Codice Civile art. 2105 - Obbligo di fedeltà.

Paolo Sordi

Obbligo di fedeltà.

[I]. Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio [2106, 2125].

Inquadramento

L'art. 2105 definisce il contenuto dell'obbligo di fedeltà del lavoratore prevedendo, a carico di questi, due distinti divieti: quello di trattare affari in concorrenza con il datore di lavoro (obbligo di non concorrenza) e quello di divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa o di farne uso in modo da poter arrecare ad essa pregiudizio (obbligo di riservatezza).

Secondo la dottrina (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 172; Grandi, 343) e la giurisprudenza (Cass. n. 14176/2009), si tratta di specificazioni delle generali direttive di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375.

La dottrina precisa che gli obblighi in questione (di contenuto negativo) sono ascrivibili alla categoria dei c.d. obblighi di protezione, vale a dire a quelli che gravano sulle parti dei rapporti obbligatori per la tutela di interessi della controparte (nella fattispecie: quello alla capacità di concorrenza dell'impresa e alla sua posizione di mercato) distinti, ma correlati, con l'esecuzione delle prestazioni principali (Caricni-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 172; Ghera, 86; Grandi, 343).

Il contenuto dell'obbligo di fedeltà in generale

Ad avviso della giurisprudenza, l'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato, sancito dall'art. 2105, va integrato in relazione agli artt. 1175 e 1375, e pertanto ha un contenuto più ampio rispetto a quello risultante dalla prima delle predette disposizioni codicistiche.

Sulla base di tale concezione, si afferma, così, che il lavoratore anche nei comportamenti extralavorativi deve attenersi ai principi di correttezza e buona fede, sì da non danneggiare il datore di lavoro (Cass. n. 2550/2015; Cass. n. 144/2015; Cass. n. 25161/2014). Oppure che è lesiva dell'obbligo di fedeltà anche la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno (Cass. n. 2474/2008).

Una simile estensione dei doveri discendenti dall'obbligo di fedeltà trova comunque un limite nei valori tutelati costituzionalmente i quali non possono essere recessivi rispetto ai diritti-doveri connaturali al rapporto di lavoro (Cass. n. 3822/2011, con riferimento a comportamenti del dipendente che siano espressivi della libertà di pensiero).

La dottrina si esprime, in genere, in termini sfavorevoli nei riguardi di un simile indirizzo giurisprudenziale, rilevando come il modesto contenuto recettivo dell'art. 2105 non sia idoneo a giustificare l'affermazione di un generale dovere del lavoratore dall'astenersi di tutto ciò che potrebbe essere pregiudizievole al datore di lavoro (Buoncristiano, in Tr. Res., XV, 1986, 580; Magrini, 412; Grandi, 343), aggiungendo che dal disposto dell'art. 8 l. n. 300/1970 (il quale ammette il rilievo delle qualità del prestatore solo in quanto inerenti al contenuto professionale della prestazione), si desume la conferma dell'irrilevanza di indeterminati e generici profili fiduciari all'interno del rapporto di lavoro (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 172).

Obbligo di fedeltà e organizzazioni di tendenza

La dottrina ha affermato che è contraddittorio ammettere l'estensione dell'art. 2105 alle organizzazioni di tendenza, vale a dire le organizzazioni di carattere politico, o religioso, o sindacale, o più latamente qualificate da una «tendenza» o «ideologia» come finalità esplicitamente perseguita; infatti, se i limiti dell'obbligazione di fedeltà sono quelli testualmente segnati dalla norma in esame, essa sarebbe inconcepibile rispetto a questi enti, i quali non perseguono normalmente fini imprenditoriali; pertanto nelle organizzazioni di tendenza la non incompatibilità della prestazione rispetto alla finalità «ideologica» perseguita non atterrebbe tanto all'osservanza del dovere di fedeltà, quanto ai criteri di diligenza, di correttezza e di buona fede, che devono conformare la prestazione, e che, sul piano generale, escludono comportamenti contraddittori con lo scopo della prestazione stessa o che possano ledere l'elemento fiduciario posto alla base del rapporto (Grandi, 343).

Si ammette comunque che una simile estensione dell'obbligo di fedeltà possa legittimamente essere prevista da una previsione contrattuale, anche tacita (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 174).

Il divieto di concorrenza

Il divieto di concorrenza posto a carico del lavoratore dall'art. 2105 consiste nel divieto di trattare affari in conto proprio o di terzi in concorrenza con l'imprenditore nel medesimo settore produttivo o commerciale e prescinde dall'idoneità del comportamento ad integrare la fattispecie della concorrenza sleale di cui all'art. 2598 (in giurisprudenza, Cass. n. 2239/2017Cass. n. 9056/2006); pertanto esso comprende anche condotte che, valutate alla stregua della norma da ultimo citata, sarebbero da considerarsi lecite (in dottrina, Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 173; Magrini, 412; Mattarolo, 95).

Esso riguarda comportamenti che solo il lavoratore subordinato in quanto tale può tenere e presuppone, pertanto, la costanza del rapporto di subordinazione (incluso il periodo di preavviso: Cass. n. 3543/2021); ne deriva che non può configurarsi l'illecito previsto da detta norma qualora i comportamenti denunziati siano successivi alla cessazione del rapporto di lavoro (Cass. n. 18459/2014; Cass. n. 10818/1996). Al fine di estendere il divieto di concorrenza al periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro è necessaria la stipula di un patto di non concorrenza ai sensi dell'art. 2125 (Cass. n. 595/1987).

Quale svolgimento di tale principio, si afferma che, per integrare la violazione dell'art. 2105, non sono sufficienti gli atti che esprimano il semplice proposito del lavoratore di intraprendere un'attività economica concorrente con quella del datore di lavoro, eventualmente in un momento successivo allo scioglimento del rapporto di lavoro, ma è necessario che almeno una parte dell'attività concorrenziale sia stata compiuta, così che il pericolo per il datore di lavoro sia divenuto concreto durante la pendenza del rapporto (Cass. n. 13394/2004; Cass. n. 3528/1997). Nella stessa prospettiva, è stato deciso che non sono sufficienti gli atti preparatori di una attività economica concorrente, salvo che essa si concreti, durante la pendenza del rapporto, in atti — sia pure iniziali — di gestione (Cass. n. 19132/2003). Al riguardo, la giurisprudenza ritiene che integra violazione del dovere di fedeltà la costituzione di una società per lo svolgimento della medesima attività economica svolta dal datore di lavoro (Cass. n. 16377/2006; Cass. n. 6654/2004; Cass. n. 512/1997; contra, in dottrina, Mattarolo, 116).

Quanto allo svolgimento di attività lavorativa alle dipendenze di un'impresa in concorrenza con il datore di lavoro, la giurisprudenza afferma che essa può configurare la violazione del divieto di cui all'art. 2105, sotto il profilo della «trattazione di affari per conto terzi in concorrenza con l'imprenditore», solo ove tale concorrenza consista in atti rientranti in prestazioni di carattere intellettuale di notevole autonomia e discrezionalità, dato che proprio coloro che fanno parte del personale impiegatizio più altamente qualificato sono in grado — al di fuori dell'ipotesi di divulgazione di notizie riservate o di metodi di lavoro peculiari — di porre in essere quella concorrenza più intensa che il legislatore ha inteso reprimere (Cass. n. 13329/2001; Cass. n. 6381/1981).

L'obbligo di riservatezza

Il divieto di divulgazione, anche non pregiudizievole, ed il divieto di uso potenzialmente pregiudizievole delle notizie inerenti all'organizzazione aziendale proteggono l'interesse del datore di lavoro a preservare il segreto sul patrimonio immateriale dell'impresa, e ad evitare quella particolare forma di abuso che consiste nello sfruttamento di elementi di tale patrimonio da parte del lavoratore, a vantaggio proprio o di terzi (in dottrina, Magrini, 412).

La giurisprudenza afferma che la violazione dell'obbligo di riservatezza comporta inevitabilmente la lesione dell'elemento fiduciario, a prescindere dall'entità e dalla stessa esistenza in concreto del danno conseguente a tale violazione (Cass. n. 4328/1996).

La responsabilità contrattuale conseguente alla inosservanza di tali divieti coesiste con la responsabilità penale per il delitto di rivelazione di segreto professionale (art. 622 c.p.) e quello di rivelazione di segreti scientifici o industriali (art. 623 c.p.), ed eventualmente, sussistendone i requisiti, anche con la responsabilità extracontrattuale per concorrenza sleale (in dottrina, Magrini, 412).

La dottrina è divisa circa la durata del divieto in oggetto. Una parte ritiene che esso venga meno all'atto della cessazione del rapporto, analogamente a quanto avviene per l'obbligo di non concorrenza (Magrini, 412; Cessari, 163; Mattarolo, 210); altra parte ritiene invece che esso permanga finché persista l'esigenza cui è finalizzato e, dunque, anche dopo l'estinzione del rapporto (Buoncristiano, in Tr. Res., XV, 1986, 582; Santoro-Passarelli, 185).

In giurisprudenza, implicitamente nel primo senso sembrano Cass. n. 12681/2007 e Cass. n. 3011/1991.

La giurisprudenza sembra ormai consolidata nel senso di escludere che integri una violazione del divieto in esame la produzione, da parte del lavoratore in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, di copia di atti aziendali, che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, tenuto conto che l'applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di riservatezza dell'azienda (Cass. n. 25682/2014; Cass. n. 3038/2011; Cass. n. 12528/2004). Analogamente, è stato deciso che non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l'avere il dipendente allegato alla denuncia o all'esposto presentati all'Autorità giudiziaria documenti aziendali, aventi ad oggetto fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l'azienda (Cass. n. 6501/2013).

Conseguenze della violazione dell'obbligo di fedeltà

La violazione dell'obbligo di fedeltà può dar luogo, anzitutto a responsabilità disciplinare del dipendente, da valutare secondo i consueti criteri di gravità in concreto e proporzionalità (in dottrina, Mattarolo, 216; in giurisprudenza, v. Cass. n. 45/1986).

La dottrina qualifica tale illecito come contrattuale (Santoro-Passareelli, 185), aggiungendo che esso può assumere anche rilevanza extracontrattuale, indipendentemente dall'esistenza di un obbligo specifico di astensione, quando l'abuso costituisca un atto di concorrenza sleale, secondo la disciplina generale della stessa (Santoro-Passarelli, 185).

Ovviamente la violazione dell'obbligo in questione espone il lavoratore a responsabilità risarcitoria dei danni arrecati alla controparte datoriale (Mattarolo, 215).

Bibliografia

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