Codice Civile art. 2083 - Piccoli imprenditori.Piccoli imprenditori. [I]. Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo [1647], gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia [2202, 2214 3, 2221] (1). (1) V. art. 12 r .d. 16 marzo 1942, n. 267; artt. 2, 3 e 4 l. 8 agosto 1985, n. 443. InquadramentoLa norma individua, all'interno della generale fattispecie dell'impresa di cui all'art. 2082, quella della piccola impresa (che dunque si pone come species di quel genus: Bigiavi, 1947, 1; Semino, 365), essenzialmente allo scopo di sottrarre quest'ultima dall'ambito di applicazione di alcune disposizioni in tema di impresa. Se tale intento è ancora oggi realizzato con riferimento alle norme contenute nel codice civile, non altrettanto può dirsi rispetto alle disposizioni in materia fallimentare, considerato che, secondo il testo dell'art. 1 del r.d. n. 267/1942 (come modificato dal d.lgs. n. 169/2007), l'area di esenzione dalla normativa in materia di procedure concorsuali è definita con un diverso criterio (quello del mancato superamento di una certa soglia di attivo patrimoniale in un determinato lasso di tempo). Con la conseguenza, riconosciuta da dottrina (Fauceglia, 1039; Camodeca-Vitaliano Donato, 328) e giurisprudenza (Cass. n. 23052/2010; Cass. n. 13086/2010), che, in campo fallimentare, il criterio sancito nell'art. 2083 non spiega alcuna rilevanza, il regime concorsuale riformato avendo tratteggiato la figura dell'imprenditore fallibile affidandola in via esclusiva a parametri soggettivi di tipo quantitativo, i quali prescindono del tutto da quello, canonizzato nel regime civilistico, della prevalenza del lavoro personale rispetto all'organizzazione aziendale fondata sul capitale e sull'altrui lavoro. Conclusione che resta valida anche dopo la riforma delle procedure concorsuali disposta dal d. lgs. n. 14/2019 (c.d. Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), il cui art. 2, comma 1, definisce l’impresa “minore”, in quanto tale sottratta alla liquidazione giudiziale, secondo gli stessi criteri adottati dalla citata previgente normativa in materia fallimentare. La prevalenza del lavoro proprio e dei familiariLa giurisprudenza esprime la tendenza a ritenere che la prevalenza del lavoro proprio e dei familiari costituisca elemento che deve ricorrere comunque perché possa parlarsi di piccolo imprenditore, con la conseguenza che, ove questo requisito difetti, anche le figure professionali espressamente menzionate nell'art. 2083 non possono essere considerate tali, con relativa applicazione integrale dello statuto dell'impresa (per applicazioni di una simile impostazione al coltivatore diretto, v. Cass. n. 6842/2015; al commerciante, v. Cass. n. 3690/2000; all'artigiano, v. Cass. n. 9976/1995). La dottrina appare invece divisa tra quanti ritengono che l'art. 2083 darebbe una definizione legale unica di piccolo imprenditore, enunciandola nella parte finale («coloro che esercitano una attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia»), rispetto alla quale le tre categorie di soggetti indicate (coltivatore diretto, artigiano, piccolo commerciante) costituiscono meri esempi (Bigiavi, 1947, 43; Galgano, 1972, 57; Genovese, 265), e quanti sostengono invece che la norma codicistica contenga una lista di quattro categorie, perché alle prime tre specificatamente indicate segue l'ultima, accuratamente definita, destinata a comprendere i piccoli imprenditori non rientranti in esse (Goldoni, 520; Ferrara, 65). Il coltivatore direttoLa giurisprudenza, pur riconoscendo che manca nell'ordinamento una nozione generale di coltivatore diretto applicabile ad ogni fine di legge (Cass. n. 30261/2022 pronunciata in materia previdenziale), tende a desumere quella nozione dalla disciplina di cui agli artt. 1647 e 2083, sicché l'elemento qualificante va rinvenuto nella coltivazione del fondo da parte del titolare con prevalenza del lavoro proprio e di persone della sua famiglia, attività con la quale è compatibile quella di allevamento del bestiame solo qualora quest'ultima si presenti in stretto collegamento funzionale con il fondo, quando, cioè, tragga occasione e sviluppo dallo sfruttamento del fondo agricolo (Cass. n. 6842/2015; invece, in dottrina, nel senso che la nozione di coltivatore diretto dovrebbe essere estesa anche all'allevatore di bestiame, Goldoni, 530). Quanto, poi, all'individuazione del requisito della prevalenza del lavoro del coltivatore diretto e delle persone della sua famiglia, in giurisprudenza si rivengono decisioni secondo le quali si tratterebbe di valutazione da operare con riferimento al rapporto tra forza lavorativa totale occorrente per la lavorazione del fondo e forza/lavoro riferibile al titolare ed ai membri della sua famiglia a prescindere dall'apporto di mezzi meccanici (Cass. n. 6002/1999; Cass. n. 988/1996) ed altre nelle quali si attribuisce rilevanza anche al capitale, affermandosi che il coltivatore diretto si distingue dall'imprenditore agricolo, poiché quest'ultimo esercita la coltivazione e produzione agricola con prevalenza del fattore capitale su quello lavoro e con impiego prevalente di mano d'opera subordinata (Cass. n. 3706/2015; Cass. n. 12306/2008; Cass. n. 17714/2002). In questa maniera si riproduce l'incertezza, rinvenibile anche in dottrina, tra chi ritiene che la prevalenza del lavoro familiare sia da valutarsi con esclusivo riferimento al lavoro estraneo (Goldoni, 529; Giuffrida, 569) ovvero anche al capitale (Bigiavi, 1947, 57). In merito alla individuazione della famiglia del coltivatore diretto, poi, la giurisprudenza è nel senso che essa non vada intesa come quella derivante dal matrimonio e comprensiva soltanto del capofamiglia e dei figli conviventi, bensì come organismo economico a base associativa, formato da tutti quei soggetti legati da vincoli di parentela e di affinità col lavoratore agricolo, i quali, pur non avendo con questo comunanza di mensa e di tetto, risultino associati alla conduzione del fondo (Cass. n. 9288/1987). Anche in dottrina è largamente diffusa la concezione secondo la quale la nozione di famiglia agricola è più ampia della «famiglia civile», sostenendosi che essa comprende tutti quei soggetti che, sulla base di norme consuetudinarie, fanno parte di una comunione tacita familiare (Giuffrida, 560), contemporaneamente svalutando la rilevanza che, ai fini che qui interessano, potrebbe riconoscersi all'ambito soggettivo — maggiormente ristretto — dell'impresa familiare di cui all'art. 230-bis (Goldoni, 528). Proprio perché l'affittuario coltivatore diretto è un piccolo imprenditore, non si applica nei suoi confronti il principio costituzionale della retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro prestato e sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa (Cass. n. 23628/2004). Resta invece irrilevante la modesta entità dell'organizzazione di cui si avvale il coltivatore diretto, così come la piccola estensione del fondo coltivato, a meno che essa non sia così esigua da precluderne lo sfruttamento economico (Cass. n. 4671/1984; Cass. n. 6882/1983). L'artigianoLa legge-quadro sull'artigianato (l. n. 443/1985) definisce come imprenditore artigiano colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l'impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo (art. 2 l. n. 443/1985). Aggiungendo che, nel caso in cui sia costituita ed esercitata in forma di società, anche cooperativa, escluse le società per azioni ed in accomandita per azioni, l'impresa è qualificabile come artigiana a condizione che la maggioranza dei soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale (art. 3 l. n. 443/1985). La giurisprudenza sembra aver definitivamente chiarito che i criteri richiesti dall'art. 2083, ed in genere dal codice civile, valgono per l'identificazione dell'impresa artigiana nei rapporti interprivati, mentre quelli posti dalla legge speciale sono necessari per fruire delle provvidenza previste dalla legislazione (regionale) di sostegno (Cass. S.U., n. 5685/2015; Cass. n. 19508/2005). In applicazione di una simile impostazione è stato deciso che l'iscrizione all'albo di un'impresa artigiana, effettuata ai sensi dell'art. 5 della l. n. 443/1985, è requisito necessario, ma non sufficiente ai fini dell'applicazione dell'art. 2751-bis, n. 5, dettato in tema di privilegi, dovendosi, al riguardo, ricavare la relativa nozione alla luce dei criteri fissati, dall'art. 2083 ovvero dalla l. n. 443/1985 a seconda che si tratti di crediti sorti prima o dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 5/2012 che ha modificato l’art. 271-bis, n. 5 (Cass. n. 2892/2023; Cass. S.U., n. 5685/2015). Quanto ai criteri per determinare la sussistenza o meno in concreto del requisito della prevalenza dell'apporto personale dell'artigiano, si afferma che l'elemento c.d. qualitativo dà rilievo al lavoro nella sua comparazione col capitale allorché i valori numerici risultino a favore di quest'ultimo fattore produttivo, nel senso che il giudice di merito può assegnare la prevalenza al lavoro quando la particolare qualificazione dell'attività personale dell'imprenditore assuma un significato tale da risultare il connotato essenziale dell'impresa; ciò non implica, tuttavia, che ai fini del riconoscimento della qualifica artigiana sia indispensabile che l'impresa si caratterizzi per l'opera qualificante dell'imprenditore; infatti in tutti i casi in cui difetti l'elemento costituito dalla particolare professionalità dell'imprenditore, l'impresa resta pur sempre nell'area delle imprese artigiane quando si tratti di attività organizzata prevalentemente con il lavoro proprio dell'imprenditore e dei componenti della sua famiglia, ovvero, trattandosi di impresa collettiva, quando la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale, ex art. 3 l. n. 443/1985 (Cass. n. 12012/2011; Cass. n. 21703/2017). In particolare, deve essere esclusa la configurabilità dell'impresa artigiana quando il lavoro professionale del titolare risulti (non stabile e continuativo, bensì) occasionale ovvero quantitativamente e qualitativamente limitato (Cass. n. 12379/1991; Cass. n. 7061/1987). Il piccolo commercianteChi svolge attività di intermediazione nella circolazione dei beni può essere qualificato come piccolo commerciante quando ricorrono i requisiti generali previsti alla norma in commento, vale a dire in caso di prevalenza del lavoro proprio e dei suoi familiari. Di talché, secondo la giurisprudenza, anche l'esercente l'attività di commercio ambulante può perdere i connotati di piccolo imprenditore qualora organizzi ed estenda la propria attività in modo ed in misura tali da far assumere alla stessa le caratteristiche della impresa industriale, e da indirizzarla al conseguimento del profitto, e non solo del guadagno — normalmente modesto — ricavabile da un'attività organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e della propria famiglia (Cass. n. 3690/2000). BibliografiaAlbi, Art. 2087: tutela delle condizioni di lavoro, Milano, 2008; Bigiavi, L'imprenditore occulto, Padova, 1954; Bigiavi, La professionalità dell'imprenditore, Padova, 1948; Bigiavi, La «piccola impresa», Milano, 1947; Bona, Responsabilità civile da mobbing, in Dig. civ., Agg. II, t. II, Torino, 2003, 1107; Bonelli-Roli, Privatizzazioni, in Enc. dir., Agg. 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