Codice Civile art. 2242 - Vitto, alloggio e assistenza.

Paolo Sordi

Vitto, alloggio e assistenza.

[I]. Il prestatore di lavoro ammesso alla convivenza familiare ha diritto, oltre alla retribuzione in danaro, al vitto, all'alloggio e, per le infermità di breve durata, alla cura e all'assistenza medica.

[II]. Le parti devono contribuire alle istituzioni di previdenza e di assistenza, nei casi e nei modi stabiliti dalla legge (1).

(1) V. d.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1403.

Inquadramento

La norma disciplina alcuni specifici diritti del lavoratore domestico ammesso alla convivenza. Essa, com'è ovvio, non esaurisce il catalogo dei diritti del prestatore che discendono da disposizioni dettate sia da articoli immediatamente successivi (artt. 2243, 2245), sia dalla l. n. 339/1958 (per le prestazioni lavorative di durata non inferiore alle quattro ore giornaliere, v. sub art. 2040), sia da norme generali, disposizioni tutte che riguardano anche i lavoratori domestici non ammessi alla convivenza.

La retribuzione

In dottrina (per tutti, Basenghi, 215) e in giurisprudenza è assolutamente pacifico che la garanzia della retribuzione equa e sufficiente ex art. 36 Cost. si applichi anche al lavoro domestico (Cass. n. 834/1989; Cass. n. 5211/1985), come del resto espressamente affermato dai giudici delle leggi (Corte cost. n. 585/1987). Il che, secondo i noti principi generali, consente al giudice di utilizzare i minimi retributivi previsti dai contratti collettivi del settore (in dottrina, Basenghi, 221) e, quando la complessa attività di un lavoratore domestico non sia riconducibile ad una o all'altra delle specifiche categorie previste nel contratto collettivo, di far riferimento orientativo ai parametri retributivi di altri settori che presentino analogia e affinità con quell'attività (Cass. n. 5629/1979).

Quanto al vitto e all'alloggio, il primo deve comportare una nutrizione sana e sufficiente, mentre il secondo non deve essere nocivo all'integrità fisica e morale del lavoratore (art. 6, l. n. 339/1958). Essi costituiscono retribuzione in natura e sono computabili nel trattamento di fine rapporto, dell'indennità sostitutiva del preavviso (art. 16 l. n. 339/1958), della retribuzione del periodo feriale (art. 10 l. n. 339/1958). Invece il loro computo nella tredicesima mensilità trova fonte nella contrattazione collettiva.

La malattia

La norma in commento si limita a stabilire che il lavoratore domestico ammesso alla convivenza familiare ha diritto, per le infermità di breve durata, alla cura e all'assistenza medica.

Più in generale, la dottrina è concorde nel ritenere che al rapporto di lavoro domestico si applichi la disciplina dettata dall'art. 2110 (Persiani, 835; Basenghi, 258; M.C. Britton, 231) e tale sembra essere anche l'orientamento della giurisprudenza costituzionale (v. Corte cost. n. 135/1969; peraltro, nel senso che invece non sarebbe per il giudice possibile determinare secondo equità — in base a quanto stabilito dal citato art. 2110 — il periodo decorso il quale il datore di lavoro ha diritto di recedere dal rapporto di lavoro in caso di gravidanza della lavoratrice domestica, v. Corte cost. n. 193/1995).

La maternità

A norma dell'art. 62 d.lgs. n. 151/2001, le lavoratrici e i lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari hanno diritto al congedo di maternità e di paternità e si applicano le disposizioni di cui agli artt. 6, comma 3 (visite ostetrico-ginecologiche e prestazioni specialistiche per la tutela della maternità in funzione preconcezionale e di prevenzione del rischio fetale), 16 (astensione obbligatoria), 17 (astensione anticipata), 22, comma 3 e 6 (computo del congedo per maternità nell'anzianità di servizio e regime delle ferie e delle altre assenze spettanti alla lavoratrice), ivi compreso il relativo trattamento economico e normativo, dello stesso decreto legislativo.

L'indennità di maternità spetta al personale domestico secondo le modalità e le disposizioni stabilite dal d.P.R. n. 1403/1971 (Corte cost. n. 334/2002 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 di tale d.P.R., nella parte in cui subordina il diritto all'indennità di maternità delle addette ai servizi domestici alla condizione che, per la lavoratrice interessata, risultino versati o dovuti dal datore di lavoro cinquantadue contributi settimanali nel biennio oppure ventisei nell'anno precedente il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, ritenendo che il condizionamento di tale diritto al requisito contributivo è elemento non isolabile della complessa disciplina che regola la prestazione in oggetto, con riguardo sia alle specificità del rapporto di lavoro domestico sia alle caratteristiche del rapporto previdenziale che da questo deriva, con la conseguenza che un intervento della Corte, se fosse limitato alla disposizione censurata, altererebbe la coerenza del sistema, rendendolo inapplicabile nel suo complesso, mentre costituirebbe una indebita intromissione nei poteri del legislatore, se si esplicasse con una sentenza additiva).

Proprio perché il citato art. 62 non richiama l'art. 54 d.lgs. n. 151/2001, parte della giurisprudenza ritiene che in tema di lavoro domestico non operi il divieto di licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza (Cass. n. 17433/2015; invece, la precedente Cass. n. 6199/1998, muovendo dall'assunto dell'applicabilità al rapporto di lavoro domestico della tutela della maternità prevista dall'art. 2110, aveva ritenuto sussistente, anche per tale rapporto di lavoro, il divieto di licenziamento per un periodo che, non essendo applicabili né la normativa protettiva prevista in generale per le lavoratrici subordinate, né le convenzioni internazionali in materia, avrebbe dovuto essere individuato dal giudice che, in mancanza di usi normativi e in caso di non applicabilità del contratto collettivo di categoria, avrebbe dovuto procedere a determinazione equitativa delle modalità temporali del divieto di licenziamento, potendo ricorrere, quale legittimo parametro di riferimento al periodo — due mesi prima e tre mesi dopo il parto — in cui è vietato adibire al lavoro tutte le lavoratrici dipendenti).

La giurisprudenza costituzionale, dopo aver inizialmente giustificato, in ragione della specialità del rapporto, la mancata previsione legislativa del divieto di licenziamento delle lavoratrici in gravidanza (Corte cost. n. 27/1971; Corte cost. n. 9/1976), ha riconosciuto (Corte cost. n. 86/1994) che, di fronte agli artt. 31 e 37 Cost. ed agli impegni internazionali assunti dall'Italia, la specialità del rapporto di lavoro domestico non può più addursi a giustificazione legittimante l'omessa previsione, per le lavoratrici del settore, di una tutela della maternità simile a quella apprestata per le altre lavoratrici subordinate, aggiungendo però che il superamento di siffatta omissione non può avvenire per via di mera estensione, in favore delle prime della disciplina dettata per le seconde, poiché un divieto di recesso dal rapporto prolungato (col solo temperamento della giusta causa) per ventuno mesi costituirebbe un vincolo eccessivamente gravoso per l'economia familiare e perché il periodo di interdizione dal lavoro implica problemi peculiari per la lavoratrice domestica ammessa alla convivenza familiare; né la Corte ha ritenuto di essere legittimata ad introdurre una disciplina che, con modalità convenienti alla specialità del rapporto, attui anche per le lavoratrici domestiche, in caso di gravidanza e puerperio, il principio dell'art. 2110, comma 2, costituendo un simile intervento un'intromissione nella sfera riservata alla discrezionalità del legislatore, al quale soltanto spetta di determinare le modalità temporali del divieto di licenziamento della lavoratrice domestica in maternità e di definire, in conformità al modello delle convenzioni internazionali, i diritti e gli obblighi delle parti durante l'astensione obbligatoria dal lavoro, modulandoli secondo la varia tipologia del rapporto.

Si consideri tuttavia che il divieto di licenziamento della lavoratrice domestica in gravidanza è previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro.

La tutela previdenziale e assistenziale

Il d.P.R. n. 1403/1971 disciplina la tutela previdenziale di tutti i lavoratori domestici, che rientrino o meno nell'ambito di applicabilità della l. n. 339/1958. Esso ha esteso a tali dipendenti le assicurazioni invalidità, vecchiaia e superstiti, contro la tubercolosi e la disoccupazione involontaria, per la maternità e la malattia e contro gli infortuni sul lavoro, nonché le norme sugli assegni al nucleo familiare.

Bibliografia

Balzarini, Il contratto di lavoro domestico, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da Borsi e Pergolesi, II, Padova; Basenghi, Lavoro domestico, Milano, 2000; Bianchi D'Urso, Lavoro domestico, in Enc. giur., Roma, 1990; Cester, I licenziamenti nel Jobs Act, in WP Csdle Massimo D'Antona. IT, n. 273/2015; De Litala, Domestici (contratto di lavoro e previdenza sociale), in Nss. D.I., VI, Torino, 1960; De Luca, Campo di applicazione delle «tutele» e giustificazione dei licenziamenti, in Foro it. 1990, V; MC Britton, Lavoro domestico, in Dig. comm., VIII, Torino, 1992, 225; Mezzalama, In tema di diritto dei congiunti del lavoratore domestico alla indennità di preavviso e di anzianità in caso di morte del lavoratore, in Giur. it. 1952, IV; Persiani, Domestici (lavoro domestico), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964; Santoni, Il campo di applicazione della disciplina del licenziamento nel d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in Mass. giur. lav. 2015; Sordi, Il nuovo art. 18 della legge n. 300 del 1970, in Di Paola (a cura di), La riforma del lavoro, Milano, 2013; Tremolada, Il campo di applicazione del d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in Carinci-Cester, Il licenziamento all'indomani del d. lgs. n. 23/2015, Modena, 2015.

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