Codice Civile art. 2320 - Soci accomandanti.Soci accomandanti. [I]. I soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari. Il socio accomandante che contravviene a tale divieto assume responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali [2291] e può essere escluso a norma dell'articolo 2286. [II]. I soci accomandanti possono tuttavia prestare la loro opera sotto la direzione degli amministratori e, se l'atto costitutivo lo consente, dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni e compiere atti di ispezione e di sorveglianza. [III]. In ogni caso essi hanno diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite, e di controllarne l'esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società [2261]. InquadramentoL'articolo in commento disciplina la posizione del socio accomandante all'interno della società escludendolo dalla gestione societaria e gravandolo del divieto di ingerenza nell'amministrazione societaria, ma bilanciando tale posizione con la limitazione del rischio da questi assunto al solo conferimento. È discusso il fondamento del divieto di ingerenza (per una ricostruzione dei diversi orientamenti, Denozza, 3). Secondo un risalente, ma ormai abbandonato orientamento, l'interesse protetto è quello dei creditori a non essere ingannati dal comportamento di un accomandante che, compiendo atti di amministrazione, li induce a ritenerlo erroneamente un accomandatario e, quindi, a fare affidamento sulla sua illimitata responsabilità (Cass. n. 2344/1970). Si è, però, osservato che il divieto comprende gli atti di amministrazione, sia interni che esterni, e che la responsabilità sorge anche in conseguenza di un solo atto di amministrazione, sia esso interno o esterno (Cass. n. 4824/1986) e si estende a tutte le obbligazioni della società sorte in precedenza (e, dunque, non solo per quelle contratte dall'accomandante ingeritosi) e, pertanto, anche nei confronti di creditori il cui affidamento non risulta affatto turbato. In altri termini, il divieto deriverebbe direttamente dal principio di tipicità previsto dall'art. 2249 e sarebbe volto ad impedire che venga perduto il connotato essenziale di tale società, costituito dalla spettanza della sua amministrazione, ai sensi dell'art. 2318, al solo socio accomandatario (Cass. n. 29794/2008). Altri ancora, sulla base della assolutezza del divieto e della sua ampia latitudine hanno rilevato come la norma miri a tutelare un interesse generale, sebbene poi gli accenti siano diversi in relazione all'individuazione di detto interesse generale. È nulla la clausola statutaria che nei rapporti interni fra i soci preveda la partecipazione degli accomandanti alle perdite oltre la quota di capitale conferito, atteso che l'art. 2249, nel prevedere che le società aventi ad oggetto l'esercizio di attività commerciali devono costituirsi secondo i tipi di legge, deroga in materia societaria al principio di cui all'art. 1322 — che consente di porre in essere anche contratti non appartenenti ai tipi legali — vietando all'autonomia privata, che è libera di esplicarsi limitatamente alla disciplina contenuta in norme di natura dispositiva o suppletiva, pattuizioni statutarie che, modificando l'assetto organizzativo o il regime della responsabilità, siano incompatibili con il tipo di società prescelto. In particolare, la nullità discende dalla circostanza che nella società in accomandita semplice, caratterizzata dalla presenza di due categorie di soci, accomandatari e accomandanti, il regime della partecipazione alle perdite, per il richiamo compiuto dall'art. 2315 alla disciplina relativa alla società in nome collettivo, che, ai sensi dell'art. 2293, a sua volta rinvia all'art. 2280 in materia di società semplice, è correlato alla responsabilità per le obbligazioni sociali (così, Cass. n. 2481/2003). Infatti, la responsabilità del socio accomandante per le obbligazioni sociali è limitata al valore della sua quota di partecipazione: egli, però, non può essere direttamente escusso dai creditori sociali (Cass. n. 6017/2015). Il contenuto del divieto di ingerenza e gli atti consentiti agli accomandantiIl generale divieto di ingerenza è contemperato dal riconoscimento di alcuni diritti e facoltà. Precisamente (Campobasso, 132), gli accomandanti: a) possono trattare e concludere affari in nome della società, in forza di procura speciale per singoli affari; b) possono prestare la propria opera all'interno della società sotto la direzione degli amministratori (e, dunque, non in via autonoma o indipendente); c) possono, ove lo statuto lo consenta, dare autorizzazioni o pareri per determinate operazioni, nonché compiere gli atti di ispezione e controllo. All'accomandante è, però, preclusa la partecipazione all'amministrazione della società sia con riferimento ai rapporti interni che con riferimento ai rapporti esterni. Occorre precisare che, per aversi ingerenza dell'accomandante nell'amministrazione della società, è necessario che costui svolga una attività gestoria (interna o esterna alla società), la quale si concreta in una attività di direzione degli affari sociali che implica l'assunzione di una scelta che è propria del titolare dell'impresa. In particolare, per quanto riguarda i rapporti obbligatori con i terzi estranei alla società, l'attività amministrativa vietata riguarda il momento genetico del rapporto in cui si manifesta la scelta operata dall'imprenditore, mentre tutto quanto concerne il momento esecutivo dell'adempimento delle obbligazioni che da quel rapporto derivano non esclude di per sé la qualità di terzo dell'accomandante rispetto alla gestione della società, alla quale pertanto rimane estraneo (Cass. n. 3563/1979; Cass. n. 4019/1994; Cass. n. 6725/1996). Costituisce ingerenza anche il compimento di un singolo atto di amministrazione, non rilevando né la sua specifica intensità, né la continuità del comportamento di immistione (Cass. n. 4019/1994, che ha ritenuto ricadere nel divieto anche la conduzione di trattative). Né rileva la nullità o l'inefficacia dell'affare concluso dall'accomandante (arg. da Cass. n. 3092/1978). Tuttavia, ferma la tassatività del divieto, esso appare diversamente graduato a seconda che si tratti di atti con rilevanza esterna o interna (Leozappa, 566). Con riferimento agli atti di rilevanza interna, l'accomandante è privo di ogni potere decisionale autonomo in merito alla condotta degli affari sociali (Campobasso, 133): egli non può decidere autonomamente alcun atto di impresa né condizionare l'operato degli amministratori o partecipare alle decisioni amministrative. Come detto, egli può rilasciare pareri e autorizzazioni eventualmente previsti nello statuto, ma solo con riferimento a determinate operazioni e, comunque, senza potere pregiudicare l'autonomia gestionale degli accomandatari, pregiudizio che sussisterebbe ove lo statuto conferisse carattere di vincolatività a quei pareri o a quelle autorizzazioni (Ferri, in Tr. Vas., 373; Campobasso, 133). È stata, quindi, affermata la nullità della clausola dell'atto costitutivo che prevedeva la necessità del consenso scritto di tutti i soci per una determinata serie di atti (Cass. n. 7554/2000). L'atto compiuto dall'accomandatario senza l'autorizzazione dell'accomandante prevista dall'atto costitutivo non è invalido, ma può essere soltanto fonte di responsabilità del socio accomandatario amministratore nei confronti del socio accomandante (Cass. n. 9454/1992). Con riferimento agli atti di rilevanza esterna, si ritiene che il divieto sia meno rigido (Campobasso, 134) potendo l'accomandante trattare o concludere affari in nome della società in forza di procura speciale per singoli affari. Tuttavia, anche una procura definita speciale comporterà la violazione del divieto in argomento quando per la sua indeterminatezza lasci all'accomandante ampi ed autonomi poteri decisionali (Cass. n. 6429/1984). È necessario, infatti, che vengano predeterminati gli affari per i quali l'accomandante è investito del potere di rappresentanza della società (App. Roma, 31 luglio 2007): in questo senso, gli affari delegati non possono avere ad oggetto intere categorie di operazioni (Cass. n. 29794/2008) ovvero atti di straordinaria amministrazione (Leozappa, 567). La dottrina ha, poi, cercato di enucleare il concetto di atti di straordinaria amministrazione rilevando (Bussoletti, 966) che, nella vita di un'impresa, sono atti di straordinaria amministrazione solo quelli che sottopongono a particolare rischio il patrimonio sociale e traendone la conseguenza che vanno esclusi dal novero do tale categoria di atti quelli che, pur astrattamente rientrandovi da un punto di vista tipologico, sono tuttavia di ammontare non «a rischio». Non sembra quindi che in simile situazione l'autonomia gestionale degli accomandatari sia irrimediabilmente compromessa (Bussoletti, 966). In definitiva, deve escludersi che una procura possa autorizzare l'accomandante al compimento di atti che, per la loro rilevanza, siano idonei a configurare l'esercizio, in fatto, del potere amministrativo (Montalenti, 1985, 162). Parimenti, non incorre nel divieto la prestazione della propria opera sotto la direzione degli amministratori: in questa prospettiva, è, però, precluso all'accomandante condurre autonomamente trattative (Cass. n. 4019/1994) ed assumere la veste di institore (Cass. n. 1632/1982). È stato ritenuto consentito, infine, la prestazione di attività come lavoratore subordinato con funzioni di dirigente: un rapporto di lavoro subordinato tra la società ed uno dei soci (che, assumendo la veste di dipendente, non perde i diritti connessi alla predetta qualità), è configurabile nella sola ipotesi in cui il socio presti la sua attività lavorativa sotto il controllo gerarchico di un altro socio, e sempre che la predetta prestazione non integri un conferimento previsto dal contratto sociale (Cass. n. 4725/1999; Cass. n. 14906/2010). Costituisce violazione al divieto il rilascio, al socio accomandante, di una delega attributiva di un pieno e generale potere di movimentazione di un conto corrente bancario (App. Roma, 31 luglio 2007). Ancora, mentre non costituiscono atti di immistione vietati la prestazione di garanzie personali ed il pagamento di debiti sociali, possono essere considerati tali sia l'attività, anche di natura esecutiva, svolta con istituti di credito per il rilascio di una fideiussione bancaria, sia l'assunzione di obbligazioni cambiarie per la società (Cass. n. 11227/1998). Infine, l'eventuale esclusione dell'unico socio accomandatario ad opera degli accomandanti, non integra violazione del divieto di ingerenza ex art. 2320, nonché dell'art. 2319 (Cass. n. 15197/2001). Le conseguenze della violazione del divietoLa violazione del divieto e, dunque, l'ingerenza nell'attività gestoria della società è sanzionata con la illimitata e solidale responsabilità per le obbligazioni sociali e può costituire ragione per l'esclusione del socio dalla società. Il socio accomandante di s.a.s. indebitamente ingeritosi nella gestione, risponde illimitatamente ed in via solidale con la società e con gli altri soci illimitatamente responsabili nei confronti dei terzi per tutte le obbligazioni sociali (Cass. n. 6018/2015). È stato, peraltro, precisato che anche il compimento di un solo atto di ingerenza provoca le conseguenze previste dall'art. 2320 comma 1 c.c. (Cass. n. 7554/2000). L'accomandante ingeritosi, poi, sarà soggetto a fallimento (Cass. n. 172/1987; Cass. n. 22246/2012). È stato, però, osservato che le conseguenze della violazione operano soltanto sul piano esterno e non già su quello interno. In questa prospettiva, l'accomandante che viola il divieto di immistione non diviene un socio accomandatario a tutti gli effetti, con la conseguenza che, ove egli abbia pagato un debito sociale, avrà azione di regresso per l'intero non solo verso la società, ma anche verso gli accomandatari, mentre questi ultimi non avranno la medesima azione di regresso nei confronti dell'accomandante ingeritosi, salva l'azione di risarcimento per l'eventuale danno cagionato alla società (Campobasso, 135 che evidenzia che una eventuale operatività delle conseguenze sul piano interno non trova riscontro nella norma che stabilisce la responsabilità «verso i terzi»; Bussoletti, 969; contra, Galgano, in Tr. C.M., 1972, 468). La giurisprudenza è, però, di diverso avviso, in quanto ha sancito che la responsabilità illimitata e solidale per tutte le obbligazioni sociali, assunta dal socio accomandante per effetto della sua ingerenza nell'amministrazione della società non è circoscritta ai rapporti con i terzi, ma vale anche nei rapporti con i soci accomandatari, i quali, se, dopo l'escussione del patrimonio sociale, abbiano soddisfatto i debiti della società, possono esercitare, nei suoi confronti, l'azione di regresso (Cass. n. 6085/1978). Con riferimento alla posizione della società nei confronti dei terzi con i quali l'accomandante abbia instaurato rapporti giuridici, si ritiene che debbano trovare applicazione gli ordinari principi in tema di rappresentanza. Conseguentemente, la società non resta obbligata per l'atto compiuto dal socio accomandante falsus procurator (Cass. n. 3092/1978) salvo che non provveda a ratificarlo: l'atto, dunque, sarà nullo o inefficace secondo i principi generali di cui all'art. 1398. Il socio accomandante che abbia posto in essere l'atto viziato risponderà nei confronti del terzo, che abbia senza sua colpa fatto affidamento sulla validità dell'atto, ma non già a norma dell'art. 2320 c.c., ma a titolo risarcitorio sulla base del citato art. 1398 c.c. (Cass. n. 7204/1983). L'atto, però, sarà impegnativo per la società qualora sia stato posto in essere in virtù di procura non conforme al disposto di cui all'art. 2320 comma 2 c.c. : l'atto, dunque, sarà valido ed efficace e di questo risponderanno oltre all'accomandante ingeritosi anche gli accomandatari (Leozappa, 573; Campobasso, 135). L'esclusione dell'accomandante ingeritosi nella gestioneLa norma sanziona l'ingerenza del socio accomandante anche attraverso l'esclusione dalla società. L'esclusione non opera, però, automaticamente essendo rimessa all'apprezzamento dei soci e dovendo consistere in una grave violazione della legge o del contratto sociale non essendo invece azionabile quando l'immistione sia di scarsa rilevanza (Ferrara-Corsi, 334; Leozappa, 574; contra, però, Montalenti, 356). Detta sanzione non è applicabile allorquando la violazione sia stata compiuta con il consenso di tutti i soci (Gambino, 192, Ferrara-Corsi, 334) ovvero degli amministratori (Campobasso, 574). Infine, non possono partecipare al voto coloro che abbiano autorizzato l'ingerenza (Galgano in Tr. C.M., 1972, 470; Leozappa, 574). Si è affermato che, in assenza di specifici patti sociali, non configura una violazione delle obbligazioni sociali del socio accomandante e, dunque, non costituisce causa di esclusione la irreperibilità del socio o la sua insolvenza, atteso che le uniche obbligazioni ravvisabili nei confronti del socio accomandante — mero socio di capitali — sono quella del versamento del capitale, oltre agli specifici obblighi previsti dalla legge (Trib. Milano, 5 maggio 2014). I diritti di controllo del socio accomandanteIl terzo comma dell'articolo in commento prevede che i soci accomandanti, in ogni caso, abbiano diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite, e di controllarne l'esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società. La disposizione ha carattere inderogabile, come dimostra la locuzione «in ogni caso» inserita dal legislatore (Ghidini, 454). In altri termini, il divieto di immistione degli accomandanti è stato dal legislatore contemperato con il potere di controllo ad essi spettante, che si materializza nel diritto indisponibile di avere comunicazione del bilancio e di controllarne l'esattezza, nonché di impugnare giudizialmente il bilancio stesso, provocando un sindacato di legittimità di esso (App. Napoli, 17 settembre 2009). In dottrina, però, mentre taluni riconoscono al socio accomandante un potere di controllo pieno (Gambino, 192), altri hanno rilevato che i poteri riconosciuti all'accomandante non possono configurarsi alla stregua di quelli previsti dall'art. 2261 per i soci della società in nome collettivo, trattandosi di un sindacato che verte non già sull'amministrazione, ma sulla esattezza dei dati esposti in bilancio e consentito solo al termine dell'esercizio sociale (così, Ferri, in Tr. Vas., 1987, 378; Bussoletti, 964; Leozappa, 575). In questa prospettiva, si è precisato che gli accomandanti non avrebbero il diritto di avere dagli amministratori notizia circa la gestione dell'impresa sociale e nemmeno il diritto di consultare i libri ed i documenti nel corso dell'esercizio (Ferrara-Corsi, 336). Il socio accomandante indebitamente ingeritosi nella gestione, in quanto partecipe dell'amministrazione sociale, non ha diritto di ricevere il rendiconto annuale né di consultare i libri contabili e gli altri documenti amministrativi della società (Cass. n. 6018/2015). Come già evidenziato in altra sede, il socio accomandante non ha il potere di concorrere alla approvazione del bilancio (contra, però, Gambino, 192; Denozza, 4; Ferrara-Corsi, 336: questi ultimi ricavano il diritto in argomento in via implicita dal diritto del socio agli utili conseguiti), approvazione che spetta esclusivamente agli accomandatari che dovranno provvedere alla sola comunicazione ai soci accomandanti. Tale ultima posizione è fatta propria dalla giurisprudenza (Cass. n. 376/1996) che ha avuto modo di precisare che, seppure il diritto agli utili sorge (solo) in base alla regolare approvazione del bilancio, l'approvazione del bilancio, nel senso suo proprio di sindacato sull'operato amministrativo dei soci amministratori, è atto che spetta istituzionalmente ai soci accomandatari. Gli accomandanti potranno impugnare il bilancio provocando un sindacato di legittimità dello stesso, ma un sindacato inteso come rispondenza del documento contabile alle operazioni sociali (Cass. n. 376/1996, cit.). Peraltro, nel giudizio di impugnazione del bilancio instaurato dal socio accomandante, legittimata passiva dell'azione è la società e non i soci amministratori, in considerazione della riferibilità dei loro atti di gestione, secondo i principi della rappresentanza organica, direttamente alla società medesima, quale centro d'imputazione di situazioni giuridiche soggettive, ancorché priva della personalità giuridica (Cass. n. 4648/1986). Anche una parte della dottrina ha optato per una tesi affine a quella della giurisprudenza ora menzionata, evidenziando che esiste in capo agli accomandanti il diritto di approvare il bilancio come documento contabile e di verificarne la rispondenza alle operazioni sociali, ma non quello di sindacare l'indirizzo amministrativo degli accomandatari (Ferri, in Tr. Vas., 1987, 493) L'eventuale concorso dell'accomandante alla formazione del bilancio lo espone, dunque, alla sanzione prevista dal primo comma della disposizione in esame. Ancora, gli accomandanti sono legittimati ad agire nei confronti dei soci accomandatari-amministratori per i danni cagionati al proprio patrimonio ai sensi degli artt. 2395 e 2043. È, al contrario, dubbio che i singoli soci accomandanti siano legittimati ad esperire l'azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori: si ripropone qui la problematica già esaminata, in via generale, per tutte le società di persone (cui si rinvia). Per contro, la mancata consegna, da parte del socio accomandatario, della documentazione relativa alla gestione della società costituisce violazione (se protratta nel tempo) tale da giustificare l'esclusione del socio accomandatario (Trib. Milano, 10 marzo 2016). 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