Codice Civile art. 2125 - Patto di non concorrenza.Patto di non concorrenza. [I]. Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. [II]. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata [2557, 2596; 198 trans.]. InquadramentoL'art. 2125 disciplina il patto di non concorrenza, negozio a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, in forza del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di denaro od altra utilità al lavoratore, affinché quest'ultimo non svolga, per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, attività in concorrenza con quella del datore di lavoro (Cass. n. 2221/1988). Esso, ancorché materialmente inserito nel contratto di lavoro, configura una fattispecie negoziale autonoma (Cass. n. 16489/2009), dotata di una propria causa, costituita dal nesso sinallagmatico tra l'obbligo di non fare concorrenza in danno dell'ex datore di lavoro e la contrapposta obbligazione di un corrispettivo, che le parti possono liberamente determinare in un qualsiasi adeguato vantaggio economico per il lavoratore (Cass. n. 6618/1987) e si distingue dalla clausola di divieto di storno di clientela, diretta ad impedire il compimento di atti e comportamenti funzionali a sviare la clientela verso un’altra impresa (Cass. n. 22247/2021). La ratio sui cui si fonda la pattuizione dell'obbligo in oggetto è quella di salvaguardare il datore di lavoro da atti del lavoratore subordinato che, una volta uscito dall'azienda, potrebbe utilizzare la competenza professionale e le capacità acquisite durante il pregresso rapporto, in concorrenza con l'impresa di provenienza recandogli un pregiudizio anche maggiore rispetto ad atti posti in essere da altri imprenditori. Tuttavia, poiché il patto in oggetto costituisce una compressione della possibilità per il lavoratore di reperire una nuova occupazione, la norma prevede alcuni limiti entro i quali la pattuizione deve essere contenuta. Il momento della stipulaSi ammette che il patto di non concorrenza possa essere concluso contestualmente all'assunzione o anche in pendenza del rapporto o dopo la sua conclusione (Izar, 733). Tuttavia, secondo una parte della dottrina, in quest'ultimo caso la disciplina applicabile non sarebbe quella dell'art. 2125, ma quella generale dettata dall'art. 2596 (F. Santoro-Passarelli, 184). Nel senso, invece, dell'applicabilità della norma in commento anche al patto concluso dopo la cessazione del rapporto, Fabris, 91. Secondo una risalente giurisprudenza il patto di non concorrenza stipulato dopo la cessazione del rapporto di lavoro è valido nel caso in cui lo stesso è stato stipulato in sede transattiva, per la definizione di una controversia, relativa al cessato rapporto di lavoro, in atto tra le parti (Cass. n. 630/1965). La forma scrittaL'art. 2125 impone la forma scritta ad substantiam, in assenza della quale il patto risulta affetto da nullità. Secondo la dottrina, scopo della previsione è quello di richiamare l'attenzione del lavoratore sull'oggetto del contratto, rendendolo consapevole della rinuncia alla libertà di scelta del lavoro (Fabris, 129). Tale condizione è soddisfatta sia nel caso in cui le parti sottoscrivano un patto distinto dal contratto di lavoro, sia nel caso in cui sia prevista una clausola apposita nel contratto di lavoro Il corrispettivo a favore del lavoratoreIl corrispettivo deve essere congruo rispetto alla gravosità della limitazione che il patto impone al lavoratore. Secondo la giurisprudenza, la nullità (da intendersi riferita all’intero patto: Cass. n. 5540/2021) consegue alla pattuizione di compensi non solo simbolici, ma anche manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiestogli rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato (Cass. n. 4891/1998). Sempre in giurisprudenza è stato affermato che l'accertamento della sussistenza di un reale interesse del datore di lavoro alla stipulazione del patto di non concorrenza, se consente di escludere con sicurezza la simulazione di tale patto, non è tuttavia sufficiente, di per sé solo, a far altresì escludere che lo stesso patto — in quanto contemplante un corrispettivo volto in realtà a compensare non l'astensione dalla futura concorrenza, ma le prestazioni già rese dal lavoratore — costituisca un mezzo per eludere norme imperative attinenti alla tutela del rapporto di lavoro e integri, pertanto, la fattispecie fraudolenta sanzionata da nullità ai sensi dell'art. 1344 e riguardo alla quale elementi di convincimento possono trarsi anche da presunzioni gravi, precise e concordanti (Cass. n. 5617/1982). Secondo la giurisprudenza, il corrispettivo previsto a favore del lavoratore ha natura retributiva e, come tale, è soggetto all'imposizione contributiva (Cass. n. 16489/2009) I limiti di oggettoAd avviso della giurisprudenza, il patto di non concorrenza può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi necessariamente alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto; tuttavia esso è nullo allorché la sua ampiezza è tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale (Cass., n. 9790/2020; Cass. n. 13282/2003; Cass. n. 15253/2001). Il patto deve consentire al lavoratore, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, un margine di attività, non coperta dal vincolo, idonea ad assicurargli un guadagno adeguato alle sue esigenze personali e familiari e il rispetto di tale limite va verificato con riferimento allo specifico contenuto del patto medesimo e non già alle particolari capacità del lavoratore (Cass. n. 8641/1990). Secondo una risalente pronuncia, nel patto di non concorrenza può essere legittimamente compreso, in via alternativa, l'obbligo di trasferire altrove la residenza oppure di svolgere altrove la propria attività, quando tale obbligo sia strumentale all'obbligo negativo assunto (Cass. n. 3687/1978). Il limite di luogoLa giurisprudenza ha dichiarato nullo un patto di concorrenza che consentiva al lavoratore di svolgere l'attività solamente all'estero (Cass. n. 1098/1987) e un altro che impediva al dirigente di prestare attività in tutta Europa (Cass. n. 8641/1990). Ad avviso della dottrina, qualora la sfera territoriale dell'imprenditore abbia dimensioni nazionali o extranazionali, la zona di interdizione della prestazione lavorativa dovrà essere determinata tenendo presente i rispettivi interessi delle parti al contratto, con un congruo bilanciamento degli stessi (Fabris, 105). Il limite di tempoL'art. 2125 dispone che la durata del divieto previsto dal patto non possa eccedere cinque anni per i dirigenti e tre anni per gli altri lavoratori e la giurisprudenza ha precisato che è nulla la clausola che attribuisca al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo (Cass. n. 23723/2021). Secondo la dottrina, la ratio della diversità del termine previsto deve essere individuata nella maggiore pericolosità della concorrenza che il dirigente è in grado di operare a causa del più penetrante contatto di questi con la sfera giuridica dell'imprenditore (Izar, 735). Altra dottrina ha affermato che la conclusione del patto per un periodo inferiore consentirebbe la possibilità di stipulare un secondo patto che non superi la durata massima complessiva prevista dalla legge (Fabris, 133). Le conseguenze della violazione del patto di non concorrenzaÈ pacifico che, in caso di violazione, del patto di non concorrenza, il datore di lavoro possa chiedere, oltre al risarcimento dei danni, l'emanazione di un provvedimento giudiziale d'urgenza che ordini al lavoratore la cessazione dell'attività concorrenziale illegittima (in dottrina, Carinci-De Luca Tamajo-Todsi-Treu, 173) I rapporti diversi da quello subordinatoSecondo la giurisprudenza l'art. 2125 non si applica ai c.d. rapporti di lavoro parasubordinato; tuttavia, sebbene la legge non imponga al lavoratore parasubordinato un dovere di fedeltà, il dovere di correttezza della parte in un rapporto obbligatorio (art. 1175) e il dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375) vietano alla parte di un rapporto collaborativo di servirsene per nuocere all'altra, sì che l'obbligo di astenersi dalla concorrenza nel rapporto di lavoro parasubordinato, permeando come elemento connaturale ogni rapporto di collaborazione economica, rientra nella previsione dell'art. 2596 (Cass. n. 7141/2013). Per l'inapplicabilità dell'art. 2125 al contratto di agenzia, v. Cass. n. 14454/2000; rispetto a tale contratto dispone, invece, l'art. 1751-bis. BibliografiaBallestrero, Licenziamento individuale, in Enc. dir., Annali, V, Milano, 2012, 791; Bianchi D'Urso, Concorrenza. III) Patto di non concorrenza (dir. lav.), in Enc. giur., 1988; Bianchi D'Urso, Onnicomprensività e struttura della retribuzione, Napoli, 1984; Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, Diritto del lavoro. 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