Codice Civile art. 2087 - Tutela delle condizioni di lavoro. [ 41 2 Cost.] 1

Paolo Sordi

Tutela delle condizioni di lavoro. [41 2 Cost.]1

[I]. L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

[1] Sugli obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, v. art. 29-bis d.l. 8 aprile 2020, n. 23, conv., con modif., in l. 5 giugno 2020, n. 40.

Inquadramento

L'articolo in esame costituisce la norma di chiusura del sistema di tutela dell'integrità psico-fisica del lavoratore, sia sul piano civile, sia su quello penale.

La dottrina ne ha da tempo riconosciuto il ruolo centrale, evidenziando che, in virtù dell'elasticità del suo contenuto, essa è in grado di riempire i vuoti o di sanare le fratture dell'ordinamento in materia (Montuschi, 76).

La norma delinea un modello di comportamento dovuto all'imprenditore direttamente rilevante ai fini del giudizio di colpa nei giudizi di responsabilità sia civile che penale.

Il suo significato fondamentale consiste nel ricordare che i doveri di diligenza, gravanti sull'imprenditore, non si esauriscono in quelli tipizzati da specifiche disposizioni, e che quella dovuta dall'imprenditore è una garanzia il cui adempimento richiede l'attuazione di ogni misura «necessaria» all'effettiva salvaguardia del bene tutelato, presupponendo, pertanto, un dovere di adeguamento al progresso dell'esperienza e della tecnica (Pulitanò, 111).

Contenuto dell'obbligo di sicurezza

L'art. 2087 impone al datore di lavoro di predisporre tutte le misure idonee, secondo l'esperienza, la tecnica e la particolarità del lavoro, a prevenire situazioni di danno per la salute fisica e la personalità del lavoratore sulla base del principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile, in forza del quale le possibilità offerte dalla tecnica divengono il limite ultimo ed esterno di operatività degli obblighi di prevenzione (Natullo, 69).

Tale concetto è espresso dalla giurisprudenza laddove questa precisa che l'operatività della norma non è esclusa, bensì rafforzata dalla sussistenza di norme speciali che dispongano l'adozione di particolari cautele ed obbliga l'imprenditore ad adottare, ai fini della tutela delle condizioni di lavoro, non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, nonché quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per la tutela della sicurezza del lavoro in base alla particolarità dell'attività lavorativa, all'esperienza ed alla tecnica (Cass. n. 33239/2022; Cass. n. 20142/2010). Pertanto, il rispetto degli obblighi posti dalla normativa antinfortunistica non esonera il datore di lavoro dall'obbligo di porre in essere le misure necessarie per prevenire, secondo le modalità organizzative necessarie nel caso concreto, la realizzazione di infortuni sul lavoro (Cass. n. 14468/2017; Cass. n. 944/2012), inclusa l'adozione di misure inibitorie nei confronti del lavoratore (Cass. n. 15112/2020).

La giurisprudenza precisa che l'art. 2087 non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa (Cass. n. 29909/2021; Cass. n. 2038/2013;  nello stesso senso la dottrina: Dell'Olio, 149), onde dalla norma non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato (Cass. n. 14066/2019 Cass. n. 12089/2013), occorrendo invece che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati (Cass. n. 12863/2004; Cass. n. 10510/2004; Cass. n. 6018/2000).

Peraltro, la norma in commento impone al datore di lavoro non solamente di adottare le idonee misure protettive, ma anche di accertare e vigilare che di quelle misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente (Cass. n. 10097/2011; per Cass. n. 12753/2019 tale responsabilità non viene meno per il fatto che le funzioni di prevenzione siano delegate ad un soggetto diverso), e ciò anche nel caso in cui il lavoratore, per la sua posizione apicale, abbia la possibilità di modulare la propria prestazione in relazione ai carichi di lavoro (Cass. n. 2403/2022).

Non si può attribuire effetto esimente dell'imprenditore all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento (Cass. n. 3763/2021; Cass. n. 7127/2007).

Né la condotta incauta del lavoratore è idonea a ridurre la misura del risarcimento del danno quando la violazione di un obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro sia munita di incidenza esclusiva rispetto alla determinazione dell'evento (Cass. n. 30679/2019).

Natura dell'obbligo di sicurezza

È pacifico che l'art. 2087 introduce un dovere che trova fonte immediata e diretta nel contratto di lavoro subordinato (in giurisprudenza: Cass. n. 1168/1995; in dottrina, Montuschi, 75; Albi, 124).

La norma è ritenuta applicabile anche al committente nei confronti dei lavoratori, benché da lui non dipendenti, ove si sia reso garante della vigilanza relativa alle misure da adottare (Cass. n. 5419/2019; Cass. n. 11311/2017).

Secondo la giurisprudenza, tale articolo non si applica al lavoro autonomo (Cass. n. 17896/2013; Cass. n. 7128/2013); per l'inapplicabilità ai lavoratori socialmente utili occupati temporaneamente alle dipendenze di una pubblica amministrazione, Cass. n. 2605/2013 (che fa salva, in tali fattispecie, la responsabilità extracontrattuale dell'ente per mancata adozione delle norme antinfortunistiche).

Pertanto, ad avviso della giurisprudenza, alla responsabilità datoriale nei confronti del lavoratore per danni da infortunio sul lavoro a causa di inadempimento all'obbligo contrattuale di sicurezza si applicano le regole civilistiche sull'inadempimento ex art. 1218 (Cass. n. 8855/2013) e, tra queste, anche quella del concorso di colpa del creditore di cui all'art. 1227, comma 1 (Cass. n. 9817/2008).

Conseguenze della violazione dell'obbligo

Se l'inosservanza dell'obbligo di sicurezza sia stata causa di danno, può essere promossa dal dipendente azione di risarcitoria contrattuale nell'ordinario termine decennale di prescrizione (Cass. n. 10414/2013), e ciò indipendentemente dal fatto che la violazione stessa integri estremi di reato, ovvero configuri anche un illecito aquiliano determinante l'esperibilità di azione extracontrattuale, in via concorrente, e, quindi, senza che l'eventuale preclusione di quest'ultima, come nel caso di decorso della prescrizione quinquennale, possa incidere sull'azione contrattuale (Cass. n. 11130/1996).

Quanto alla decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla salute patito dal lavoratore la giurisprudenza ha stabilito che essa coincide con il momento in cui il danno si è manifestato, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile, solo ove l'illecito sia istantaneo, ossia si esaurisca in un tempo definito, ancorché abbia effetti permanenti, mentre ove l'illecito sia permanente e si sia perciò protratto nel tempo, il termine prescrizionale inizia a decorrere al momento della definitiva cessazione della condotta inadempiente (Cass. n. 7272/2011). La stessa giurisprudenza aggiunge che la prescrizione decorre anche in costanza di rapporto non assistito da stabilità reale, perché l'opposto principio di cui di cui agli artt. 2948 n.4, 2955 n. 2 e 2956 n. 1 (quali risultanti dalla pronuncia della Corte cost. n. 63/1966) riguarda il solo diritto alla retribuzione (Cass. n. 10414/2013; Cass. n. 17629/2010).

Il risarcimento riguarda anche il danno morale, non sussistendo alcuna incompatibilità tra responsabilità contrattuale e ristoro di quel danno, siccome la fattispecie astratta di reato è configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata al datore di lavoro per non aver fornito la prova liberatoria richiesta dall'art. 1218 (Cass. n. 1918/2015; Cass. n. 4184/2006).

La giurisprudenza riconosce, poi, la legittimità, a fronte dell'inadempimento da parte del datore di lavoro dell'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087, del rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, con conservazione del diritto alla retribuzione (Cass. n. 6631/2015; Cass. n. 14375/2012). Anche se precisa che il rifiuto di adempimento della prestazione da parte del lavoratore, può ritenersi conforme a buona fede — in applicazione del principio inadimplenti non est adimplendum ex art. 1460, comma 2 — solo quando questi abbia preliminarmente provveduto ad informare la controparte circa le misure necessarie da adottare ovvero ad evidenziare l'inidoneità di quelle in concreto adottate (Cass. n. 10553/2013; Cass. n. 21479/2005).

Ulteriore conseguenza della violazione dell'obbligo di sicurezza è individuata dalla giurisprudenza nell'impossibilità di includere nel computo dei giorni di assenza per malattia ai fini di verificare il superamento del periodo di comporto di cui all'art. 2110, quelli connessi ad infermità causate dalla nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro che il datore di lavoro abbia omesso di prevenire o di eliminare (Cass. n. 7946/2011; Cass. n. 7037/2011; Cass. n. 5066/2000).

Casistica

La giurisprudenza ha affermato che l'ampio ambito applicativo dell'art. 2087 rende necessario l'apprestamento di adeguati mezzi di tutela dell'integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell'attività criminosa di terzi nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro,  (Cass. n. 29879/2019; Cass. n. 3306/2016).

La stessa giurisprudenza qualifica come violazione dell'obbligo di sicurezza ex art. 2087, il c.d. mobbing, vale a dire la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali ed, eventualmente, anche leciti), diretti (in attuazione di un disegno persecutorio unificante: Cass. n. 10992/2020) alla persecuzione o all'emarginazione del dipendente, di cui viene lesa la sfera professionale o personale,  né la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro — su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 — ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo (Cass. n. 18093/2013; Cass. n. 22858/2008), sempreché, comunque, egli abbia avuto conoscenza dell’attività posta in essere dai suoi dipendenti (Cass. n. 1109/2020).

Nel senso di rinvenire nella norma in commento il fondamento normativo della tutela del lavoro contro le condotte mobbizzanti nell'ambiente di lavoro, si esprime anche la dottrina (Dell'Olio, 148; Bona, 1128).

La giurisprudenza individua nell'art. 2087 il fondamento anche del divieto del c.d. straining, vale a dire l'adozione di condizioni di lavoro stresso gene che si distinguono dal mobbing perché in esso non si ravvisa il carattere della continuità (Cass, n. 3291/2016).  

Bibliografia

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