Codice Civile art. 2078 - Efficacia degli usi.

Paolo Sordi

Efficacia degli usi.

[I]. In mancanza di disposizioni di legge e di contratto collettivo si applicano gli usi. Tuttavia gli usi più favorevoli ai prestatori di lavoro prevalgono sulle norme dispositive di legge [1, 8 prel.] (1).

[II]. Gli usi non prevalgono sui contratti individuali di lavoro [98 att.].

(1) V. art. 17 r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825.

Inquadramento

L'articolo disciplina la rilevanza degli usi normativi nel diritto del lavoro, stabilendone il carattere generalmente sussidiario. Essi, infatti, si applicano in mancanza di disposizioni di legge e di contratto collettivo (Cass. n. 136/1983); possono prevalere, se più favorevoli ai lavoratori, solamente su norme dispositive di legge (Cass. n. 4616/1979). Ne consegue la marginalità della fattispecie direttamente regolata dalla norma in commento.

Non rientrano, invece, negli usi di cui tratta la norma i c.d. usi aziendali, di controversa configurazione e dibattuta qualificazione giuridica, ma comunque ritenuti non riconducibili alla figura degli usi normativi.

Gli usi aziendali

Per aversi uso aziendale è necessario che il comportamento del datore di lavoro favorevole ai propri dipendenti (per l'insuscettibilità del reiterato disconoscimento dei diritti assicurati ai lavoratori dalla contrattazione collettiva a costituire uso aziendale v. Cass. n. 10150/2000; per l'impossibilità di considerare la disposizione costantemente accettata dai dipendenti di un'azienda di percepire un compenso straordinario forfetizzato come uso aziendale, v. Cass. n. 6902/2000) presenti i caratteri della generalità, della reiterazione e della spontaneità.

Il primo dei predetti requisiti implica che il comportamento datoriale sia applicato nei confronti di tutti i dipendenti dell'azienda con il medesimo contenuto (Cass. n. 18263/2009). Tale carattere non è escluso da eventuali differenziazioni, giustificate dalla diversità delle mansioni o delle qualifiche, purché tali differenziazioni abbiano chiarezza nella loro soggettiva estensione e non siano fondate su eventi pressoché unici costituenti negazione dell'uso (Cass. n. 18991/2008). Con specifico riferimento alla corresponsione ai dipendenti di compensi provvisionali, occorre la prova della erogazione di compensi determinati nel quantum e correlati alle normali prestazioni lavorative della generalità dei lavoratori o di gruppi omogenei di essi, non a situazioni personali di singoli lavoratori (Cass. n. 22751/2004).

Il carattere della reiterazione esclude che possano essere qualificate come usi aziendali erogazioni di benefici collegabili a specifiche situazioni e rinvenienti in ciascuna di esse la propria giustificazione. Così, per Cass. n. 10591/2004, la corresponsione in tre occasioni di incentivi all'esodo per ridurre il personale non vale a costituire un uso aziendale, giacché determinata di volta in volta da momenti patologici della vita dell'impresa, caratterizzati da specifici accadimenti di fatto e coevi interventi normativi. Il requisito in oggetto non richiede, invece, che il compenso oggetto dell'uso aziendale sia necessariamente corrisposto in maniera fissa (Cass. n. 7154/2003, rispetto all'integrazione del premio di rendimento; Cass. n. 8573/1990, rispetto alla c.d. gratifica di bilancio).

Infine, quanto al requisito della spontaneità, esso implica che il datore di lavoro attribuisca ai dipendenti senza esservi obbligato, un trattamento economico o normativo non previsto né dal contratto individuale, né dal contratto collettivo (Cass. n. 10591/2004; Cass. n. 9764/2000; Cass. S.U., n. 3134/1994). Tale requisito è escluso quando l'obbligo in esecuzione del quale è stato tenuto un certo comportamento più favorevole ai lavoratori sia stato erroneamente ritenuto sussistente dal datore di lavoro (Cass. n. 9663/1998; Cass. n. 1984/1992).

In alcune pronunce si rinviene l'affermazione della necessità della ricorrenza anche di uno specifico intento negoziale di regolare anche per il futuro determinati aspetti del rapporto lavorativo, nell'individuazione del quale non può prescindersi dalla rilevanza dell'assetto normativo positivo in cui esso si è manifestato (Cass. n. 15489/2007; Cass. n. 9626/2004; Cass. n. 14606/2000; Cass. n. 13294/1999). In altre sentenze, invece, è stato espressamente chiarito che rileva la mera reiterazione del comportamento datoriale, senza che possa aversi riguardo all'atteggiamento psicologico proprio di ciascuno degli atti di cui si compone tale prassi, atteso che, in ogni caso, il consolidamento di una prassi manifesta di per sé, sia pure implicitamente, l'intento negoziale di regolare anche per il prosieguo gli aspetti del rapporto di lavoro cui essa attiene (Cass. n. 16257/2003; Cass. n. 7200/2002; Cass. n. 900/1996; Cass. S.U., n. 3134/1994).

Il regime dell'efficacia degli usi aziendali

L'opinione espressa dalla giurisprudenza è stata a lungo nel senso che i comportamenti delle parti del contratto di lavoro che presentano i caratteri dell'uso aziendale sono espressione di volontà negoziale che integra i singoli contratti individuali ai sensi dell'art. 1340 (Cass. n. 11889/2003; Cass. n. 1693/2003; Cass. n. 11607/2002Cass. S.U., n. 3101/1995). Conseguenze di tale concezione sono, da un lato, che l'esclusione dell'inserimento del trattamento di maggior favore per il lavoratore nel contratto individuale può avvenire solamente in base alla concorde volontà delle parti (Cass. n. 10783/2000; Cass. n. 2748/1992) e, dall'altro, che esso è insensibile a successive eventuali modificazioni in peius da parte dei contratti collettivi (Cass. n. 10642/2000; Cass. S.U. n. 3101/1995), potendo essere modificato in termini peggiorativi per il lavoratore solamente sulla base del consenso di questo (Cass. n. 10767/1996). Nell'ambito della stessa impostazione si è ritenuto, peraltro, che l'uso aziendale possa essere derogato in senso peggiorativo per i lavoratori da un successivo comportamento contrario protrattosi univocamente per anni senza manifestazioni di dissenso da parte dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali, realizzandosi in simili casi la sostituzione dell'uso aziendale anteriore con quello successivo (Cass. n. 2406/1994).

Più recentemente, la stessa Corte di cassazione è invece orientata nel senso che l'uso aziendale, in ragione della sua appartenenza al novero delle cosiddette fonti sociali — tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d'azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda — agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale (Cass. n. 31204/2021; Cass. S.U., n. 26107/2007). Ne consegue che ove la modifica in melius del trattamento dovuto ai lavoratori trovi origine nell'uso aziendale, ad essa non si applica né l'art. 1340 — che postula la volontà, tacita, delle parti di inserire l'uso o di escluderlo — né, in generale, la disciplina civilistica sui contratti —con esclusione, quindi, di un'indagine sulla volontà del datore di lavoro e dei sindacati — né, comunque, l'art. 2077, comma 2.

La più importante conseguenza di una simile impostazione è la legittimazione delle fonti collettive (nazionali e aziendali) a disporre una modifica in peius del trattamento in tal modo attribuito (Cass. n. 8342/2010), così come è certo che la prassi costituente uso aziendale non possa essere travolta da un provvedimento datoriale (Cass. n. 7395/2013; Cass. n. 17481/2009).

Altro corollario dell'indirizzo più recente è che il diritto riconosciuto dall'uso aziendale non sopravvive al mutamento della contrattazione collettiva conseguente al trasferimento di azienda, posto che, operando come una contrattazione integrativa aziendale, esso subisce la stessa sorte dei contratti collettivi applicati dal precedente datore di lavoro e non è più applicabile presso la società cessionaria dotata di propria contrattazione integrativa (Cass. n. 5882/2010).

Anche in dottrina, sembra ormai prevalente la prospettiva che tende a ricondurre la prassi aziendale nel contesto di una consapevole tecnica di gestione delle risorse umane e quindi a qualificarla come manifestazione di autonomia collettiva (Liebman, 230) ovvero in termini di contratto aziendale tacito (L. Spaguolo Vigorita 2001, 1122; Valente, 542; per una critica dei tentativi individuare negli usi aziendali una manifestazione dell'autonomia negoziale collettiva, v. invece Miscione, 558).

Appare invece recessiva l'opposta prospettiva “individualistica”, che configura la qualificazione in termini di contratto con obbligazioni del solo proponente (art. 1333), ove il comportamento unilaterale del datore di lavoro integra, in ragione della sua reiterazione, una proposta di patto modificativo dei singoli contratti individuali dei dipendenti (Galantino, 229; Mengoni 1978, 472).

L'efficacia nei confronti dei lavoratori assunti dopo la formazione dell'uso aziendale

Ad avviso della giurisprudenza più recente, l'uso aziendale produce effetti anche nei confronti dei lavoratori che entrano a far parte della categoria dopo la sua formazione, restando tuttavia impregiudicata con riferimento a questi ultimi, la facoltà dell'imprenditore di escludere l'applicabilità del trattamento di miglior favore (Cass. n. 18263/2009; in precedenza, in senso opposto, Cass. n. 5903/1991).

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