Codice Civile art. 2118 - Recesso dal contratto a tempo indeterminato.

Paolo Sordi

Recesso dal contratto a tempo indeterminato.

[I]. Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti [dalle norme corporative] (1), dagli usi o secondo equità [2109 4, 2110 2, 2121, 2122, 2244; 98 att.] (2).

[II]. In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l'altra parte a un'indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso [2119].

[III]. La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro [2122].

(1) Le disposizioni richiamanti le norme corporative devono ritenersi abrogate in seguito alla soppressione dell'ordinamento corporativo.

(2) V. l. 15 luglio 1966, n. 604, l. 20 maggio 1970, n. 300 e l. 11 maggio 1990, n. 108.

Inquadramento

L'art. 2118 sancisce per entrambe le parti del contratto di lavoro a tempo indeterminato il principio della libera recedibilità salvo l'obbligo del preavviso.

A seguito della successiva evoluzione dell'ordinamento (soprattutto dopo l'emanazione delle l. n. 604/1966 e l. n. 108/1990), tale principio è rimasto valido per il lavoratore, mentre è divenuto recessivo per il datore di lavoro, poiché la regola generale (enunciata dall'art. 1 l. n. 604/1966) è ormai quella per cui il dipendente può essere licenziato solamente per giusta causa ex art. 2119 o per giustificato motivo ex art. 3 l. n. 604/1966.

I residui casi di licenziabilità ad nutum

In base all'art. 4, comma 1, l. n. 108/1990 restano licenziabili con il solo obbligo del preavviso i lavoratori domestici.

La predetta norma fa riferimento alla l. n. 339/1958, la quale ha riguardo ai lavoratori che prestano la loro attività per almeno quattro ore giornaliere, ma la dottrina è concorde nel senso che si tratti di un semplice errore di tecnica legislativa e ritiene che il regime di recedibilità ad nutum si applichi a tutti i lavoratori domestici, indipendentemente dal numero di ore lavorate (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 363).

Il comma 2 dello stesso art. 4 l. n. 339/1958 esclude dal regime vincolistico del licenziamenti i rapporti di lavoro con i dipendenti in possesso dei requisiti per il conseguimento della pensione di vecchiaia. L'art. 24 d.l. n. 201/2011, nel ridefinire in requisiti in questione, ha aggiunto che nei confronti dei lavoratori dipendenti, l'efficacia delle disposizioni di cui all'art. 18 l. n. 300/1970 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità. La giurisprudenza ha chiarito che tale disposizione non attribuisce al lavoratore il diritto potestativo di proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno di età, in quanto la norma non crea alcun automatismo, ma si limita a prefigurare condizioni previdenziali di incentivo alla prosecuzione dello stesso rapporto per un lasso di tempo che può estendersi fino ai settanta anni di età, resta quindi ferma la possibilità per il datore di lavoro di procedere al licenziamento ad nutum del lavoratore (Cass. S.U., n. 17589/2015).

È recedibile ad nutum il rapporto di lavoro dei dirigenti, escluso dall'area di applicabilità dell'art. 1 l. n. 604/1966 in virtù dell'art. 10 della stessa legge.

Ad avviso della giurisprudenza, la disciplina limitativa del potere di licenziamento non è applicabile ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente (Cass. n. 25145/2010). La stessa giurisprudenza, tuttavia, afferma che la qualifica di dirigente riconosciuta dal datore di lavoro può essere utilmente contestata dal lavoratore al fine di conseguire l'applicazione della disciplina legale limitativa dei licenziamenti, dimostrando la non corrispondenza delle mansioni svolte a quelle della categoria dei dirigenti, e quindi il carattere meramente convenzionale della qualifica attribuita (Cass. n. 5041/1999; Cass. n. 3056/1998).

Sono licenziabili ad nutum anche i lavoratori assunti in prova con meno di sei mesi di attività (art. 10 l. n. 604/1966), gli apprendisti al termine del periodo di apprendistato (art. 42, comma 4, d.lgs. n. 81/2015), gli atleti professionisti considerati lavoratori subordinati (art. 4, comma 8, l., n. 91/1991).

Le dimissioni

Il recesso del lavoratore, comunemente denominato dimissioni, è un negozio unilaterale recettizio (in giurisprudenza, tra le tante, Cass. n. 14343/2012).

Esso si distingue pertanto dalla risoluzione per mutuo consenso, la quale presuppone la concorde manifestazione di volontà delle due parti, espressa o per fatti concludenti, di porre termine al rapporto.

Il lavoratore può disporre della facoltà di recesso, pattuendo una durata minima del rapporto nell’interesse del datore di lavoro, purché la stessa sia limitata nel tempo e sia previsto un corrispettivo (Cass. n. 14457/2017).

Al fine di prevenire abusi a danno del lavoratore, l'art. 26 d.lgs. n. 151/2015 dispone che, le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente, con facoltà di revoca per il lavoratore entro 7 giorni. 

In precedenza, la giurisprudenza era concorde nel ritenere che per le dimissioni vigeva il principio della libertà di forma, a meno che le parti non avessero espressamente previsto nel contratto, collettivo o individuale, una forma convenzionale, quale la forma scritta , nel qual caso le dimissioni rassegnate oralmente dovevano considerarsi invalide per difetto della forma ad substantiam (Cass. n. 14343/2012; Cass. n. 9554/2001; Cass. n. 5922/1998).

Per il caso particolare delle dimissioni della lavoratrice madre, v. art. 55 d.lgs. n. 151/2001.

Il preavviso

La dottrina afferma che il preavviso assolve alla funzione di termine iniziale e sospensivo dell'efficacia del negozio di recesso (Mancini, 287) e risponde all'esigenza di consentire al datore di lavoro di sostituire il prestatore di lavoro dimissionario, senza che ciò arrechi danni all'organizzazione dell'azienda, e al lavoratore licenziato di non essere privato improvvisamente dei beni di vita che dal posto di lavoro derivano (Pera, 48).

Durante il termine di preavviso il rapporto di lavoro prosegue con la permanenza di tutte le reciproche obbligazioni delle parti  (in giurisprudenza, Cass. n. 1430/1988; Cass. n. 594/1984).

Secondo l'opinione dominante in dottrina, il preavviso ha una natura reale, nel senso che il rapporto permane in vita e prosegue giuridicamente fino alla scadenza del relativo periodo e neppure la corresponsione dell'indennità di mancato preavviso, prevista essenzialmente dal legislatore a titolo di risarcimento del danno per la violazione dell'obbligo, è idonea a determinare l'estinzione immediata del rapporto (Mancini, 307; Ghera, 181; Pera, 1980, 51, il quale tuttavia precisa come da un tale riconoscimento non possa farsi discendere la conseguenza secondo cui il sopravvenire di eventi sospensivi del rapporto, come la malattia, determini una sospensione anche del preavviso, con proporzionale procrastinarsi della data di cessazione del rapporto).

In senso contrario si è però orientata la più recente giurisprudenza, per la quale il preavviso ha efficacia obbligatoria, con la conseguenza che nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l'unico obbligo della parte recedente di corrispondere l'indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell'esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l'efficacia sino al termine del periodo di preavviso (Cass. n. 27934/2021; Cass. n. 13988/2017Cass. n. 22443/2010in precedenza, nel senso, invece, dell'efficacia reale del preavviso, v. Cass. n. 11740/2007; Cass. n. 17334/2004).

L'indennità sostitutiva del preavviso

In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l'altra parte al pagamento di un'indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.

La giurisprudenza sembra aver definitivamente superato la tesi della natura risarcitoria dell'indennità di preavviso (sostenuta, ad esempio, da Cass. n. 6406/1992 e Cass. n. 12046/1993); a partire da Cass. S.U., n. 7914/1994, essa ne afferma infatti la natura retributiva (Cass. n. 13395/1999; Cass. n. 1397/1998; Cass. n. 1354/1997; Cass. n. 121/1998).

Dal fatto che l'indennità sostitutiva del preavviso costituisca somma corrisposta in dipendenza del rapporto di lavoro, la giurisprudenza desume che debba essere inclusa nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto, restando irrilevante che essa non costituisca il corrispettivo di un'effettiva prestazione di lavoro (Cass. n. 10086/1993; Cass. n. 2114/1993).

La giurisprudenza afferma altresì che in caso di licenziamento illegittimo, mentre in relazione alla tutela reale — in forza dell'efficacia ripristinatoria del contratto attribuita dalla legge — l'indennità sostitutiva del preavviso è incompatibile con la reintegra, perché non si ha interruzione del rapporto, viceversa, stante il carattere meramente risarcitorio accordato dalla tutela obbligatoria, il diritto all'indennità sostitutiva del preavviso sorge per il fatto che il rapporto è risolto; in quest'ultimo caso, l'indennità prevista dall'art. 8 l. n. 604/1966 va a compensare i danni derivanti dalla mancanza di giusta causa e giustificato motivo, mentre l'indennità sostitutiva del preavviso va a compensare il fatto che il recesso, oltre che illegittimo, è stato intimato in tronco; conseguentemente, non vi è incompatibilità tra le due prestazioni, mentre sarebbe incongruo sanzionare nello stesso modo due licenziamenti, entrambi privi di giustificazione, l'uno intimato con preavviso e l'altro in tronco (Cass. n. 23710/2015; Cass. n. 22127/2006).

L'indennità sostitutiva del preavviso è dovuta anche in caso di cessazione del rapporto per morte del lavoratore (art. 2118, comma 3) e la dottrina ritiene che in tal caso la funzione dell'erogazione sia di tipo assistenziale (Pera, 1980, 53).

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