Codice Civile art. 2119 - Recesso per giusta causa.Recesso per giusta causa. [I]. Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto [2244]. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente. [II]. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa. Gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro sono regolati dal codice della crisi e dell'insolvenza1. [1] Comma così sostituito dall'art. 376 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14. Tale modifica, ai sensi dell'art. 389, comma 1, d.lgs. n. 14, cit., come sostituito dall'art. 5, comma 1, d.l. 8 aprile 2020, n. 23, conv. con modif., in l. 5 giugno 2020, n. 40, dall'art. 1, comma 1, lett. a) d.l. 24 agosto 2021, n. 118, conv. con modif., in l. 21 ottobre 2021, n. 147 e, da ultimo, sostituito dall'art. 42, comma 1, lett. a), d.l. 30 aprile 2022, n. 36, conv. con modif. in l. 29 giugno 2022, n. 79, entra in vigore il 15 luglio 2022, salvo quanto previsto al comma 2 del citato decreto. Il testo del comma era il seguente «Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda». InquadramentoL'art. 2119 disciplina l'ipotesi di recesso con effetti immediati in tutti i casi in cui si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. Trattasi di una facoltà riconosciuta ad entrambe le parti che, in questa maniera, determinano l'estinzione del contratto a termine prima della sua scadenza naturale e di quello a tempo indeterminato senza preavviso. La nozione di giusta causaLa dottrina è divisa tra una nozione contrattuale di giusta causa di recesso, secondo la quale tale qualificazione può essere riservata esclusivamente a fatti che integrano gli estremi dell'inadempimento colpevole (Napoli, 90; Ghera, 191) e una nozione c.d. oggettiva, secondo la quale, oltre ai gravissimi inadempimenti, rilevano anche qualsiasi circostanza o situazione esterna al rapporto di lavoro, verificatasi nella sfera del lavoratore, che sia idonea a ledere il vincolo di fiducia tra le parti e perciò ad impedire la prosecuzione del rapporto (F. Santoro-Passarelli, 1109; v. anche Pera, 57). Nel solco di questa seconda impostazione, si precisa che il fatto esterno in tanto ha rilievo in quanto finisce con l'incidere sull'aspettativa e la probabilità di un esatto adempimento, per il futuro, dell'obbligazione lavorativa (Piccinini, 95); onde non basta che sia pregiudicato un generico rapporto fiduciario o che sia messa in discussione la compatibilità personale tra lavoratore e datore di lavoro, ma occorre che venga meno la fiducia nella puntualità dei successivi adempimenti (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 323). La giurisprudenza accoglie una nozione di giusta causa non limitata a fatti integranti gli estremi dell'inadempimento. Così, muovendo dalla premessa secondo cui la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare (Cass. n. 8826/2017), si assume che, quale comportamento che, per la sua gravità, è suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro, può assumere rilevanza disciplinare anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio, non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (Cass. n. 15654/2012). In senso ancora più esplicito, si afferma che una condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da comprometterne il rapporto fiduciario (Cass. n. 16524/2015; Cass. n. 16268/2015). È consolidato, poi, in giurisprudenza il principio secondo cui, costituendo la giusta causa di licenziamento una nozione legale, il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo (anche se la scala valoriale ivi espressa nell'individuazione delle ipotesi di rilievo disciplinare e nella relativa graduazione delle sanzioni deve costituire uno dei parametri cui far riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119: Cass. n. 17321/2020; Cass. n. 16784/2020); l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento, o di un comportamento del lavoratore contrario alle norme del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass. n. 28368/2021); così come, per altro verso, il giudice può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (Cass. n. 13412/2020; Cass. n. 18195/2019). Ne consegue ce il giudice è sempre tenuto a valutare in concreto la condotta addebitata e la proporzionalità della sanzione (Cass. n. 33811/2021) e, al riguardo, particolarmente rilevante è il profilo soggettivo del dolo o della colpa (Cass. n. 5280/2013; Cass. n. 4435/2004). Però occorre considerare anche che un determinato comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, qualora sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, non può formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, salvo che non si accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cass. n. 14811/2020; Cass., n. 8621/2020). Il comma 2 della norma escludeva espressamente che costituissero giusta causa di licenziamento il fallimento o la liquidazione coatta amministrativa. L’attuale versione (introdotta dall’art. 376 d.lgs. n. 14/2019 ed entrata in vigore il 15 luglio 2022)conferma che la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto di lavoro e, quanto agli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro, rinvia al codice della crisi e dell'insolvenza. Quest'ultimo, all'art. 189, dopo aver escluso che che l'apertura della liquidazione giudiziale costituisca motivo di licenziamento, stabilisce che il predetto evento determina invece l'automatica sospensione dei rapporti di lavoro in essere; se il curatore, nei successivi quattro mesi (termine prorogabile dal giudice delegato al massimo di ulteriori otto mesi) non proceda al recesso ovvero non comunichi ai lavoratori, previa autorizzazione del giudice delegato, il subentro nei rapporti di lavoro, questi si intendono risolti di diritto con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale. Fattispecie di giusta causa di licenziamentoIn un panorama giurisprudenziale che giustamente è stato definito “sterminato” (Piccinini, 113), si possono segnalare alcune fattispecie maggiormente significative o ricorrenti. In caso di abusivo impossessamento di beni aziendali, la giurisprudenza afferma che, per la determinazione della consistenza dell'illecito non rileva, di regola, la qualificazione fattane dal punto di vista penale (e, in particolare, se l'illecito integri il reato consumato di furto o appropriazione indebita ovvero solo il tentativo), essendo invece necessario al riguardo che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, e specialmente dell'elemento essenziale della fiducia, e che la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore rispetto agli obblighi lavorativi (Cass. n. 5633/2001), negandosi che assuma una rilevanza decisiva l'assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro (Cass. n. 19684/2014; Cass. n. 16260/2004; Cass. n. 14507/2003). La giurisprudenza riconosce anche che l'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti della continenza sostanziale (nel senso di corrispondenza dei fatti alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva) e formale (nel senso di misura nell'esposizione dei fatti), si traducano in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale — suscettibile di provocare, con la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro — è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro e può costituire giusta causa di licenziamento (Cass. n. 21362/2013; Cass. n. 29008/2008). In caso di svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia la giurisprudenza afferma che tale comportamento può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, non solo allorché tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, ma anche nell'ipotesi in cui la medesima attività, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio (Cass. n. 14046/2005; Cass. n 11747/2005). Invece non integra gli estremi della giusta causa di licenziamento la condotta del lavoratore, che, in ottemperanza delle prescrizioni del medico curante, si sia allontanato dalla propria abitazione e abbia ripreso a compiere attività della vita privata — la cui gravosità non è comparabile a quella di una attività lavorativa piena — senza svolgere una ulteriore attività lavorativa, dovendosi escludere che il lavoratore sia onerato a provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all'attività lavorativa, laddove è a carico del datore di lavoro la dimostrazione che, in relazione alla natura degli impegni lavorativi attribuiti al dipendente, il suddetto comportamento contrasti con gli obblighi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto di lavoro (Cass. n. 6375/2011). Le dimissioni per giusta causaL'art. 2119 dispone che, nel caso in cui le dimissioni del lavoratore siano sorrette da giusta causa, il prestatore, non solamente non è tenuto a dare preavviso alla controparte datoriale, ma ha anche diritto ad una indennità sostitutiva del preavviso. La dottrina nega che vi sia perfetta corrispondenza tra la nozione di giusta causa di licenziamento e quella di giusta causa di dimissioni. Quest'ultima, infatti, può dipendere, oltre che da un grave inadempimento del datore di lavoro, anche da un grave impedimento personale del lavoratore all'adempimento della propria prestazione oppure essere collegata ad una situazione in cui la prosecuzione del rapporto, seppure non impossibile, potrebbe ledere irrimediabilmente i diritti primari del lavoratore o mortificarne la personalità (Fergola, 325). Sono stati considerati dalla giurisprudenza suscettibili di integrare gli estremi della giusta causa di dimissioni: il ritardo intollerabile o reiterato nel pagamento delle retribuzioni (Cass. n. 16067/2003; Cass. n. 5146/1998); il demansionamento illegittimo (Cass. n. 14496/2005; Cass. n. 8589/2004); l'adibizione di una dipendente a lavoro notturno quale modalità normale e stabile di svolgimento del rapporto di lavoro (Cass. n. 14829/2002). La configurabilità delle dimissioni per giusta causa, pur potendo sussistere anche quando il recesso non segua immediatamente i fatti che lo giustificano e la giusta causa sia addotta solo successivamente al recesso, è tuttavia da escludere nel caso in cui il lavoratore, manifestando la volontà di dimettersi, abbia dichiarato al datore di lavoro di essere pronto a continuare l'attività per tutto o per parte del periodo di preavviso, atteso che, in tale ipotesi, è lo stesso lavoratore ad escludere, con il suo comportamento, la ravvisabilità di circostanze tali da impedire la prosecuzione anche soltanto temporanea del rapporto (Cass. n. 24477/2011; Cass. n. 2492/1997). La stessa conclusione è stata negata, invece, in un caso in cui il lavoratore, rassegnando le dimissioni, ne aveva posticipato l'effetto, così dimostrando la possibilità di prosecuzione del rapporto, per rispetto dei principi di correttezza e buona fede nelle obbligazioni contrattuali, in considerazione della particolare posizione rivestita dal lavoratore nell'organizzazione aziendale e perciò delle negative conseguenze di una immediata cessazione delle sue prestazioni (Cass. n. 5146/1998). BibliografiaBallestrero, Licenziamento individuale, in Enc. dir., Annali, V, Milano, 2012, 791; Bianchi D'Urso, Concorrenza. III) Patto di non concorrenza (dir. lav.), in Enc. giur., 1988; Bianchi D'Urso, Onnicomprensività e struttura della retribuzione, Napoli, 1984; Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, Diritto del lavoro. 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