Codice Civile art. 2095 - Categorie dei prestatori di lavoro.

Paolo Sordi

Categorie dei prestatori di lavoro.

[I]. I prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai (1).

[II]. Le leggi speciali [e le norme corporative] (2), in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura dell'impresa, determinano i requisiti di appartenenza alle indicate categorie [95 att.].

(1) Comma così sostituito dall'art. 1 l. 13 maggio 1985, n. 190.

(2) Le disposizioni richiamanti le norme corporative devono ritenersi abrogate in seguito alla soppressione dell'ordinamento corporativo.

Inquadramento

La norma individua quattro categorie di lavoratori, ma non le definisce, rinviando in proposito alle leggi speciali e non compromettendo affatto, secondo la dottrina (Giugni, 174; Ichino, 249; Liso, 6; Garilli, 256), la possibilità per la contrattazione collettiva di strutturare in maniera anche radicalmente diversa l'inquadramento dei lavoratori, dovendosi invece riconoscere la libertà delle parti collettive di disporre l'istituzione di categorie aggiuntive rispetto a quelle previste dall'art. 2095 (come quelle degli «intermedi» o dei «funzionari») ovvero l'unificazione delle categorie operaia e impiegatizia (come nel caso del c.d. «inquadramento unico»).

Tuttavia, ad avviso della dottrina, tutte le volte che il legislatore differenzi trattamenti di fonte legislativa assumendo quale criterio di applicazione la quadri partizione enunciata dalla norma in oggetto, occorre necessariamente far riferimento alla classificazione dei lavoratori interessati secondo criteri dalla legge stessa imposti, il che presuppone l'individuazione di una nozione legale di ciascuna delle categorie cui la disciplina speciale si riferisce, dovendosi escludere che l'autonomia collettiva possa variare il campo di applicazione delle differenti discipline di fonte legislativa (Ichino, 253).

Al loro interno le categorie si suddividono in qualifiche (v. anche art. 96 disp. att.).

Impiegati e operai

Il punto di partenza per ogni analisi diretta ad individuare una definizione legale delle categorie previste dall'art. 2095 resta l'art. 1 r.d.l. n. 1825/1924 (espressamente richiamato dall'art. 95 disp. att.) che descrive l'attività svolta dall'impiegato come avente contenuto «tanto di concetto che di ordine, eccettuata pertanto ogni prestazione che sia semplicemente di mano d'opera». La norma, pertanto, enuncia chiaramente, quale criterio distintivo tra impiegati e operai quello del prevalente carattere, rispettivamente, intellettuale o manuale delle mansioni.

La dottrina ha tentato, in alcuni casi, di sintetizzare ulteriormente la distinzione operata dalla norma, affermando che l'impiegato è colui che collabora all'impresa, mentre l'operaio collabora nell'impresa (Santoro Passarelli, 1962, 260) oppure di “aggiornarla”, precisando che l'impiegato è prevalentemente addetto alla gestione di dati, mentre l'operaio è prevalentemente addetto alla manovra di macchine e strumenti e alla trasformazione diretta della materia (Ichino, 325). Altre volte, invece, ha esplicitamente denunciato l'inidoneità del criterio dell'intellettualità a costituire un soddisfacente criterio discretivo, considerato che quel carattere è spesso riscontrabile in misura maggiore nell'attività svolta da tanti operai specializzati rispetto a quella espletata da impiegati d'ordine (Pera, 544) e ammettendo esplicitamente l'impossibilità di una soddisfacente distinzione teorica tra le due categorie di lavoratori (P. Sandulli, 268).

La giurisprudenza è da tempo orientata a respingere la possibilità di far riferimento al carattere intellettuale o manuale dell'attività svolta (Cass. n. 981/1990); valorizza, invece, il tipo di collaborazione prestata dal lavoratore, che nel rapporto di impiego assumerebbe i caratteri di collaborazione specifica al processo organizzativo (tecnico o amministrativo) dell'impresa e di cooperazione in senso lato (sostitutiva oppure integrativa) all'attività dell'imprenditore, essendo invece di natura operaia le prestazioni che ineriscono al processo produttivo, di carattere meramente esecutivo, anche se non privo talora di una certa discrezionalità (Cass. n. 8819/1992; Cass. n. 3106/1990; Cass. n. 4857/1986). Fermo restando che, se il rapporto sia regolato da un contratto collettivo, la necessità di ricorrere alle nozioni legali delle categorie in questione sorge solamente quando ad esse fa esplicito riferimento il contratto collettivo, dovendosi altrimenti far esclusivo riferimento alla disciplina pattizia, le cui indicazioni assumono valore decisivo e vincolante anche per la classificazione di determinate mansioni nell'una o nell'altra categoria (Cass. n. 4520/1999; Cass. n. 5587/1993; Cass. n. 5363/1991).

Ad alcuni specifici fini (durata del patto di prova e del preavviso di licenziamento), il r.d.l. n. 1825/1924 distingue tra impiegati con funzioni direttive, impiegati di concetto e impiegati d'ordine. All'interno della categorie degli operai si suole distinguere tra operai comuni, qualificati e specializzati.

Ad avviso della giurisprudenza, il criterio distintivo tra le mansioni d'ordine e quelle di concetto va ravvisato nella facoltà di iniziativa e nella libertà di apprezzamento che caratterizzano quest'ultima (Cass. n. 6868/1987; v. anche Cass. n. 4857/1987, secondo la quale la distinzione fra l'impiegato con mansioni di concetto e l'impiegato con mansioni d'ordine risiede nella natura della attività svolta, che, rispettivamente è lavoro intellettuale originale con possibilità di determinazioni autonome, implicanti anche personale responsabilità, per l'impiegato di concetto, e lavoro, pur esso intellettuale, ma di mera attuazione delle direttive altrui, senza propria autonomia, per l'impiegato di ordine).

Nello stesso senso la dottrina (P. Sandulli, 263).

La giurisprudenza afferma poi che l'impiegato con funzioni direttive (spesso definito come pseudo-dirigente) è invece colui che è preposto a un singolo, subordinato ramo di servizio, ufficio o reparto, e svolge la sua attività sotto il controllo dell'imprenditore o di un dirigente, sicché la sua posizione gerarchica, i suoi poteri di iniziativa e le sue responsabilità sono corrispondentemente circoscritti e di più modesto e limitato rilievo sia all'interno dell'impresa e sia nei confronti dei terzi rispetto a quelli propri del dirigente (Cass. n. 18165/2015; Cass. n. 27464/2006; Cass. n. 13191/2003).

Quadri

La l. n. 190/1985, dopo aver sostituito il comma 1 dell'art. 2095, aggiungendo alla tradizionale tripartizione tra operai, impiegati e dirigenti, la categoria dei quadri (art. 1 l. n. 190/1985), all'art. 2 l. n. 190/1985 definisce questi ultimi come i «prestatori di lavoro subordinato che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgano funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa», rinviando poi alla contrattazione collettiva per l'individuazione dei requisiti di appartenenza a tale categoria di dipendenti e stabilendo il termine di un anno entro il quale le imprese avrebbero dovuto definire, attraverso la contrattazione collettiva, l'attribuzione della qualifica di quadro (art. 3 l. n. 190/1985).

Sulle conseguenze derivanti dalla mancata osservanza del termine in questione, la giurisprudenza ha affermato che il diritto al riconoscimento della qualifica di quadro è configurabile anche se, entro l'anno dall'entrata in vigore della legge, la contrattazione non abbia provveduto a stabilire i requisiti di appartenenza alla categoria, che, in tal caso, vanno desunti dalle specifiche indicazioni poste dalla legge, considerando che la categoria dei quadri non appartiene alla categoria dei dirigenti e che ai quadri, salvo diversa disposizione, si applicano le norme riguardanti la categoria degli impiegati (Cass. n. 21652/2006; Cass. n. 2246/1995). In senso diverso è stato però anche deciso che, il principio enunciato dall'art. 2, comma 2, l. n. 190/1985 secondo cui i requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri sono previsti dalla contrattazione collettiva (nazionale o aziendale) trova applicazione anche quando la suddetta contrattazione sia intervenuta in ritardo rispetto all'anno previsto dalla stessa legge; pertanto ritenere che in simile ipotesi debba farsi riferimento alle indicazioni contenute nel comma 1 dello stesso art. 2 (che ha solo carattere residuale applicandosi esclusivamente nell'ipotesi, anomala e transitoria, in cui la contrattazione collettiva non abbia affatto provveduto) per retrodatare il momento iniziale di appartenenza alla categoria in oggetto implica la disapplicazione dell'art. 2, comma 2, il quale attribuisce carattere esclusivo all'indicato criterio (Cass. n. 5953/1999; Cass. n. 275/1999; v. anche Cass. n. 10338/2000).

La dottrina ritiene che non sia possibile desumere dalle previsioni della l. n. 185/1990 una nozione legale di quadro, ma solamente l'esclusione di una eventuale sovrapposizione tra tale categoria di dipendenti e quella dei dirigenti (Ichino, 356; Bellavista, 510).

E la giurisprudenza aggiunge che la definizione legale contenuta nella legge del 1990 consentirebbe di includere tra i quadri anche lavoratori in precedenza inquadrati come operai muniti di elevata specializzazione (Cass. n. 3778/1986).

Dalla competenza della contrattazione collettiva a definire i requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri la giurisprudenza fa discendere l'infondatezza della pretesa del lavoratore di vedersi riconoscere tale categoria quando venga accertato che le relative mansioni non comportino le caratteristiche funzionali e professionali previste dalla contrattazione del settore per la qualificazione come quadro (Cass. n. 10338/2000; Cass. n. 11755/1998). Peraltro la contrattazione collettiva deve attenersi ai criteri direttivi dettati dalla l. n. 190/1985, la quale concepisce la categoria dei quadri quale intermedia tra quella dei dirigenti e quella degli impiegati e specifica che i suoi appartenenti svolgono in maniera continuativa funzioni di rilevante importanza ai fini dello sviluppo dell'impresa, pena l'illegittimità, ed anche la nullità, delle sue disposizioni ove sia dimostrato che la violazione della norma imperativa di legge leda interessi vitali dei lavoratori (Cass. n. 12214/1998).

Dirigenti

Secondo la giurisprudenza, il tratto caratterizzante della figura del dirigente è rappresentato dall'esercizio di un potere ampiamente discrezionale che incide sull'andamento dell'intera azienda o che attiene ad un autonomo settore produttivo della stessa (Cass. n. 15489/2007), con particolare rilevanza dell'autonomia e della discrezionalità delle scelte decisionali, in modo che l'attività del dirigente influisca sugli obiettivi complessivi dell'imprenditore (Cass. n. 15482/2005; Cass. n. 17344/2004). Quindi, non è necessaria la preposizione all'intera azienda (Cass. n. 15489/2007).

Così come si ritiene possibile la compresenza di una molteplicità di livelli dirigenziali, con graduazione di compiti ed autonomia decisionale, in relazione alla complessità dell'organizzazione aziendale (Cass. n. 18261/2009), nonché alle diversità delle forme di estrinsecazione della funzione dirigenziale ed alla contrattazione collettiva di settore, idonea ad esprime la volontà delle associazioni stipulanti in relazione alla specifica esperienza nell'ambito del singolo settore produttivo (Cass. n. 19579/2017). È comunque configurabile un rapporto gerarchico tra più dirigenti nell'ambito della stessa azienda (Cass. n. 31279/2019); tuttavia deve essere fatta salva, anche nel dirigente di grado inferiore, una vasta autonomia decisionale circoscritta dal potere direttivo generale di massima del dirigente di livello superiore (Cass. n. 8650/2005; Cass. 1899/1994) in modo che sia conservata al dirigente subordinato ampia autonomia nelle scelte funzionali alla realizzazione degli obiettivi dell'impresa (Cass., n. 31279/2019)..

La giurisprudenza esclude, poi, che per la qualificazione dirigenziale sia necessaria la preposizione institoria (Cass. n. 1743/1987) e, comunque, l'attribuzione di poteri di rappresentanza, potendo la funzione dirigenziale esplicarsi anche solamente in ambito infra-aziendale (Cass. n. 7095/1987). 

Ovviamente, così come, in generale, la qualità di socio ed amministratore di una società è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, tale conclusione vale anche per il rapporto di lavoro di natura dirigenziale, ove il vincolo della subordinazione risulti da un concreto assoggettamento del socio-dirigente alle direttive ed al controllo dell'organo collegiale amministrativo (Cass. n. 7465/2002; Cass. n. 706/1993).

Per la distinzione tra dirigenti e impiegati con funzioni direttive (c.d. pseudo-dirigenti), v. supra.

Diversa è la fattispecie del dirigente per convenzione, vale a dire del dipendente al quale la qualifica dirigenziale venga riconosciuta a prescindere dalla corrispondenza della stessa alle mansioni effettivamente svolte. Al riguardo la giurisprudenza ritiene la legittimità di simili attribuzioni di trattamenti di miglior favore (Cass. n. 13326/2002; Cass. n. 1068/1997; Cass. n. 4437/1995).

La stessa giurisprudenza, tuttavia, afferma che la qualifica di dirigente riconosciuta dal datore di lavoro può essere utilmente contestata dal lavoratore al fine di conseguire l'applicazione della disciplina legale limitativa dei licenziamenti, dimostrando la non corrispondenza delle mansioni svolte a quelle della categoria dei dirigenti, e quindi il carattere meramente convenzionale della qualifica attribuita (Cass. n. 5041/1999; Cass. n. 3056/1998).

Le categorie convenzionali

È ammessa la possibilità per la contrattazione collettiva di prevedere categorie aggiuntive rispetto a quelle previste dall'art. 2095.

Tra queste si segnala, anzitutto, quella dei funzionari, presente soprattutto nei settori del credito e delle assicurazioni, che comprende dipendenti che svolgono mansioni di natura direttiva.

La giurisprudenza ha chiarito che l'equiparazione dei funzionari ai dirigenti non può essere affermata sulla base del rilievo che il rapporto di lavoro della prima di dette categorie sia disciplinato insieme con il rapporto dei dirigenti da un unico contratto collettivo nazionale, che assegna alle due categorie la comune qualificazione di «personale direttivo», avendo invece valore decisivo la concreta disciplina dell'uno e dell'altro rapporto, in relazione alle rispettive mansioni ed alla posizione dei lavoratori nei confronti dell'imprenditore (Cass. n. 13232/1991; Cass. n. 5084/1988).

Avendo la categoria natura contrattuale, non esiste una nozione avente una valenza generale (Cass. n. 9020/2001; Cass. n. 8022/1996). Ne consegue che, per stabilire se la qualifica spetti al prestatore di lavoro, in relazione alle mansioni svolte, è necessario fare esclusivo riferimento alle indicazioni ed ai requisiti della contrattazione collettiva, ai quali solo il giudice deve ritenersi vincolato, senza poter ricorrere ad altri criteri per stabilire il significato delle determinazioni contrattuali (Cass. n. 12412/2002; Cass. n. 10666/2000).

La categoria degli intermedi, invece, comprende lavoratori che si collocano al livello immediatamente superiore a quello costituito dalla massima qualifica di operaio, tant'è vero che la giurisprudenza afferma che per l'inquadramento in tale categoria è sufficiente la sussistenza di uno solo dei requisiti previsti dalla contrattazione collettiva e cioè la esplicazione di mansioni superiori a quelle degli operai classificati nella massima categoria degli operai stessi oppure lo svolgimento di particolari mansioni di fiducia e responsabilità normalmente non attribuite agli operai oppure la guida e il controllo di un gruppo di operai con apporto di competenza tecnico-pratica (Cass. n. 10628/1991; Cass. n. 2074/1990).

Bibliografia

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