (anche nel caso in cui la liquidazione sia fatta per equivalente), tanto da considerare contraddittorio predicare il carattere di eccessiva onerosità alla reintegrazione (come ha fatto il legislatore, prevedendo la disciplina dell'art. 2058, comma 2), posto che il costo della medesima è la misura del danno (Castronovo, 481; Ferri, Danno extracontrattuale e valori di mercato, in Riv. dir. comm. 1994, 757).

Diversa opinione è stata sostenuta da quanti hanno voluto scorgere, nel meccanismo concreto previsto dall'art. 2058, la subordinazione della reintegrazione in forma specifica al risarcimento per equivalente (Salvi, La responsabilità civile, II, Perugia, 1989, 39).

Sul punto specifico (individuazione del rimedio «primario») alle articolate posizioni della dottrina corrisponde uno scenario giurisprudenziale che solo a livello declamatorio ostenta una maggiore sicurezza ed univocità di interpretazione. Passando, infatti, all'individuazione della regola operazionale applicata caso per caso, si constata quanto quella certezza sia solo apparentemente esibita. La massima della decisione può sì essere forgiata nel senso di attribuire al risarcimento per equivalente il rango di sostitutivo legale sussidiario della reintegrazione (Cass. n. 2874/1951; Cass. n. 1442/1958; Cass. n. 2897/1960), ma a condizione che la conclusione operativa prescelta dal giudicante sia nel senso di negare, nello specifico, proprio la (sia pur «primaria») reintegrazione.

Sul tema del deprezzamento di un'abitazione a causa del rumore del traffico, la società autostradale può essere condannata a indennizzare il privato che, pur essendo rimasto proprietario dell'immobile, ne ha subito il deprezzamento a causa di immissioni di rumori e/o sostanze dannose (Cass. n. 631/2025).

Limiti alla reintegrazione in forma specifica

L'art. 2058 prevede due limiti all'operatività, in concreto, della reintegrazione in forma specifica: l'impossibilità della reintegrazione e l'eccessiva onerosità della medesima.

Secondo logica non è dato parlare di impossibilità quando il bene pregiudicato sia fungibile e, quindi, perfettamente sostituibile con altro appartenente al medesimo genere ed alla medesima specie (Cass. n. 4958/1981).

Si parla di impossibilità giuridica quando la prestazione dovuta sia oggetto di uno specifico divieto normativo.

In caso di impossibilità parziale la parte non reintegrabile è risarcibile per equivalente.

Quanto al diverso limite dell'eccessiva onerosità della reintegrazione, la giurisprudenza ha chiarito come essa debba stimarsi non in relazione al valore del bene distrutto o danneggiato, bensì in relazione alle obiettive difficoltà incontrate dal debitore nell'esecuzione della prestazione (Cass. n. 2402/1998, secondo cui l'eccessiva onerosità ricorre allorché il sacrificio economico imposto al danneggiante in ordine al risarcimento in forma specifica superi in misura eccessiva, date le circostanze, il valore da corrispondersi in base al criterio per equivalente pecuniario). Secondo l'orientamento giurisprudenziale, l'accertamento deve, quindi, tener conto della proporzione tra danno, costo ed utilità.

Così si è affermato che, in caso di domanda di risarcimento del danno subito da un veicolo a seguito di incidente stradale, costituita dalla somma di denaro necessaria per effettuare la riparazione dei danni, in effetti si è proposta una domanda di risarcimento in forma specifica. Se detta somma supera notevolmente il valore di mercato dell'auto, da una parte essa risulta eccessivamente onerosa per il debitore danneggiante e dall'altra finisce per costituire una lucupletazione per il danneggiato. Ne consegue che in caso di notevole differenza tra il valore commerciale del veicolo incidentato ed il costo richiesto delle riparazioni necessarie, il giudice potrà, in luogo di quest'ultimo, condannare il danneggiante [ed in caso di azione diretta ex art. 18 l. n. 990/1969, l'assicuratore (v. ora art. 144 d.lgs. n. 209/2005)], al risarcimento del danno per equivalente, ari alla corresponsione di una somma pari alla differenza di valore del bene prima e dopo la lesione (Cass. n. 11662/2014; Cass. n. 21012/2010; Cass. n. 259/2013; Cass. n. 24718/2013).

Ad ogni modo, l'art. 2058, comma 2, che prevede appunto la possibilità di ordinare il risarcimento del danno per equivalente anziché la reintegrazione in forma specifica, in caso di eccessiva onerosità di quest'ultima, non trova applicazione nelle azioni intese a far valere un diritto reale la cui tutela esige la rimozione del fatto lesivo, come quella diretta ad ottenere la riduzione in pristino per violazione delle norme sulle distanze, atteso il carattere assoluto del diritto leso (Cass. n. 11744/2003; Cass. n. 2398/2009; Cass. n. 2359/2012).

La domanda di risarcimento del danno subìto da un veicolo a seguito di incidente stradale, quando abbia ad oggetto la somma necessaria per effettuare la riparazione dei danni, deve considerarsi come richiesta di risarcimento in forma specifica, con conseguente potere del giudice, ai sensi dell'art. 2058, comma 2, c.c. di non accoglierla e di condannare il danneggiante al risarcimento per equivalente, ossia alla corresponsione di una somma pari alla differenza di valore del bene prima e dopo la lesione, allorquando il costo delle riparazioni superi notevolmente il valore di mercato del veicolo (Cass. n. 10196/2022).

Sotto altro aspetto, anche in tema di risarcimento del danno per lesione dei diritti reali — nella specie, del diritto di veduta — rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito (il cui mancato esercizio non è censurabile in sede di legittimità) attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché quello in forma specifica. (cfr. Cass. n. 866/2007).

Profili processuali

I giudici di legittimità hanno ripetutamente affermato il principio (Cass. n. 259/2013; Cass. n. 552/2002), secondo il quale, in tema di danni, rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito (il cui mancato esercizio non è sindacabile in sede di legittimità) attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché in forma specifica come domandato dall'attore (la valutazione di cui all'art. 2058, comma 2, del pari essendo insindacabile in sede di legittimità risolvendosi in un giudizio di fatto). Ciò in quanto il risarcimento per equivalente costituisce un minus rispetto al risarcimento in forma specifica e, quindi, la relativa richiesta è implicita nella richiesta di risarcimento in quest'ultima forma, per cui il giudice può condannare d'ufficio al risarcimento per equivalente senza incorrere nella violazione dell'art. 112 c.p.c.

Il risarcimento del danno per equivalente costituisce una reintegrazione del patrimonio del creditore, che si realizza mediante l'attribuzione di una somma di denaro pari al valore della cosa o del servizio oggetto della prestazione non adempiuta e, quindi, si atteggia come la forma tipica di ristoro del pregiudizio subito dal creditore per effetto dell'inadempimento del debitore, mentre il risarcimento in forma specifica, essendo diretto al conseguimento dell'eadem res dovuta, tende a realizzare una forma più ampia di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato, dato che l'oggetto della pretesa azionata non è costituito da una somma di danaro, ma dal conseguimento, da parte del creditore danneggiato, di una prestazione del tutto analoga, nella sua specificità ed integrità, a quella cui il debitore era tenuto in base al vincolo contrattuale. Ne consegue che costituisce una semplice riduzione della domanda o comunque una distinta modalità attuativa del diritto fatto valere la richiesta di risarcimento per equivalente allorché sia stato originariamente richiesto, in giudizio, il risarcimento in forma specifica.

Pertanto, per i giudici di legittimità: a) il risarcimento del danno per equivalente costituisce una reintegrazione del patrimonio del creditore che si realizza mediante l'attribuzione, al creditore, di una somma di danaro pari al valore della cosa o del servizio oggetto della prestazione non adempiuta, e quindi si atteggia come la forma, per così dire, tipica di ristoro del pregiudizio subito dal creditore per effetto dell'inadempimento dell'obbligazione da parte del debitore; b) per converso il risarcimento in forma specifica, essendo diretto al conseguimento dell'eadem res dovuta, tende a realizzare una forma più ampia e, di regola, più onerosa per il debitore, di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato, dato che l'oggetto della pretesa azionata non è costituito da una somma di danaro, ma dal conseguimento, da parte del creditore danneggiato, di una prestazione del tutto analoga, nella sua specificità ed integrità, a quella cui il debitore era tenuto in base al vincolo contrattuale.

In tema di reintegrazione in forma specifica, il giudice può disporre d'ufficio una diversa modalità di risarcimento del danno in forma specifica meno invasiva senza che ricorra vizio di ultrapetizione che è invece integrato nella diversa ipotesi in cui sia stato richiesto il risarcimento per equivalente e il giudice abbia disposto il risarcimento in forma specifica (Cass. n. 24737/2023, in applicazione del principio, la S.C. ha escluso il vizio di ultrapetizione nel caso in cui il danneggiato aveva richiesto la cancellazione degli articoli “online” ritenuti diffamatori ed il giudice ne aveva disposto invece l'aggiornamento, sul rilievo che l'aggiornamento dell'articolo rappresenta un “minus” rispetto alla cancellazione, e pertanto deve ritenersi una modalità già ricompresa nella domanda di cancellazione).

L'entrata in vigore della l. n. 97 del 2013 (che, modificando l'art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006, ha concentrato la legittimazione attiva in capo al Ministero dell'Ambiente) non fa venir meno la legittimazione dei soggetti o enti territoriali diversi dallo Stato a coltivare i giudizi di risarcimento del danno ambientale precedentemente instaurati, né determina l'inammissibilità della domanda risarcitoria per equivalente che vi sia stata eventualmente proposta, ferma restando la necessità di coordinarne la statuizione di accoglimento con le prescrizioni della nuova disciplina, alla cui stregua il giudice è tenuto ad individuare le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e a determinarne il costo, il cui rimborso potrà essere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti nel caso di omessa o incompleta esecuzione delle stesse (Cass. n. 7073/2024).

La tutela inibitoria rientra tra i rimedi previsti dall'art. 2043 c.c. essendo riconducibile alla reintegrazione in forma specifica di cui all'art. 2058 c.c. (Cass. n. 10720/2024, nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della Corte d'appello che aveva rigettato la domanda spiegata da un concessionario di tre piste di down hill, volta ad ottenere l'ordine al convenuto di non utilizzare le dette piste, ritenendo erroneamente che la rinuncia della parte alle domande riconducibili alle disposizioni di cui agli artt. 2598 e ss. c.c., ma non a quelle spiegate ex art. 2043 c.c., comportasse anche la rinuncia implicita alla domanda inibitoria).

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