Codice Civile art. 2077 - Efficacia del contratto collettivo sul contratto individuale.Efficacia del contratto collettivo sul contratto individuale. [I]. I contratti individuali di lavoro tra gli appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto collettivo devono uniformarsi alle disposizioni di questo [2113]. [II]. Le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro [1339, 1419 2, 2113] (1). (1) V. art. 7 l. 14 luglio 1959, n. 741. InquadramentoLa norma enuncia, da un lato, il principio dell'inderogabilità del contratto collettivo da parte del contratto individuale e, dall'altro, quello della validità in ogni caso delle clausole del contratto individuale maggiormente favorevoli. Sebbene piena espressione dell'ordinamento corporativo (nell'ambito del quale alle clausole dei contratti collettivi era riconosciuta natura di norme giuridiche), l'art. 2077 è sempre stato ritenuto dalla giurisprudenza applicabile, dopo la caduta di quell'ordinamento, anche ai contratti collettivi di diritto comune. La dottrina, generalmente contraria all'idea che la norma potesse sopravvivere alla soppressione dell'ordinamento corporativo, ha sostanzialmente accolto come un dato di fatto l'orientamento della giurisprudenza ed ha cercato di pervenire al medesimo risultato sforzandosi di rinvenire una ratio — diversa da quella pubblicistica che originariamente stava a fondamento dell'art. 2077 — che consenta di giustificare la conclusione della persistente vigenza della regola della prevalenza del contratto collettivo su quello individuale. Al riguardo ha fatto ricorso a vari strumenti di tipo privatistico, come quello del mandato conferito da più persone con unico atto e per un affare di interesse comune ex art. 1726 e del mandato conferito anche nell'interesse del mandatario o di terzi ex art. 1723, comma 2 (Santoro Passarelli, 179) o dell'atto di adesione del singolo al sindacato (Cataudella, 84), inteso da alcuni come comportante dismissione, da parte dei lavoratori ed a favore del sindacato, dei poteri di autonomia (Cessari, 144). Ovvero precisando che il contratto collettivo − nella previsione dell'art. 2077 e anche a prescindere dall'applicazione dello stesso − prevale sul contratto individuale operando non sul contenuto ma sugli effetti del contratto stesso (Persiani, 158). Oppure muovendo dal riconoscimento dell'autonomia collettiva da parte dell'ordinamento giuridico (anche costituzionale) per affermare che esso comporta il riconoscimento ai sindacati del potere di regolare gli interessi collettivi e che la prevalenza del contratto collettivo sui contratti individuali nasce dalla naturale preclusione all'autonomia individuale di dettar regole in un campo riservato all'autonomia collettiva (Scognamiglio, 161). Ovvero, ancora, rinvenendo nella previsione dell'art. 2113 della generale invalidità delle rinunce e delle transazioni aventi ad oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili (oltre che legislative, anche) dei contratti o accordi collettivi, la conferma, di diritto positivo, dell'applicabilità dell'art. 2077 ai contratti collettivi di diritto comune (Ballestrero, 386) e la base normativa di diritto positivo per sostenere che le clausole del contratto collettivo si applicano al rapporto individuale in virtù del meccanismo dell'integrazione ai sensi dell'art. 1374 (Mengoni, 186) oppure di quello della sostituzione automatica delle clausole difformi ex art. 1339 (Maresca, 706). Nell'art. 2077 si rinviene anche una conferma dell'insussistenza di un diritto soggettivo del lavoratore subordinato alla parità di trattamento, essendo, al contrario, legislativamente prevista come possibile una situazione di disparità dalla norma in commento, la quale, nell'imporre la sostituzione con le norme collettive delle clausole difformi contenute nei contratti individuali salvo che tali clausole siano più favorevoli al lavoratore, prevede di fatto un allineamento dei contratti individuali di lavoro alla disciplina collettiva non in tutti i casi, ma solo in quelli in cui il contratto individuale di lavoro contenga disposizioni meno favorevoli per il lavoratore (Cass. n. 8296/2001; Cass. S.U., n. 4570/1996). L'individuazione del trattamento più favorevole per il lavoratoreAd avviso della giurisprudenza, nella comparazione fra la disciplina collettiva e quella risultante dal contratto individuale occorre fare applicazione del cosiddetto criterio dell'assorbimento, mettendo a raffronto non le singole clausole contrapposte ma i trattamenti complessivi desumibili dalle due discipline in conflitto e ciò sia per una razionale interpretazione del principio della clausola più favorevole al lavoratore sia per una oggettiva necessità di carattere economico, la quale postula che al lavoratore sia riservato il trattamento più favorevole nel suo complesso, in esso restando assorbiti specifici benefici propri dell'altro (Cass. n. 1843/2016; Cass. n. 5244/1995). Con la precisazione che il raffronto va svolto tra i complessivi trattamenti desumibili dalle due discipline in contrasto, in ordine al medesimo istituto con applicazione integrale soltanto di quella risultante appunto come più favorevole (Cass. n. 1674/1984; Cass. n. 456/1983), salva l'eventualità che il cumulo di compensi speciali previsti dal contratto individuale con il più favorevole trattamento globale collettivo sia specificamente disposta dallo stesso contratto collettivo, ovvero consensualmente attribuito quale compenso aggiuntivo speciale per particolari meriti del lavoratore (Cass. n. 1600/1985; Cass. n. 456/1983) Simili principi hanno trovato applicazione nella pratica soprattutto in materia retributiva e in specifico riferimento ai c.d. superminimi individuali, vale a dire alle eccedenze della retribuzione rispetto ai minimi tabellari che siano state pattuite tra datore di lavoro e lavoratore; al riguardo la giurisprudenza sostiene che tali incrementi economici sono di norma soggetti al principio dell'assorbimento nei miglioramenti retributivi previsti e contemplati dalla disciplina collettiva applicabile al rapporto che si succede nel corso del tempo (Cass. n. 2375/2004; Cass. n. 2037/2004; Cass. 8498/1998), tranne che sia da questa diversamente disposto, o che le parti abbiano attribuito all'eccedenza della retribuzione individuale la natura di compenso speciale strettamente collegato a particolari meriti o alla speciale qualità o maggiore onerosità delle mansioni svolte dal dipendente e sia quindi sorretto da un autonomo titolo (Cass. n. 19750/2008; Cass. n. 12788/2004). Assorbimento che opera anche in occasione del conseguimento della superiore qualifica e dell'attribuzione del corrispondente superiore trattamento economico (Cass. n. 14289/2012; Cass. n. 2984/1998). La prassi aziendale più favorevoleUn problema particolare si è posto a proposito dei c.d. usi aziendali (vale a dire della reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti che si traduca in trattamento economico o normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti individuali e collettivi) essendo incerto se i trattamenti di miglior favore in questa maniera introdotti possano essere modificati in peius da successivi contratti collettivi ovvero, dovendosi considerare come integrativi dei contratti individuali di lavoro, debbano ritenersi salvaguardati dalla previsione del secondo comma dell'art. 2077. La giurisprudenza sembra recentemente orientata a considerare che, poiché l'uso aziendale, in ragione della sua appartenenza al novero delle cosiddette fonti sociali - tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d'azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda - agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, alle relative modifiche in melius del trattamento dovuto ai lavoratori che in esso trovino origine non si applichi né l'art. 1340 - che postula la volontà, tacita, delle parti di inserire l'uso o di escluderlo - né, in generale, la disciplina civilistica sui contratti - con esclusione, quindi, di un'indagine sulla volontà del datore di lavoro e dei sindacati - né, comunque, l'art. 2077, comma 2, con la conseguente legittimazione delle fonti collettive (nazionali e aziendali) di disporre una modifica in peius del trattamento in tal modo attribuito (Cass. n. 8342/2010). E con l'ulteriore conseguenza che il diritto riconosciuto dall'uso aziendale non sopravvive neppure al mutamento della contrattazione collettiva conseguente al trasferimento di azienda, posto che operando come una contrattazione integrativa aziendale subisce la stessa sorte dei contratti collettivi applicati dal precedente datore di lavoro e non è più applicabile presso la società cessionaria dotata di propria contrattazione integrativa (Cass. n. 5882/2010). In senso opposto si era espressa la precedente giurisprudenza, secondo la quale le condizioni di miglior favore derivanti dagli usi aziendali non possono essere derogate in peius per i lavoratori dalla contrattazione collettiva, atteso che gli usi si inseriscono nei singoli contratti individuali e non già nei contratti collettivi nazionali o aziendali e che l'esclusione di tale inserimento può avvenire soltanto in base alla concorde volontà delle parti (Cass. n. 10783/2000; Cass. n. 1438/1997; Cass. S.U., n. 3101/1995). La successione nel tempo di contratti collettivi di pari livelloLa giurisprudenza afferma che, poiché il criterio del trattamento più favorevole ex art. 2077 riguarda il rapporto tra contratto collettivo ed individuale e non quello tra contratti collettivi, sono ammissibili, nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni in peius per il lavoratore, dovendosi escludere che questi possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate (Cass. n. 13690/2014; Cass. n. 21234/2007; Cass. n. 13879/2007; Cass. n. 16635/2003). Tale principio, secondo l'orientamento prevalente, non è però applicabile in caso di contrasto tra la disciplina di un contratto collettivo di lavoro postcorporativo reso efficace erga omnes e la disciplina contenuta in un successivo contratto collettivo di diritto comune, il quale va invece risolto alla stregua del terzo comma dell'art. 7 l. n. 741/1959, con la conseguenza che i trattamenti previsti dai contratti collettivi resi efficaci erga omnes non sono derogabili da successivi accordi o contratti collettivi privi di tale efficacia o da contratti individuali, tranne il caso in cui detta disciplina successiva contenga disposizioni che, valutate complessivamente almeno nell'ambito dei singoli istituti contrattuali, risultino più favorevoli ai lavoratori (Cass. n. 6348/2001; Cass. n. 2205/1992; Cass., n. 1354/1982; Cass. n. 5115/1981; contra, Cass. n. 6986/1982; Cass. n. 725/1981). Peraltro le parti collettive stipulanti possono prevedere, con apposita clausola di salvaguardia, la conservazione del precedente trattamento di miglior favore (Cass. n. 16691/2004). La modificabilità in peius incontra il solo limite dei diritti quesiti ovvero di quelli già entrati a far parte del patrimonio individuale del lavoratore, la cui individuazione nei casi concreti non è però sempre agevole. La ricorrente affermazione secondo la quale in essi rientrano i corrispettivi di prestazioni già rese non è risolutiva di tutte le questioni che si presentano nella pratica. Così, è stata ritenuta legittima la previsione di un contratto collettivo aziendale che ha escluso, anche con riferimento all'anno precedente alla sua stipulazione, la corresponsione del premio di produttività previsto in generale dal contratto collettivo nazionale (Cass. n. 21379/2005; v. anche la successiva Cass. n. 17310/2008). Si è invece affermato che l'eliminazione da parte del successivo contratto collettivo di una disposizione che collega un certo inquadramento a determinate mansioni non rileva nei confronti del lavoratore che, prima dell'entrata in vigore del nuovo contratto, abbia maturato il diritto ad un inquadramento superiore, a norma dell'art. 2103, avendo già svolto le relative mansioni per oltre tre mesi prima del rinnovo contrattuale (Cass. n. 13160/1999). Rispetto ai trattamenti pensionistici integrativi si afferma che il limite costituito dai diritti già acquisiti dai lavoratori ancora in servizio attivo non può dirsi superato dalla semplice diminuzione delle prestazioni o dall'aumento delle contribuzioni in quanto tali misure vengono ad incidere da un lato su situazioni previdenziali non ancora acquisite e dall'altro su retribuzioni non ancora dovute (Cass. n. 4069/1999). Invece, per i lavoratori cessati dal servizio, il diritto alla pensione integrativa aziendale resta disciplinato dalla contrattazione collettiva in vigore al momento della cessazione del rapporto (Cass. n. 6116/1988; v. anche Cass. n. 5141/2004, con riferimento al diritto al rimborso alla quota di iscrizione al Fondo pensionistico integrativo), salva successiva acquiescenza o ratifica degli interessati, i quali ben possono disporre mediante transazione o rinuncia, nei limiti segnati dall'art. 2113, dei diritti già acquisiti al loro patrimonio (Cass. n. 4219/1992), dovendosi precisare comunque che, al riguardo, non è possibile attribuire contenuto negoziale di rinunzia al comportamento consistente nella riscossione per lungo tempo, e senza contestazioni, della rendita erogata sulla base delle modifiche peggiorative intervenute, costituendo questa mera accettazione di un adempimento parziale, la quale rappresenta una facoltà del creditore (art. 1181), salvo che non sia accompagnato da altri elementi che univocamente dimostrino la volontà di dismissione del diritto (Cass. n. 8098/1997; Cass. n. 2361/1996). Rapporti tra contratti collettivi di diverso livelloAd avviso della giurisprudenza, il contrasto fra contratti collettivi di diverso livello va risolto non in base a principi di gerarchia e di specialità proprie delle fonti legislative, ma sulla base della effettiva volontà delle parti sociali, da desumersi attraverso il coordinamento delle varie disposizioni della contrattazione collettiva, aventi tutte pari dignità e forza vincolante, sicché anche i contratti territoriali o aziendali possono, in virtù del principio dell'autonomia negoziale di cui all'art. 1322, prorogare l'efficacia dei contratti nazionali e derogarli, anche in peius, e viceversa, senza che osti il disposto di cui all'art. 2077, con la sola salvaguardia dei diritti già definitivamente acquisiti nel patrimonio dei lavoratori (con riferimento a contratti di diverso ambito territoriale: Cass. n. 17939/2022 e Cass. 5651/2021; rispetto ai rapporti tra contratto collettivo nazionale e contratto aziendale: Cass. n. 1415/2012 e Cass. n. 19351/2007; nel caso di successione di un accordo interconfederale a contratti di livello inferiore, nazionali ed aziendali: Cass. n. 3257/1991; per la validità di tale impostazione anche nell'ambito del lavoro pubblico contrattualizzato: Cass., n. 13544/2008). Nella stessa prospettiva, è ben possibile che un contratto collettivo nazionale ponga limiti alla derogabilità in peius alla contrattazione aziendale e, in questi casi, il contrario patto aziendale è nullo, senza possibilità di sanatoria da parte del singolo lavoratore (Cass. n. 29675/2011). La concorrenza della disciplina nazionale e di quella aziendale, va risolta tenuto conto dei limiti di efficacia connessi alla natura dei contratti stipulati, atteso che il contratto collettivo nazionale di diritto comune estende la sua efficacia nei confronti di tutti gli iscritti, nell'ambito del territorio nazionale, alle organizzazioni stipulanti e il contratto collettivo aziendale estende, invece, la sua efficacia, a tutti gli iscritti o non iscritti alle organizzazioni stipulanti, purché svolgenti l'attività lavorativa nell'ambito dell'azienda; pertanto i lavoratori ai quali si applicano i contratti collettivi aziendali possono giovarsi delle clausole dei contratti collettivi nazionali se risultano iscritti alle organizzazioni sindacali che li hanno stipulati (Cass. n. 11939/2004). 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