Codice Civile art. 2099 - Retribuzione.Retribuzione. [I]. La retribuzione del prestatore di lavoro può essere stabilita a tempo o a cottimo [2100, 2101] e deve essere corrisposta nella misura determinata [dalle norme corporative] (1), con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito [36, 37 Cost.]. [II]. In mancanza [di norme corporative o] (1) di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice, [tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali] (1). [III]. Il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti [2102], con provvigione o con prestazioni in natura [2121]. (1) Le disposizioni richiamanti le norme corporative devono ritenersi abrogate in seguito alla soppressione dell'ordinamento corporativo. InquadramentoPer retribuzione si indica, in generale, quanto dovuto dal datore di lavoro al prestatore quale corrispettivo per l'esecuzione del contratto. La dottrina concorda nel sottolineare come manchi tuttavia una definizione generale di retribuzione (Perone, 36; Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 259), essendo rinvenibili nell'ordinamento giuridico una pluralità di definizioni di retribuzione dalle diverse fonti legali che si occupano, a vari fini, della disciplina dell'istituto. L'articolo in commento indica una serie di metodi per determinare l'ammontare della retribuzione, prevedendo, in mancanza dell'accordo delle parti, l'intervento del giudice. Le forme indicate nella norma sono: retribuzione a tempo, retribuzione a cottimo, partecipazione agli utili o ai prodotti, provvigione, retribuzione in natura. L'elencazione è tuttavia meramente esemplificativa (Dell'Olio, in Tr. Res., XV, 2004, 620). Forme di retribuzioneRetribuzione a tempo e retribuzione a cottimo La retribuzione a tempo è quella determinata in ragione del tempo di lavoro; quella a cottimo è determinata in rapporto alla quantità del risultato del lavoro. Per questa seconda forma di retribuzione, v. sub artt. 2100 e 2101. Retribuzione in denaro e retribuzione in natura La retribuzione è dovuta di norma in una somma di denaro, costituendo - per il datore di lavoro - un debito pecuniario cui si applica il principio nominalistico, in forza del quale il debito si estingue con moneta avente corso legale e per il suo valore nominale (art. 1277). A norma dell'art. 2099, essa però può consistere anche — in tutto o in parte — in prestazioni in natura, e cioè in beni di uso o consumo che il datore corrisponde al prestatore di lavoro. Tradizionali esempi di prestazioni in natura sono costituite: 1) dalla concessione dell'alloggio, ma solamente qualora vi sia connessione con la posizione lavorativa del dipendente (Cass. n. 38169/2022); in tal caso, le spese necessarie per rendere idonei all'uso i locali destinati ad alloggio del lavoratore devono restare ad esclusivo carico del datore di lavoro, senza che ai relativi oneri possa essere chiamato a concorrere, sia pure in parte, il dipendente: Cass. n. 540/1973; sulla distinzione tra l'ipotesi di contratto di locazione in cui il corrispettivo a carico del conduttore è costituito in parte da un'attività lavorativa resa in favore del locatore, da quella del contratto di lavoro in cui il godimento di un locale costituisce parte della retribuzione, v. Cass. n. 3383/2011 e Cass. n. 12871/1998; 2) dall'erogazione di viveri; 3) dalla predisposizione, da parte del datore di lavoro, di un servizio di mensa (laddove l'importo della prestazione pecuniaria sostitutiva di tale servizio non ha natura retributiva, salvo espressa previsione in tal senso da parte del contratto collettivo, secondo quanto disposto dall'art. 6, comma 3, l. n. 359/1992: Cass. n. 5690/1994); la giurisprudenza ha precisato, tuttavia, che il valore dei pasti, di cui il lavoratore può fruire in una mensa aziendale o presso esercizi convenzionati con il datore di lavoro, non costituisce elemento integrativo della retribuzione, allorché il servizio mensa rappresenti un'agevolazione di carattere assistenziale, anziché un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, per la mancanza di corrispettività della relativa prestazione rispetto a quella lavorativa e di collegamento causale tra l'utilizzazione della mensa ed il lavoro prestato, sostituendosi ad esso un nesso meramente occasionale con il rapporto (Cass. n. 14835/2009; Cass. n. 11212/2003); e ciò si verifica, in particolare, quando non è prevista l'erogazione di un'indennità sostitutiva in favore di tutti i lavoratori che non vogliano (o non abbiano la possibilità di) usufruire della mensa (Cass. n. 7187/1996); poiché l'indennità di mensa presuppone lo svolgimento del servizio nella sede aziendale e la necessità di consumare il pasto fuori di casa, sopportando il maggior esborso, la stessa non spetta ove il lavoratore sia stato, pur illegittimamente, sospeso dal servizio (Cass. n. 17218/2010) ovvero sia in posizione di distacco sindacale (Cass. n. 13841/2015); 4) dai c.d. fringe benefits, costituiti da beni o servizi dei quali il dipendente può usufruire gratuitamente o a condizioni più vantaggiose di quelle di mercato, posti a disposizione del datore di lavoro (in giurisprudenza, v.: Cass. n. 19613/2003 e Cass. n. 16129/2002, con riferimento al caso dell'autovettura concessa contrattualmente dal datore di lavoro al dipendente, anche per uso personale; Cass. n. 8538/1991, rispetto al pagamento degli importi dei premi dell'assicurazione per responsabilità civile, incendio e furto dell'autovettura personale del dipendente, nonché per il rischio di infortuni in occasione della guida); al riguardo la giurisprudenza sottolinea comunque la necessità che venga verificato se il riconoscimento del beneficio, in base alle pattuizioni che lo prevedono e alle particolarità del caso concreto, abbia natura retributiva (qualora esso si riferisca a spese effettuate dal lavoratore per adempiere, sia pur indirettamente, agli obblighi della prestazione lavorativa, risolvendosi in un adeguamento della retribuzione) ovvero risarcitoria, se l'attribuzione si riferisca a spese che il lavoratore è tenuto a sopportare nell'esclusivo interesse del datore di lavoro, costituendo la reintegrazione di una diminuzione patrimoniale collegata alle modalità della prestazione lavorativa svolta — (Cass. n. 14835/2009, con riferimento ad un caso in cui si trattava dell'uso dell'autovettura e del cellulare). La giurisprudenza ha ritenuto che la cessione ai dipendenti di prodotti aziendali a prezzi scontati costituisce una prestazione in natura correlata al rapporto di lavoro, che è soggetta a contribuzione previdenziale, ai sensi dell'art. 12 l. n. 153/1969, in base al valore di tale tipo di beneficio (Cass. n. 5246/1995). Le provvigioni La provvigione è un compenso ragguagliato in percentuale al valore degli affari trattati o, a seconda dei casi, di quelli andati a buon fine. Ad avviso della giurisprudenza, il sistema di remunerazione a provvigioni mal si concilia con il rapporto di lavoro subordinato, che è caratterizzato da una retribuzione certa, continua, non riducibile e proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, dovendo ritenersi eccezionali le forme di retribuzione del lavoro subordinato con partecipazione agli utili e ai profitti o con provvigione senza contemporanea pattuizione di una retribuzione-base o di minimi garantiti (Cass. n. 35/1984; Cass. n. 6606/1981; Cass. n. 4270/1980). In alcune occasioni, la stessa giurisprudenza ha più radicalmente sostenuto che nel rapporto di lavoro subordinato, che è un contratto a prestazioni corrispettive insuscettibile di tramutarsi in contratto aleatorio, la commisurazione della retribuzione non può essere integralmente rimessa ad eventi aleatori, indipendenti, in tutto o in parte, dalla prestazione di lavoro, come il valore degli affari trattati e gli utili realizzati dall'imprenditore, essendo sempre necessaria la previsione di un minimo garantito (Cass. n. 2132/1984; Cass. n. 4267/1983). La giurisprudenza ha inoltre statuito che, nell'ipotesi in cui il lavoratore subordinato sia retribuito in parte in misura fissa, secondo il minimo previsto dalla contrattazione collettiva, ed in parte con provvigioni calcolate sugli affari promossi che superino un certo tetto convenzionalmente fissato, il riscontro dell'adeguatezza della retribuzione secondo i canoni di sufficienza e di proporzionalità stabiliti dall'art. 36 Cost. deve essere effettuato con riferimento, non già esclusivamente al minimo contrattuale, bensì anche alle provvigioni; pertanto, viola il citato precetto costituzionale l'ulteriore clausola del contratto individuale di lavoro che preveda l'assorbimento delle provvigioni nei miglioramenti retributivi del predetto minimo (Cass. n. 3674/1985). Qualora le parti scelgano questa forma di corrispettivo, la provvigione assume a tutti gli effetti carattere di elemento costitutivo della retribuzione, determinandone l'effettiva entità globale, senza che al suo riguardo possa trovare applicazione il sistema normativo regolante il cottimo (Cass. n. 1153/1983). La partecipazione ai prodotti La partecipazione ai prodotti è per lo più usata nelle attività di lavoro agricolo e nella pesca quando la retribuzione è determinata in forma di partecipazione al nolo o agli altri proventi o prodotti del viaggio, con la fissazione di un minimo garantito (artt. 325, 337, 361 c. nav.). Parte della dottrina ritiene che si tratti di una specie di retribuzione in natura (Perone, 65), altra parte che invece si tratti di una specie particolare di provvigione (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 268; invece, nel senso che la provvigione è una forma particolare di partecipazione ai prodotti, Ghera, 138). La partecipazione agli utili Dalle provvigioni e dalla partecipazione ai prodotti si distingue la partecipazione agli utili, in cui il compenso del lavoratore è dato da una percentuale sugli utili conseguiti dall'impresa. Al riguardo, v. sub art. 2102. I caratteri della retribuzioneLa corrispettività La corrispettività della retribuzione è requisito che discende dalla funzione del contratto di lavoro, il quale è tale quando sia prevista la retribuzione come obbligo datoriale legato da nesso di causalità alla prestazione lavorativa, onde la retribuzione è l'attribuzione patrimoniale che abbia causa in tale prestazione (Perone, 46). L'esatta portata di tale principio nel contratto di lavoro va colta, peraltro, tenendo presente anche le altre disposizioni di carattere generale che influiscono sui caratteri propri di tale obbligazione datoriale. Così, la dottrina ha evidenziato che l'art. 2094 ha introdotto una nozione ampia di retribuzione laddove per quest'ultima intende non solo il corrispettivo delle energie lavorative erogate dal prestatore, ma anche il compenso per essere a disposizione del datore di lavoro (Mortillaro, 2). Ancor più significativamente, l'art. 36 Cost. ha inciso sul nesso di sinallagmaticità stabilendo che la retribuzione deve essere in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Ad avviso della dottrina, comunque, il principio costituzionale della sufficienza della retribuzione non destituisce di fondamento il carattere corrispettivo di quest'ultima alla prestazione lavorativa, ma vi introduce qualificazioni e sviluppi, in rispondenza alle esigenze di tutela del reddito vitale del prestatore (Perone, 49). Quali difformità rispetto alla regola consueta della corrispettività alla prestazione lavorativa si pongono inoltre una serie di prestazioni, in tutto o in parte ragguagliate alla retribuzione, dovute dal datore in costanza di rapporto di lavoro, ma in assenza della prestazione lavorativa, come nei casi di sospensione della prestazione lavorativa di cui agli artt. 2110 e 2111 e in quelli di permessi e congedi introdotti dalla legge e dai contratti collettivi per motivi sindacali, di studio, di esercizio di funzioni pubbliche. Secondo parte della dottrina tali ipotesi indicano una vera e propria deroga al principio della corrispettività, trattandosi di emolumenti che, pur erogati in assenza di corrispondente prestazione lavorativa, trovano la loro fonte nel contratto di lavoro e sono dirette a realizzare il medesimo interesse sostanziale cui è rivolta la retribuzione (Treu, 269; v. anche Ghera, 158, per il quale tali ipotesi, pur non costituendo una negazione del principio di corrispettività, ne comportano una notevole deviazione). Secondo altri Autori, invece, nessuna deroga al principio di corrispettività è individuabile neppure in tali casi, ove la corrispettività della retribuzione venga intesa in senso non meramente oggettivo, ma altresì soggettivo, vale a dire riguardosa, ex art. 36, comma 1, Cost., delle esigenze della persona del lavoratore pure in relazione ai momenti di sospensione e pausa dell'attività lavorativa; onde la corrispettività della retribuzione va concepita in correlazione con la collaborazione globalmente intesa, e dunque pure con riguardo a situazioni in cui la collaborazione subisce pause e ritmi reputati tuttavia compatibili con la continuità del rapporto dalle fonti di disciplina dello stesso (Perone, 47; Dell'Olio, in Tr. Res., XV, 2004, 472). La giurisprudenza ha accolto questa concezione, affermando che il concetto di retribuzione introdotto dall'art. 36 Cost. impedisce ogni relazione puramente matematica e contabile tra retribuzione e prestazione lavorativa e comprende tutto quanto soddisfa non soltanto l'essenza qualitativa e quantitativa dell'attività lavorativa, ma anche gli ulteriori bisogni, sociali e familiari, del lavoratore, quale elemento stabilmente inserito nell'impresa, in essi compresi quelli inerenti all'efficienza della sua personalità fisio-psichica, salvaguardata attraverso le pause settimanali ed annuali della suddetta prestazione (Cass. n. 6555/1982, che ne fa discendere la conseguenza secondo la quale la retribuzione mensile corrisposta ai lavoratori subordinati deve intendersi relativa a tutti i giorni del mese, ivi compresi quelli di carenza della prestazione lavorativa in quanto destinati al soddisfacimento delle menzionate esigenze, onde la retribuzione giornaliera, da assumere come base di computo di determinati emolumenti, si calcola dividendo per trenta e non per ventisei quella mensile). L'obbligatorietà L'obbligatorietà della corresponsione è la condizione necessaria, anche se non sufficiente (ad esempio, al rimborso delle spese sostenute dal lavoratore la giurisprudenza attribuisce natura risarcitoria e non retributiva: Cass. n. 16180/2011), della qualificazione in termini di retributività delle attribuzioni patrimoniali del datore di lavoro in favore di dipendenti. Esula pertanto dalla nozione di retribuzione l'erogazione disposta volontariamente, senza che al versamento nei confronti del prestatore il datore di lavoro sia vincolato dalla legge, dall'autonomia, collettiva e individuale, o da comportamenti - segnatamente dalla reiterazione del versamento - dai quali possa desumersi l'assunzione dell'impegno alla corresponsione. A proposito delle conseguenze della reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti che si traduca in trattamento economico o normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti individuali e collettivi, v. sub art. 2077. La proporzionalità e la sufficienza A norma dell'art. 36 Cost. «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa». La dottrina intende il principio di proporzionalità come un criterio oggettivo di equivalenza alla quantità e qualità del lavoro (Ghera, 133). Il principio di sufficienza, invece, impone che al lavoratore venga assicurato non solo un minimo vitale, bensì anche il raggiungimento di un tenore di vita socialmente adeguato (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 252; Ghera, 133). A quest'ultimo proposito, la giurisprudenza ha precisato che la retribuzione sufficiente deve essere in ogni caso determinata solo con riguardo all'importo di quella percepita, e non anche ad altri redditi dei quali il lavoratore sia eventualmente provvisto (Cass. n. 11395/1993). La giurisprudenza ha ritenuto i suddetti principi immediatamente precettivi, con la conseguenza che il giudice può sindacare se la retribuzione erogata al lavoratore sia conforme al dettato costituzionale. Al riguardo il parametro di riferimento è rappresentato dai minimi salariali previsti dai contratti collettivi propri del settore corrispondente all'attività svolta dal datore di lavoro, anche nel caso in cui essi non siano direttamente applicabili al rapporto di lavoro (giurisprudenza consolidata a partire da Cass. S.U., 2665/1997; v. Cass. n. 24160/2015 e Cass. n. 26742/2014). Da essi però può motivatamente discostarsi, anche d’ufficio, quando esse contrastino con i criteri dell’art. 36 Cost. e, in tal caso, può far riferimento ad altri contratti colettivi di settori affini o per mansioni analoghe (Cass. n. 27711/2023). In proposito si precisa che il giudice il quale assuma come criterio orientativo un contratto collettivo non vincolante per le parti, non può fare riferimento a tutti gli elementi e gli istituti retributivi che concorrono a formare il complessivo trattamento economico, ma deve prendere in considerazione solo quelli che costituiscono il cosiddetto minimo costituzionale, vale a dire la retribuzione base (Cass. n. 14791/2008), comprensiva della tredicesima mensilità (Cass. n. 12520/2004; Cass. 10465/2000), con esclusione degli istituti retributivi legati all'autonomia contrattuale, come la quattordicesima mensilità (Cass. n. 944/2021;Cass. n. 18584/2008), gli scatti di anzianità (Cass. n. 944/2021;Cass. n. 17274/2004), il compenso di reperibilità (Cass. n. 27138/2013). La stessa giurisprudenza afferma che il giudice di merito può fare riferimento al contratto collettivo aziendale anziché a quello nazionale, in quanto rispondente al principio di prossimità all'interesse oggetto di tutela, pur se peggiorativo rispetto al secondo, e pur se intervenuto in periodo successivo alla conclusione del rapporto di lavoro (Cass. n. 1415/2012; Cass. n. 19467/2007). Il giudice rimane comunque libero di utilizzare parametri diversi, quali la natura e le caratteristiche dell'attività svolta, le nozioni di comune esperienza e, in difetto di ogni altro utile elemento, anche criteri equitativi (Cass. n. 4200/1992; Cass. n. 2835/1990), così come le condizioni di mercato (Cass. n. 9759/2002; Cass. n. 502/1987). La garanzia apprestata dall'art. 36 Cost. si riferisce al trattamento economico globale e non ai singoli elementi che lo compongono (Cass. n. 22233/2006), sicché i criteri della proporzionalità e della sufficienza non trovano applicazione in caso di erogazione di un compenso per lavoro straordinario inferiore a quello erogato per l'orario ordinario (Cass. n. 1173/2009; Cass. n. 5934/2004). Essa, inoltre, non copre tutto il trattamento economico del dipendente, ma si riferisce alla retribuzione che, nell'ordinario sinallagma contrattuale, è destinata a compensare la prestazione lavorativa eseguita nella normalità delle situazioni, onde non si applica in caso di un compenso (un premio di produzione) collegato alle mere modalità di esecuzione della prestazione (Cass. n. 12054/2003). La determinatezza o determinabilità La dottrina ricollega la determinatezza (o determinabilità) della retribuzione all'onerosità caratteristica del contratto di lavoro, dove il bene dovuto non può rimettersi all'arbitrio del datore debitore, ma deve essere determinato in termini equivalenti al lavoro (Perone, 11). In senso diverso, altra parte della dottrina ha contestato che il carattere in questione abbia valore qualificante, considerata la possibilità concessa al giudice dall'art. 432 c.p.c., di procedere ad una valutazione equitativa (Zoli, 420). La continuatività La dottrina tende a negare rilevanza qualificante alla continuatività, perché possono esservi voci retributive non continuative, così come voci continuative non retributive, e considera tale carattere come un mero indice dell'obbligatorietà (Zoli, 420; Perone, & 10). Il principio dell'onnicomprensivitàDopo un vivace contrasto, la giurisprudenza di legittimità è ormai consolidata (a partire da Cass. S.U., n. 1069/1984) nel senso che il cosiddetto principio dell'onnicomprensività della retribuzione, con inclusione cioè di ogni compenso avente caratteri di continuità, obbligatorietà e determinatezza, adottato dal legislatore per il calcolo di determinati emolumenti, non ha valore di regola generale dell'ordinamento, limitativa dell'autonomia privata, e non osta a che questa, nel rispetto dei precetti fissati dall'art. 36 Cost. in tema di quantità della retribuzione, dopo aver previsto un compenso di natura retributiva, disponga di non includere tale elemento nel calcolo della retribuzione rilevante per altri istituti contrattuali, od anche legali, laddove manchi una norma che imponga di commisurarlo a tutti gli elementi della retribuzione, specificamente considerati (pe recenti riaffermazioni di tale posizione, v. Cass. n. 813/2013; Cass. n. 5591/2012). Egualmente in senso negativo è la dottrina assolutamente prevalente (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 260; Perone, 77; Angiello, 115). Il principio della parità retributivaNonostante che alcune affermazioni espresse nella sentenza Corte cost. n. 103/1989 si prestassero ad essere utilizzate per giustificare posizioni in senso diverso (sostenute anche da una parte minoritaria della dottrina: v. Angiello, 60; contra, Dell'Olio, in Tr. Res., XV, 2004, 609; Scognamiglio, 592), la giurisprudenza di legittimità è sempre stata ferma nel negare l'esistenza nel nostro ordinamento di un principio che imponga al datore di lavoro, nell'ambito dei rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione a tutti i lavoratori svolgenti le medesime mansioni, posto che l'art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza ed adeguatezza della retribuzione prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e che l'art. 3 Cost. impone l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non anche nei rapporti interprivati (Cass. n. 16015/2007; Cass. n. 7752/2003; Cass. S.U., 6030/1993). Ne discende, tra l'altro, che deve escludersi che dall'attribuzione ingiustificata di un beneficio a determinati lavoratori possa derivare per i lavoratori pretermessi il diritto ad ottenere lo stesso beneficio o il risarcimento del danno, rimanendo inapplicabili in tal caso anche le clausole generali di correttezza e buona fede, le quali, come tramite per il controllo sulla ragionevolezza degli atti di autonomia negoziale, possono operare soltanto all'interno del rapporto di lavoro in relazione ai valori espressi nel rapporto medesimo e nella contrattazione collettiva, e non possono, invece, spiegare la loro efficacia in relazione a comportamenti esterni, adottati dal datore di lavoro nell'ambito di rapporti di lavoro diversi (Cass. n. 11424/2006). Altra conseguenza della affermata inesistenza di un generale principio di parità di trattamento retributivo è la possibilità per le parti sociali, nell'esercizio della loro autonomia collettiva, di prevedere, in occasione di un rinnovo di un contratto collettivo, che determinati aumenti della retribuzione, riconosciuti con effetto retroattivo, spettino unicamente ai lavoratori in servizio alla data del rinnovo, e non anche ai lavoratori cessati dal servizio a tale data, ancorché in servizio nel precedente periodo relativamente al quale siano stati (retroattivamente) attribuiti i miglioramenti retributivi (Cass. n. 16032/2004; Cass. n. 10648/1990). Si ammette, tuttavia, che l'attribuzione di un trattamento retributivo superiore a parità di mansioni, in assenza di qualsivoglia apprezzabile motivazione del trattamento differenziale, potrebbe essere sintomatica di un comportamento discriminatorio del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori esclusi dai trattamenti economici privilegiati e fondare il diritto di questi ultimi (non già al medesimo trattamento, bensì) al risarcimento del danno, sempre che risulti provata non solo la mera disparità di trattamento (fatto di per sé legittimo), ma anche l'illegittimità del comportamento datoriale, attraverso la prova dell'intento discriminatorio, riscontrabile anche nella violazione concreta dei criteri di correttezza e buona fede, nonché nella mancanza di qualsivoglia motivazione del trattamento privilegiato, dovendo peraltro rilevarsi l'insufficienza del mero canone della ragionevolezza, che rappresenta un utile criterio di valutazione del rispetto del principio posto dall'art. 3 Cost. da parte del legislatore, ma non può essere applicato con la stessa efficacia nei regolamenti privati di interesse che siano frutto di autonomia contrattuale (Cass. n. 9643/2004). Diversamente, nella disciplina del rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato è rinvenibile una espressa affermazione delle principio di parità di trattamento retributivo (art. 45, comma 2, d.lgs. n. 165/2001). Modalità e termini di pagamento della retribuzioneL'art. 2099 dispone che la retribuzione va corrisposta al prestatore, ove non sussista in proposito specifica regolamentazione convenzionale, con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito. Ad avviso della dottrina, nell'ipotesi in cui il lavoro sia prestato in sede differente da quella dell'impresa, modalità e termini di pagamento della retribuzione restano quelli in uso nel luogo ove il lavoro venga eseguito, secondo un principio di adeguamento dell'ordinamento alle concrete situazioni nelle quali si esplica l'attività lavorativa (Perone, 78). In genere la retribuzione viene corrisposta secondo il principio della postnumerazione, vale a dire in via posticipata rispetto alla prestazione di lavoro, principio che, ad avviso della giurisprudenza, da un lato, rappresenterebbe un uso consolidato e costante elevato a norma legale e, dall'altro, può essere legittimamente derogato dalle parti (Cass. n. 3028/1989). In caso di ritardo nel pagamento, sono dovuti al lavoratore, ai sensi dell'art. 429 c.p.c., interessi legali e rivalutazione monetaria, i quali, tuttavia, non esauriscono la tutela accordata al dipendente, che può dimostrare di aver subito un danno maggiore e pretenderne quindi il risarcimento (Perone, 80; Dell'Olio, in Tr. Res., XV, 2004, 625). 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